XIV

da prevosto a leone

05 aprile, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°28

 

Ancora Xian sul podio (ci tornerà anche la prossima settimana) per una nuova puntata di tutto-Mozart!

Dopo l’Ouverture del DonGiovanni, suonata da Xian con fiero cipiglio, ecco il piatto forte della serata (con tutto il rispetto per la K550!) che è la Sinfonia Concertante della quale sono protagonisti due alfieri de laVerdi: Luca Santaniello e Gabriele Mugnai, sostituiti sulle loro sedie abituali da Dellingshausen e Yamagishi.

Composta nell’ormai divenuta insopportabile (per lui) Salzburg del Colloredo, al ritorno da un lungo viaggio (che aveva toccato Mannheim e poi Parigi, dove gli era… toccato di seppellire la mamma) è un’opera mirabile, che rivela un Mozart ormai adulto e pronto per le prossime grandi tappe (Idomeneo in testa, scritto anch’esso avendo in mente la favolosa orchestra di Mannheim, da lui diretta nelle recite di Monaco) della sua pur breve esistenza.
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Oggi è diventata poco più che una curiosità, ma c’è un particolare da notare subito, ed è la prescrizione di Mozart riguardo l’accordatura della viola: che deve essere di un semitono più alta rispetto al resto dell’orchestra. Ovviamente, per compensare l’effetto di tale accordatura, la parte della viola, invece che in MIb (la tonalità d’impianto dell’intero brano) è notata in RE (un semitono sotto):

Il risultato, in termini di altezza dei suoni, non cambia (con il temperamento equabile, suonare un RE con strumento accordato un semitono sopra equivale esattamente a suonare un MIb con l’accordatura normale) ma cambia assai – oltre che per maggior comodità di esecuzione per il solista - in termini di timbro e risonanza (caratteristiche legate, fra le altre variabili, alla tensione delle corde dello strumento, che ovviamente cresce innalzando l’accordatura e fa produrre quindi armoniche diverse): l’effetto complessivo è quello di una maggior penetrazione del suono della viola, che compensa sua la cupezza naturale e le consente di dialogare con il violino da-pari-a-pari, senza farsi risucchiare dal vortice orchestrale.

Mozart era un esperto violista, e questo è solo un piccolo esempio della cura e della perspicacia che metteva nelle sue composizioni. Per la verità la sua prescrizione è caduta in… prescrizione, anche a seguito dei miglioramenti tecnici apportati via via allo strumento (le corde, appunto) che ne hanno migliorato la qualità e potenza del suono; e ormai quasi nessuno la segue più, salvo che qualche patito di HIP (Historically Informed Performance).

Per la cronaca e per fare altri esempi, anche Richard Strauss, nel Don Quixote, per un passaggio della Variazione 3, chiederà alla viola solista (che scimmiotta Sancho Panza) di accordare in SI anzichè DO la quarta corda (la più bassa) evidentemente per abbrunarne ulteriormente il suono. E questo procedimento di scordatura applicherà anche Mahler nel secondo movimento della sua Quarta sinfonia, laddove al violino solista si richiede di impiegare uno strumento accordato precisamente un tono più in alto (corde in LA-MI-SI-FA# anziché SOL-RE-LA-MI) rispetto agli altri (che suonano in DO minore, con 3 bemolli in chiave). Il violino ha la parte notata in SIb minore (5 bemolli) esattamente un tono sotto rispetto agli altri: stessa altezza di suoni quindi, ma diverso timbro, assai più stridulo (proprio come voleva l’Autore) a seguito della maggior tensione delle corde:

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Questa sinfonia concertante è un vero gioiello, che raggiunge il massimo della preziosità nell’Andante centrale in DO minore, il cui tema principale è una delle pagine più strabilianti dell’intera produzione musicale:

I due moschettieri de laVerdi ne hanno dato – ben supportati da Xian e dai compagni, in formazione ridotta e con le file dei violini arretrate di un paio di metri per mettere loro in maggior risalto - un’interpretazione invero splendida, accolta da autentiche ovazioni. Insomma, è bello constatare che non siamo ancora al punto di dover rimpiangere certi mostri sacri del passato (come i due Oistrakh - con Menhuin sul podio! – in questa storica esecuzione ripresa a Londra, anni ’60).

E per ringraziare il pubblico osannante – e invero oceanico – che gremiva l’Auditorium, i due lo hanno poi deliziato con un indiavolato bis di Piazzolla, in un arrangiamento dedicato proprio da Gabriele a Luca.
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Si è chiuso in bellezza con la celeberrima Sinfonia in Sol minore, nella versione con i clarinetti (originariamente boicottati da Mozart). Grande prestazione di tutti e accoglienza davvero trionfale.

02 aprile, 2014

Perle (coltivate) al Regio di Parma


Il Regio di Parma mette in scena in questi giorni una delle opere (tutte minori, se non si chiamano… Carmen) di Georges Bizet: si tratta di Les pêcheurs de perles, in una produzione di qualche anno fa del Verdi di Trieste.

Sulla vacuità e bizzarria del libretto di Cormon&Carré si è scritto di tutto; non solo: si è anche fatto di tutto, arrivando allegramente a modificarlo con la solita scusa di migliorarlo, bistrattandone di conseguenza anche la musica.

Come succederà alla Carmen (di cui però Bizet farà appena appena in tempo a seguire pochissime rappresentazioni, senza poterci più metter mano come avrebbe sicuramente voluto) anche i Pescatori furono oggetto di appropriazione indebita, per così dire, alla morte dell’Autore, avvenuta 12 anni dopo le prime recite.
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Nello scenario pseudo-esotico di Ceylon si muovono, oltre a masse popolari (pescatori, fachiri, sacerdoti e maliarde, impersonate dai cori) quattro soli personaggi, di cui tre maschi (rappresentanti le tre tessiture vocali) e una femmina (soprano). Costei (Léïla) è una curiosa figura multiforme e multi-professione: si fa passare per dea (!) e per protettrice dei pescatori di perle, donna di grande saggezza e ancor maggior severità di costumi… poi però scopriamo presto che se l’è già spassata assai con Nadir (il tenore) che a sua volta capita per caso in quei posti e vi incontra un vecchio amico, anzi… ehm… qualcosa di più, tale Zurga (baritono) che si scopre a sua volta essere invaghito della protagonista. Completa questo quadro un filino improbabile (e non è tutto, come vedremo!) il sacerdote Nourabad (basso) che fra tutti quanti sembra l’unica persona ad avere la testa sulle spalle.


Nell’Atto I Zurga viene nominato capo dei sub che si apprestano a vendemmiare perle e proprio in quel momento ecco arrivare Nadir, reduce da peregrinazioni in luoghi remoti. Scopriamo che fra lui e Zurga c’era un’amicizia… particolare, che però fu incrinata in passato dall’apparizione di una donna misteriosa (una specie di dea, indovinate chi?) che catturò la libido di entrambi, lasciandoli senza libido… reciproca (smile!) Ma i due si riconciliano presto, proprio mentre sopraggiunge su una piroga… indovinate chi? (sempre lei, qui come esorcista contro embolie e annegamenti). La donna – ognor velata - giura castità e ogni altro ingrediente che renda efficace la sua protezione, però ha già sgamato Nadir (e lui lei, poco dopo!) e possiamo facilmente immaginare ciò che sta per accadere.

L’Atto II si apre con una (apparentemente, per ora) insignificante confessione di Léïla a Nourabad: da ragazzina lei aveva aiutato uno sconosciuto fuggiasco (evidentemente con qualche colpa sulla coscienza…) a sfuggire alla cattura, e lui le aveva regalato una collana metallica in segno di riconoscenza. Poi l’atto è incentrato – c’era da esserne sicuri – sulla love-scene fra Nadir e Léïla; scena manco a dirlo interrotta dal sacerdote Nourabad che scopre i due amanti in flagrante. A furor di popolo i due dovrebbero essere puniti, ma arriva il mite Zurga che invece propone caritatevolmente di mandarli liberi. Senonchè Nourabad scopre il volto della donna, il che manda Zurga in pasto alla più feroce gelosia: perché adesso perfino lui ha razionalizzato tutta la tresca di cui è protagonista l’amico e ordina la punizione estrema per i due fedifraghi.

Nell’Atto III assistiamo all’immancabile colpo-di-teatro. Zurga, che dapprima pareva pentito della sua severità nei confronti dei due amanti e poi era tornato a farsi accecare più che mai dalla gelosia e dall’odio verso Léïla, intravede addosso a lei una catenina metallica che gli par di conoscere (toh, che sorpresa!) e così scopre di avere un debito con lei e ri-ri-ricambia idea, decidendo di salvarla insieme al suo (di lei, ma anche di lui, smile!) Nadir. Ma come fare, visto che sono già pronti la pira e il relativo orrendo foco per ospitare i due criminali? E allora il fuoco lo appicca lui stesso alle capanne del villaggio, col che tutti quanti corrono a spegnere l’incendio, mentre lui fa scappare i due amanti, recidendo a colpi d’ascia i legacci che li trattengono. Ben presto tornano tutti, le donne con i bambini in braccio, scampati all’incendio, seguite da Nourabad e dagli indiani. Léïla e Nadir sono già lontani, mentre il povero Zurga se ne sta lì inebetito a contemplare il vuoto.

Beh, ditemi voi se questa non è roba da chiodi… (trasparente come una bottiglia d’inchiostro, commentò un critico dei tempi!)

Quindi, bisognava assolutamente porre rimedio a questo ciarpame. Uno dei volontari – ma non l’unico - fu tale Benjamin Godard, un musicista abbastanza noto ai tempi, che si occupò di un paio di restauri che – come spesso accade – invece di risolvere dei problemi ne creano altri ancor più gravi. Dunque, vediamo.

Nell’Atto I sappiamo come Zurga e Nadir si rivedano dopo tanto tempo, e dopo la sbandata avuta da entrambi per Léïla (ma Nadir poi non aveva perso tempo a tornare in pista!) che aveva raffreddato (smile!) il loro rapporto. Adesso pare tutto dimenticato e i due – che si raccontano anche come hanno vissuto il distacco - si riconfermano (Amitié sainte) reciproco affetto e fedeltà (si noti che Léïla ancora non è arrivata da quelle parti!) Che si inventa Godard? Siccome ritiene debole questo passaggio (in effetti musicalmente non eccezionale, diciamo pure banalotto, con quel piglio goffamente marziale, tutto per terze) allora lo stravolge letteralmente, accorciandolo e mettendo in bocca ai due delle affermazioni tanto ridicole quanto assurde: è la dea (non quella in carne ed ossa, che ancora deve arrivare, ma la sua astrazione!) che sta arrivando per benedire la loro riconciliazione e la loro unione per il resto dei loro giorni. Confrontare le due versioni per credere:

Cormon&Carré
ZURGA et NADIR
Amitié sainte, Unis nos âmes fraternelles!
Chassons sans retour Ce fatal amour,
Et la main dans la main, En compagnons fidèles,
Jusques à la mort Ayons même sort!
Oui, la main dans la main,
En compagnons fidèles, Oui, soyons amis,
Ah! soyons amis jusqu’à la mort!
ZURGA
Depuis ce jour, fidèle à ma parole,
J’ai laissé fuir loin d’elle
Et les jours et les mois.
NADIR
Pour me guérir de cette ivresse folle,
J’ai fui parmi les loups
Et les oiseaux des bois.
ZURGA et NADIR
Comme le mien que ton coeur se console!
Soyons frères, soyons amis, comme autrefois!
Amitié sainte, etc.
Godard
ZURGA ET NADIR
Oui, c'est elle! C'est la déesse!
En ce jour qui vient nous unir,
Et fidèle à ma promesse,
Comme un frère je veux te chérir!
C'est elle, c'est la déesse
Qui vient en ce jour nous unir!
Oui, partageons le même sort,
Soyons unis jusqu'à la mort!




Cosa si deduce? Che mentre l’originale contemplava un ritorno all’amicizia fra i due uomini, che giuravano di aver dimenticato per sempre la donna fatale, Godard li fa invece riconciliare proprio nel ricordo di quella stessa donna che aveva rotto la loro relazione d’amicizia (e che sta ora per arrivare da quelle parti!) Semplicemente ridicolo. Ovviamente le due diverse scene devono essere supportate da musica diversa: così Godard cassa quella originale e la sostituisce con il tema – per quanto suggestivo, ed è praticamente il motto dell’opera - che avevamo appena udito nell’evocazione che i due amici avevano fatto della prima apparizione della donna!     

L’altra pesante interferenza sull’originale riguarda il terz’atto e il finale dell’opera. Nell’originale Zurga, dopo continui sbalzi d’umore nei confronti dei due amanti, vede la famosa collana e si decide finalmente a salvare Léïla e Nadir, che però sono ormai nelle mani dei carnefici. E qui abbiamo il bellissimo duetto fra i due amanti (Ô lumière sainte, Ô divine étreinte) che si preparano a morire sul rogo sognando un palazzo che si apre ai loro occhi e porta dritto in un paradiso di felicità. Cosa accade invece con le modifiche di Godard e soci? Il duetto dei morituri sparisce, viene spostato dopo il ritorno in scena di Zurga che ferma l’esecuzione della sentenza e si trasforma in un terzetto di esultanza, con Zurga che unisce alla gioia dei due liberati la sua decisione di immolarsi per amor loro! Ovviamente il testo cantato da Léïla e Nadir deve essere poco o tanto modificato, in presenza di tale autentico ribaltamento di scenario. E già che ci siamo, ma sì - contraffazione per contraffazione - cambiamo anche la musica!

Infine, il povero Zurga: mica se la può passar liscia restando lì a fissare il vuoto; no no, lui si merita un’esemplare e drammatica punizione e così viene, a seconda della fantasia dei contraffattori del libretto, pugnalato alle spalle, il che però non gli impedisce di cantare con i due amanti l’originale della scena finale del dramma (Plus de crainte, o douce étreinte, che lui contrappunta con Ma tâche est achevée) oppure direttamente mandato arrosto sul rogo, il che comporta la soppressione del terzetto finale, sostituito dallo spostamento colà di parte del precedente coro degli indiani, da cui già era stato espunto l’intervento di Nadir. 

In ogni modo, proprio volendo sforzare le meningi, qualche aspetto positivo nel libretto originale lo si può anche trovare (Cormon&Carré non erano poi degli sprovveduti…): il riferimento ai quattro elementi fondamentali, che ritorna spesso e già nel coro iniziale: poi, simbolismi diversi, primo fra i quali la perla bionda nascosta agli occhi di tutti, o l’eterno confronto-scontro fra i sentimenti di amicizia e di amore, o ancora il fuoco che divampa nel finale, dal chiaro significato purificatore. Insomma, un testo che non è proprio da buttare in-toto e a-priori.
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Tutto il tormentone precedente ha il solo scopo di spiegare come e perché, prendendo a caso un’incisione dell’opera, si scopre come sia diversa – e non di poco - da un’altra ascoltata prima oppure dopo… E poi per rivelare a tutti cosa si ascolti e si veda nella produzione in questi giorni in scena a Parma. Leggendo il programma di sala si ha l’impressione che la scelta sia caduta sulla versione originale; la cosa sembrerebbe confermata dal libretto pubblicato in rete, che presenta in realtà anche la traduzione dello Zanardini per la prima alla Scala del 1886, ma che fa chiaramente riferimento al testo originale francese di Cormon&Carré. Peccato che però in scena si ascolti precisamente la versione spuria (1893) contraffatta da Godard e soci! E in più con la contraffazione-della-contraffazione: alla fine si vedono arrivare Nourabad e i capi indiani in cerca di Zurga gridando à mort, poi però, invece di infilzarlo, se ne tornano là da dove son venuti, così Zurga può avanzare al proscenio per esternare il suo ultimo adieu!  

Insomma, un bel… risotto alla parmigiana (smile!) con buona pace per gli sforzi meritori che Michel Poupet e altri esperti hanno profuso per recuperare plausibilmente la versione originale. Che invece 10 anni fa fu presentata alla Fenice ed è stata anche registrata su DVD.

Quanto all’allestimento, curato da Fabio Sparvoli, lo definirei di minimalismo da penuria: scena praticamente vuota o quasi e costumi da trovarobe. Alle masse di coristi si aggiungono però simpatici ballerini che dovrebbero dare il tocco di esotismo all’ambiente. Quanto ai personaggi, non è certo colpa di Sparvoli se il libretto gli offre poco o nulla… (e così lui si diverte a fare qualche invenzione: oltre allo Zurga risparmiato, quella della consegna della collana da parte di Léïla direttamente nelle mani di costui è proprio ridicola, facendo perdere tutta la portata drammatica della scena). Insomma, un allestimento che par fatto apposta per invocare qualunque eccesso del Regietheater.
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Comunque ciò che ha evitato all’opera il definitivo passaggio al dimenticatoio è, manco a dirlo, la musica di Bizet. Non essere un capolavoro non significa automaticamente essere fuffa e i Pescatori – possibilmente quelli originali e non quelli contraffatti - si meritano come minimo un posto di centro-classifica nel campionario operistico.

Vi si intravedono e vi si sentono già i germi di quella fioritura che si completerà con Carmen, insieme a chiari riferimenti all’opera italiana (Rossini, Bellini, Verdi, perfino qualche anticipazione del Mascagni della Cavalleria…) mescolati con qualche spruzzatina di wagnerismo. Come la presenza di un motivo-conduttore (quello evocante la figura – materiale ma soprattutto ideale - di Léïla) che ritorna più volte nel corso dell’opera, dopo essere stato inizialmente esposto, in MIb, dal flauto solo, accompagnato dalle arpe, al momento per Nadir di ricordare l’apparizione misteriosa della donna:

E come non apprezzare la delicatezza della romance in LA minore (Je crois entendre encore) che Nadir canta nel primo atto, ricordando le notti trascorse in passato ad ammirare la donna che lo aveva stregato e che ancora non ha riconosciuto (lo farà tra poco) in quella arrivata sulla piroga:
Alla fine del primo atto è Léïla ad esibirsi nel canto propiziatorio per i pescatori, cui il coro risponde – e qui non siamo certo allo zenit estetico dell’opera – con una barcarola francamente dozzinale (Ah! chante, chante encore!) che scimmiotta quella assai celebre (ed appropriata!) del finale del second’atto dei Vespri verdiani, che Bizet doveva conoscere molto bene. 

Molto bella invece la cavatina in FA maggiore di Léïla all’inizio del second’atto (Comme autrefois, dans la nuit sombre) preceduta e accompagnata da una dolce melodia dei corni e da cullanti terzine di flauti e clarinetti. La segue l’accorata chanson di Nadir (De mon amie, fleur endormie) cantata dietro le quinte e con il solo accompagnamento dell’arpa, una trovata sempre efficace e suggestiva (Alfredo, Manrico… fin giù, in futuro, a Turiddu) che introduce il lungo, dapprima tempestoso e infine sognante duetto d’amore fra i due amanti.   

Del terzo atto sono da ricordare il confronto-scontro fra Zurga e Léïla (amputato barbaramente dai miglioratori…) che porta alla finale decisione del primo di sacrificarsi per salvare i due amanti; poi il citato Ô lumière sainte (quello di Bizet, non dei contraffattori!) e il ritorno del tema principale proprio alla conclusione del dramma.

Infine, una citazione meritano i cori, che costellano tutta l’opera, trattati da Bizet con grande maestria ed efficacia.
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Ecco, cosa si è udito a Parma? Personalmente salverei l’Orchestra Regionale ER (e Fournillier, che l’ha diretta con sobrietà e cura dei particolari) e il Coro di Martino Faggiani, giustamente osannato alla fine.  

Quanto al cast, c’è la scusa che è stato rivoluzionato proprio alla vigilia della prima; ma la scusa non può però assolvere dalle colpe! Di Nino Machaidze (Léïla) si conoscono ormai pregi (pochini) e difetti, confermati anche ieri: voce dal timbro tendente sgradevolmente al metallico, soprattutto negli acuti quasi sempre urlacchiati.

Dmitry Korchak (Nadir) non ha una brutta voce, ma fatica sugli acuti spiegati (va meglio su quelli sussurrati) e in complesso non mi ha entusiasmato; chissà che con parecchio olio-di-gomito non possa in futuro migliorare.

Vincenzo Taormina era Zurga: presenza notevole ed efficace, voce potente; canto… così e così, con parecchi problemi di intonazione.

Luca Dall’Amico completava il cast come Nourabad: una prestazione davvero anonima, sorry.

Pubblico anche qui scarsino e assottigliatosi ulteriormente dopo i due intervalli. Ma di bocca assai buona, a giudicare dal calore dell’accoglienza finale. Ma forse a Parma se non è Verdi… non val la pena impegnarsi (smile!)
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A proposito di Bizet, allego per l’occasione un saggio di Giorgio Corapi, apparso sul numero di luglio 1988 della rivista Musica&Dossier 

31 marzo, 2014

La Cambiale onorata a ReggioE.


Il Teatro Valli di ReggioE. ha proposto in questo week-end la rossiniana Cambiale di matrimonio, in un nuovo allestimento già presentato circa un mese fa al Regio di Parma.

Si tratta del primo grande successo nella lunga-breve carriera del sommo pesarese, allora nemmeno 18enne, che gli aprì le porte per i trionfi che arrivarono a ripetizione, sia nel genere farsa-commedia che in quello dell’opera-seria.

Già dalle prime battute dell’Ouverture – composta precedentemente alla farsa, come esercizio di Liceo - si capisce il perché del nomignolo affibbiato a Rossini di tedeschino: un dreimalige Akkord di MIb maggiore che par venire direttamente dalla Zauberflöte:

Ma c’è di più. Si afferma sempre che i primi stilemi musicali autenticamente romantici siano i richiami dei corni con i quali Weber apre le Ouverture del Freischütz e poi dell’Oberon. Beh, Rossini – forse senza nemmeno sapere cosa fosse il romanticismo… - aveva fatto qualcosa di analogo con più di 10 anni di anticipo!


Che la stoffa del Rossini maturo fosse già ben distinguibile in questa opera d’esordio lo constatiamo da un inciso che ritroveremo qualche anno più tardi nel Barbiere (uno dei tanti auto-imprestiti che l’Autore si concederà con gran disinvoltura). Si tratta di un frammento dell’aria di Fanny, che – abbassato di un tono, dal LA al SOL, per trasportarlo dalla voce di soprano a quella di mezzo - ritroveremo nel canto di Rosina:

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Ma tutta la musica della Cambiale mostra una freschezza di ispirazione, una geniale inventiva e una maturità di concezione che lasciano sempre sbalorditi. E il merito di Francesco Ciluffo è di averli fatti emergere al meglio, guidando con sobrietà ed equilibrio l’Orchestra del Conservatorio A. Boito di Parma, fatta di giovani promettenti e affiatatissimi.

Così come bravi, oltre che promettenti, sono stati gli interpreti dell’opera, allievi delle classi di canto dello stesso Conservatorio.

Su tutti i tre bassi: il sir Tobia Mill di Marco Granata (che è anche provetto organista), lo Slook di Hideya Masuhara e il Norton di Adriano Gramigni. Discreto anche Lorenzo Caltagirone  (Edoardo Milfort, nella cui parte ha sostituito all’ultimo momento il suo… sostituto, Yasushi Watanabe).

Un filino sotto le due voci femminili (Nao Yokomae come Fanny e Nozomi Kato come Clarina) vocine magari adatte alle parti, ma dal timbro un tantino metallico e dagli acuti non sempre puliti.

Comunque, applausi a scena aperta per tutti dopo ciascun numero; bravo Riccardo Mascia che al fortepiano ha impreziosito anche i recitativi. Ma in generale, date le circostanze, si è avuta una prova in più del fatto che per gustare della buona musica e del buon canto non c’è proprio bisogno del cosiddetto star-system!
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Naturalmente personaggi e vicenda che costituiscono il soggetto della farsa sono… farseschi: caricature di una certa borghesia neo-ricca quanto ignorante e retriva. Mill è il classico tipo del commerciante import-export della Gran Bretagna imperiale: probabilmente importa seta, spezie e thé dalle colonie orientali per poi rivenderli con enormi margini ai clienti delle colonie… occidentali. E, pur di far affari, non esita a vendere anche la figlia! Certo che anche Slook è un tipo poco coerente, come minimo: prima ordina per posta, a 6000Km di distanza, una moglie, neanche fosse una bambola gonfiabile; poi però si meraviglia che Mill, per rifilargliela, abbia trattato la figlia, appunto, alla stregua di una bambola gonfiabile!

Tutto ciò viene piuttosto edulcorato dalla messinscena di Andrea Cigni (coadiuvato da Dario Gessati per le scene, Valeria Donata Bettella per i costumi e Fiammetta Baldiserri alle luci): un allestimento sicuramente gustoso, ambientato proprio qui nelle terre del parmigiano, del culatello e del lambrusco, posti dove si lavora nella sana economia del primario, non in quella (spesso puramente parassitaria) del cosiddetto terziario…  Così Mill viene quasi nobilitato, vestendo i panni di un laborioso imprenditore lattiero-caseario, che però non si capisce bene perché riceva dal canadese Slook quello strano ordinativo che nulla ha a che vedere con vacche e forme di formaggio! E per di più decida di… onorarlo a spese della figlia.

Ma siamo in una farsa e la plausibilità della vicenda è proprio l’ultima cosa che ci deve interessare. Così diventa divertente anche l’autentico omaggio che, alla fine dello spettacolo, Cigni fa all’ormai antico (ma mai invecchiato!) Rinaldo di Pizzi, qui di casa fin dal remoto 1985, presentandoci i quattro protagonisti appollaiati su imponenti vacche di cartapesta!
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Pieno successo per tutti, con un solo grande rammarico: il Valli semivuoto (a dispetto di prezzi invero popolari) al quale Alessandro Baricco, prima dell’inizio, ha indirizzato alcune interessanti riflessioni sul teatro di 200 anni fa.

28 marzo, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°27

 

Un gradito revival per laVerdi: a due anni e mezzo di distanza da quel settembre 2011 alla Scala, ecco riproposto qui in Auditorium un caposaldo della musica occidentale: il War Requiem di Benjamin Britten, come allora diretto da Zhang Xian.

Diversi i tre solisti: il soprano Othalie Graham, che canta il Requiem ecclesiastico, e Mirko Guadagnini, tenore e Joseph Lattanzi, baritono, che cantano i versi di Owen; ovviamente confermati i cori di Erina Gambarini e Maria Teresa Tramontin e i Direttori delle due orchestre (Xian e Jais).

Rispetto all’esibizione scaligera ci sono alcune differenze… logistiche, oltre che di ruoli: l’orchestrina da camera qui è disposta all’estrema sinistra rispetto a chi guarda ed è guidata da Santaniello, che ha scambiato il suo posto con Dellingshausen. I piccoli della Tramontin (alla Scala avevano avuto l’onore del Palco Reale!) sono qui dislocati nelle prime file della galleria: soluzione ideale per gli spettatori della parte avanzata della platea, non so quanto efficace per chi occupa le file retrostanti, proprio sotto la galleria medesima…

Comunque sia, l’ascolto di quest’opera lascia sempre una grande impressione, anche perché essa è di estrema attualità, in un mondo – il nostro - dove si continua a soffrire a dispetto dell’assenza di conflitti globali come quelli che ispirarono i versi di Owen e la musica di Britten. Un musicista spesso irriso, che a noi occidentali in questo Requiem spiegò - proprio con gli strumenti più elementari (quasi scolastici, direi) della nostra musica, quella basata sul diatonismo e sul temperamento equabile – la differenza fra lo stato di guerra e quello di pace (in qualunque accezione vogliamo considerare questi temini): il diabolico tritono che si trasfigura nell’accordo perfetto maggiore!

24 marzo, 2014

A Torino fra tragedia e commedia


Il Regio torinese ha in programma in questi giorni un dittico bifronte, serio-leggero. Resterà famoso nella storia quello che fu programmato alla Fenice in occasione della prima di Elektra (1938) allorquando alla tragedia straussiana si fece seguire Il signor Bruschino (!) Anche qui – cosa del resto già fatta alla Scala proprio 10 anni fa - abbiamo l’accoppiata  tragedia + commedia, e così la par-condicio è salva e tutti vanno a casa soddisfatti, anche se a Torino la tragedia viene (grazie al regista) privata della sua genuina conclusione… idilliaca, come vedremo meglio.  

Una tragedia fiorentina (1917, da Wilde) precede di circa un anno lo Schicchi (1918, testo di Forzano) e con esso condivide l’ambientazione gigliata. Poi però, a parte le circostanze belliche in cui furono composte e le comuni viste sull’Arno, le due opere hanno assai poco in comune. E non solo per i soggetti alquanto divergenti, ma proprio per i contenuti squisitamente musicali: tanto maledettamente salace e genuinamente italico quello di Puccini, quanto cerebralmente e incorreggibilmente crucco (non è un’offesa, occhio!) quello di von Zemlinsky

Il regista Vittorio Borrelli ha pensato bene di risparmiare… sull’affitto collocando le due vicende nello stesso caseggiato, più o meno trasportandole all’epoca in cui le opere videro la luce. Il che tutto sommato non nuoce, né scandalizza più di tanto.

Quanto a Stefan Anton Reck, la sua origine (anagrafica e musicale) teutonica non gli impedisce di gestire con la dovuta spigliatezza anche la brillante partitura pucciniana.
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Eccoci quindi, in un teatro non propriamente affollatissimo, alla Tragedia fiorentina. Caspita come si corre veloci oggi, ha commentato il mio vicino di posto sul treno che ci portava a Torino: su Renzi han già fatto anche un’opera lirica… (tera-smile!)

Beh, va detto che della tragedia c’è effettivamente un ingrediente indiscusso e indiscutibile: un omicidio per strangolamento in piena regola. Però tutto il resto della vicenda ha davvero dell’incredibile e del gratuito. Andiamo con ordine.

Siamo nella Firenze del ‘500 e un commerciante rientra a casa prima del previsto trovandovi la sua mogliettina in compagnia piuttosto sospetta di un giovane. Fin qui sembra Hunding che torna da Sieglinde e vi scopre Siegmund: qualche vago sospetto del padrone di casa viene mascherato da affettate profferte di ospitalità, soprattutto dopo che il giovane intruso si è manifestato per il figlio del Duca della città.

Dopo aver cercato (o fatto finta) di vendergli un po’ della sua mercanzia (stoffe e abiti alla moda) il commerciante si dice pronto ad offrire all’ospite qualunque cosa gli aggradi. E qui ecco il primo fatto poco plausibile: il giovane nobile chiede con tutta naturalezza di avere la donna (sic!) Ma non basta, perché il marito, invece di dargli la risposta più ovvia, cerca semplicemente di dissuaderlo minimizzando le qualità della moglie (la bellezza le è rifiutata… arriverà a dire di lei!)

La quale moglie si lascia sentire dal marito mentre dichiara al giovane di volerlo morto! Poi, con il commerciante in giro per la casa, i due amanti si abbracciano e si baciano sulla bocca come nulla fosse. E come nulla fosse il duchino dice poi che si è fatto tardi e fa per andarsene a casa non senza aver ottenuto dalla donna un appuntamento galante per il mattino successivo (!)

Portandogli cappa e spada il commerciante si ricorda di possedere a sua volta un brando arrugginito e invita il giovane a incrociare qualche colpo. La cosa da scherzosa diventa seria: dopo essere stato ferito di striscio, il padrone di casa disarma l’ospite, poi a mani nude lo mette sotto e infine lo strangola senza misericordia.

A nulla valgono le implorazioni del giovane e la donna per parte sua ben si guarda dall’intervenire, come potrebbe, per difenderlo dalla ferocia del marito. Passato il duchino a miglior vita, il commerciante si volge verso la moglie per completare l’opera di fustigazione dei costumi.

E qui la tragedia si muta in… farsa. La donna sbotta estasiata: caro, perché non mi avevi mai detto di essere così forte? E l’uomo, già pronto a strozzarla, trasalisce e risponde: toh, e tu perché non mi hai mai detto di esser così bella? E l’opera si chiude con i due che si baciano sulla bocca… (roba da chiodi!)

In molti si sono naturalmente cimentati nel cercare di spiegare cosa di criptico ci può esser sotto ad una simile strampalata conclusione. Così mi ci provo anch’io, tanto per passare il tempo. Lo spunto me lo ha dato quella specie di monologo che il padrone di casa recita a metà circa dell’atto unico, dopo aver parlato di affari e di politica con il suo (anzi… di sua moglie) ospite, piuttosto disinteressato a tali argomenti, per la verità. Dice infatti: Dunque, tutto quanto il vasto mondo è chiuso fra le quattro mura di questa stanza, e solo con tre anime ad abitarvi?

Personalmente mi stuzzica sempre immaginare dietro questi triangoli delle allegorie di grandi fenomeni di carattere storico-politico-sociale. Nella fattispecie ipotizzo la donna di casa essere la classe operaia che, sfruttata dalla borghesia capitalista, si concede all’aristocrazia, che obiettivamente esercita ancora su di lei un certo fascino… Poi però, nel momento in cui la borghesia soffoca (letteralmente!) la nobiltà, ecco che alla classe operaia non resta che riconoscerne la forza e lo strapotere e (fingere di?) buttarsi fra le sue braccia. Beh, erano fenomeni sotto gli occhi di Wilde come poi di Zemlinsky, o no?

Ecco, invece pare che il regista non abbia potuto sopportare questa pagliacciata (una tragedia è una tragedia, vivaddio!) e quindi ha mandato Wilde e Zemlinsky a quel paese e la fedifraga all’altro mondo, come del resto si merita! Beh, per essere la prima rappresentazione in assoluto al Regio, dopo quasi un secolo di vita, come rispetto dell’originale non c’è malaccio (smile!) E poi tutto ciò alle mie orecchie contraddice abbastanza la chiusa musicale di Zemlinsky, con quel celestiale diminuendo in LAb maggiore dell’intera orchestra, che sa poco di Tod e tanto di Verklärung (giusto per citare il compositore che, con il rivale-in-amore Mahler, più ha lasciato tracce nella musica del nostro).

Mattatore è stato ovviamente il beniamino di casa, Mark S. Doss, che ha sostenuto da par suo una parte piuttosto impervia e faticosa, anche fisicamente. Discreta la prova di Zoran Todorovich e rimarchevole, soprattutto per la… ehm, presenza scenica, quella di Ángeles Blancas Gulín. Insomma, per il piuttosto misconosciuto Zemlinsky un debutto torinese più che accettabile.
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Lo Schicchi è una vera perla, non lo si scopre da oggi, e se il cast è all’altezza non può non piacere e divertire. Con l’intelligente e sobria regia di Borrelli e un’orchestra ben guidata da Reck, chi si è distinto su tutti è Francesco Meli, ancora una volta confermatosi tenore di razza. Con lui Alessandro Corbelli, un protagonista efficacissimo e poi la Serena Gamberoni cui non è mancato l’applauso a scena aperta, di prammatica dopo il Babbino.

Ma bene han fatto tutti gli altri. Alla fine, quando Schicchi recita la frase conclusiva e batte le mani… ecco che è scattato inevitabilmente l’applauso del pubblico, che ha coperto le ultime nove, esilaranti battute in SOLb di Puccini. Ma va bene anche così…

22 marzo, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°26

 

Il Direttore musicale (quota rosa) de laVerdi riappare sul podio dell’Auditorium per dirigervi un concerto mozartiano, con spruzzatina del Gluck strumentale. L’occasione è buona – e non sarà l’ultima - anche per portare in primo piano (e se lo meritano proprio) un paio di prime parti dell’Orchestra

Si parte con la celeberrima Eine kleine Nachtmusik, ascoltata qui più di 3 anni orsono dall’astro emergente na PatalungQuesta volta però di direttore se ne fa a meno: Nicolai Freiherr von Dellingshausen guida con l’archetto del suo violino i 21 compagni in un’esecuzione proprio come dovevano essere quelle dei tempi del Teofilo!
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Poi ecco Andrea Magnani, fagotto principale de laVerdi, esibirsi nel K191. Uno dei gioiellini del Mozart giovane che, come ricorda lo stesso Magnani, riprenderà l’incipit dell’Andante nella famosa cavatina della Contessa all’inizio del second’atto del Figaro. (Ma sono anche le stesse quattro note con cui tale Wagner farà iniziare il Liebestod…)

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Il Concerto si apre con un Allegro in SIb, che ha una struttura vagamente di forma-sonata. È in pratica costruito da Mozart componendo sapientemente - come fossero pezzi di un ideale meccano musicale - alcuni motivi di base:


Abbiamo un’Introduzione orchestrale, abbastanza lunga, interamente in SIb, che espone il motivo A e successivamente il motivo B e poi il C, inframmezzati da qualche battuta di carattere marziale. A questo punto entra il solista che espone il motivo A (di fatto il primo tema) seguito da un breve virtuosismo e chiuso dall’orchestra sulla tonica. Poi attacca il motivo D (una specie di secondo tema) nella tonalità dominante di FA maggiore; ad esso segue subito il motivo E, sempre in FA maggiore, che poi si sviluppa (anche con soggetti secondari) con grandi volate di semicrome fino alla conclusione del solista sul FA acuto. L’orchestra chiude l’esposizione riprendendo (sempre sulla dominante FA) il motivo C.

Ora il solista introduce il motivo F, dapprima in DO minore, poi in SIb, che rappresenta quasi una specie di sviluppo, assai breve e basato su virtuosismi del fagotto supportati da svolazzi degli archi. L’orchestra inizia quella che possiamo chiamare ripresa con le prime quattro battute del motivo A (SIb) subito reiterate dal solista, che vi fa seguire il secondo tema (motivo D) ma nella tonalità plagale (MIb). 

Adesso Mozart ci regala un’autentica perla del suo genio: riprende il motivo E (originariamente in FA) e – senza minimamente trasporlo, si badi bene, ma variandone quasi impercettibilmente la struttura e l’armonizzazione – lo fa calzare a pennello alla tonalità di SIb, come vogliono i sacri canoni! SIb che viene mantenuto con il motivo B che ricompare nel fagotto e porta poi – dopo un tutti orchestrale che ripropone il motivo C - alla classica sospensione per la cadenza. Cadenza che Mozart non ha scritto e che quindi sta al solista di scegliere o inventarsi. Da qui la coda che chiude il movimento.   

Nell’Andante, ma adagio (FA maggiore) Mozart si diverte, più di quanto già fatto nel primo movimento, a far eseguire al solista siderali intervalli sonori (anche di 19ma!) quasi a voler fare pubblicità alle prerogative dello strumento. Ma senza dimenticare la dolcezza della melodia che caratterizza l’intero brano.

Il Finale è un Rondo (Menuetto, 3/4) che presenta una struttura abbastanza regolare: A-B-A-C-A-D-A-A’, i cui mattoncini di base sono i motivi di seguito elencati:

Il ritornello A (in SIb maggiore) è costituito da una sezione principale di 8 battute (a) che ritorna sempre e da una di 12 battute (a’+a) che ritorna soltanto nell’ultima ricorrenza, l’unica suonata dal solista, mentre tutte le altre sono presentate dalla sola orchestra. Il fagotto è invece protagonista di tutti gli episodi interni. B si compone di 3 motivi (b+b’+b”) che appaiono come variazioni del ritornello, rispettivamente in SIb maggiore, FA maggiore e ancora SIb. C consta di due motivi (c e c’) nella relativa SOL minore. D è a sua volta scindibile in due motivi (d e d’) in SIb e FA. Dopo che A è stato presentato e ulteriormente sviluppato dal solista, una variante di A (A’) comprende una breve cadenza che chiude il Rondo.
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Magnani mostra di padroneggiare perfettamente questa parte assai ostica, di cui ci dà proprio un’interpretazione… scoppiettante, meritandosi gli scroscianti applausi del suo pubblico (e vedremo che per lui non sarà finita qui…) 
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Dopo l’intervallo, ecco l’altro moschettiere che viene al proscenio da solista: è Max Crepaldi, che si cimenta con un’opera di un autore che aveva composto prevalentemente… opere! Si tratta del Concerto per flauto di Gluck. Di cui è però addirittura incerta la paternità, oltre che l’anno di composizione. Fu Hermann Scherchen ad arrangiarne un’edizione e a farne una prima registrazione 1l 21 agosto 1941 a Winterthur, con la locale Orchestra Municipale e Willi Urfer al flauto.

Il concerto ha una struttura e un’impaginazione assai semplici, tanto da far pensare che non sia di Gluck o quanto meno non del 1762 (per dire, l’anno dell’Orfeo!) ma assai più datato, magari un giovanile esercizio di carattere scolastico. Si tratta di tre classici movimenti: Allegro non molto (SOL maggiore, 3/4), Adagio (RE maggiore, 4/4) e Allegro comodo (SOL maggiore, 3/4). Ciascun movimento dura poco meno o più di 5 minuti ed è di fatto monotematico, con la classica modulazione alla dominante o al massimo alla relativa minore. Per conseguenza si porta dietro anche una certa… monotonia che rischia non dico di annoiare, ma insomma di provocare nell’ascoltatore dei cali di tensione.

L’organico dell’accompagnamento è costituito da quattro parti del quintetto di archi (v1-v2-va-vc+cb) e da corni (che accompagnano prevalentemente muovendosi per terze e – nel finale – seste e che peraltro tacciono nel movimento centrale).    
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Il tema del primo movimento, dopo essere stato anticipato da archi e corni, viene esposto dal solista nella sua prima sezione, che chiude sulla sopratonica LA. Essa diviene dominante del RE (a sua volta dominante di SOL) sul quale il flauto espone la seconda sezione del tema:

Tema che viene ora riproposto dall’orchestra nella tonalità dominante, prima che il flauto rientri con una variante in MI minore (relativa del SOL di impianto) che riporta poi alla tonalità di base. Orchestra prima e flauto poi riespongono il tema in SOL fino ad arrivare alla breve cadenza, dopo la quale l’orchestra porta il movimento alla conclusione.

Anche l’Adagio si presenta più o meno nello stesso modo: il tema (RE maggiore) viene esposto prima dagli archi, cui poi subentra il solista, che lo reitera facendolo virare alla dominante LA maggiore:


In questa tonalità viene ripreso dagli archi, prima che il flauto lo sviluppi, riportandolo a RE maggiore. Anche qui una cadenza del solista conduce gli archi alla chiusura. 

Chi vuol scommettere che anche la struttura dell’Allegro comodo ricalca più o meno quella degli altri due movimenti? Scommessa vinta: partono archi e corni con il tema in SOL maggiore, ripreso dal solista che lo sviluppa verso la dominante RE:


È il solista stesso che reitera il tema sulla dominante, fino a modulare a SOL minore, per poi riprendere canonicamenie il SOL maggiore. Si arriva quindi alla pausa per la cadenza di prammatica, assai breve, che conduce alla chiusura riservata ad archi e corni.
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Beh, credo si sia capito trattarsi di una cosuccia simpatica e non molto di più. Certo, per il solista è pur sempre un’occasione per mettere in luce le proprie qualità. E devo dire che Crepaldi l’ha saputa sfruttare in pieno!

Così, per festeggiare degnamente la serata, il primo flauto si riporta in scena anche Magnani e insieme ci offrono come bis una trascrizione dal clavicembalo di Händel, che dà modo ad entrambi di riproporre le loro altissime qualità tecniche e di fare ancora il pieno di applausi.   
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Chiude la serata la K543, terz’ultima delle sinfonie del grande salisburghese. Le ultime esecuzioni qui risalivano a poco più di due e poco meno di quattro anni orsono, offerteci entrambe dal venerabile Helmuth Rilling.

Xian è tutta un’altra pasta (poi ciascuno può preferire un approccio ad un altro…) e ne cava un’interpretazione nervosa e senza… ritegno (!) Dalle tremende mazzate chieste alla Viviana fin dall'Introduzione, passando per i pianissimo degli archi e ancora per esplosioni improvvise di tutta l'orchestra che - parlando di Mahler, mica di Mozart - Adorno chiamava irruzioni! E ha pure fatto - cosa per lei inconsueta - i ritornelli di prammatica.

Insomma, una simpatica serata che ci ha ridato un po' del calore toltoci dalla leggera pioggerella arrivata nel frattempo.