affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

12 dicembre, 2018

L’Attila scaligero: un nazi ante-litteram


L’Attila del Verdi rimasto affascinato dalla lettura di Werner era un tipo forse un filino talebano nell’etica (proprio binaria: 0-1, tutto o niente, bene o male, bianco o nero) e quindi estraneo a compromessi e manfrine, spietato con i perdenti e i voltagabbana... ma ammiratore e rispettoso dei nemici ispirati alla sua stessa etica binaria.

Ora, come si spiega che un individuo sanguinario come l’unno possa essere stato presentato - nel corso dell’800 - prima in un dramma e poi in un’opera musicale come un personaggio positivo? Positività che emerge inoppugnabilmente dalla musica che Verdi gli ha cucito addosso, le mille miglia lontana da quella idonea a caratterizzare un bieco e feroce dittatore dei giorni nostri (Hitler, Stalin, Franco, Pinochet, PolPot, Bokassa, Saddam, Osama...) E di certo diversa da quella che Verdi avrebbe composto se - puta caso - avesse dovuto o voluto musicare un soggetto ambientato nel terrore francese, protagonisti Robespierre&C...

Credo che la risposta stia nel tipo di scenario e di contesto storico che sono sullo sfondo dell’opera. Quello dell’Attila porta alla nostra attenzione vicende remote, ambientate in un mondo dove una civiltà evoluta ma in decadenza (Roma) era minacciata da (in)civiltà primitive (perchè ospitate in parti del mondo estranee alla civiltà greca e poi romana) ma proprio per questo a modo loro genuine; e dove il barbaro Attila era mosso da istinti quasi animaleschi, ma in sostanza naturali, il che ne fa - agli occhi di Verdi e ai nostri occhi - un personaggio persino degno di ammirazione.

Sì, poichè uno stesso atto o fatto noi lo possiamo percepire in modo completamente diverso a seconda del contesto e della prospettiva storica in cui esso si inserisce. Un atto di violenza anche feroce compiuto da un seguace di Attila nel 452 certo non lo potremo mai giustificare, ma possiamo comprenderlo in ragione delle circostanze storiche in cui si è materializzato; e per questo Verdi può permettersi di rivestire le truci esternazioni del condottiero e i cori truculenti di Unni, Eruli e Ostrogoti, inneggianti a stragi e stupri, di musica positiva (modo maggiore, baldanzoso, propriamente eroico) ed è per questo che noi non solo non ci scandalizziamo di ciò, ma anzi l’apprezziamo.

Tutto però cambia se cambia l’ambientazione del soggetto. Ed è ciò che fa Davide Livermore in questo suo allestimento. Ambientato di fatto ai giorni nostri (o in giorni a noi benissimo presenti, perchè vissuti). E più precisamente ancora - nelle due parti principali che caratterizzano questa trasposizione, la prima ad Aquileia e l’altra nel campo di Attila del second’atto - ci troviamo chiaramente immersi in uno scenario che ha scoperti riferimenti nazisti. Dapprima vediamo l’Italia del post-8-settembre-1943, come risulta evidente da alcuni precisi particolari della messinscena: Odabella e poi Foresto che stringono drappi tricolori; la scena presa pari pari da Roma, città aperta di Rossellini, ambientato come ben sappiamo proprio in quel preciso periodo storico; gli aguzzini che osserviamo mentre trucidano a sangue freddo inermi cittadini, comportandosi precisamente come si comportarono i classici Kapò nazi, a noi ben noti, quali Kappler, Priebke e compari (Marzabotto, Ardeatine, ...)

Se lo scenario è questo, allora il condottiero che arriva a cavallo all’inizio dell’opera, se proprio non Hitler in persona, può benissimo riconoscersi in Albert Kesselring, comandante supremo delle forze naziste in Italia nonchè criminale di guerra riconosciuto e come tale condannato. E aggiungiamo che Ezio (ambiguo generale romano) ci fa proprio la figura del Maresciallo Badoglio, che da alleato dei nazisti - non dimentichiamo che anche Attila ed Ezio erano stati alleati, ai tempi delle spedizioni contro i Burgundi! - è ora diventato un traditore voltagabbana.

Quanto al secondo riferimento, è incontestabile che la scena del festino nel campo di Attila sia di ambientazione squisitamente nazi, mutuata scopertamente da pellicole italiane, come quelle della Cavani (Il portiere di notte) di Brass (Salon Kitty) e di Pasolini (Salo’).

Quello di Livermore è - riguardo i momenti caratterizzanti - uno scenario che ci presenta uno spaccato della nostra contemporanea civiltà evoluta all’interno della quale si è prodotta - per degenerazione cancerogena - una moderna barbarie. Uno scenario che sta letteralmente agli antipodi di quello musicato da Verdi: a differenza del buon selvaggio Attila, qui abbiamo Hitler (o chi per lui) che, non dimentichiamolo, aveva alle spalle Hegel, Marx e persino... Wagner! E purtroppo quella stessa musica positiva di cui Verdi ha gratificato gli Unni primitivi del 452 adesso ci viene cantata da aguzzini nazisti nel 1943, che magari hanno mandato al creatore nostri padri o nonni... E ciò fatalmente offende la nostra sensibilità e il nostro intelletto, oltre che offendere Verdi e la sua opera!

Insomma, in questo caso (come spesso avviene) l’attualizzazione del soggetto provoca l’intollerabile discrasia fra ciò che si ascolta e ciò che si osserva. E a poco serve riconoscere che ciò che si osserva, in sè e per sè, sia opera di ingegno e professionalità, di cui non si può non dare atto a tutta l’equipe di Livermore. Ammirando - una fra tante - la geniale trovata di impiegare il famoso dipinto di Raffaello come sfondo al tableau vivant della scena dell’incontro Attila-Leone. O le efficaci proiezioni, vedi il ricordo di Odabella dell’ammazzamento del padre da parte di Attila.

Per la verità altre invenzioni del regista sono assai meno memorabili, come ad esempio la ferita che Attila provoca alla mano di Odabella consegnandole la sua arma da taglio (e perchè mai un simile gesto?); o il colpo di pistola tanto gratuito quanto fuori tempo (dal punto di vista drammaturgico) con cui Ezio ferisce Attila, che viene poi legato come un salame, il che dequalifica il successivo gesto di Odabella dal livello eroico (Giuditta-Oloferne) a quello vile (Maramaldo-Ferrucci).

In sostanza: un allestimento di alto livello purtroppo inquinato dall’ambientazione incoerente con il soggetto da rappresentare. Ho la vaga impressione che dall‘avvento del cosiddetto teatro-di-regìa (diciamo da 50 anni come minimo a questa parte) si sia verificato nel mondo dell’opera lirica (e forse non solo in esso) un fenomeno che chiamerei di dissociazione fra il contenuto (ciò che si sente) e la forma (ciò che si vede) attraverso la quale tale contenuto viene presentato. Basta che la forma sia - com’è sicuramente nel caso in questione - accattivante, e la coerenza con il contenuto diventa automaticamente un optional, al quale si rinuncia con grande disinvoltura. Il nesso causa-effetto di questo imbarbarimento (!) dei costumi è tutto da decifrare: è il Regietheater ad averlo provocato, oppure è esso stesso un effetto di quell’imbarbarimento? Ai sociologi l’ardua sentenza.
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Anche ieri sera (come già per la prima vista in TV) Riccardo Chailly non mi ha pienamente convinto. Intanto confermo la mia personale contrarietà alle scelte (sedicenti) filologiche del Direttore: la romanza di Foresto scritta per Moriani è certo apprezzabile (ed è sicuramente musica di mano di Verdi!) ma a mio parere è più debole dell’originale. Quest’ultimo (testo di Solera) è assai drammatico nella prima strofa, dove Foresto dichiara che per Odabella avrebbe fatto qualunque cosa (e non a caso Verdi lo musica in modo minore); e nella seconda (in maggiore) Foresto chiede a Dio perchè mai consenta che un angelo del cielo (Odabella, già come tale apostrofata con una frase musicale assai simile nella cavatina del Prologo) si macchi di una colpa così grave come il tradimento.

Il testo (rimasto anonimo) per Moriani è invece più sdolcinato: Foresto ricorda la sua felicità passata e il riferimento all’angelo non è più per Odabella, ma narcisisticamente per se stesso! E Verdi musica entrambe le strofe in un languido e donizettiano REb maggiore. Chi, come Emanuele Senici (sue note sul programma di sala) ha esplorato anche la versione Ivanov (testo di Piave) mi pare abbia pochi dubbi nel reputarla testualmente e musicalmente superiore.

Non parliamo poi delle 5 battute di Rossini inserite prima del terzetto dell’Atto III: lasciano davvero il tempo che trovano. Rossini stesso disse di averle composte per suonarle mentre i suoi ospiti a Passy si accomodavano chiacchierando per ascoltare il terzetto, un modo come un altro per richiamarli al silenzio!

Chailly ha infine mantenuto la promessa di far eseguire un allargando il tempo a Ezio, Foresto e Coro sull’ultimo verso dell’opera (Appien sono vendicati Dio, popoli e re!!!) La cosa, oltre ad essere del tutto arbitraria (sono quelle che chiamo pisciatine di cane sulla partitura...) ha ottenuto per me un effetto assai discutibile. Insomma, è stata il degno suggello ad una direzione pulita e precisa, curatissima nei dettagli, ma troppo - sempre secondo me - cerebrale e, in termini musicali, eccessivamente sostenuta. Così facendo Chailly ci ha restituito un Attila in guanti gialli e in punta di piedi: insomma, troppo fioretto e poca vanga! Ma Attila non è Boccanegra nè Otello...

Ildar Abdrazakov si è confermato un solido Attila, scenicamente e vocalmente (anche se le note gravi non sono proprio il suo forte). Lunghissimo e meritato l’applauso a scena aperta dopo Oh miei prodi!

La Odabella di Saioa Hernández ha confermato alle mie orecchie ciò che di buono ricordavo di lei. Voce corposa e penetrante, ha tratteggiato degnamente il personaggio, sia nelle sortite eroiche che nelle esternazioni più liriche (Oh! Nel fuggente nuvolo).

Sufficiente ma non di più l’Ezio di George Petean, che ha una voce poco... ehm, verdiana; oltretutto quella stupidaggine di fare il SIb acuto sul piangerà - un vero obbrobrio - davvero se la (e ce la) poteva risparmiare (uno come Muti, per dire, lo avrebbe minacciato di licenziamento in tronco!) Ancora non ci si spiega la ragione del suo subentro al posto dell’annunciato Piazzola (che pure non è un marziano, sia chiaro) che difficilmente avrebbe fatto di peggio.

Fabio Sartori è ormai un abitué del ruolo di Foresto, che padroneggia con molto mestiere, senza pecche ma anche senza mai lasciare il segno, ecco. Fossi in lui, mi riterrei discriminato dal Direttore, per aver dovuto cantare la romanza di Moriani (degna di un Nemorino qualunque, haha!)

Francesco Pittari (Uldino) e Gianluca Buratto (Leone) hanno fatto ben più del minimo sindacale, e per questo si meritano ampio riconoscimento.

Sui suoi alti livelli il Coro di Casoni (inclusi i piccoli) giustamente ovazionato alla fine. Pubblico caloroso e prodigo di applausi e bravi! per tutti.

07 dicembre, 2018

laVerdi 18-19 - Concerto n°10


Riecco il Direttore Musicale sul podio dell’Auditorium per un dirigervi concerto che presenta lavori di quattro compositori (anche se i titoli in programma sono tre!) Il percorso che ci viene proposto si caratterizza per due andata-e-ritorno fra ‘800 e ‘900, e non solo in termini strettamente temporali.

Infatti si parte dal Liszt padre del Poema Sinfonico per passare al ‘900 nostalgico di Rachmaninov, quindi retrocedere all’800 di Musorgski con una specie di poema sinfonico anticipatore del ‘900, rivestito proprio da un modernissimo Ravel!

A dimostrazione del fatto che la musica non può descrivere alcunchè (oggetti, soggetti o concetti che siano...) Les Préludes, che nella versione definitiva oggi eseguita dice - per bocca dell’Autore - di ispirarsi a Lamartine (la vita non è che una serie di preludi alla morte) era nato musicalmente sotto tutt’altra veste, che con l’opera del letterato francese c’entra come i cavoli a merenda: trattandosi in effetti di un aggiustamento del 1854 - complice un collaboratore di Liszt (tale Joachim Raff) - di un brano di qualche anno addietro che faceva da preludio alla cantata I quattro elementi (su testi di Joseph Austran). Il titolo del poema sinfonico e il riferimento alle Nouvelles méditations poétiques (n°16) di Lamartine furono inventati e appiccicati al preesistente brano a posteriori: esistono non meno di quattro prefazioni alla partitura, nessuna riferibile direttamente a Lamartine, ma tutte prodotte dall’entourage di Liszt (l’ingombrante Wittgenstein in primis).

A questo punto chiunque potrebbe sentirsi autorizzato a indicare nel soggetto ispiratore anche La vispa Teresa piuttosto che Cappuccetto rosso o Il Gatto con gli stivali (!) A parte le battute, il genere musicale Poema sinfonico è stato da sempre fonte di discussioni e di equivoci, proprio per l’impossibilità materiale di associare in modo convincente i suoni a immagini o a personaggi, o a stati d’animo, o a concetti filosofici. Vale per i 13 lavori di Liszt come per quelli di Dvorak, di Franck, per le fantasie di Ciajkovski o per Sibelius, Rachmaninov, Respighi e Strauss. Quest’ultimo, in alcuni, non tutti, i suoi Tondichtungen ha pensato bene di arricchire ogni pagina della partitura con minuziosi riferimenti, per orientare l’ascoltatore ad associare la musica al soggetto ispiratore: in assenza di tali indicazioni, tale associazione rimarrebbe assai ardua se non impossibile da realizzare: chi potrebbe con assoluta certezza individuare in Don Quixote e nelle sue avventure le note dell’Op.35, o nei paesaggi alpestri quelle dell’Op.64, senza la guida di tali espliciti riferimenti? E il ragionamento vale ovviamente anche per i Quadri di Musorgski, musica straordinaria in sè, che solo le etichette appiccicatevi dopo averle staccate dalle opere esposte in pinacoteca ci orientano a riferire ai dipinti di Hartmann.

Un caso eclatante di equivoco di fondo è rappresentato da Mahler, che dopo aver contrabbandato il suo primo lavoro sinfonico per Poema (in 5 movimenti) ispirato al Titan di Jean Paul, si decise con gran disinvoltura a mutarne radicalmente i connotati in quelli di Sinfonia in RE maggiore (in quattro tempi). E anche le due successive Sinfonie nacquero come musica a programma (anzi, a programmi, poichè ne furono redatti più d’uno) prima di assumere la forma definitiva di musica pura (casomai con un programma interno e nascosto che sta all’ascoltatore decifrare a sua discrezione).

Insomma, i riferimenti appiccicati a queste composizioni lasciano il tempo che trovano: resta la qualità della musica a stabilire alle nostre orecchie se si tratti di capolavori o di ciarpame (o di qualcosa di intermedio...) Tornando a Les Préludes, di certo il suo successo presso il pubblico non dipende minimamente dall’avere come dichiarata (ma di fatto fasulla...) ispirazione quella Méditation di Lamartine, ma dalla buona fattura dei suoi temi musicali e dalla solidità della struttura del brano che li racchiude e li organizza. Allo stesso modo si può apprezzare il Don Quixote straussiano come grande musica, pur senza saper collegare i temi che via via compaiono ai personaggi o alle situazioni che dovrebbero evocare; e restare affascinati dai Quadri musicali, pur dimenticandone o ignorandone i titoli.

Cerchiamo di seguire la narrativa (di Liszt, non di Lamartine) dei Prèludes con l’aiuto di Zubin Mehta e dei Berliner. Personalmente ho cercato di prescindere dalle esegesi classiche, che insistono nel mettere i temi in relazione non a Lamartine, ma ai testi di Austran: cosa che certamente aveva fatto il compositore, ma che - per le ragioni più sopra esposte - finisce secondo me per condizionare eccessivamente l’ascolto. Ecco perchè ho scelto, come rappresentato nella figura sottostante, delle definizioni più astratte (anche se, ovviamente, personali!) per i temi medesimi:


Liszt si conferma maestro nel far germinare quasi tutti i motivi del brano da una minuscola cellula fondamentale, di sole tre note, cellula che subirà una miriade di variazioni e trattamenti (anche alla fiamminga...) E nel cambiare i connotati ad un tema, riproponendolo sotto luci diverse (cosa di cui diventerà super-maestro suo genero Richard Wagner).

Introduzione - Andante 4/4 DO M. Dopo i due DO in unisono degli archi in pizzicato, ecco apparire (8”) sempre negli archi la cellula fondamentale, dalla quale si diparte una melodia curvilinea (discesa-salita) che culmina nella riproposizione della cellula nei legni, con virata a LA maggiore. La cosa si ripete (38”) ma sul RE minore, poi gli archi (1’17”) accompagnati da note tenute dei legni, ripercorrono ripetutamente da punti di partenza sempre più alti il motivo curvilineo, fino a sfociare nella sezione successiva.

Andante maestoso (2’12”). Qui viene esposto da tromboni e archi bassi il tema A, in DO maggiore, il cui incipit è costituito dalla cellula fondamentale: un motivo che evoca pompa e retorica. Non per nulla il nazismo ne fece una sigla di trasmissioni radiofoniche rivolte ai combattenti! (Ma nessuno associa Liszt a Hitler, al contrario del trattamento riservato al futuro genero). Il tema tornerà ciclicamente e trionfalmente a chiudere l’opera.

A 2’57”, L’istesso tempo, in 9/8 (3/4) ecco comparire negli archi il tema B, che si diparte sempre dalla cellula fondamentale. Un tema ancora in DO maggiore, dal tratto languido, che poi (3’21”) viene reiterato in MI maggiore (questo tema tornerà letteralmente trasfigurato più avanti). Gli risponde a 3’45”, in 12/8 (4/4) un controsoggetto in DO minore, sfociante sul SI, dominante del MI maggiore dove, sempre su L’istesso tempo, a 4’02”, in 4/4 (8/8) si prepara l’arrivo (4’11”) del tema C, caratterizzato da grande nobiltà, quasi una proposizione di alti ideali, esposto inizialmente dai corni, che si appoggia al SOL# minore (4’41”). Si torna però subito a MI maggiore (4’49”) per la reiterazione del tema, ora mirabilmente arricchito da volute di archi e flauti, con un crescendo fino a 5’21”, dove il tutto si sospende, modulando a DO maggiore, poi - 5’38” - a SIb maggiore. Ed ecco riapparire (6’04”) in MI maggiore, sommesso e languido, con incipit variato e andamento più regolare, il tema B, poi reiterato dai flauti che si fermano sul RE, dominante del LA minore su cui inizia la successiva sezione (6‘40”) dove l’atmosfera cambia radicalmente.

Allegro ma non troppo, 4/4. Sono i violoncelli ad attaccarla, sempre con la cellula fondamentale, cui segue un agitato motivo che via via, a folate successive, coinvolge l’intera orchestra e sfocia a 7’12” in Allegro tempestoso, 12/8 (4/4). Qui, dalla cellula fondamentale si diparte il tema D, quanto mai protervo e minaccioso, subito reiterato (7‘16”) un semitono sopra, dal SIb, fino ad un Molto agitato e accelerando (7‘27”) dove la cellula fondamentale, fiammingamente invertita, dà origine ad un motivo sfociante (7‘34”) nella stessa cellula originale (DO-SI-MI). Il processo si ripete e stavolta sfocia (7‘41”) in tre reiterazioni della cellula cui seguono pesanti accordi dell’orchestra, con i flauti agitatissimi, che conducono (7’55”) ad una vertiginosa discesa di legni e archi. Dopo uno schianto sull’accordo di LA minore ecco presentarsi (8’05”) il tema E, incalzante e carico di angoscia. A 8’12” viene ripetuto in LAb maggiore, uno squarcio di sereno subito rimosso (8’23”) dal ritorno del tema in LA minore.

Questa parentesi cupa si risolve a 8’44” sul tempo Un poco più moderato e tonalità SIb maggiore, dove torna il tema B ancora sottilmente variato. A 9’29” lo stesso viene riesposto in SOL maggiore e ci porta (grazie all’intervento dell’arpa) ad un’oasi di serenità e di pace. Attacca infatti a 10’00” un Allegretto pastorale (Allegro moderato) 6/8 (2/4) in MI maggiore, tonalità quanto mai appropriata alla circostanza. Il corno solo canta il mirabile tema F, poi imitato (10’12”) dall’oboe nella relativa DO# minore, e quindi (10’20”) dal clarinetto in LA maggiore, con i flauti ad interloquire gaiamente. Ancora il clarinetto (10’33”) in FA# minore, seguito dall’oboe. Adesso (10’48”) anche gli archi interloquiscono con i legni, la tonalità si muove da LA a FA (11’05”) per poi ripiegare (11’16”)  a LA maggiore.

A 11’41” ecco tornare negli archi il tema C, poi ripreso (12’11”, Poco a poco più mosso) anche dai flauti con l’arpa ad accompagnare. Un’ardita modulazione (12’28”) ci porta a DO maggiore, dove il tempo continua ad incalzare (Poco a poco più di moto...) e il tema C viene reiterato (12’34”) dai corni, mentre l’orchestra ribolle sempre più e a 13’03” ancora lo ripete in modo colossale, chiudendolo poi con una cadenza (13’18”) che vira - in fff a 13’26” - al LAb maggiore, tonalità che prepara la strada per il successivo Allegro marziale animato, con il ritorno (13’39”) a DO maggiore per la riproposizione del tema B che ora, da languido e sognante com’era nato, diventa (G) nerboruto ed autoritario (4/4 alla breve)! E non per nulla lo contrappunta il retorico tema A!  

Come curiosità si osservino le note riquadrate in rosso nella figura: sono le stesse - a parte metro e tonalità - che Wagner impiegherà per scolpire in musica il Walhall, poco tempo dopo la sua permanenza nell’esilio di Weimar presso il futuro suocero. Forse la cosa non è per nulla casuale: nel programma di Liszt (o chi per lui) si trovano un’atmosfera di ineluttabilità della morte e l’innata, naturale propensione dell’Uomo per la sfida e il cambiamento. Che sono proprio i concetti (Wandel und Wechsel liebt, wer lebt) che Wagner traspone nella figura e nell’approccio esistenziale di Wotan, e di cui il Walhall è strumento materiale.

Una transizione (13’55”) caratterizzata da reiterati interventi delle trombette conduce ad un nuova riproposizione (14’13”, Tempo di marcia) del tema C, ormai assurto - da astratto ideale - a vessillifero di grandiose imprese (si ascoltino i protervi interventi del tamburo militare!) Dopo una prima entrata in DO, viene riproposto (14’19”) in MIb maggiore, sfociando sulla dominante SIb, che per enarmonia diventa LA#, mediante del FA# maggiore sul quale (Più maestoso, 14’25”) ricompare il tema B, lui pure ormai esaltato dall’accompagnamento del tamburo. Ritorna (Vivace, 14’37”) la transizione udita poco prima e si arriva così alla sezione conclusiva.

Andante maestoso, 12/8 (4/4) in DO maggiore (15’08”). È il tema A, che aveva fatto il suo ingresso subito dopo l’Introduzione, a tornare ciclicamente quanto strepitosamente per occupare da solo l’ultima scena, chiusa da poche battute (15’50”) di enfatica Coda

Se mettiamo in sequenza la comparsa dei diversi temi abbiamo la seguente serie: 

A - B - C - B  /  D - E - B - F - C  /  B - C - B -

Come si può notare, se si esclude l’Introduzione, il tema B detiene il maggior numero di ricorrenze, ma soprattutto mantiene una posizione baricentrica e perfettamente simmetrica all’interno della sequenza; mentre il tema A apre e chiude il brano. Un’architettura assai robusta, che ha di certo la sua parte nel rendere quest’opera così immediatamente accattivante
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Impeccabile l’esecuzione, che mette in risalto tutti i dettagli e i tesori di questo brano, che sfugge ad ogni camicia di forza programmatica in virtù dei suo intrinseco valore musicale.
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Tocca adesso al vulcanico 37enne barbuto e capelluto Feodor Amirov (viene da Dimitrovgrad, sul Volga, non lontano da... Togliatti) proporci l’inflazionato Rach-2, l’opera con cui Rachmaninov tornò nel 1901 alla vita dopo aver rischiato di lasciar le penne a seguito del fiasco della sua Prima Sinfonia. E la nuova vita fu in realtà un ritorno alle comode certezze ciajkovskiane, che caratterizzeranno tutta l’intera produzione successiva del nostro.

Amirov, che si presenta subito mostrando il suo carattere estroverso, facendo una specie di saluto romano... ne dà un’interpretazione proprio crepuscolare, tutta in punta di piedi, sfiorando la tastiera, ben assecondato dall’accompagnamento discreto di Flor. Memorabile, nell’Adagio, la cadenza dove i tre accordi sono esposti con una incredibile teatralità.

Dopo tutto questo intimismo, ecco arrivare un altro Amirov, tutto gesticolante, che propone come bis una sua (così credo) improvvisazione da lasciar esterrefatti: dove lo strumento viene impiegato come... batteria o come cimbalom o maracas, e dove il funambolo tartaro (!?) si sgola con urla belluine! Una cosa mai vista e udita in una sala da concerto!     
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Si chiude con la versione raveliana dei Quadri di Musorgski. (Rimando i curiosi ad una mia nota di qualche tempo fa sulla struttura e contenuti dell’originale per pianoforte). L’Orchestra, che ha in questo pezzo uno dei suoi cavalli di battaglia, non manca l’appuntamento, suscitando l’entusiasmo generale. Sugli scudi il sax contralto di Silvio Rossomando nel n°2 del Vecchio castello.

Questa sera non si replica (per... rispetto alla prima del Piermarini). Nuovo appuntamento a Domenica ore 16.

01 dicembre, 2018

Aspettando i barbari


Si avvicina a grandi passi un nuovo SantAmbrogio ed è il caso di prepararsi a ricevere come si meritano i barbari che minacciano di mettere l’Italia a ferro&fuoco (alludo a gentaglia tipo Juncker, Moscovici, Dombrovskis e compari mangiapaneatradimento, hahaha!) Ma noi siamo pronti a sfidarli a piè fermo con i nostri eroici Foresto Di Maio, Ezio Salvini e Odabella Raggi, spalleggiati dal catto-comunista Leone Francesco I. 

(A pensarci bene, un assaggio di invasione di Unni l’abbiamo avuto pochi giorni fa, quando un loro - per la verità ultra-vegliardo - condottiero ci ha tenuto in scacco con la sua musica... scusate il politically-incorrect.)
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Per il 2018 Riccardo Chailly ha scelto, dopo la Giovanna del 2015 e prima del Macbeth del 2019 (?) questo Attila, che rappresenterebbe (a suo parere) la seconda delle tre pietre miliari dell’evoluzione artistica del giovine Verdi, dopo Nabucco e verso Rigoletto. (Della serie: ognuno si inventa i pretesti più bizzarri per giustificare le proprie scelte...) 

Personalmente sono un fanatico di quest’opera, dove Verdi (altro che vanga) sembra usare la ruspa... e vedere all'opera (!) una ruspa (qui ogni riferimento al Salvini è del tutto casuale) è cosa spesso eccitante, se ai comandi c’è uno che ci sa fare. Che invece siano queste tre opere quelle che più spiccatamente caratterizzano la produzione verdiana dei cosiddetti anni di galera, lo pensa il Direttore musicale, ma non è vangelo. Infatti, secondo più di un critico, la stessa Giovanna fu un chiaro passo indietro rispetto (come minimo) a Ernani e Foscari; e una certa Luisa Miller meriterebbe di entrare in questa compagnia...

Non parliamo poi di Massimo Mila, che nel suo simpatico (quanto dotto) libretto Le opere “brutte” di Giuseppe Verdi elenca proprio - in compagnia di Alzira, Masnadieri, Corsaro e Legnano - la Giovanna e l’Attila! E su quest’ultima cita i giudizi non certo lusinghieri di Abbiati, Roncaglia, Casamorata, Gerigk, Holl. Poi critica il Preludio, di fattura fine, ad un’opera che già da subito scatena cori truculenti di unni, eruli, ostrogoti, ecc... Quindi fa dell’ironia sul Verdi che, proprio con Attila, aveva pubblicamente ripudiato (come una provincialata) l’impiego della banda in scena, per poi - all’arrivo del protagonista - abbandonarsi ad una vera orgia di ritmo puntato. E non manca di sottolineare ad ogni ricomparsa la stucchevole sospensione sulla settima di dominante impiegata per preparare il numero successivo, che a sua volta è molto spesso (lo aggiungo io) una cabaletta in ritmo di polacca. E aggiungo ancora che serve un numero a due cifre per censire le ricorrenze nello spartito dell’abusata sequenza discendente dominante-sottodominante-sopratonica (quella - per intenderci - dell’Amami Alfredo...)

Tutta l'analisi di Mila è una lunga elencazione di debolezze, banalità, volgarità, scadente qualità musicale (persino dell’alba sulla laguna, fatta di macchinosi congegni orchestrali, un po’ arrugginiti e cigolanti...) Insomma, una serie interminabile di vorrei, ma non posso. Va detto che, in parziale accordo con Chailly, Mila riconosce comunque ad Attila perlomeno alcuni caratteri di innovazione, quali la drastica riduzione dei recitativi o lo sfrondamento dei numeri musicali da orpelli e lungaggini estranei all’azione e nocivi al dramma.

Il maestro riconosciuto degli esegeti verdiani, Julian Budden, così chiude il suo saggio sull’Attila:

L’Attila è la più rumorosa di tutte le opere risorgimentali, brusca nello stile, impiastricciata di densi e sgargianti colori, piena di effetti teatrali senza profondità e dotata di un numero maggiore del giusto di impetuose cabalette. (...) Nonostante una genuina potenza costruttiva, gran parte dell’opera rimane, non meno dell’Alzira, sul piano del banale vigore. (...) I critici dell’epoca avevano ragione. L’Attila è un’opera di consolidamento; non è il grande passo avanti che essi (e Verdi con loro) avevano predetto. Per questo si sarebbe dovuta attendere la prossima opera: il Macbeth

Ecco, a questi luminari io personalmente dò ragione, sul piano freddamente razionale e musicologico, però rivendico anche il diritto di dichiarare che poche opere come questa mi danno letteralmente la scossa: la mia sarà pure una reazione animalesca, ma - perlomeno - in questo caso la bestia che c’è in me non viene sollecitata a buttar bombe o a bestemmiare contro il mondo-ladro (ogni riferimento a recenti prime mondiali è puramente voluto...) bensì a provare entusiasmo e appagamento. E tutto ciò grazie esclusivamente alla musica, per quanto (o forse proprio perchè...) barbara e, appunto, quasi animalesca. Mi auguro proprio che Chailly così ce la trasmetta, evitando edulcorazioni, ammorbidimenti, smussamenti o liricizzazioni fuori luogo.
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Il soggetto fu suggerito dallo stesso Verdi al Solera (ma anche Piave ci mise poi lo zampino) per farci il libretto dell’opera, e viene dal dramma di Friedrich Ludwig Zacharias Werner dei primi anni dell’800. Verdi ne aveva avuto notizia leggendo lo scritto (pag. 323) De l’Allemagne di Madame de Staël, dove il testo di Werner viene riassunto con grandi apprezzamenti.

In realtà si tratta di un polpettone inverosimile che mescola storia (poca) e moltissima fantasia, a cominciare dall’invenzione dell’arrivo di Attila a Roma; e poi e soprattutto del personaggio di Ildegonda, principessa burgunda che Werner presenta come moglie di Attila e sua assassina per vendetta contro l’uccisione del promesso sposo e di altri suoi congiunti e compatrioti da parte del condottiero unno.

La vicenda dell’ammazzamento di Attila da parte di Ildegonda, che Werner ambienta gratuitamente vicino alla Roma cinta d’assedio dagli Unni, viene in realtà da saghe e leggende teutoniche e nordiche (si va dal Nibelungenlied alla lsungasaga, divenute tanto care a Wagner pochi anni più tardi) che la collocano però nel territorio dei Burgundi, lassù lungo il Reno, collegandola nientemeno che alle mitologiche imprese di Siegfried (!) Protagonista è Gudrun/Kriemhild, sorella di Hagen, che viene trucidato da Atli (Attila) desideroso di impadronirsi del tesoro nibelungico. E lei sposa Atli solo per poter poi ammazzare prima i due figli avuti da lui e quindi lui medesimo.

Ma sulle stranezze del libretto (oltre che su qualche contenuto musicale) mi sono peraltro già dilungato abbastanza in occasione della precedente apparizione dell’opera alla Scala, nell’ormai lontana estate del 2011, e quindi rimando i curiosi a quel commento. 
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Chailly ha anche deciso (come spesso accade, per giustificare il suo stipendio) di lasciare le sue pisciatine di cane (!) sulla partitura, annunciando non una ma ben due primizie: la prima comporta la sostituzione della romanza di Foresto all’inizio dell'Atto III (Che non avrebbe il misero) con quella (Oh dolore! Ed io vivea) scritta per Napoleone Moriani e per la Scala (dicembre 1846): sì perchè la Scala non è mica la Fenice, sia chiaro. Un’altra aria sostitutiva - Sventurato! alla mia vita - era stata composta, su raccomandazione di Rossini, per Mykola Kuz'myč Ivanov per una recita di Attila a Trieste. Dato che oggi è passata da mani private (dove era inaccessibile) a mani pubbliche, Chailly potrebbe chiedere il permesso di metterla in scena in una sua prossima rivisitazione dell’opera (!?!) Ecco qui i testi delle tre versioni:

originale (Venezia, 17/3/1846)
Ivanov (Trieste, 28/9/1846)
Moriani (Milano, 26/12/1846)
DO minore - 4/4
DO minore - 4/4
DO minore - 4/4
Infida!
Il dì che brami è questo:
Vedrai come ritorni a te Foresto!
Infida!...
Fatta certezza è il dubbio...
I giuri suoi smentiva!... oh tradimento!
Straziata dal dolor l'alma mi sento!...
(come originale)
DO minore-maggiore - 4/4
LAb minore-maggiore - 3/4
REb maggiore - 4/4
Che non avrebbe il misero
Per Odabella offerto?
Fino, deh, ciel, perdonami,
Fin l’immortal tuo serto.

Perché sul viso ai perfidi
Diffondi il tuo seren?…
Perché fai pari agli angeli
Chi sì malvagio ha il sen?
Sventurato! alla mia vita
Sol conforto era l'amor!
Sventurato! or disparita
Ogni gioia è dal mio cor!

Ah!.. perché le diede il cielo
Tanto fiore di beltà;
Se ad un cor dovea far velo
Nido reo d'infedeltà.
Oh dolore! ed io vivea
Sol pensando alla spergiura
Fin l’esiglio a me parea
Men deserto e men crudel.

Ogni colpo di sventura
Mi feria ma non nel core.
Fui beato in quell'amore
Come un angelo nel ciel.

Però Chailly, sostituendo la romanza, non si deve essere accorto di aver gettato alle ortiche un importante (secondo me) connessione drammaturgica e musicale/tematica che esiste fra detta romanza e la cavatina di Foresto del Prologo (Ella in poter del barbaro) e precisamente fra i versi Io ti vedrei fra gl'angeli (cavatina) e Perché fai pari agli angeli (romanza). Nobbuono!



La seconda trovata è l’esecuzione di 5 (in lettere: cinque) battute musicali composte nientemeno che da Rossini per un happening in casa sua a Parigi e che da allora nessuno aveva mai più potuto udire, collocate prima del terzetto (Odabella-Foresto-Ezio) aperto da Odabella (Te sol, te sol quest’anima):



In ogni caso mi sento di stigmatizzare questa pratica pseudo-filologica, che evidentemente contagia - a mo’ di sindrome da onnipotenza - molti direttori, smaniosi di differenziarsi dalla massa proponendo novità inedite o versioni desuete di brani o intere opere. Mi tornano alla mente, restando in ambito scaligero e sempre riguardo a Chailly: la Butterfly-1904 presentata a SantAmbrogio2016 e le diverse versioni della Fanciulla di pochi mesi prima. Ma anche Barenboim non aveva scherzato, aprendo spudoratamente il Fidelio-2014 con la Leonore-2 (!) E che dire del Gatti-2008 che ci offrì la primizia del Lacrymosa dentro il suo Don Carlo...

Secondo me si tratta di iniziative tollerabili, o magari anche apprezzabili, se proposte nell’ambito di manifestazioni particolari, tipo i festival, oppure se producono degli allegati, in un CD. Ma scommetto che il pubblico competente del 7 dicembre sarà... attentissimo a queste straordinarie novità.

Poi Chailly trova da ridire (al Verdi non ancora abbastanza... maturo, evidentemente) sulle ultime battute dell’opera, dove Foresto, Ezio e il coro cantano Appien sono vendicati Dio, popoli e re!!! Secondo il Direttore Musicale, concentrare in una sola battuta (anzi in 3 semiminime) e in tempo Allegro ancora più animato, come fa Verdi (e come quasi tutti, ad esempio Muti) i tre riferimenti a Dio, popoli e re è cosa imperdonabile e irrispettosa: così lui prescriverà a voci e strumenti un allargando proprio su quelle battute, per restituire a quei riferimenti l’importanza che si meritano (?!?) Cosa che però ha già inventato il sommo Paolo Carignani (Macerata, 1996). 
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Quanto agli interpreti, il protagonista sarà l‘imponente ldar Abdrazakov, del quale possiamo farci un’idea attilica (per me assai convincente) in questa recita del 2012 al Mariinsky con Gergiev (nello stesso 2012 il basso russo fu assai apprezzato anche a Roma con Muti).

Hildiko/Ildegonda... oh pardon, Odabella, sarà impersonata da Saioa Hernández, che esordisce nel ruolo: personalmente l’ho sentita una sola volta, lo scorso anno nella Wally, e ne trassi una positiva impressione, proprio per le caratteristiche di potenza e corposità della voce, che dovrebbe quindi bene adattarsi al ruolo della ruvida amazzone di Aquileia.

L’eroico Foresto resta quello del 2011, Fabio Sartori, che ha ormai raggiunto le dimensioni di Pavarotti e la voce... quasi, ecco; ma speriamo bene, visto che lui ha poi vestito quei panni altre volte, come qui a Bologna nel 2016 con Mariotti.

L'ambiguo Ezio (patriota o doppiogiochista?) annunciato a maggio per Simone Piazzola avrà invece la voce di George Petean, il baritono rumeno che già nel 2016 ha fatto coppia con Abdrazakov nell’Attila a Montecarlo.

Francesco Pittari (Uldino) e Gianluca Buratto (Leone) completano il cast. Molto ci aspettiamo dal coro di Casoni, che qui ha un ruolo primario.

Chi vuol rinfrescarsi la memoria di Attila con una produzione rimasta nella storia della Scala può farlo anche senza dover comprarsi il DVD, semplicemente click-ando qui.
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L’allestimento è affidato a Davide Livermore, al suo terzo impegno scaligero, dopo il mitico Tamerlano e il buffo DonPasquale, due spettacoli di tutto rispetto anche se non esenti da qualche pecca. Vedremo come il regista(ex-tenore) torinese interpreta per noi questa vicenda pseudo-storica: io spero solo che non la carichi di contenuti eccessivamente politico-ideologici di attualità, come gli accadde anni fa per i Vespri torinesi (magari tirando in ballo proprio Di Maio, Salvini e Raggi - o Appendino, nel suo caso!)  

A parte le battute, il regista ci fa sapere cosa pensa dell’opera in questa esternazione comparsa sul sito web del Teatro. Subito Livermore sottolinea le debolezze (micro-ingenuità!) del libretto, riscattate però dalla potenza e dalla straordinaria vitalità della musica di Verdi. E fin qui non potrei essere più d’accordo con lui (!) 

Dopo aver (comprensibilmente!) esaltato la Scala, Chailly, l’allestimento e il cast vocale, il regista tratta gli aspetti politici della produzione verdiana di quegli anni, per sostenere che Attila non celebri una lotta di liberazione, ergo non sia un’opera risorgimentale. Qui il ragionamento scricchiola (Budden, uno per tutti, la pensa all’opposto) anche perchè Livermore fa un po’ di confusione con le date, postdatando Attila al 1849, quindi dopo i fallimenti dei moti del ’48 e della prima guerra d’indipendenza, mentre l’opera andò in scena alla Fenice martedi 17 marzo del 1846, in piena temperie rivoluzionaria... Ma il regista motiva la sua convinzione analizzando le figure di Attila e di Ezio, e in particolare la famosa frase del generale romano (Avrai tu l’universo, resti l’Italia a me.) considerata una proposta indecente, e concludendo (prendendo a pretesto la sprezzante risposta di Attila) che l’intera opera sia una radiografia dell’Italia contemporanea (a Verdi, ma anche a... noi!): un Paese senza più principii, senza senso civico, comunitario e identitario, pronto a svendersi allo straniero per un piatto di lenticchie; e che Verdi volesse quindi prendere a schiaffoni i suoi contemporanei (e quindi anche noi, a futura memoria!)

Ecco, a me pare proprio che qui il regista sconfini indebitamente nel campo della sociologia-un-tanto-al-kilo (e spero non l’abbia messa al centro del suo Konzept dell’opera). Certo si può sorridere sul fatto che la rivolta patriottica contro l’invasore sia condotta da un Papa e da un Generale di ambigue attitudini; e non si può negare che la figura di Ezio non sia propriamente adamantina, ma così come la si può coprire di disprezzo (classico caso di doppiogiochismo all’italiana, sentenzierebbe un crucco di oggidì con i paraocchi, proprio come Attila) è altrettanto legittimo scorgervi invece un sano approccio di Realpolitik, da parte di un italiano - ambizioso sì, ma con la testa sulle spalle - che cerca di salvare il salvabile, lasciando ai barbari il resto del mondo in cambio della salvezza e sicurezza del proprio Paese! Ma poi - ciò che è più importante, visto che Livermore afferma di trovare tutti gli spunti nella partitura - è proprio la musica cantata da Ezio ad avere (come quella di Attila, effettivamente) caratteristiche di nobiltà ed eroicità; una musica che si addice ad una figura di alto spessore, non già ad un meschino traditore della patria. Non sarà un caso di certo se la melodia di Avrai tu l’universo sia quasi la stessa - armonizzazione inclusa - che sostiene, nel primo atto, l’accorata implorazione (Oh! Digli tu se anelo...) che Odabella rivolge alla buonanima del defunto padre perchè convinca Foresto delle sue intenzioni (di far secco Attila).

E poi: sappiamo bene come il pubblico di metà ’800 si riscaldasse patriotticamente all’ascolto di quella frase, chiosando la proposta di Ezio ad Attila col grido L’Italia a noi! E in chiusura dell’opera non per nulla il trio Ezio-Foresto-Odabella, dopo aver tolto di mezzo il barbaro e pagano invasore, canta perentoriamente la già citata proclamazione Appien sono vendicati Dio, popoli e re!!! (O è tutta e soltanto una parodia, come aveva sentenziato il suscettibile Solera?)

Insomma, detta con un termine oggi in voga (a proposito di attualizzazione delle opere del passato): Ezio è - nel bene e nel male - un sovranista (l’accostamento al Matteo dilagante non era poi così strampalato, vero?)

Livermore non perde infine l’occasione per esaltare il teatro musicale (lui è un collaboratore dell’oste, del quale ovviamente deve vantare la qualità del vino) e l’opera come prodotto artistico e non di entertainment, come sarebbe secondo lui degenerata solo da 30 anni a questa parte (andiamo a vedere Traviata o a mangiare una pizza?) Beh, intanto qualcuno potrebbe osservare come da 30 (o magari 50) anni a questa parte abbia preso piede un’altra degenerazione dell’opera, divenuta preda di registi iper-creativi, abilissimi nel de-strutturare e ricomporre lavori a proprio piacimento, ignorando bellamente gli originali. Ma poi Livermore dovrebbe ricordare come già dal ‘700 e poi nell’800, il teatro musicale avesse spiccate caratteristiche di entertainment, come dimostra la prassi tassativamente imposta (in specie a Parigi) dell’inserimento di balletti all’interno di opere anche seriosissime (e lo stesso Verdi non esitò ad accettare tali imposizioni!)     

Ma a proposito di scelta secca fra Traviata e pizza, si potrebbe poi ricordare a Livermore che nel ‘700 (periodo glorioso per il teatro musicale) e ancora nell’800 si andava a teatro (i palchi della Scala erano in origine veri e propri pied-à-terre) anche per mangiare (e persino per... fornicare!) E io tendo a pensare che molti popolani poco scolarizzati dell’800, così come moltissimi spettatori dell’intero ‘900 frequentassero l’opera proprio come entertainment, di livello nobile, intellettuale e - in certi casi - patriottico, certo. E dopo l’opera, se ne andassero però (come oggi) ad accontentare anche la pancia in trattoria o in pizzeria, discutendo animatamente delle prestazioni dei cantanti, non a fare esercizi spirituali.

Però Livermore nell’opera come strumento di elevazione delle coscienze e di nobilitazione della natura umana ci crede (oltre che camparci!) e così chiude il suo promo con un serioso e impegnato ...e andiamo a riacquistare la nostra identità. Nobili sensi invero! per dirla con la bocca di un classico baritono verdiano. (Sulla nostra identità persino l’antimusicale Salvini sarebbe d’accordo.)
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Dagli under-30 avremo il 4 le prime reazioni, poi il 7 pomeriggio saranno Radio3 e RAI1 a portare ad orecchie e occhi lo storico evento. I miei personali sensi verranno stimolati live pochi giorni dopo: se non ne resterò tramortito, riferirò...