affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

07 marzo, 2017

Alla Scala arrivano i Maestri (3): un manifesto proto-nazista?

 

Wagner era antisemita? Certo che sì. Come peraltro un sacco di gente ai suoi tempi (e pure ai nostri, se è per quello...) Di più: il suo antisemitismo lui lo teorizzò con approccio quasi scientifico e lo rese pubblico con un libello del 1850, Das Judenthum in der Musik (Il Giudaismo in musica) poi reiterato, rincarando la dose, una ventina d’anni dopo. Contiene una violenta requisitoria contro l’avanzare della sub-cultura ebraica all’interno della nobile, alta e superiore tradizione germanica. Agli ebrei è concessa una sola soluzione, quella della rovina e della decadenza (Untergang). Nella riproposizione del libello (1868, proprio l’anno della prima dei Meistersinger) Wagner avanza la constatazione che l’assalto di quella sub-cultura è ormai arrivato ad un livello tale che essa sta prendendo il sopravvento; e di non saper dire se l’arresto della caduta della cultura germanica possa avvenire anche attraverso una sua reazione violenta (eine gewaltsame Auswerfung)!

E ancora: in Was ist Deutsch? (Cos’è Tedesco?) pubblicato nel 1878, ma scritto nel 1865, Wagner dipinge gli Ebrei come “elemento alieno che ha invaso la natura tedesca”. E li addita a primi e principali sfruttatori del sistema capitalistico, del profitto, del potere economico delle banche. Il tutto all’interno di un panegirico allo spirito tedesco, capace di sopravvivere ad ogni avversità e ad ogni sopraffazione.

Probabilmente gli scritti di Wagner, da soli, non avrebbero avuto diffusione e risonanza così grandi da condizionare la politica della Germania del 1930... e Hitler non si sarebbe neanche scomodato a leggerli, ammesso di venirne a conoscenza. Ma Wagner divenne famoso nel mondo e adorato in Germania per le sue opere musicali e, guarda caso, proprio nei Meistersinger troviamo abbondanti dosi di nazionalismo culturale, inutile negarlo.

Che si tratti anche di nazional-socialismo in embrione è invece una tesi che sostengono non pochi ed anche autorevoli commentatori ed esegeti. Robert W.Gutman (“Richard Wagner: the Man, his Mind and his Music”, 1968) è probabilmente stato il primo a sostenere compiutamente la seguente tesi:

Nei suoi drammi, Wagner altro non vuol rappresentare se non il conflitto insanabile, anzi mortale, fra la purezza dell’identità culturale germanico-ariana e il suo pericoloso inquinante semitico (è il succo del Giudaismo in musica). Il fine ultimo perseguito da Wagner componendo i suoi drammi non sarebbe affatto l’arte, ma l’esplicitazione ante-litteram del programma politico dell’ideologia nazional-socialista e antisemita. E dato che quelle opere ebbero una risonanza ed una diffusione enormi, ecco che quel programma, in esse contenuto e nemmeno troppo cripticamente, potè richiamare l’attenzione e l’approvazione di Hitler, che non dovette far altro che dargli applicazione pratica.

Ed esistono innumerevoli altri riferimenti a quest’accusa, ad esempio in scritti di studiosi quali Hartmut Zelinsky (“Richard Wagner – ein deutsches Thema”) o Barry Millington (“Wagner”) o Daniel L.Leeson (Antisemitism in the music dramas of Richard Wagner”) o Chris Nicholson (“Apotheosis”) o ancora Peter Brach (“The Anti-Semitic Intention of The Ring of the Nibelung”). E sappiamo che lo stesso Gottfried Wagner, pronipote del compositore e fratellastro di Kathi, l’attuale capintesta a Bayreuth, non esita a individuare un binario che collega direttamente le opere del bisnonno con Auschwitz.

E come vien dimostrata una tesi di tale distruttiva portata? Con argomentazioni come quelle schematicamente elencate qui di seguito; in particolare, sono tre le opere messe direttamente sotto accusa: i Meistersinger, il Ring e Parsifal. Mi limito qui alla prima, oggetto contingente dell’interesse suscitato dall’imminente riproposta della Scala.

Attraverso quest’opera – sostengono i suoi detrattori - Wagner intenderebbe chiamare la nazione tedesca al riscatto culturale nei confronti dell’inquinante, costituito dall’infiltrazione ebraica nella società germanica. Ne sarebbe testimonianza lo stesso esplicito riferimento a Martin Luther, antisemita fino al midollo, per la cronaca: basti pensare al Von den Jüden und iren Lügen del 1543 (Dei giudei e delle loro menzogne) dove si parla di “vermi velenosi, che è un errore non distruggere”:


Ebbene, l’esaltazione che Wagner fa di Luther nel terzo atto, musicando i primi otto versi della lode scritta nel 1523 dal Sachs storico in suo onore (Die wittenbergische Nachtigall, L’Usignolo di Wittemberg, come Luther vi viene definito) sarebbe un autentico richiamo (il famoso “Wacht auf!, Risvegliatevi!) alla reazione contro le influenze straniere, ma in particolare contro gli ebrei.  

Il puro ariano qui sarebbe l’eroico Walther von Stolzing, e il suo nemico giurato il semita Sixtus Beckmesser. Quest’ultimo incorporerebbe tutti i cliché antisemiti ottocenteschi, tutti gli aspetti sgradevoli e pericolosi che Wagner attribuiva agli ebrei: andatura strascicata, barcollante, occhi strabici, bellicoso, malintenzionato, senza scrupoli... ma soprattutto: mancanza totale di talento musicale, di doti poetiche, di senso del ritmo e della metrica. Non è esattamente ciò che Wagner aveva scritto nel Giudaismo? “Nel linguaggio e nell’arte musicale l’Ebreo può solo produrre imitazioni e merce contraffatta, non può scrivere vera poesia, nè creare autentiche opere d’arte”.

Addirittura il nome originario che Wagner aveva scelto per il personaggio Beckmesser era Hans Lich, una chiarissima storpiatura di Eduard Hanslick, il critico musicale, onesto conservatore, ma soprattutto ebreo (sia pure a metà) che aveva preso posizione per Brahms e che Wagner avrebbe perciò inteso ridicolizzare, per distruggerlo. (Che il nome sia stato poi mutato è spiegabile, più che con un improbabile pentimento di Wagner, con l’obiettivo danno d’immagine che esso arrecava alla figura di Sachs e ai religiosi richiami alla festa di SanGiovanni.)

E soprattutto verrebbe preso di mira il modo di cantare di Beckmesser, un’autentica parodia del ritmo e delle inflessioni vocali dei canti da Sinagoga. Per di più Wagner scrive, per questa parte di basso, dei passi ad altezze impossibili (addirittura un LA, difficile persino per un tenore!) ottenendo con ciò l’effetto parodistico del falsetto, della voce effeminata, caratteristica dei castrati (e nell’800 l’antisemitismo faceva volutamente confusione fra castrazione e circoncisione!) 
 
Non solo, ma Beckmesser è anche un ladro! Ruba il testo del lied di Walther (un’autentica opera d’arte... secondo Wagner) ma poi non riesce nè a decifrarne correttamente le poetiche parole (che traviserà orribilmente al momento di presentarlo al pubblico) nè quindi a musicarlo compiutamente, a dimostrazione del fatto che l’ebreo non può produrre alcunchè di buono, pur avendo a disposizione materiale ariano di prim’ordine.

Infine, Beckmesser viene esposto al ludibrio anche sul piano dei sentimenti: lui è un uomo non più giovane che (al contrario di Sachs, saggio e nobile ariano capace di responsabili rinunce) mira ad impossessarsi della bella e giovane (pura ariana) Eva, figlia oltretutto di un orafo (!) Insomma: l’ebreo ladro che ha laide concupiscenze sessuali e venali...  

Ecco quindi che le reazioni irridenti e ostili della gente di Norimberga alle sue performance, nel secondo e terzo atto, sarebbero rappresentate da Wagner al preciso scopo di ridicolizzare l’ebreo e di mostrare quale debba essere la sua meritata sorte (l’Untergang del Giudaismo!): disprezzo e scorno, fino alla violenza fisica (finale dell’atto II) da parte del nobile popolo tedesco!

Dopodichè, basta leggere le cronache dell’epoca nazista per constatare come i Meistersinger fossero elevati dal regime nientemeno che a vessillo e strumento dell’espansionismo tedesco e della necessità della soluzione finale del problema ebraico. E non a caso gli ultimi due Festival di Bayreuth (1943-1944) prima della sospensione dovuta alla disfatta, furono esclusivamente occupati da ben 28 (16 + 12) rappresentazioni di quest’opera-simbolo, un estremo tentativo di risollevare il morale del popolo, a fronte della brutta piega che il conflitto aveva imboccato.
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Beh, certo che gli indizi sembrano talmente tanti e chiari da apparire prove inoppugnabili! É possibile cercare di smontarle? Mah, anche se è cosa estremamente difficile - quanto camminare sulla lama affilatissima di un rasoio - proverò ora a farlo. 

Il riferimento a Luther: beh, in un’opera ambientata nella Norimberga del ‘500 il fondatore del Protestantesimo non poteva certo passare sotto silenzio... ma il testo ed il contesto ci dicono che Luther è citato come esempio per la sua cocciuta resistenza e ribellione alle gerarchie della Chiesa Cattolica, non per il suo antisemitismo: lo attesta innanzitutto il riferimento diretto al poema del Sachs storico, tutto incentrato sull’esaltazione della lotta di Luther contro il Papa, non contro gli ebrei; e lo conferma anche il finale appello di Sachs che chiama il popolo a proteggere l’Arte tedesca dalle minacce della wälscher Majest (la maestà di Roma) non già da quelle della comunità ebraica.

Beckmesser. Intanto cominciamo col dire che uno Stadtschreiber non può essere ebreo: come tale mai avrebbe potuto far parte dell’accolita dei Cantori. E allora qualcuno dovrebbe spiegare che senso avrebbe far incarnare ad un non-semita tutte le qualità deteriori - massimamente quelle fisico-morfologiche - attribuite dal Wagner politico agli ebrei. Insomma, per assurdo: se Beckmesser, che certamente non è semita, cammina e parla e canta come un semita... significa che fra semiti e non-semiti non c’è differenza alcuna! E allora casca tutta l’impalcatura di quest’accusa. 

Ma andiamo oltre: alla fine del primo atto Beckmesser confida al suo collega cantore Veit Pogner il desiderio di avere in moglie sua figlia Eva. E Pogner, pur riaffermando che sarà Eva a dover acconsentire, si impegna ad intercedere per lui presso la figlia. Ergo: Pogner, rappresentante a pieno titolo della società e della cultura tedesca, mostra di non avere alcuna preclusione verso il Merker, che evidentemente considera del tutto degno - Eva consentendo - di diventare suo genero.

Il puro ariano Hans Sachs, viceversa, sarà anche nobile e saggio, rinunciando in partenza ad Eva, ma si mostra assai carogna (e geloso?) nei confronti di Beckmesser allorquando, nel secondo atto, fa di tutto (Jerum! Jerum!) per rovinargli la serenata. Qui la didascalia di Wagner è inequivocabile:

Beckmesser, che ad ogni colpo (dei martello di Sachs, ndr) è trasalito dolorosamente, nel reprimere l'interno furore, è stato obbligato a forzare e ad affrettare il tono, che s'era industriato di mantenere sempre delicato; la qual cosa ha accentuato il lato comico del suo canto assolutamente fuori di ogni prosodia.

Chiaro abbastanza, vero? Sono le reiterate molestie di Sachs a rovinare la serenata allo scrivano! E persino il giovane David, tratto in inganno dallo scambio di persona Eva-Magdalene (non certo voluto dal povero Beckmesser) si rende responsabile di percosse e maltrattamenti nei confronti del Merker, e della gigantesca rissa che ne segue, da cui l’incolpevole Sixtus uscirà letteralmente con le ossa rotte! Ed è proprio in conseguenza delle botte subite la sera prima che Beckmesser, nel terzo atto, in casa di Sachs e poi sul terrapieno della tenzone canora, appare barcollante e malfermo sulle gambe, non certo perchè questo sia il modo di camminare congenito agli ebrei!

Beckmesser - è vero - ruba il foglio su cui Sachs ha trascritto il Lied di Walther. Non è certo una bella azione, ma non si può non riconoscergli, come attenuante, il fatto che Sachs si sia comportato con lui in modo davvero indegno; e adesso quella canzone gli sembra dimostrare che Sachs pretenda alla mano di Eva, e gli conferma il sospetto che il calzolaio, la sera prima, avesse architettato tutto ai suoi danni, per pura gelosia e per disfarsi di un pericoloso concorrente!

Insomma, ragionando a mente fredda, vien da concludere che Beckmesser sia una vittima, più che un pericolo pubblico. E che Sachs sarà anche un tedesco doc, ma è pure parecchio carogna. E allora si potrebbe paradossalmente ribaltare l’accusa in difesa: ammesso che Beckmesser impersonifichi il semita, non è che Wagner volesse per caso mostrarci la triste condizione degli ebrei, sottoposti ad ogni tipo di angheria?  

Non dimentichiamo infine che Wagner intendeva creare, con i Meistersinger, un’opera comica, e in tutte le opere comiche c’è necessariamente qualche personaggio che si deve prestare alla bisogna e farsi mettere alla berlina (sarà solo il caso di ricordare un certo don Bartolo...): e una figura come quella del Censore da questo punto di vista e in quel contesto era proprio l’ideale per la bisogna, senza per questo dover scomodare pregiudizi razziali. Ecco qui come Wagner stravolge il testo di Walther(Sachs) agli occhi di Beckmesser:

Beckmesser

"Morgen ich leuchte in rosigem Schein,
von Blut und Duft
geht schnell die Luft;
wohl bald gewonnen,
wie zerronnen;
im Garten lud ich ein
garstig und fein."

"Wohn' ich erträglich im selbigen Raum,
hol' Gold und Frucht,
Bleisaft und Wucht...
Mich holt am Pranger
der Verlanger,
auf luft'ger Steige kaum,
häng' ich am Baum!"

"Heimlich mir graut,
weil es hier munter will hergehn:
an meiner Leiter stand ein Weib;
sie schämt' und wollt' mich nicht besehn;
bleich wie ein Kraut
umfasert mir Hanf meinen Leib;
mit Augen zwinkend,
der Hund blies winkend,
was ich vor langem verzehrt,
wie Frucht so Holz und Pferd
vom Leberbaum."
Walther (Sachs)

"Morgenlich leuchtend in rosigem Schein,
von Blüt und Duft
geschwellt die Luft,
voll aller Wonnen,
nie ersonnen,
ein Garten lud mich ein,
Gast ihm zu sein".

"Wonnig entragend dem seligen Raum,
bot gold'ner Frucht
hellsaft'ge Wucht,
mit holdem Prangen
dem Verlangen,
an duft'ger Zweige Saum,
herrlich ein Baum".

"Sei euch vertraut,
welch' hehres Wunder mir geschehn:
an meiner Seite stand ein Weib,
so hold und schön ich nie gesehn:
gleich einer Braut
umfasste sie sanft meinen Leib;
mit Augen winkend,
die Hand wies blinkend,
was ich verlangend begehrt,
die Frucht so hold und wert
vom Lebensbaum".
   
Beckmesser

"Io luceva nel roseo chiaror della mattina
profumata di sangue,
corre rapida l'aria;
presto invero ottenuta
come perduta,
nel giardino io invitai,
laido e fino".

"Discretamente me la passo nello stesso luogo,
prendo oro e frutti,
umor di piombo, leva...
Mi prende alla gogna
il bramoso,
appena sull'aereo sentiero,
m'appendo all'albero!"

"Segretamente rabbrividisco
perché qui l'andrà allegramente;
alla mia scala, stava una donna;
ella si vergognava e voleva non guardarmi;
pallida come un'erba
la canapa s'attorciglia al mio corpo;
strizzando gli occhi,
il cane via soffiò accennando,
quel che io avevo da tempo divorato:
frutti, legno e cavallo,
dell'albero del fegato!"
Walther (Sachs)

"Luminoso nel roseo chiaror della mattina,
del profumo dei fiori
l'aria impregnata,
pieno di tutte le voluttà
mai sognate,
un giardino m'invitava
ospitalmente ad entrare".

"Voluttuosamente sovrastante al luogo incantevole,
offriva d'un aureo frutto
il succoso balsamico peso
con grata magnificenza
al desiderio,
sull'orlo dei rami odorosi,
superbamente un albero".

"Vi sia confidato,
quale alto prodigio m'è avvenuto:
al mio fianco stava una donna,
così dolce e bella, giammai avevo vista:
simile a sposa,
soavemente mi cinse la persona;
con gli occhi accennando,
la mano luminosa indicava
quel che io struggendomi bramavo:
il frutto così dolce e nobile 
dell'albero della vita".

Beh, siamo proprio all’avanspettacolo di Vieni avanti, cretino!

Ma veniamo alla sostanza: la musica!

Pochi passaggi musicali sono così magistralmente concepiti, e così belli e moderni come l’assurda e patetica serenata che Beckmesser canta nel secondo atto, e che doveva servire al compositore – secondo i sostenitori del Wagner nazista - per prendere di mira la pretesa incultura musicale del mezzo-ebreo Eduard Hanslick (il critico che lo criticava, peraltro con grandissimo equilibrio). Tutta la musica che sostiene la strepitosa, stupefacente scena finale della baruffa del secondo atto nasce e si sviluppa proprio da lì, altro che cantilena da Sinagoga! E si noti che persino David, all’inizio del terzo atto, intona inizialmente il mottetto “Am Jordan Sankt Johannes stand” proprio sulla melodia della serenata di Beckmesser! (Alla faccia dell’inquinamento, verrebbe da dire...)

Quanto al Preislied, Wagner appare a sua volta davvero carognesco (lo abbiamo ben visto poco sopra) nel formularne la versione Beckmesser: ma un simile stravolgimento del testo originale è spiegabile con mille motivazioni, e non solo con la difficoltà di un Ebreo nel comprendere la lingua tedesca; e chi ci dice invece che non sia stata tutta una manfrina di Sachs, quella di scrivere il testo appositamente in modo indecifrabile, per tendere un trappolone al povero Merker? Musicalmente è poi tutt’altro che da buttar via, e il suo fallimento, nella generale derisione, è legato precisamente all’insensatezza del testo, come equivocato da Beckmesser, non certo alla musica.

Insomma, di antisemitismo programmatico è proprio difficile parlare, e anche il proclama politico esposto da Sachs e relativo alla superiorità dell’Arte tedesca appare una chiara risposta di Wagner - sul terreno (appunto) artistico - a tutte le incomprensioni di cui il nostro era fatto oggetto ancora in quegli anni: il tracollo del Tannhäuser tristanizzato e le mille diffidenze che dovunque (anche nei paesi di lingua tedesca - Vienna in testa - non solo nella Parigi dell’ebreo Meyerbeer!) sorgevano riguardo al suo Tristan.   

Per chiudere: sono convinto che vada fatto sempre ogni sforzo per tenere distinti gli aspetti deteriori del Wagner uomo, ideologo, capopopolo – che rappresentano per la sua figura un’autentica tragedia - da quell’unica qualità per la quale Wagner ha invece titolo per essere ricordato ed apprezzato: l’Artista!   
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(continua...)

06 marzo, 2017

La Wally tosco-emiliana


Ieri pomeriggio la Wally ha salutato Reggio Emilia, dopo aver visitato Piacenza e Modena (in febbraio) e in attesa di recarsi in futuro nella natia Lucca. Purtroppo il Valli presentava uno spettacolo piuttosto desolante: intere file di palchi deserti (ahi ahi...) In compenso l’annunciatore (che ricorda di spegnere i cellulari, etc...) ha invitato tutti ad essere felici! Evabbè, noi ci proviamo. 

Luigi Illica trasse il libretto per Catalani dal romanzo di metà ‘800 Die Geierwally (La Wally dell’avvoltoio) di Wilhelmine von Hillern. Wally è il diminutivo di Walburga Stromminger, una ragazza selvaggia e coraggiosa, il cui appellativo (dell’avvoltoio) le viene da una spericolata impresa – negata persino ai suoi coetanei maschi -  da lei compiuta in giovane età: quando si fece calare, appesa ad una fune, lungo una ripida parete rocciosa per raggiungere il nido di un avvoltoio che infestava la zona e metteva in pericolo le greggi. Nonostante le ferite infertele dagli artigli del volatile, l’intraprendente Wally riuscì a rimuovere il nido e addirittura si portò a casa il pulcino dell’avvoltoio, allevandolo come animale domestico! Ecco perchè nelle raffigurazioni dell’epoca lei compare con l’avvoltoio sulla spalla:


Questi particolari non trovano alcun riscontro nel libretto, che invece riporta abbastanza fedelmente l’impresa di Hagenbach, che da solo ha abbattuto un grosso orso, e che si presenta come l’eroe accanto all’eroina Wally.

Il libretto, come quasi sempre accade, diverge dal romanzo, in particolare nella conclusione: nell’originale Wally e Hagenbach vivono felici e contenti... anche se per poco (moriranno insieme, non viene detto come) mentre l’opera termina con la morte violenta dei due. Anche il personaggio di Afra cambia parecchio: nel romanzo alla fine si scopre che lei è sorellastra di Hagenbach, e che quindi i sospetti di Wally sui tradimenti dell’amato erano infondati. Inoltre, il personaggio di Walter è un’invenzione del librettista. Ecco, bisogna riconoscere ad Illica di aver migliorato assai il soggetto originale!

La struttura drammaturgica dell’opera richiama vagamente quella di Carmen: due atti relativamente leggeri, se non proprio da operetta, con tanto di feste paesane, canti e balli, nei quali però si creano le premesse per il successivo precipitare degli eventi, fino alla tragedia conclusiva. Altra lontana rassomiglianza è quella fra la protagonista Wally e la futura Minnie di Puccini: si tratta di due ragazze piuttosto autoritarie e guarda caso l’ingresso in scena di entrambe avviene giusto in tempo per sedare una rissa fra maschi! Anche qui abbiamo un personaggio en-travesti: Walter, una specie di Cherubino cresciutello.

Musicalmente parlando, l’opera (siamo nel 1892) risente abbastanza dell’esperienza wagneriana: i cosiddetti numeri chiusi vi sono banditi in favore di un continuo svilupparsi delle melodie. Non mancano (ma nemmeno in Wagner!) brani che surrogano arie o ariosi o romanze: la ballata di Walter, il racconto di Hagenbach, la famosissima Ebben? Ne andrò lontana, ancora Schiavo dei tuoi begli occhi di Gellner, i monologhi di Wally del terzo e quart’atto, l’estremo omaggio di Hagenbach, sono pagine che emergono come... picchi alpestri dalla pianura sottostante.  

Nessun impiego strutturato di Leit-motive o surrogati; solo in un paio di circostanze udiamo ricomparire motivi già ascoltati: la cadenza dell’Ebben? Ne andrò lontana, che si riode alla fine del terz’atto, al momento della riconsegna di Hagenbach ad Afra da parte di Wally; e un motivo del walzerino del second’atto che riaffiora nel preludio dell’atto finale.

I personaggi sono assortiti secondo i classici canoni del melodramma ottocentesco: soprano drammatico e tenore eroico nei due ruoli principali; baritono e mezzosoprano come terzi incomodi e/o guastafeste fra i due; bassi nei panni di un genitore burbero e di un vecchio impenitente; un sopranino a incarnare il ruolo del menestrello amoroso.

Certo l‘ispirazione e la vena melodica non sono quelle dei Mascagni o dei Puccini, e forse questo spiega perchè, dopo il successo iniziale, l’opera negli ultimi decenni sia stata assai più rappresentata all’estero e in particolare nei paesi di lingua tedesca che non qui da noi. 

Compagine musicale cosiddetta di provincia: ma mai come in questa circostanza l'attributo potrebbe essere un complimento. A partire dall'Orchestra (ORER) fatta di ottimi professori (per esempio: corni e legni) ma anche ben compatta ed agguerrita nell'insieme; un concertatore di tutto rispetto (Francesco Ivan Ciampa) che interpreta con gusto e senza sbracamenti una partitura solo apparentemente facile, ma piena di raffinatezze timbriche ed armoniche; e il coro del Municipale di Piacenza (Corrado Casati) che sfoggia bella compattezza musicale (oltre a quella fisica da scatola di sardine in cui lo costringe il regista!)

Cast bene assortito, fatto da interpreti già navigati e da altri scesi in acqua da meno tempo. La protagonista Wally (Saioa Hernandez) sfoggia un gran vocione drammatico, forse un po’ artificialmente gonfiato e quindi opaco nei centri ma con acuti staccati con sicurezza; buona anche la sua versatilità espressiva, necessaria per interpretare un personaggio dalla natura così poliedrica come quella della ragazzona esuberante ma anche capace di toccanti accenti lirici e di sentimenti profondi. Dovrà ancora studiare parecchio, ma si vede chiaramente per lei un futuro promettente.

Hagenbach è Zoran Todorovich, anche lui dotato naturalmente di voce di gran spessore e volume, proprio da Heldentenor: voce ancora da mettere sotto controllo e da impiegare con più espressività e varietà di accenti... insomma un futuro (se ben coltivato e programmato) da Siegfried!  

Il navigato Claudio Sgura impersona il complessato Gellner; di lui ripeto ciò che già ho scritto in passato: gran vocione gestito però approssimativamente e con tendenza continua all’eccesso di forzature con perdita di rotondità e morbidezza. Insomma, fin troppo truce e ruvido, il che mette un po’ in ombra il lato più lirico del personaggio.

Apprezzabile il Walter di Serena Gamberoni: voce appropriatamente leggera ma non pigolante, portamento sicuro e grande espressività, emerse già da subito nella romanza di esordio. Qualche vetrosità negli acuti non inficia la sua positiva prestazione.
 

Di buon livello i tre comprimari (che cantano part-time ma hanno parti non proprio secondarie). Stromminger è Giovanni Battista Parodi, voce ben impostata e passante; l’altro basso (Il Pedone di Schnals) è un efficace Mattia Denti, capace di esprimere gli accenti vuoi burloni vuoi severi del vecchio navigato; discreta anche la Afra di Carlotta Vichi, voce ben impostata e rotonda, che emerge anche dal trambusto della festa di Sölden.
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La regìa di Nicola Berloffa è tradizionale (il che per me è sempre un merito: di ambientazioni tipo scuole elementari o comunità di drogati ne abbiamo viste – per soggetti anche assai più importanti - a sufficienza) e quindi siamo in mezzo a gente di montagna (oddio, sui costumi forse i montagnoli avrebbero da ridire, nel senso che solitamente non si va in alta quota con il tacco-12... ma l’alta montagna è forse l’allegoria della solitudine della Wally e allora prendiamola per buona, ecco). Ma insomma sono cose perdonabili (caso mai si sorride un po’ sulla scena del rescue di Hagenbach, proprio da saggio scolastico) e la trama viene fuori abbastanza integra. Scene (di Fabio Cherstich) appropriate, compresa la scatola di sardine del second’atto, dove in 50 mq erano stipati tutti gli interpreti e il coro, una scena più adatta ad un barcone di quelli che purtroppo danno altro tipo di spettacolo nel Mediterraneo... Costumi (Valeria Donata Bettella) come detto, di epoca... boh, novecentesca e luci ben manovrate da Marco Giusti.    

Trovate più o meno gratuite: la Wally dovrebbe irrompere in scena (à la Minnie, come detto) scaraventando a terra Hagenbach per soccorrere il padre: invece qui la vediamo sostituita da Gellner (che forse si esercitava in vista del terz’atto...) mentre osserva da lontano. In compenso, nella scena del recupero di Hagenbach nel burrone, invece di scendere a mani nude nell’abisso, ecco che lei viene imbragata ridicolmente con una funicella e poi calata come un sacco di patate: forse il regista voleva raccontarci ciò che si legge nel romanzo e viene taciuto nel libretto, evabbè.   

A parte tutto, una proposta più che meritoria, purtroppo punita da un’affluenza di pubblico che lascia sempre più depressi.

05 marzo, 2017

Alla Scala arrivano i Maestri (2): un manifesto politico?

 

Nel testo dei Meistersinger, oltre alla problematica a lui cara (perchè fortemente autobiografica) riguardante il rapporto fra l’Artista e la Società (Religione inclusa, come testimonia il richiamo a Luther) Wagner indirizza anche (non solo) questioni di natura politica e di costume. Rimandando ad altra puntata la trattazione degli aspetti più gravi delle implicazioni politiche dell’opera, consideriamone ora altri comunque importanti.   

Come ad esempio quello che si può etichettare come la questione femminile. Essa emerge dalla natura e dalle modalità di assegnazione del premio per la tenzone canora che si dovrà tenere durante la festa di SanGiovanni. Il premio per il cantore che sarà giudicato (dai Maestri) vincitore è nientemeno che... una ragazza! E qui parrebbe di essere nella barbarie più totale: altro che donna-oggetto, qui si tratterebbe addirittura di donna-oggetto-di-regalo. Però il padre della ragazza (il ricco orafo Veit Pogner, ideatore della geniale trovata di mettere la figlia Eva in palio in una specie di riffa) prova a riportare tutti alla... civiltà, affermando che l’ultima parola spetterà comunque alla stessa Eva: la quale dovrà dare il suo assenso ad essere consegnata in premio al vincitore, ma sarà libera anche di non darlo. Tuttavia, in quest’ultimo caso, lei non potrà scegliere per sè un altro, al posto del vincitore. Come dire, non esageriamo con le libertà concesse alle donne!  

Beh, qui davvero la cosa assume caratteri paradossali, e la congrega dei Cantori, riunita per giudicare in via preliminare eventuali pretendenti, non manca di farlo notare al buon Pogner: ma come, allora a che serve il severo giudizio degli esperti (i Maestri, appunto) se poi esso può essere disconosciuto da una ragazza qualunque? Il più infervorato su questa critica è Sixtus Beckmesser, Cantore e addirittura Censore (Merker, colui che segna gli errori dell’aspirante cantore) ma allo stesso tempo pretendente alla mano di Eva e concorrente alla tenzone (accipicchia, che bel conflitto di interessi!): lui è convinto di vincere la prova e questa libertà di rifiuto concessa alla ragazza non gli va per niente giù (anche perchè lui non è propriamente un giovanotto di bell’aspetto, ma un uomo ormai avviato alla mezz’età, assai poco attraente, e già paventa il rischio di cader vittima del diritto di veto concesso ad Eva).

A questo punto ecco la proposta semplicemente rivoluzionaria di Hans Sachs, il grande saggio: invece di far scegliere il vincitore alla ristretta cerchia dei Maestri, facciamolo democraticamente scegliere al popolo! Questa proposta suscita quasi lo sdegno dei Cantori: ma come, la gente comune adesso diventa giudice ultimo su materie che sono di esclusiva pertinenza degli addetti-ai-lavori? Di questo passo, dove andremo a finire? Come si vede, certe problematiche non sono nate ieri mattina con l’impiego del web per assumere, o ratificare, decisioni della massima portata! Peraltro anche questa proposta di Sachs sembrerebbe fare acqua, poichè implicherebbe che comunque Eva debba accettare una decisione di altri, sia pure del popolo. E allora Sachs cerca di rimediare, con un’affermazione gratuita o tendenziosa: il popolo di certo starà dalla parte della ragazza (!? mah... neanche si fosse al Festival di Sanremo!) Ohi ohi, qui non ci si raccapezza più: allora è la ragazza che sceglie e il popolo ratifica? E quindi che ci stanno a fare i Cantori? Rottamati in blocco?

Visto che la proposta di tirare in ballo il popolo non passa, relativamente al caso-Eva, ecco che Sachs la reitera in una luce assai più politica: la corporazione dei Cantori (oggi andrebbe di moda chiamarla casta) farebbe bene ogni anno a verificare il supporto del popolo, proprio per evitare di rinchiudersi in se stessa, perdendo quindi il contatto con la realtà. Ecco, questa sì che è una considerazione davvero seria e di grandissima attualità! (Ovviamente la casta non ne vuol sapere...)  

Il finale metterà ogni cosa al suo posto, ma al prezzo di una cinica rottamazione (quella del povero e solo Beckmesser, vittima designata sull’altare della presunta innovazione) che il popolo condanna senza appello, per preferirgli Stolzing, la cui arte pur fatica a comprendere (così come nella prova del prim’atto era accaduto ai Maestri) ma dalla quale è epidermicamente ed emotivamente affascinato. 

E lo stesso Stolzing, cui di diventare Maestro non importava un fico secco (il suo unico obiettivo era farsi la bella e giovine Eva... dopodichè aveva spudoratamente mentito a Pogner – scena terza del primo atto – giurando di essere venuto in città proprio per amore dell’arte canora!) si vede ora trascinato in un ingranaggio più grande di lui, la politica! Lui diventa in effetti l’incarnazione della massima gattopardesca del potere: cambiar tutto perchè nulla cambi!
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Cosa c’è dietro il quadro che Dürer non ha mai dipinto?

Nella prima scena dell’opera, in chiesa, veniamo a sapere che Eva e Walther si sono già visti la sera prima, quando il giovin cavaliere di belle speranze, appena arrivato a Norimberga dalla campagna, ha fatto visita a casa Pogner (per la verità per ragioni assai prosaiche: farsi aiutare dall’orafo a vendere un suo podere). Adesso lui è invaghito di lei e glielo dice apertamente; ma anche lei ne ricambia i sentimenti, arrivando a confessargli (a proposito del premio alla gara di canto) Voi o nessuno! E subito dopo spiega a Magdalene come Walther le abbia a prima vista ricordato un’immagine di David. Ah sì, Re David, quello dipinto sullo stendardo dei Maestri Cantori (di cui era patrono) con la lunga barba e nell’atto di suonare l’arpa... sentenzia sicura Magdalene. E infatti sullo stendardo dei Maestri poteva benissimo trovarsi l’effige di Re David che compare – arpa bene in mostra - in un altare dipinto (1509-11) da Albrecht Dürer su ordinazione del facoltoso commerciante norimberghese Matthäus Landauer:

 
(E non a caso, nel Vorspiel, l’arpa entra in campo proprio ad accompagnare il tema dei Maestri!) Ma Eva la smentisce decisamente: no, no, io parlo del David che ha abbattuto Golia con una pietra, quello con la spada al fianco, la fionda in mano e i riccioli luminosi, come ce lo ha dipinto il Maestro Dürer!

Effettivamente sarebbe grottesco che il giovane Walther (probabilmente imberbe, o con pizzetto... da sparviero e di sicuro armato di spada) potesse rassomigliare a quel David attempato, lungo-barbuto, con enorme corona in testa e armato di... arpa del dipinto cui fa cenno Magdalene: assai più verosimile sarebbe la rassomiglianza con un David giovane, esuberante e con i capelli al vento...

Ma però c’è un però: Dürer – e questo è assolutamente accertato - non ha mai dipinto un David come lo descrive Eva!

E allora cosa dobbiamo pensare? Ad un abbaglio di Wagner, che di certo conosceva il dipinto del Landauer-Altar ed ha erroneamente attribuito a Dürer anche una diversa effigie di David probabilmente opera di altro artista? Oppure che si sia proprio inventato questo quadro inesistente? E a quale pro?

Di certo questa contrapposizione assai secca (come secca è la risposta di Eva a Magdalene) fra due diverse figure di David non è casuale (spesso anche la tradizione tende a distinguere due David, quasi fossero persone diverse): il David per così dire arrivato (il Re, quello di Magdalene) è associabile ai Cantori, un’accolita di severi custodi della tradizione e delle regole, collocata quasi in un immutabile empireo (lo si vede, nell’altare, occupare con altri Santi come lui il livello superiore, paradisiaco, ai piedi della Croce e della Trinità); il David-Walther immaginato da Eva (e da Wagner, che in parte vi si riconosce, perlomeno in forza delle sue vicende giovanili) è viceversa una figura di giovane esuberante, insofferente dell’autorità e pronto a lanciarsi in imprese temerarie, sfidando ogni regola e persino il buon senso.

È questo il momento di fare una breve sosta: per tornare al quadro dell’Assunta del Tiziano, dalla cui vista Wagner racconta di essere stato fulmineamente spinto a riprendere in mano con determinazione il soggetto dei Meistersinger. Ebbene, a nessuno sfuggirà come il dipinto visto per la prima volta da Wagner a Venezia abbia un’evidente e fortissima rassomiglianza a livello strutturale con quello del Dürer, che il compositore doveva aver bene in testa da tempo: entrambi presentano, ben distinti, il piano terreno e quello celesteEcco quindi un buon motivo per rivalutare la tesi del colpo di fulmine veneziano quale stimolo al riavvicinamento di Wagner ai Meistersinger.

Ora nasce però una nuova questione: se Re David è il rappresentante dei Cantori, a quale di essi lo possiamo associare? Qui le ipotesi sono due, e piuttosto incompatibili, fra loro e con il riferimento pittorico. La prima porta evidentemente il nome di Hans Sachs, il vecchio saggio da tutti rispettato (sarà portato in trionfo alla fine). Ci sono però alcune controindicazioni: Sachs (come Walther del resto) non suona alcuno strumento (nel second’atto si esibirà come... percussionista, con il martello); poi (lo scopriremo compiutamente nel terzo atto) non è proprio così indigesto alla bella Eva (come farebbe invece intuire la reazione della giovane all’osservazione di Magdalene) che gli dichiara esplicitamente la sua predisposizione addirittura a sposarlo; infine ci sarebbe parecchia discrepanza tra la figura di Re David, fatto Santo dalla Chiesa Cattolica e quella di Sachs, che testimonierà (terzo atto) la sua incondizionata ammirazione per la figura di Martin Luther... L’altra opzione si chiama Sixtus Beckmesser! Che è l’unico in tutta l’opera a suonare uno strumento, a corde (il liuto) come l’arpa di Re David. E che è decisamente inviso alla bella Eva, come constateremo nel second’atto; peraltro sembrerebbe inverosimile che un tale personaggio possa essere collocato in una posizione così alta, in compagnia dei Santi vicino alla Trinità... a meno di non pensare che si tratti di una feroce offesa di Wagner al Cattolicesimo, la falscher wälscher Majestät contro cui Sachs si scaglierà nella sua finale perorazione!  

Sachs e Beckmesser mostrano opposte attitudini verso Walther: il Merker lo soffre come un rivale nella corsa alla conquista di Eva, e quindi cerca di tarpargli le ali fin da subito, esercitando una severità al limite dell’accanimento nel giudicare la sua prestazione nella prova del primo atto. Va però riconosciuto che, fermo il conflitto d’interessi che lo condiziona, Beckmesser non sembra sconfinare in comportamenti manifestamente fraudolenti: prova ne sia che tutti i Cantori (il solo Sachs escluso, ma compreso perfino il bendisposto Pogner) finiscono per condividerne il giudizio negativo e per decretare la bocciatura di Walther. Viceversa Sachs, che è rimasto colpito dalle qualità di Stolzing (neanche lui sa spiegarsi compiutamente perchè) diventa subito difensore e consulente del giovane cavaliere, che probabilmente ha già individuato come suo... successore. E così, per mettere fuori gioco Beckmesser, rivale di Walther, non esita ad usare contro di lui metodi francamente carogneschi, cosa di cui siamo ben testimoni nel second’atto.

Insomma, la conclusione della vicenda viene pilotata da Sachs in modo non proprio cristallino, e del resto il finale dell’opera ci proporrà una gattopardesca morale della favola: l’establishment che eleggerà (e col furor di popolo!) a suo nuovo rappresentante, erede e custode della tradizione, lo scapestrato e recalcitrante giovane che era arrivato a Norimberga con la spada al fianco e tutt’altre idee in testa.

Ecco, Walther, cooptato da Cantori e popolo, prende il testimone direttamente da Sachs, con Eva al suo fianco: una conclusione rassicurante, nel pieno rispetto del principio di evoluzione e non di rivoluzione. Quindi tipicamente conservatrice, per quanto illuminata e non certo reazionaria.

Proprio come accadde per la musica di Wagner, spintosi fino al limite massimo dell’evoluzione della tonalità, senza mai (nemmeno e menchemeno nel Tristan) varcarlo. In fondo, anche per lui le barricate di Dresda del ’48 erano ormai lontane, nella sua vita era appena piovuto dal cielo tale Ludwig II, in casa gli era piombata la sua Eva Cosima... e all’orizzonte cominciava a profilarsi un tempio tutto suo, con annessa dépendance: Bayreuth!   
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P.S.
La faccenda del quadro inesistente è stata studiata (e in certa misura spiegata, a discolpa di Wagner) da una studiosa della Columbia University: Lydia Goehr, inglese di nascita ma figlia di musicisti tedeschi, che ha esposto i risultati delle sue ricerche in un saggio (di lettura non proprio eccitante...) In poche parole, l’immagine di David descritta da Eva non sarebbe stata dipinta, bensì... descritta da Dürer.
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(continua...)

03 marzo, 2017

Alla Scala arrivano i Maestri (1): da cosa furono ispirati?

 

Wagner stesso ha ricordato, nella sua autobiografia (dettata, come sappiamo, a-posteriori alla seconda moglie Cosima) le circostanze che lo portarono, dal 1862, a riprendere decisamente in mano (per completarlo poi nel giro di 4-5 anni) il soggetto dei Meistersinger che lui aveva già preso in considerazione, sbozzandone i contenuti, durante un periodo di cure termali a Marienbad, nel lontano 1845.

L’ispirazione – così leggiamo nell’autobiografia – gli venne durante una visita a Venezia (1861, successiva al tragicomico fallimento parigino di Tannhäuser) dove era stato ospite dei coniugi Wesendonk (Otto e Mathilde) i quali – piuttosto inaspettatamente, per la verità, viste le circostanze abbastanza... ehm... scabrose che avevano provocato la loro brusca separazione più di 3 anni avanti – lo avevano invitato a raggiungerli in laguna. E durante quel soggiorno Wagner fu accompagnato dai coniugi zurighesi a visitare il Museo dell’Accademia, dove potè ammirare un quadro famoso, colà allora esposto: l’Assunzione della Vergine del Tiziano.


Per qualche insondabile motivo (ma forse una spiegazione c’è...) la vista di quel dipinto gli risvegliò il desiderio di Meistersinger, e così già nel (peraltro prematuro...) viaggio di ritorno (a Vienna) Wagner cominciò ad occuparsi seriamente della sua nuova opera, addirittura sbozzandone completamente il Vorspiel! Insomma, parrebbe proprio una specie di colpo-di-fulmine provocato dalla visione di un quadro.

E di fatto questa spiegazione è stata sempre presa per buona da (quasi) tutti i commentatori e critici musicali (a cominciare dall’informatissimo Westernhagen, per finire al nostro Massimo Mila) ed ancor oggi viene normalmente accettata e riproposta in esegesi o articoli di presentazione dell’opera.

C’è però chi ne contesta la verosimiglianza, facendo notare l’estraneità del soggetto del dipinto veneziano rispetto a quello della commedia brillante che Wagner aveva in testa - il che renderebbe assai labile o poco credibile un nesso di causa-effetto fra la vista dell’uno e il rinnovato interesse per l’altro. Inoltre andrebbe ricordato che Wagner era ancora alle prese con Tristan, già completato ma sempre in attesa di poter essere rappresentato da qualche parte (e infatti lui era in quel periodo a Vienna proprio per tale motivo). In più, aveva sempre da tornare al suo Siegfried, abbandonato da ormai 5 anni sotto un tiglio (e proprio a seguito di quello scabroso affaire con la bella e raffinata Mathilde). Insomma: non era per nulla a corto di impegni della massima portata, tali da riempire la sua agenda e la sua mente.

Nel suo libro Il dio Wagner e altri dei della musica (Rusconi, 1980) Teodoro Celli, sommo esegeta wagneriano, ha invece avanzato un’ipotesi (per lui) assai più credibile e comunque suggestiva, ricordando un particolare piuttosto... piccante (La vendetta di Re Marke). Bisogna fare qui un passo indietro, agli anni della permanenza di Wagner presso i Wesendonk a Zurigo: quando il musicista si era a tal punto infatuato della moglie del padrone di casa da piantare in asso il Ring per buttarsi a corpo morto nel Tristan, e da mettere a repentaglio il suo stesso ménage familiare (la moglie Minna aveva scoperto la tresca – non si sa se solo platonica – fra i due e se n’era tornata in Germania). Ma la cosa aveva avuto effetti piuttosto seri anche sull’unione dei Wesendonk, e pare che fra i due – e per iniziativa di lei - si fosse interrotto ogni rapporto sessuale (avevano già avuto quattro figli, dei quali due morti prematuramente) cosa nota a Wagner stesso, che vedeva in ciò la possibilità di tornare accanto alla sua Mathilde, per la quale non aveva per nulla sbollito la sua infatuazione.    

L’invito dei Wesendonk a Venezia lo aveva perciò colto di sorpresa, e non sapeva cosa aspettarsi: non è escluso che gli fosse balenata in testa persino una pazza speranza... E invece – ma guarda te che sorpresa! – Otto Wesendonk gli presenta la moglie con tanto di pancione! Ed entrambi i coniugi – leggiamo nell’Autobiografia - ...pareva si fossero proposti di scacciarmi i grilli dal capo facendomi partecipare alle loro delizie. A dimostrazione della ritrovata armonia coniugale. Insomma (cito sempre Teodoro Celli) ecco qua Marke che mostra a Tristan un’Isolde che gli sta dando felicemente un erede

E, quasi a volersi far perdonare, è proprio lei a suggerirgli (a mo’ di chiodo-scaccia-chiodo) di rimetter mano ai Meistersinger. Nei quali, allorquando Hans Sachs confessa alla giovane Eva, che gli ha appena fatto il più bel complimento, che lui non intende darvi seguito, Wagner mette in bocca al protagonista una frase sibillina: Hans Sachs war klug und wollte nichts von Herrn Markes Glück. Tradotto (da Guido Manacorda): Hans Sachs fu saggio e non volle niente della fortuna di Sire Marco. Ma perchè parlare di fortuna (o anche: felicità) di Marke, quando nel Tristan non ve n’è traccia alcuna? C’è forse un’allusione (conclude Teodoro Celli) a quella esibita a Venezia da Otto Wesendonk? Allusione confermata dal nome dato dai coniugi svizzeri al bimbo che Mathilde si portava in pancia: Hans!  

E così paradossalmente la bella Mathilde fu la causa, più o meno involontaria, della nascita di due autentici capolavori: il Tristan prima e poi, quasi per contrappasso, i Meistersinger!



Beh, una tesi convincente, poco da dire. Ma che forse non smonta del tutto quella tradizionalmente accettata, il colpo di fulmine di fronte all’Assunta. Sappiamo che Wagner in realtà non aveva mai smesso di pensare al soggetto dei Cantori, e non è escluso che già vi avesse associato un’immagine a cui farà riferimento (implicito, ma chiarissimo) nel testo dell’opera: quella di un altro dipinto, il Landauer-Altar di Albrecht Dürer.  
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(Ma ne riparliamo alla prossima puntata...)

2017 con laVerdi – 10


Riecco Zhang Xian sul podio de laVerdi per un concerto tutto russo, con una quasi primizia (per l’Orchestra) seguita da un autentico cavallo di battaglia.

Ecco quindi l’apertura con il Prokofiev della difficile, ostica e poco eseguita Sesta Sinfonia. Composta poco dopo la splendida Quinta, alla fine della WW2, e presentata a Leningrado dal fido Mravinsky nel 1947, godette un immediato quanto effimero successo di pubblico e critica, presto annullato dall’inappellabile e sommaria sentenza di Zhdanov&C: formalismo antisovietico!

Per gli ottusi censori di Stalin tutto ciò che tovarisch Stakanov non riusciva a canticchiare e fischiettare dopo il primo ascolto era musica degenerata e chi l’aveva composta meritava il disprezzo e magari il gulag... E guarda caso la Sesta è musica non orecchiabile, in gran parte cupa, tetra, sofferta.

La stessa struttura formale è piuttosto indecifrabile: a parte i tre soli movimenti (e questo sarebbe il meno) l’iniziale Allegro moderato appare di difficile inquadramento, a prima vista sembra la pura giustapposizione di tre temi che vengono presentati in successione, e poi riproposti ancora: molto labilmente vi si può riconoscere un simulacro di forma-sonata, oltretutto assai eterodossa dal punto di vista dei rapporti tonali. Il secondo tema tornerà poi ciclicamente, ma apparentemente avulso dal contesto, proprio nelle battute finali della sinfonia.   

Ecco come ce la propone Evgeny Mravinsky in una registrazione fatta precisamente a 20 anni di distanza dalla prima, sempre con la sua Filarmonica di Leningrado.
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L’iniziale Allegro moderato (6/8 – 9/8 – 4/4 in MIb minore) è introdotto da 10 battute di lugubri rintocchi di ottoni e archi bassi, che creano uno scenario a dir poco spettrale. Come detto, si può assai vagamente parlare di forma-sonata: esposizione dei tre temi (A, B, C), quindi sviluppo (praticamente del solo tema A) e ricapitolazione dei temi B-C-A, più una coda.

Il primo (16”) è un cupo tema in MIb minore, in violini primi e viole, che sale alla tonica partendo, contrariamente al normale, invece che dalla dominante, dalla sottodominante: LAb-SIb-DOb-MIb. Da qui la melodia si dipana con metro trocaico (semiminima-croma) alternato a terzine di crome, che le conferisce un senso di inquietudine e di instabilità. Dopo un primo intervento dei legni, che riprendono il tema in forma variata, esso viene esposto da oboe e fagotto (41”) in tonalità di LA minore, quindi a distanza di un tritono (cosa di per sè sinistra!) dal MIb di impianto.

Presto però (51”) una velocissima scala discendente dei primi violini ci riporta al MIb per un ponte dove il tema A viene rielaborato dalle diverse sezioni orchestrali sfociando (1’16”) in un insistito inciso trocaico che prelude (1’26”) al ritorno del tema A in violini primi e viole. Gli segue un nuovo ed esteso sviluppo, chiuso (2’51”, tempo Poco più sostenuto) da un’ennesima variante che rallenta il tempo fino ad introdurre (3’09”, Moderato) il secondo tema (B) in SI minore, altra tonalità piuttosto distante dal MIb d’impianto: come si vede si tratta di concatenazioni tonali che creano un’atmosfera tutt’altro che serena e rassicurante.

Questo secondo tema – esposto inizialmente per due volte dagli oboi in ottava, mutua dal primo l’andamento ondeggiante dovuto alle terzine di crome (in 6/8) che si susseguono alternate a momenti di relativa calma (battute in 9/8). Alla seconda esposizione degli oboi (3’21”) è preceduto da una scala ascendente (dalla sensibile LA alla dominante FA#) che richiama l’attacco del primo tema, con il quale questo secondo è quindi visibilmente apparentato. Un controsoggetto (3’35”) lo completa, prima che venga esposto (3’48”) da violini primi e viole e ancora (4’03”) ripreso liricamente dal corno.

Dopo un trillo sul LA grave del clarinetto, ecco (4’32”) un improvviso Allegro moderato aperto dai primi violini con veloci semicrome che salgono per quasi tre ottave dal LA grave fino al FA# acuto, dove una variante del tema A (quasi si trattasse di rondò) esplode nell’intera orchestra, per poi spegnersi a poco a poco, finchè (5’05”) gli archi bassi tornano allo stesso tema A (MIb ottenuto per enarmonia come RE#) subito reiterato con decisione e quindi ancora (5’22”) in LA# (=SOLb) fino a perdersi su una quinta vuota (MIb-SIb) di oboe, corno inglese, fagotto e archi bassi.

Ora si presenta (5’44”, Andante molto) il terzo tema (C) in 4/4, introdotto da una scansione ritmica affidata a fagotti e pianoforte. È il corno inglese (6’02”) ad esporlo insieme alle viole. Poi (6’42”) questi lo reiterano anche con l’aiuto dei primi violini, mentre l’orchestra li acccompagna con pesanti accordi. La melodia è tanto nobile quanto carica di accenti dolorosi, completando così il quadro di questo movimento che sembra parlarci di sofferenze e lutti. La tonalità è dapprima indistinta, poi il RE minore si fa avanti ed infatti ecco che (7’22”, Allegro, 6/8) in questa tonalità (ancora un’apparente bizzarria se misurata sui canoni della forma-sonata) torna il primo tema (A) negli archi.

La lunga sezione che segue è considerabile come un sviluppo di forma-sonata, poichè il tema A vi viene sottoposto a poderose manipolazioni e tutta l’orchestra ha modo di sbizzarrirsi in grandi galoppate, interrotte da squarci più lirici, ma caratterizzate da proterve scansioni ritmiche e reiterate esplosioni di rumore. Il tutto poi si placa e conduce, dopo un’oasi di calma, al ritorno (potremmo chiamarlo l’inizio della ricapitolazione?) del tema B, che riudiamo (9’58”, Moderato) nella tonalità di impianto (MIb minore, questa volta secondo i canoni della forma-sonata) esposto prima dal corno poi dal corno inglese quindi da oboi violini primi e viole, ancora da corno, ottavino e flauto.

Dopo una breve transizione si arriva quindi (11’17”, Andante molto, 4/4) alla riproposizione del tema C, nel corno inglese e nelle viole, cui poi si aggiungono violini e oboi. La tonalità vira al SIb minore e vi rimane in vista dell’arrivo (12’09”, Allegro moderato, 6/8) del tema A, che sembra prendere la rincorsa fino ad esplodere (12’21”) su un MIb armonizzato come terza di DOb maggiore! Il quale MIb si va spegnendo (12’27”) in tempo Andante verso una coda, che porta alla sommessa chiusura, nel grave, sull’accordo (inaspettato?) di MIb maggiore.

Il centrale Largo (4/4 – 3/4) reca 4 bemolli in chiave, ma certo il LAb maggiore (e meno ancora la relativa FA minore) si faticano a distinguere con chiarezza. La tonalità è sempre aspra, a causa dei cromatismi a volte esasperati e solo in un paio di occasioni si ritrovano squarci di un certo lirismo.     

Il movimento è aperto (13’16”) e sarà poi chiuso da un motivo ancora una volta piuttosto lugubre, nei legni, che scende dal MIb con saltelli cromatici e si ferma dapprima sul DO e poi su LAb. Viene ripreso (13’42”) dai violini a partire dal LAb per chiudere dapprima sul FA e ancora (14’05”) sul LAb. I temi principali sono fondamentalmente due (A e B):



Il primo (14’13”) è in carico a violini primi e tromba e si muove sempre sulla tonalità di LAb. Ancora una volta è un motivo assai poco rassicurante, intriso di cromatismi e dissonanze, che sfocia (14’40”) in un inciso dal sapore parsifaliano (Amfortas) e poi modula verso SOL minore e ripresenta (15’32”) quello stesso inciso. Poco dopo l’atmosfera si fa rarefatta e corno inglese e corni preparano l’arrivo di un secondo tema (B) anch’esso di carattere piuttosto dimesso, nobile ed austero, esposto (16’20”) da fagotto e violoncelli, in MIb e sviluppato (16’59”) dai legni fino a spegnersi su veloci figurazioni di corno inglese, fagotto e degli archi.

Un motivo apparentemente nuovo, in realtà mutuato dal tema A, compare adesso (17’32”) negli archi, in tonalità di MI maggiore, chiaro indizio di uno squarcio di lirismo e pace, dove ritroviamo (18’07”) l’inciso parsifaliano. Qui inizia però una sezione assai animata e turbolenta, caratterizzata da pesanti interventi (18’18”) di crome in fortissimo dei legni, accompagnati dal pizzicato degli archi e da secchi colpi del legno (percussione). Subito dopo toccherà ai timpani esplodere micidiali scariche di colpi, alternate ad altri secchi interventi di legni e archi, finchè (19’03”) i fagotti intervengono a calmare l’atmosfera, preparando una nuova sezione lirica di sapore mahleriano (primo tempo della settima) dominata (19’16”) dai corni in DO maggiore.

Una sommessa dissonanza (DO-SI) nei violini (20’11”) sfociante in un RE tenuto introduce isolate e rapide figurazioni (20’24”) nei legni rotte da due secchi interventi di piano-arpa e ottoni; la cosa si ripete (20’44”) per portare però (21’08”) ad una nuova oasi romantica con i corni (tonalità SIb maggiore e poi DO maggiore). E il DO supporta la ripresa (21’48”) nei violini del tema A, che è protagonista di un’autentica perorazione, culminante (22’21”) in un’esplosione di fortissimo generale, mentre i violini sviluppano la melodia passando ancora (22’55”) per la citazione parsifaliana. 

Ancora fortissimo per un passaggio a FA minore (23’01”) che poi via via si modera per riportarci (23’31”) al motivo dell’introduzione, ripreso praticamente pari-pari, nelle due sezioni, e quindi seguito da una lenta cadenza (illuminata da un rapido recitativo dell’oboe) che si spegne sul LAb.

Vivace (2/4, MIb maggiore) è il tempo conclusivo, che contrasta in modo smaccato con ciò che lo ha preceduto, tale è il brio e l’entusiasmo che lo muovono... ma vedremo che il finale ci riserverà un’amara sorpresa. Due sono i temi principali:

  
Il primo tema viene subito esposto dai primi violini (25’31”) sopra un ritmo sghembo degli altri archi. Dopo una proterva interruzione dell’orchestra, che modula plagalmente a LAb, esso viene ripreso (25’42”) in questa tonalità dal clarinetto, che gli conferisce un carattere esilarante. Un controsoggetto meno brillante (25’53”) gli subentra momentaneamente, in attesa (26’07”) di una riesposizione del tema nei violini (MIb) e (26’15”) nel clarinetto (LAb). Ora troviamo un’ulteriore modulazione a SOLb e da qui passiamo ad uno sviluppo del tema, che impegna ancora l’orchestra in ripetuti sussulti, poi torna il controsoggetto e infine somno i fagotti (26’40”) ad attaccare una melopea che fa da transizione verso il secondo tema.    

Tema B che appare (27’03”) in DO maggiore nei legni, un tema assai lungo e cantabile, che in seguito (27’37”) viene ripreso anche con il supporto dei violini primi. Un suo controsoggetto (28’06”) viene esposto da flauto e corni e ci porta alla ripresa (28’28”) del tema A in MIb nei violini e quindi (28’37”) in LAb nel clarinetto. Inizia qui uno sviluppo del tema A di notevoli proporzioni, in un’atmosfera che si è fatta più cupa e inospitale, con frequenti irruzioni di bordate di ottoni e pianoforte e ripetute apparizioni dell’inciso iniziale del tema.

A conclusione di questo sviluppo (30’36”) ecco riapparire nei legni il tema B, adesso in SIb maggiore (in luogo del precedente DO). Altra modulazione (30’55”) del tema B a SOLb maggiore e poi ecco una vera e propria scena-madre: a 31’19” si torna a SIb maggiore, dove il tema A nei violini si contrappunta mirabilmente con il tema B in tromba e corni! Poi, mentre i violini insistono con le veloci semicrome del tema A e i corni si limitano a brevi e sporadici interventi, i legni sparano alcune rapide discese in staccato, fino a chiudere questa sezione con il ritorno al MIb maggiore di impianto.

Il tema A (31’54”) è ora esposto dall’intera orchestra, con grande corposità di suono e poi ripetuto (32’03”) nella sottodominante LAb. Ancora i corni (32’14”) ad esporre un controsoggetto assai ampio, contrappuntato poi (32’25”) di violini. Il tema A (32’39”) viene poi a lungo sviluppato, con irruzioni dei legni e velocissime discese degli stessi supportati dal pianoforte. Ancora una pesante transizione (32’58”) affidata agli ottoni, poi (33’23”) sono i fagotti, cui si aggiunge il clarinetto basso, a guidare una lenta cadenza che porta ad un allargando dove il suono si spegne su un FA in corona puntata.

Adesso (33’57”) ecco ciò che il cipiglio del Vivace non lasciava presagire: gli oboi  (Andante tenero) raggiunti poi dal corno inglese e ancora dopo dai flauti, ripropongono mestamente, in MIb minore, il tema B del movimento iniziale! Su un tremolo di SIb minore (34’52”) di violini secondi e viole si stagliano ancora due incisi di oboi e corno inglese, poi (35’09”) altro tremolo (SOLb) e i legni scagliano un nuovo lancinante urlo, virando a MI naturale, il tutto ripetuto dopo una pausa.

Torna (35’43”) il tempo Vivace, come prima, ma come prima per nulla allegro e sereno: dopo una carica crescente di archi bassi, legni, poi ottoni e quindi archi, ottoni e pianoforte, ecco (35’59”) un’autentica esplosione di tutta l’orchestra, un caduta inarrestabile che sfocia su secche semiminime di ottoni, pianoforte e archi, seguite (36’12”) da autentiche martellate e infine da una velocissima rincorsa di legni e archi in semicrome che chiude la sinfonia su un incredibile schianto di MIb maggiore!
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Che dire? Pessimismo mescolato a pazzia? Dolore invano esorcizzato con risate isteriche? Schizofrenia galoppante? Tutte spiegazioni extramusicali, ovviamente, buone per un poema sinfonico, forse. I suoni, se ascoltati senza pregiudizi o aspettative socio-filosofico-letterarie, lasciano francamente (parlo per me, natürlisch) una sensazione di incompiutezza e forse di impotenza creativa, ben mascherate dalla proverbiale maestria dell’Autore nell’impiego della tavolozza sonora.

La Sinfonia non è fra i cavalli di battaglia de laVerdi (un paio di isolate esecuzioni in tutta la sua storia ulraventennale) e anche la Xian non deve averla diretta molto. Tuttavia mi è sembrata un’esecuzione assolutamente apprezzabile, che il pubblico ha accolto con sufficiente calore, anche se senza entusiasmi da stadio, ecco...
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Ben diverso il discorso su Shéhérazade (qui alcune mie vecchie note in merito) che i ragazzi conoscono a meraviglia, a partire dal protagonista (en-travesti...) Luca Santaniello, che ogni volta aggiunge qualche particolare tocco di espressività ai suoi... racconti volti ad imbonire lo sbifido sultano. E poi, diciamolo pure, questo Rimski non pone certo all’ascoltatore problemi di decifrazione dei contenuti musicali! Così ecco un’altra grande prestazione di tutti e il ritorno... dell’entusiasmo in platea.

01 marzo, 2017

Alla Scala arrivano i Maestri (0)

 

Dal 16 c.m. e fino al 5 aprile la Scala ospiterà sette recite dei colossali Meistersinger, che mancano dal Piermarini da praticamente 27 anni (Wolfgang Sawallisch, ‘90). E 28 anni avevano separato quella produzione dalla precedente (Karl Böhm, ‘62) arrivata solo 10 dopo quella del denazificato Wilhelm Furtwängler (’52).

Dopo un’eternità torna sul podio per dirigere questo mastodonte un Maestro italiano, Daniele Gatti. Prima di lui si deve risalire a Toscanini; ma italiano era stato il Direttore della prima scaligera: Franco Faccio, a SantoStefano del 1889, con versione ritmica in italiano di Zanardini e abbondanti tagli operati da tale Giacomo Puccini (! ideona per Chailly: riesumare quella versione per un prossimo SantAmbrogio!)

Si tratta quindi di un autentico evento (non ne capitava uno simile dal 2013, anno del bicentenario wagneriano, con le due edizioni compatte del Ring di Barenboim-Cassiers) che merita quindi qualche nota di presentazione. In questa e nelle prossime puntate del post mi occuperò di alcuni aspetti extra-musicali, curiosità o leggende metropolitane che circolano da sempre su quest’opera.

A cominciare dalle circostanze che spinsero Wagner a tornare a 16 anni di distanza su un soggetto immaginato già nel 1845; per passare ai problemi di natura politica (o para-) che il testo presenta: conservazione vs innovazione, élites vs popolo; e poi alle accuse di proto-nazismo e apologia di antisemitismo che sono state mosse all’opera; e alla tanto controversa citazione di Rossini.

Ma a proposito di ricorrenze, nel 2017 cade nientemeno che il 500° anniversario della nascita della Riforma luterana: precisamente il 31 ottobre del 1517 Martin Luther espose su questo portale della Schlosskirke di Wittenberg le sue rivoluzionarie tesi:


Ebbene: Luther è uno dei... personaggi dei Meistersinger! No, non sentiamo cantare lui, ma ne sentiamo cantare dal popolo le lodi che l'Hans Sachs storico scrisse al suo indirizzo l’8 luglio 1523. È il famoso Wacht auf! (Risvegliatevi!) che apre Die wittenbergische Nachtigall, nel quale Luther viene poeticamente dipinto come un usignolo il cui canto ormai si spande in ogni dove, mentre sul mondo intero spunta una nuova alba rosseggiante:


Wagner musica i primi otto (dei 700) versi del poemetto, che già contengono spunti piuttosto evidenti: la notte (Chiesa romana) e il giorno (la Riforma). Segue un’allegoria che descrive il gregge (la cristianità) che si fa abbindolare di notte dal chiarore lunare (ingannevoli sofisti) e abbandona l’ovile per andarsene nella giungla dietro ad un leone (il Papa!) Il leone comincia ad ammazzare molte pecore, finchè l’usignolo (Luther) sveglia il gregge dalla sua cecità, il che manda il leone su tutte le furie: così chiama a raccolta tutti gli animali più immondi (asini, maiali, capre, gatti, lumache, rane, oche selvatiche) per cercare di tacitare l’usignolo; ma esso continua a cantare e all’arrivo del giorno il gregge può tornare all’ovile! 

La compagnia dei Maestri Cantori è formata da 12 individui, i cui nomi Wagner prese di peso da un trattato secentesco di Johann–Christoph Wagenseil:

Come si vede, a parte qualche differenza grafica e al cantore Zorn, cui Wagner mutò il nome da Friz a Balthasar, sono precisamente gli 11 nomi che Kothner chiama nell’appello del primo atto. Uno di costoro, precisamente Niclaus Vogel risulta assente perchè malato, e quindi non ne risentiremo più parlare. Di fatto il suo posto fra i 12 lo prende Hans Sachs, che nella lista di Wagenseil manca perchè vissuto posteriormente agli altri (ma è comunque ampiamente citato in altre parti del testo). Il quale testo riporta inoltre le regole formali dei canti (il Bar, costituito da due Stollen e un Abesang) e poi elenca minuziosamente ben 33 (quanti gli anni di Cristo!) tipi di errori che contravvengono alle regole della Tabulatur. Poi ecco un interminabile elenco di 223 arie dei Maestri (David nell’opera ne cita – pur prolissamente - solo una piccola parte, quanto basta a spaventare Stolzing): si va dalle semplici canzoni con 5 rime fino alle più complesse, con 34 rime, una delle quali ultime è proprio di Sachs! E non manca la minuziosa descrizione dell’interno della chiesa di Santa Caterina dove si svolgevano le prove e gli esami per gli aspiranti cantori; e come l’aspirante cantore venisse giudicato da ben 4 Merker (Kothner ne nominerà solo uno – Beckmesser - essendo il soggetto della canzone di Walther di natura non religiosa, ma laica!) Tutti concetti e oggetti ripresi puntualmente da Wagner nella sua opera. 

Più labili e tutto sommato superficiali sono invece i legami fra i Meistersinger e l’opera comica Hans Sachs di Albert Lortzing (a sua volta ispirata al lavoro teatrale di pari titolo dell’austriaco Johann Ludwig (Ferdinand) Deinhardstein) che Wagner certamente conosceva, ma dal cui soggetto si discostò assai, a cominciare dalla figura centrale di Sachs, che da giovane e ambizioso personaggio qual’è in Lortzing si trasforma con Wagner in un grande saggio (e pure... paraculo!) Piuttosto, a proposito di Sachs, la sua accorata esternazione (”Wahn! Wahn! Überall Wahn!”) sembra proprio anticipare, in versione seriosa, il verdiano “Tutto nel mondo è burla!” 
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(continua...)