affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

14 dicembre, 2014

Fidelio: dal vivo è un filino meglio…

 

Ieri sera la terza di questa Leonore (sì, tanto vale cambiarle anche il titolo, operazione filologicamente più corretta di quella di cambiarle… l’Ouverture, smile!) Per l’occasione è tornato il titolare Florestanino Vogt dopo la parentesi (a sorpresa, pare assai gradita dal pubblico della seconda, e che è servita al Sovrintendente entrante per darsi grande lustro) del bel Jonas.

Ormai si è detto e scritto tutto di questa apertura di stagione, che sembrerebbe aver capovolto le recenti usanze (contestazioni del loggione e peana della critica paludata): a SantAmbrogio2014 solo applausi anche dal loggione, mentre dai critici solo… critiche (o quasi: personalmente ricordo un’unica eccezione in Gavazzeni sul Giornale). La costante sembrerebbe quindi da individuare nella cronica opposta ricezione dello spettacolo da parte di loggionisti e critici, quasi a prescindere.   

Poi c’è anche chi, come il sottoscritto, ha invece criticato sia le inaugurazioni recenti (Traviata, Lohengrin, DonGiovanni, per restare all’ultima terna) che questa: magari con argomentazioni diverse e riguardanti diverse componenti dello spettacolo.

La visione/ascolto del 7 in TV mi aveva fatto un’impressione decisamente negativa sul lato suoni e, diciamo così, neutra su quello dell’allestimento teatrale. Ecco, la fruizione live ha – appena appena – migliorato il mio giudizio sulla parte musicale e non è servita a migliorarlo su quella registica. Insomma: questo Fidelio per me resta una mezza delusione.

Barenboim conferma il suo approccio all’opera: che affronta come fosse… Parsifal (smile!) Già nell’Ouverture l’Adagio diventa un Largo e l’Allegro un Andante, e così via degradando: tutta la freschezza mozartiana di cui Fidelio è ricco, soprattutto nel primo atto, si perde così in uno stracco e uniforme tran-tran (non è il caso che l’atto duri quasi un’ora e mezza!) Un filino meglio il secondo atto, stante la componente altamente drammatica, ma in complesso la lettura del sostituendo Direttore Musicale non mi ha per nulla convinto. L’orchestra invece non si è comportata male (perdoneremo la tromba che – dislocata probabilmente in loggione nell’Ouverture – ha sfornato due strafalcioni in sole sei battute del secondo richiamo).

Sul fronte delle voci, pessime notizie da Mojca Erdmann e Florian Hoffmann (Marzelline e Jaquino) che evidentemente alla radio-tv si sentivano per via della collocazione… laringea del microfono (smile!) Che poi il pubblico li abbia applauditi quasi con lo stesso calore riservato a Youn, Vogt e alla Kampe la dice lunga sulle illimitate possibilità di rifilargli impunemente (al pubblico) qualunque bufala.

Ecco, la Anja Kampe ha confermato (alle mie orecchie) i limiti che già parecchi anni fa (con Abbado) aveva denunciato: difetto di potenza in particolare nella cosiddetta ottava bassa, dove è risultata poco udibile. Sugli acuti così-così, mescolando cose dignitose ad urletti che è difficile dire se emessi a bella posta per sottolineare frangenti drammatici, o… a bella posta per mascherare delle deficienze congenite. Per me, un voto appena appena sufficiente.

Una sufficienza più ampia darò alla voce sempre efebizzante (si può dire?) del redivivo Klaus Florian Vogt, che però ha almeno il pregio di farsi sentire benissimo e di avere ottima intonazione.

Kwangchul Youn è uno che in teatro ci guadagna, rispetto alla radio, che tende ad ingrossarne la voce (sempre per via dei microfoni, immagino). Forse non è un basso profondo, ma il ruolo di Rocco non è mica detto che tale debba essere per forza.

Il Pizarro di Falk Struckmann tende pericolosamente allo schiamazzo, e come al solito gli andrebbe ricordato che il cattivo non è autorizzato anche ad essere cattivo cantante, anzi! Peter Mattei fa il suo compitino (cammeo, si dice in gergo) con diligenza ed è quanto basta. Il Coro di Bruno Casoni mi è parso migliorato rispetto alla prima, e bene hanno fatto i suoi due membri (Oreste Cosimo e Devis Longo) chiamati a parti solistiche nel primo atto.

A proposito di udibilità, quasi nulla si è sentito delle parti parlate: qualcuno potrebbe concludere con un grandissimo chi-se-ne-frega (tanto nessuno capisce il crucco e anche se lo capisce chi se ne frega lo stesso perché non è cantato…) Allora però andrebbe riconsiderata la decisione di continuare a proporre (sia pure ampiamente mutilati) questi residui obsoleti del Singspiel!

La regìa della Deborah Warner guadagna poco rispetto alla ripresa TV (che ha il vantaggio, se usata sapientemente, di alternare primi piani a campi lunghi). Al di là di tutte le dotte spiegazioni filo-socio-antropologiche, si tratta di una pura e semplice lettura del libretto, il quale presenta un soggetto archetipico, ergo facilmente trasportabile sotto qualunque tempo e latitudine. Quindi la Warner, come si dice in gergo, ha solo fatto il suo dovere, mettendoci poi qualche puerile ingrediente di attualità: costumi casual e strumenti di lavoro da oltre-cortina-anni50. Se c’è una critica seria da fare all’allestimento è probabilmente il suo costo: secondo me, ogni euro speso in più di 100.000 è stato buttato al vento (e sono soldi nostri!)

Sembra un paradosso, ma uno dei pochi pregi di questa produzione è la rinuncia all’inserimento della Leonore3 prima dell’ultima scena: a parte che non avrebbe avuto senso a fronte della scellerata decisione del Direttore di cambiare l’Ouverture, ma almeno ci ha permesso di apprezzare la grande efficacia drammatica del finale così come mirabilmente concepito – e con quale fatica! - da Beethoven. Non saprei dire se l’unico, isolato buh che è arrivato dal loggione al calar del sipario fosse per Warner o Barenboim (che però all’uscita ha ricevuto solo applausi).  

Tirando tutte le somme, siamo alle solite: con i costi e la prosopopea della Scala abbiamo uno spettacolo di livello non superiore a quello di molte produzioni cosiddette provinciali. Con le tutte le risorse che ci si investono, si avrebbe il dovere di dare di più.

12 dicembre, 2014

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 13


Zhang Xian torna a guidare la sua Orchestra nella prima di due kermesse tutte ciajkovskiane. Questa è decisamente musica classico-leggera, come titolava un’antica collana editoriale che personalmente contribuì (appunto, nell’antichità…) a farmi avvicinare alla musica nobile (!)

Si comincia con due ballabili (smile!) dall’Onegin. Il walzer è quello piuttosto casereccio che si suona, si balla (e si canta) in campagna, a casa della peraltro letterata (come minimo nell’accezione di scrittrice di missive…) Tatjana:


In realtà nell’opera il walzer accompagna per quasi l’intera durata il canto degli invitati, suddivisi in sezioni del coro: ospiti, vecchi gentiluomini, vecchie dame, ragazze; e poi un capitano, infine Onegin e Lenski, che proprio durante questo ballo avranno il primo attrito (a proposito di Olga). Per fortuna l’orchestra suona sempre la melodia principale, il che rende possibile l’esecuzione puramente strumentale del brano, senza fargli perdere praticamente nulla della freschezza originale.    

La polonaise invece accompagna una festa vip, dove però, guarda caso, ancora è protagonista quella medesima Tatjana, nel frattempo arrivata nei migliori salotti della città, grazie alle solite nozze d’amore di convenienza. A cui però lei attribuisce carattere sacro (ma qui non è il caso di ripetere la sinossi dell’opera…)


Questa polacca assomiglia vagamente ad altre polacche (o mazurke, che è poi quasi lo stesso, a parte sfumature di agogica): ad esempio quella che sempre mi viene all’orecchio, per simpatia, è la mazurka di Léo Delibes, dal primo atto di Coppelia:

E in effetti la velocità con cui la Xian la abborda la fa assomigliare più ad una mazurka. Calorosa accoglienza del pubblico, anche ieri non proprio foltissimo, ma quasi desideroso di stringere i ragazzi in un caldo abbraccio, dati i tempi grami che corrono…
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Però il calendario ci dice che siamo in pieno clima festaiolo, e così si prosegue con la Suite da La bella addormentata. I cui 5 numeri non rispettano per nulla la trama del balletto, ma la cosa non provoca certo alcun problema estetico.

Nel primo abbiamo la giustapposizione di due temi dal finale del prologo: quello della perfida Carabosse (la fata sbifida che scaglia la maledizione sulla povera Aurore) e della fata Lillà, che invece rintuzza, almeno in parte, quella maledizione. Il secondo è il celebre Adagio della rosa del primo atto, introdotto dagli svolazzi dell’arpa e chiuso con enfatiche perorazioni dell’orchestra. Poi dal terzo atto ecco il brevissimo intermezzo del Gatto con gli stivali. Quindi il bellissimo Panorama, dall’atto secondo (uno dei brani prediletti dal grande Vladimir Delman) e infine il celeberrimo Gran walzer campagnolo dal primo atto.

Ieri il Gatto è stato sacrificato (smile!) Il che non ha però fatto mancare applausi scroscianti per la trascinante esecuzione.
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Ora tocca al solista di violoncello Alban Gerhardt affrontare la prima delle sue due fatiche: il Pezzo capriccioso, un lavoro breve ma assai impegnativo.

La tonalità di base è SI minore, ma l’apertura è in MI, e poi ci sono ovviamente dei passaggi nella relativa RE maggiore. Curiosamente il tempo è sempre (salvo pochi e temporanei scostamenti) l’Andante con moto posto all’inizio del brano, eppure nella parte centrale (e poi conclusiva) abbiamo un deciso scatto di velocità: esso è però semplicemente determinato dall’affollarsi nel solista di successioni continue di biscrome, laddove in precedenza si toccavano al massimo le semicrome:


Chissà se fu questa parte virtuosistica del violoncello ad ispirare a Leroy Anderson, nel 1950, il suo simpatico pezzo per macchina da scrivere:

Ecco, il bravissimo Alban va davvero come un treno, superando come nulla fosse anche le difficoltà più ardite, come un trillo sul SI acutissimo, proprio a… fondo scala, dove l’esecutore rischia di impastarsi le dita di pece e di rovinare il successivo glissando. Insomma, una prova di grandissima tecnica.
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Come seconda fatica della serata Gerhardt ci propone le Variazioni rococò, nella versione realizzata, già ai tempi di Ciajkovski, da Wilhelm Fitzenhagen e dall’Autore tollerata a denti stretti. Sulle differenze fra questa versione (di gran lunga la più eseguita) e quella originale di Ciajkovski ho scritto qualcosa a suo tempo, in occasione di una precedente esecuzione qui in Auditorium.

Questo è un brano più lungo del precedente, ma con difficoltà virtuosistiche più concentrate, come la cadenza che chiude la variazione V o gli armonici fino al LA sovracuto che chiudono la VI. Gran trionfo per lui che ringrazia con un omaggio a Rostropovich. Dopodichè, proprio come aveva fatto nel 2010 dopo averci deliziato col concerto di Dvorak, si va a sedere nella seconda fila dei celli, dietro a Grigolato e a fianco di Scarpolini (le due prime parti dell’orchestra) per suonare l’ultimo brano in programma!
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Che è il… fracasso della 1812, la cosa forse più disdicevole composta da Ciajkovski, a parte proprio l’incipit dei violoncelli con l’inno Signore, salva il tuo popolo. Per il resto, musica buona magari per colonne sonore di cartoni animati, ecco. Qui si possono solo lodare i ragazzi per l’abnegazione dimostrata, come sempre. E fare a loro e a tutta laVERDI i più sinceri auguri per il futuro. 

10 dicembre, 2014

Orchestraverdi: la crisi ritorna…


Non ho bisogno di spiegare, né di commentare, ciò che si può leggere nel comunicato del Presidente Cervetti, rilasciato a margine di una conferenza stampa tenutasi stamani nella sede della Fondazione:


Milano, 10 dicembre 2014
  
L’esistenza de laVerdi è messa a dura prova dalla cronica mancanza di contributi pubblici, in particolare, statali.

Il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo non ha erogato nel 2014 neppure un centesimo del finanziamento di 3.000.000 di euro. Né è stato ancora versato un milione del contributo concordato per il 2013.

Fin dal 2008 il Ministero aveva assunto l’impegno di erogare annualmente tre milioni per l’attività de laVerdi, cifra comunque ben inferiore a quanto versato ad altre istituzioni, le quali peraltro realizzano programmi meno ampi e impegnativi di quelli de laVerdi. Nei primi undici mesi del corrente anno, vale a dire fino al 30 novembre scorso, infatti, laVerdi ha offerto al pubblico 450 iniziative, con ben 200 concerti di grande musica eseguita dall’Orchestra sinfonica e da laBarocca, a volte con la partecipazione del Coro, e 250 altre manifestazioni musicali spesso rivolte a bambini e ragazzi.

Del resto, l'entità del finanziamento pubblico non è mai stata adeguata alla dimensione nazionale e internazionale della nostra Fondazione: nel corso dei vent’anni di vita de laVerdi, tale finanziamento è stato pari al 26% dei ricavi complessivi, mentre per le Fondazioni lirico-sinfoniche esso è stato pari al 66% e quello alle orchestre in genere è stato pari all’83%.

Nel 2014, la Regione Lombardia ha stanziato 30.000 euro, la Provincia di Milano 4.500 euro. Dal canto suo, e viceversa, il Comune di Milano si appresta a dare un contributo di 500.000 euro. In totale, tuttavia, i contributi pubblici sarebbero nel 2014 pari al 15% dei ricavi complessivi. In queste condizioni è praticamente impossibile proseguire nell’azione meritoria fino qui svolta tra mille difficoltà, ma con indubbio successo.

D’altra parte, è opinione diffusa che la vita e l'attività della Fondazione sono importanti per il valore culturale, artistico e sociale che rappresentano, non solo per la città di Milano, ma per tutto il Paese, nonché per la diffusione della cultura musicale, in Italia e nel mondo.

Per questi motivi vi chiediamo di far sentire la vostra opinione al Ministro con lettere, fax ed email efirmando la petizione messa a disposizione in Auditorium e sul sito de laVerdi.

Né vogliamo cedere all’ineluttabile proprio nell’anno di Expo 2015, per la quale laVerdi è impegnata con una importante programmazione, cosicché, accanto all’opportuna e giusta iniziativa, volta a far sentire la nostra voce alle Autorità responsabili, facciamo appello ai cittadini e alle aziende perché sostengano laVerdi, aderendo alla sottoscrizione straordinaria “Con laVERDI per Milano”. A tale proposito, di seguito i riferimenti per aderire immediatamente. Per ulteriori informazioni consultate il sito www.laverdi.org o chiedete in Auditorium.

Una diffusa partecipazione a questa sottoscrizione sarà anche un elemento di stimolo verso le istituzioni pubbliche, che in tal modo dovranno capire che laVerdi è una istituzione culturale importante per Milano, attorno alla quale si manifesta un vasto consenso, morale e materiale dei cittadini.

Il Presidente
Gianni Cervetti






SOTTOSCRIZIONE STRAORDINARIA      Con laVERDI per Milano

CAUSALE:     Nome, Cognome, Con laVERDI per Milano

Bonifico bancario
Intestazione: Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi
Via Clerici 3 20121 Milano
BANCA POPOLARE DI MILANO - Agenzia 502
IBAN IT15 U 05584 01702 000000018100

Conto Corrente Postale
Intestazione: Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi
Via Clerici 3 20121 Milano
c/c postale 31776255

Il pagamento in contanti o per mezzo di assegno può avvenire
presso gli uffici e le biglietterie.

E' possibile inviare il pagamento anche per posta al seguente indirizzo:
Fondazione laVerdi - Ufficio Soci e Abbonati - Via Clerici 3, 20121 Milano

  

09 dicembre, 2014

Chiarito l’equivoco Florestan




















Certo, da un direttore d’orchestra cosa pretendere di più?

08 dicembre, 2014

La Scala vista da Parigi


La benemerita rivista L’Avant-Scène Opéra ha recentemente pubblicato un numero speciale sulla Scala.

Sono quasi 180 pagine di storia: del teatro, dei direttori, dei sovrintendenti, delle più famose rappresentazioni e prime assolute. Più testimonianze di personaggi famosi, riferimenti discografici, un'intervista a Lissner e articoli di attualità, fra i quali uno di Alberto Mattioli, che a Parigi è di casa.

La rivista è lodevolmente accessibile anche in via elettronica (download di PDF) e quindi praticamente all’istante (giusto il tempo di… digitare i dati della propria cc).

07 dicembre, 2014

Un Fidelio… lumaca apre la stagione scaligera

Eccomi qua a commentare a caldo immagini e suoni (arrivati sotto forma di… pixel&bit) del Fidelio scaligero che ha aperto la (lunga, causa Expo) stagione del Piermarini.

La prima constatazione è l’insopportabile lunghezza dell’interpretazione di Barenboim: che è troppo abituato a Wagner (dove effettivamente eccelle, bisogna riconoscerglielo) ma poi pretende di mettere tutti su quel letto di procuste. Se si esclude il finale (e ci mancava pure…) i suoi sono stati tempi letargici, a partire già dall’Ouverture.

E a proposito non posso esimermi dal fare l’ennesima considerazione sulla bizzarra idea di Barenboim di propinarci la Leonore 2 in luogo dell’Ouverture che Beethoven (sì, proprio un tale Beethoven, guarda te!) aveva faticosissimamente composto per la versione definitiva dell’opera (mai più riveduta o emendata nemmeno col binocolo, nei 14 anni che ancora restarono da vivere al genio di Bonn!) Il colmo della faccenda è che la presentazione dell’allestimento dell’opera nel video pubblicato sul sito del Teatro é accompagnata proprio dalle note dell’Ouverture giusta!

Siamo alle solite, il Kapellmeister di turno (mi spiace dir questo di un Direttore che considero un grande uomo, prima ancora che famoso musicista) vuol farci credere di saperne di più dell’Autore in persona, così butta nel cesso l’ultima trovata dell’Autore medesimo per ripescare… che cosa? La penultima? Che sarebbe perlomeno una gustosissima mela matura: la Leonore 3. Invece no, proprio no, quella che ci viene propinata è la Leonore 2! Il che ti fa lo stesso effetto del mangiare una mela ancora un filino acerba, quando in testa hai il dolce gusto della mela matura: un effetto decisamente sgradevole. Sì, perché sappiamo che per l’uomo tutto è relativo, e tornare indietro è sempre in qualche modo irritante; o ammissibile soltanto se motivato da ragioni, diciamo così, scientifiche. Il che nel mondo musicale si traduce in pratiche ben precise: un festival, o un concerto o al massimo un CD. Ma un SantAmbrogio è – nel bene e nel male – un pranzo di gala dove, se proprio si decide di boicottare le arance, andrebbero almeno servite le mele mature, mica quelle acerbe!

Quanto alla sequenza dei primi due numeri dell’opera (duetto e aria di Marzelline) nel video succitato (a 3’43”) la Warner accenna ad una discussione avuta con Barenboim e a divergenze di vedute rispetto alle sue (di lei) consuetudini. Ora, lei ha già messo in scena Fidelio a Glyndebourne, dapprima nel 2001, poi ancora nel 2006 (da dove è stato prodotto un CD) e sempre nella versione definitiva, quindi quelle che lei chiama sue consuetudini sono in realtà lo standard: prima il duetto e poi l’aria. Ma allora perché parla di divergenze con il maestro? La spiegazione più plausibile è che Barenboim, come fa nel suo CD, scegliendo la Leonore 2 dovesse poi anticipare l’aria, per ragioni di rapporti tonali. E questo è ciò che ci si aspettava facesse anche qui. Invece non è così: abbiamo ascoltato tutti che in apertura c’è il duetto. Come si spiega? Evidentemente lo scambio voluto dal maestro non era accettabile dalla Warner perché ne sconvolgeva l’impostazione registica! E così alla fine la regista deve aver convinto il maestro a ripristinare la sequenza di Beethoven (che però male si armonizza con l’ouverture scelta da Barenboim!) Ora, il solo pensare che due personaggi profumatamente pagati (dai soldi nostri!) abbiano passato ore e ore e forse giorni a discutere del miglior modo per travisare la volontà di Beethoven è davvero deprimente. Purtroppo queste sono, lo ripeto, pisciatine di cane, spacciate per filologia/filosofia. Shame!     

Lo spettacolo della Warner è sostanzialmente lo stesso di Glyndebourne, nel bene e nel male. Domanda: perché non acquistare il prodotto esistente, invece di rifarlo (con tutto ciò che questo avrà comportato a livello di costi) praticamente uguale?

Ho detto nel bene e nel male perché la regista non si inventa cose strane né storie fantasiose: siamo in una prigione (che poi sia una ex-fabbrica, è cosa che nè guasta, né arricchisce) dove una donna travestita cerca il marito ingiustamente incarcerato e alla fine riesce a farlo liberare, approfittando di una provvidenziale ispezione del ministro della giustizia. Apperò, proprio come scritto nel libretto… che noia (smile!) Quindi tutto bene, non fosse che la Warner si fa contagiare dalla stessa malattia di Barenboim (quella delle mele acerbe) e così fa finire l’opera, mentre suona un DO maggiore da spaccare i timpani e abbagliare le pupille, come era nella prima versione del 1805, al buio e sotto una nevicata, invece che sulla piazza assolata del carcere! Certo che Beethoven era proprio un bambino ingenuo che credeva alle favole…

Anja Kampe è Leonore/Fidelio: siccome la ricordo nel ruolo con Abbado (2008) dove nel piccolo Valli di Reggio Emilia già si sentiva poco, aspetto di sentirla dal vivo per verificare se nel frattempo ha imparato a… farsi sentire (smile!) anche senza un microfono in bocca.

Klaus Florian Vogt è il Florestan all’età di 12 anni (stra-smile!) Effettivamente Pizarro doveva essere proprio un pazzo maniaco  per incarcerare un bambino. A parte le battute, va bene che il personaggio non è proprio da Heldentenor, anzi, ma qui si sta esagerando in senso contrario. Perché non basta fare le note giuste, o sbaglio? E il fatto che a Bayreuth lo abbiano catapultato nei panni di Lohengrin dimostra soltanto che anche lassù sono fuori di testa. Fra l’altro, nei parlati sembra invece avere una voce da adulto!

Il migliore, e di gran lunga, del cast è il Rocco di Kwangchul Youn: ma non lo scopriamo oggi, e in fondo ha fatto lodevolmente ciò che ci si aspetta da un grande professionista.

Falk Struckmann è un Pizarro dignitoso, ma nulla più: forse i tempi strascicati di Barenboim non lo aiutano, e così sembra faticare a reggere il fiato.

Onesta e non più la prestazione di Peter Mattei come Don Fernando.

La seconda coppia dell’opera non mi è parsa particolarmente eccitante: Mojca Erdmann e Florian Hoffmann si arrabattano alla meglio, come Marzelline e Jaquino, ma senza mai dare un colpo d’ala.

A parte un incespicamento (così mi è parso, potrei sbagliare) nel finale, si salva per fortuna il coro di Bruno Casoni, che fornisce anche due solisti (Oreste Cosimo e Devis Longo) che non avrebbero fatto peggio dei titolari dei ruoli di Jaquino e Pizarro.

Per il pubblico pare sia andato tutto bene, e anche di più: beati loro e per quanto mi riguarda spero proprio di essere smentito a breve.          

De gustibus postandum est!


Tradotto: libertà di pensiero.


                    dalle stelle……………………………….alle stalle 

   

06 dicembre, 2014

La Lady sovietica a Bologna, per pochi intimi

 

Ieri sera è andata in scena al Comunale bolognese la seconda (delle sei) della Lady Macbeth di Dimitri Shostakovich. Purtroppo in un teatro semi-deserto, e andatosi ulteriormente a desertificare durante i due intervalli. Che dire? Perle ai porci… oppure Shostakovich come Renzi?

Spettacolo davvero eccellente quello della compagnia del Teatro Helikon di Mosca, arrivata qui con due cast che si alterneranno regolarmente fino alla conclusiva del 10, accompagnati da Orchestra e Coro del Comunale.

Il regista Dimitrij Bertman coglie in pieno lo spirito dell’opera, sia a livello della personalità dei protagonisti (Katerina in primis, una donna che non chiede altro che di essere amata) che a quello della denuncia sociale di una società dominata dall’avidità e dallo sfruttamento (dello schiavo e della donna). L’ambientazione è moderna, ma una volta tanto ciò non nuoce per nulla all’efficacia e alla coerenza del racconto.

La scena (di Igor' Neznyj) ha un fondo fisso, costituito da un labirinto di condotte d’acqua: richiamo all’attività degli Izmailov, proprietari di un mulino (con annessa diga e condotte forzate) ma anche alla condizione materiale e psicologica di Katerina, ulteriormente sottolineata da una serie di gabbie metalliche in cui la donna è spesso costretta a muoversi. Gabbie che bene servono nel terz’atto ad ospitare gli invitati alla festa di matrimonio e soprattutto nell’ultimo a rinchiudervi i carcerati destinati alla Siberia.

La fedeltà al libretto è pressoché totale, se si escludono alcune libertà che il regista si prende, come quella di far scardinare a Sergei la porta della camera di Katerina in occasione del loro primo incontro carnale, oppure di far tornare Zinovy accompagnato da due zoccole, o ancora di far ricomparire nel quarto atto, solo per camminare in lungo e in largo nella prigione, i… cadaveri dei due Izmailov. L’unica pecca (secondo me) da addebitare al regista è la comparsa (da sotto le gonne di Katerina, durante l’ultima sua drammatica esternazione del lago nero) di un bambolotto simboleggiante evidentemente un figlio: riferimento chiaro, quanto improprio, al contenuto del racconto di Leskov, ma del tutto incomprensibile qui… a meno di non considerarlo una sconfessione del programma etico e femminista di Shostakovich e un dar ragione alle pretese della società (zarista ma non solo) di ridurre la donna a puro strumento di riproduzione. La scena finale del tuffo in acqua di Katerina e Sonetka è sempre problematica da rendere con efficacia: anche qui niente tuffi, ma un altro sport: il tiro alla fune! Evabbè, scusato.

Ieri il ruolo di Katerina toccava a Svetlana Sozdateleva, che per me è stata assolutamente perfetta: innanzitutto vocalmente, perché interpretare una parte così senza cadere nel volgare (musicalmente parlando: urla e schiamazzi) è davvero difficile, e invece lei ha sempre mantenuto un perfetto controllo dell’emissione. Così come eccellente è stata la sua immedesimazione nella psicologia del personaggio.

Buono anche il Sergei di Vadim Zaplechny, che forse non è riuscito sempre ad imporre la sua voce (ad esempio nella scena delle molestie ad Aksynia).

Dei due Izmailov il vecchio Boris (80 anni!) sembrava più giovane del 50enne figlio (!) Comunque il padre (Dmitrij Skorikov) ha mostrato autorevolezza sia nel canto che nel portamento superiore a quelle del figlio (Dmitrij Ponomarev) il che tutto sommato quadra con testo e musica!

Maja Barkovskaja impersonava la cuoca Aksynia: efficace nella voce; forse troppo, come dire… arrendevole nella scena delle molestie (l’avvocato dei molestatori avrebbe buon gioco a farli assolvere!)

Eccellente il capo dei poliziotti (Alexandr Miminoshvili) che ha anche messo in mostra doti di showman durante il trascinante quanto satirico balletto del terz’atto alla stazione di polizia.

Stanislav Shvets impersonava il prete e il vecchio carcerato (nel finale): come prete mi è parso poco… brillo, ecco! Efficace la sua accorata cantilena sulla strada verso la Siberia.

Personalmente non ho troppo apprezzato il contadino cencioso (e ubriaco) di Mikhail Serishev, che nel terz’atto canta una vera e propria aria: a parte che il regista gli ha messo in mano un microfono da balera, è la sua voce ad essermi parsa inadeguata alla sarcastica drammaticità del ruolo.

Stesso discorso per la Sonetka di Ksenia Vjaznikova, poco efficace vocalmente, quanto… gnocca fisicamente (!)

Sorvolo sui comprimari, non certo per biasimo, ma per non scrivere ovvietà.

Invece un bravo all’Orchestra del Comunale e soprattutto al Coro di Andrea Faidutti, perfettamente all’altezza sia della parte vocale che di quella mimica.

Vladimir Ponkin è il concertatore dello spettacolo: mi è parso cercare l’enfasi in tutti i sensi: nei grandi momenti d’insieme (gli interludi, ad esempio) dove ha cavato suono e fracassi strepitosi da un’orchestra che aveva sì e no un terzo dell’organico previsto da Shostakovich (!) e tenendo tempi fin troppo sostenuti in altri momenti (esempio la scena finale del terz’atto). In ogni caso, una direzione encomiabile e segno di grande dimestichezza con questa ostica partitura.

Ecco, a parte le poltrone e i palchi vuoti… una serata da incorniciare.           


05 dicembre, 2014

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 12


È ancora il rampante Jader Bignamini a salire sul podio dell’Auditorium per dirigere un concerto… operistico (ormai lui si sta dando sempre di più al teatro!) affiancato al proscenio dall’albionica-cangura (e ora anche un po’ italiana, quindi assai meno… snella di una cangura, smile!) Jessica Pratt.  

Concerto anticipato rispetto al calendario per dar modo al Direttore di volare a Mosca, dove l’8 dicembre dirigerà il Requiem verdiano.

L’impaginazione prevede un alternarsi regolare di una Sinfonia e di un’Aria (o poco più) da opere di: Rossini, Bellini, Meyerbeer, Verdi e Donizetti. Le arie sono ovviamente depurate delle parti che prevederebbero interventi di cori o altri personaggi.

L’Orchestra si conferma in stato di grazia e in perfetta simbiosi con il suo Direttore, sciorinando esecuzioni impeccabili delle cinque Sinfonie. Strepitoso il pacchetto dei 5 violoncelli, guidato da Tobia Scarpolini, nell’apertura del Tell, dove si è poi messa in luce Paola Scotti nell’impervio passaggio del corno inglese; da incorniciare anche l’attacco dei primi violini della Luisa Miller, un pianissimo davvero emozionante. Ma benissimo anche Norma, Africaine e Roberto Devereux.

La Pratt, che si è presentata in un lungo (e largo, smile!) nero, ha iniziato con Amenaide in Come dolce all’alma mia dal Tancredi: sarà stato l’attacco a freddo, fatto sta che i virtuosismi (Voglia il ciel) non sono stati proprio impeccabili. Poi molto meglio invece la Elvira dei Puritani, chiusa dal primo di una serie di MIb acuti che sfoggerà nella serata. Convincente anche come Marguerite in Les Huguenots (Oh beau pays de la Touraine) a dispetto di una falsa ripartenza su A ce mot tout s’anime, che poi si fa perdonare schioccando il RE acuto conclusivo.

Dopo l’intervallo la Pratt si è ripresentata con un abito più chiaro e assai meno dotato di… ehm, balconatura, per Verdi e Donizetti. Discreto, ma non entusiasmante, il suo Caro nome dal Rigoletto; eccellente invece la Lucia (Il dolce suono; Ardon gl'incensi; Spargi d'amaro pianto) chiusa da un lungo e pulito MIb acuto. Qui Massimiliano Crepaldi l’accompagna splendidamente con il suo flauto, meritandosi da Bignamini una chiamata al proscenio.     

Un primo bis vede la Jessicona scatenarsi come Cunegonda nel bollente Glitter and be gay dal Candide di Bernstein, anche questo infarcito di MIb, in cui accenna anche la scenetta dei gioielli con l’impacciatissimo Bignamini. Poi ripete il MIb di Donizetti. Pubblico – tutt’altro che oceanico – in delirio.

04 dicembre, 2014

Fidelio: arrivano i nostri?

 

Leonora (rapida trae dal petto una piccola pistola e la punta contro Pizarro)
Ancora una parola, e sei morto!
(Si sente la tromba dalla torre.)

Leonora (getta le braccia al collo di Florestano)
Ah, tu sei salvo, gran Dio!
Florestano
Ah, son salvo, gran Dio!

Pizarro (stordito)
Ah, il ministro! Inferno e morte!
Rocco (stordito)
Oh che avviene? giusto Dio!
(Si sente più forte la tromba. Pausa.)

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Questo è il classico Höhepunkt dell’opera: mentre Leonora punta la sua pistola al petto del sanguinario giacobino, ecco che arrivano i nostri! salutati ovviamente - non si potrebbe immaginare altro – dallo squillo di una trombetta:

Che si ripete poco dopo, con più forza ancora. Come si vede, Beethoven già duecento (o poco più) anni fa aveva inventato lo stereotipo dei più spettacolari (e pure beceri) film del Far-West.

Quello che ad un ascoltatore distratto potrebbe sfuggire è che però gli squilli in questione non provengono dallo strumento del trombettiere che accompagna la carica dei nostri, ma da quello di un tirapiedi del cattivone Pizarro! Il quale tirapiedi era stato incaricato dal capo di avvertirlo in quel modo non appena avesse visto il corteggio del Ministro (i nostri, appunto) arrivare lungo la strada da Siviglia. E in effetti le circostanze non sono precisamente quelle dell’arrivo di gran carriera di un manipolo di cavallerizzi in una nuvola di polvere: è una delle massime autorità politiche che viene al penitenziario – comodamente in carrozza e con tanto di scorta - per farvi un’ispezione sul trattamento dei detenuti.

Se poi guardiamo il motivo da vicino, in effetti scopriamo che non ha né un carattere guerresco, né solenne o pomposo: ha piuttosto un che di sbilenco, di irregolare, specie nelle ultime battute, dove il trombettiere sembra quasi incespicare sulle note per raggiungere in qualche modo la tonica SIb. Insomma, un segnale suonato da qualcuno che probabilmente se la sta facendo sotto! 

Questa mirabile forma del richiamo fu messa a punto da Beethoven in occasione della seconda edizione dell’opera (1806, in due atti, come quella definitiva) che vide anche la nascita della famosissima Ouverture Leonore 3, all’interno della quale il segnale della tromba in SIb viene anticipato (sempre proposto per due volte). (Sappiamo che invece l’Ouverture Fidelio, dell'ultima versione del 1814, non contiene rimandi a temi dell’opera.)

Nella prima versione del Fidelio (1805, in tre atti) il richiamo della trombetta è abbastanza diverso, tutto sommato più regolare e quasi virtuosistico, quindi esteticamente e drammaturgicamente poco appropriato alla particolare circostanza (ce lo vediamo il trombettiere spaventato dall’arrivo del Ministro che si mette a fare arpeggi degni di un concerto di Hummel?) Inoltre il motivo è leggermente diverso nella sua apparizione nel terz’atto, rispetto a quella nell’Ouverture (la Leonore 2) come si può notare qui:

Nell’Ouverture è in MIb, cade sulla dominante già a battuta 2 e chiude sulla tonica, mentre nell’opera è in SIb (come nelle versioni successive) ma arpeggia diversamente sulla triade e poi chiude sulla mediante.
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E a proposito di Ouverture, sappiamo che molti Direttori amano recuperare la splendida Leonore 3 infilandola da qualche parte dentro l’opera. Le cronache fanno risalire questa moda all’incirca al 1850: quando si cominciò ad eseguirla come ouverture al secondo atto. Colà la posizionò anche Mahler nelle sue prime direzioni di Fidelio (Praga 1886 e Lipsia 1887). Poi però, a partire da Amburgo (1891) le cambiò di posto, poiché la sua debordante e ottimistica potenza contrastava troppo con la successiva buia scena di Florestan incarcerato, e così cominciò ad eseguirla prima della scena finale (con la quale si raccorda benissimo, sia come tonalità che come atmosfera) e con questa scelta ha fatto molti proseliti fino ai giorni nostri. Personalmente troverei la cosa del tutto inopportuna, non certo dal punto di vista musicale (è una cosa straordinaria) ma da quello drammaturgico: 15 minuti di sosta fra le ultime due scene, che Beethoven aveva tribolato come un matto per giustapporre senza soluzione di continuità, sono davvero troppi, e in più rovinano proprio il mirabile intervento della tromba, riproponendocene gli squilli dopo pochi minuti e distruggendone così tutta la tensione drammatica.

Barenboim non farà questa forzatura, ma in compenso ne combinerà un’altra, come a voler lasciare la sua pisciatina sui muri della Scala, nel suo ultimo SantAmbrogio come Direttore Musicale: invece dell’Ouverture Fidelio eseguirà la Leonore 2! Un suo bisognino (smile!) abituale, avendolo già fatto in un’incisione su CD e in un’apparizione di anni fa ai PROMS. Naturalmente ciò dovrebbe portarsi dietro automaticamente anche l’inversione dei primi due numeri: dopo il DO maggiore dell’Ouverture, che con i suoi schianti finali resta inchiodato nell’orecchio dell’ascoltatore, subito il DO minore dell’aria di Marzelline, invece del lontanissimo LA maggiore del duetto Marzelline-Jaquino, che parte (coerentemente, in Beethoven!) con la dominante MI con cui chiude l’Ouverture Fidelio. Così è nel CD con Domingo e così fu ai PROMS. Ma se leggiamo il libretto della Scala, che pure è ripubblicato per l’occasione, tanto che cita la presenza della Leonore 2 al posto dell’Ouverture giusta, scopriamo che il numero di apertura dovrebbe essere il duetto (?!?) e così pare sia stato eseguito alla generale

Insomma: un guazzabuglio indecoroso (qui arrivano i… mostri!) Dico: se uno oggi vuol divertirsi a inventare tutti gli intrugli possibili e immaginabili con la musica del Fidelio, lo può fare a suo piacimento, e senza scomodare Barenboim e la Scala, semplicemente col suo computer di casa: che senso ha metter su queste arlecchinate per un SantAmbrogio?