affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

27 novembre, 2014

Una Lady sovietica è attesa a Bologna (1)

 

Il Comunale di Bologna si appresta a proporre una delle opere più straordinarie del ‘900, la Lady Macbeth del distretto di Mzensk di Dimitri Shostakovich. È una produzione moscovita del 2000 (Teatro Helikon) già passata al Ravenna Festival del 2003 e in parecchi altri teatri di tutto il mondo.

Cominciamo ad avvicinarci a questo capolavoro (sì, qui il termine può essere impiegato a giusto titolo…) partendo da lontano, cioè dal racconto in prosa (uno schizzo, un abbozzo, lo qualificò l’Autore) che l’allora 34enne Nikolai Semyonovich Leskov aveva scritto nel 1865 per la pubblicazione sulla rivista Epocha dei fratelli Dostojevski. Il racconto divenne la fonte del libretto che Shostakovich scrisse insieme ad Alexander Preis; e farne la conoscenza ci aiuterà a meglio mettere a fuoco - per differenze - i tratti estetici ed anche filosofico-politici dell’opera. 

Si tratta di un racconto, o novella che lo si voglia chiamare, in 15 capitoli, strutturato come una raccolta di articoli di un servizio giornalistico a puntate (Leskov fu anche giornalista, appunto) su fatti di cronaca nera al centro dei quali era stata una giovane donna della provincia russa di Orël (precisamente del distretto di Mzensk, poco vicino al capoluogo, a circa 300 Km a sud-ovest di Mosca, sulla strada verso l’Ukraina). Leskov, figlio di un funzionario del tribunale di Orël, e lui stesso da giovanissimo impiegato lì per qualche tempo, aveva avuto modo di occuparsi di un fatto delittuoso, protagonista una ragazza - che aveva ammazzato il suocero versandogli cera bollente in un orecchio (!) per godersi l’eredità - e pare avesse addirittura assistito all’irrogazione di pene corporali alla giovane omicida. A partire da quell’episodio costruì – di sana pianta, ma con grande realismo ed efficacia – la sua storia.

Il titolo Lady Macbeth fa ovviamente pensare a vicende in qualche modo apparentabili a quelle della tragedia shakespeariana: guarda caso, una coppia che commette tre omicidi, di cui uno di un fanciullo (!) Certo, qui non siamo nelle alte sfere della corona di Scozia, ma nella arretrata provincia russa della prima metà del XIX secolo e in una società agricola rigidamente divisa in classi: commercianti, mugnai e piccoli possidenti (quelli che anni più tardi diventeranno kulaki) e servi della gleba (se non veri e propri schiavi). I due protagonisti della storia sono una ragazza e un giovane di umilissime origini, e quindi siamo di fronte ad una specie di Lady dei poareti! Ma anche questi sono pur sempre esseri umani, con le loro passioni, i loro miraggi, le loro ambizioni, invidie, amori, presunzioni e preconcetti, che Leskov ha saputo presentare con grande sapienza e con indubbia maestria.

In estrema sintesi la storia riguarda Katerina Lvovna, 23enne di umili condizioni - andata sposa a tale Zinovy Izmailov, ricco vedovo 50enne senza figli, figlio unico di un possidente, pure vedovo, l’80enne Boris - che si annoia della vita che fa (dopo 5 anni di matrimonio ancora non ha adempiuto al dovere per cui era stata sposata, mettere al mondo figli) e si concede a Sergei, giovane e povero-ma-bello lavorante presso l’azienda (mulino per produzione di farine e commercio delle stesse) del marito e del suocero. Dapprima avvelena il suocero, reo di averla colta in flagrante adulterio e di aver messo sotto chiave l’amante; poi, con l’amante, ammazza il marito e lo seppellisce sotto casa; infine, sempre con l’amante, ammazza anche Fyodor, un nipotino del marito che rischiava di toglierle buona parte della proprietà. Colti in flagrante in quest’ultimo omicidio, i due vengono condannati alla fustigazione in pubblico e ai lavori forzati in Siberia, ma durante il lungo viaggio Katerina (che prima di partire dà alla luce un figlio di Sergei, subito rispedito dai parenti del marito, di cui erediterà l’azienda) scopre che Sergei la tradisce con una prima (Fiona) e poi con una seconda donna (Sonetka). Esasperata dal comportamento spregevole e offensivo di Sergei (che arriva anche a frustarla nottetempo) e Sonetka, si vendica buttandosi nelle gelide acque del Volga, trascinando con sé l’ultima fiamma dell’amante.

La mappa che segue mostra sommariamente i luoghi del racconto di Leskov: a Mzensk, un piccolo centro vicino ad Orël, si svolgono i fatti di cronaca nera, compresa l’uccisione del piccolo Fyodor (nativo di Livny); Katerina (originaria di Tuskar, nella provincia di Kursk) e Sergei vengono deportati in Siberia e fanno quindi una lunga... camminata: a Nizny Novgorod il loro gruppo di forzati si unisce ad un altro arrivato da Mosca, comprendente le due ragazze che saranno oggetto delle attenzioni di Sergei; a Kazan c’è il traghettamento del Volga, nelle cui acque il dramma si consuma con l’annegamento di Katerina e Sonetka:

 
Cominciamo ad analizzare alcuni aspetti del racconto, a partire dalla descrizione che Leskov fa del mondo suo contemporaneo. È una fotografia fedele e piuttosto distaccata, che non nasconde le storture della società zarista, ma neanche ne fa bersaglio di espliciti o criptici messaggi rivoluzionari. (Leskov era quello che oggi potremmo definire un conservatore aperto e illuminato, quindi un moderato, né reazionario, né sovversivo.)

La figura di Katerina ci propone una donna forte, persino troppo sicura di sé, che agisce in base all’istinto e soprattutto (quando si tratterà di commettere ben tre omicidi) spinta dall’amore, un amore allo stesso tempo carnale e profondissimo, come solo una donna può provare. E così, quando quell’amore sarà irreparabilmente perduto, arriverà anche il quarto omicidio, accompagnato dal suicidio!

Sergei è un individuo insofferente della sua condizione di semi-schiavitù, che però vuol superare con mezzi individuali e proditori, come il conquistare le mogli di persone ricche e influenti: per poi scaricarle quando non servono più i suoi scopi (per lui l’amore è un puro sfogo animalesco, nulla più). Il suo atteggiamento verso Katerina è davvero vigliacco: prima la irretisce e la lusinga al punto da spingerla ad atti estremi, poi la scarica e la maledice per…  avergli dato retta! Però non è proprio una bestia fino in fondo, scopriremo in lui anche un (unico) momento di vera umanità.

I due Izmailov ci appaiono come normali espressioni di quel ceto medio-borghese che aveva saputo approfittare degli scarsi margini di libertà, concessi da qualche annacquata riforma zarista, per arricchirsi a dismisura, sfruttando - senza porsi problemi etici di sorta - manodopera ancora in stato di semi-schiavitù.

Riporto nel seguito un riassunto del racconto (che si può leggere, in inglese, a questo link) che servirà successivamente per evidenziare particolari che verranno più o meno pesantemente modificati da Shostakovich nel suo libretto.
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Capitolo 1.
Cominciamo a fare la conoscenza di Katerina: subito ci viene presentata come la protagonista di un terribile dramma, tanto da essere indicata dalla gente come Lady Macbeth di Mzensk. Poi ci viene descritto il suo aspetto fisico, di ragazza 23enne nativa di Tuskar, non bellissima ma di gradevole presenza. Quindi facciamo la conoscenza degli Izmailov, affluenti commercianti a Mzensk, proprietari di un mulino, di frutteti, terreni e di una grande casa: il padre Boris, 80enne vedovo e il 50enne figlio Zinovy, pure vedovo da 20 anni e senza figli, al quale la ragazza è andata sposa, per interesse (degli Izmailov, ad avere finalmente un erede) e non certo per amore. L’assenza di figli (dopo 5 anni di matrimonio) preoccupa gli Izmailov, che ne fanno quasi una colpa alla donna, ma crea anche problemi e struggimenti a Katerina, che per tutto il giorno, in assenza di marito e suocero impegnati nei loro commerci e senza un libro da leggere (lei che comunque non è una lettrice) non fa che vagabondare da una stanza all’altra di una casa grande ma protetta come una fortezza, sbadigliare e sonnecchiare. Roba da… impiccarsi! E nessuno che si preoccupi di questa sua condizione. 

Capitolo 2.
In primavera, nel sesto anno di matrimonio di Katerina, il mulino degli Izmailov soffrì un grave incidente, proprio in un periodo di grande attività produttiva: un cedimento della diga e l’allagamento dei locali delle macine. Zinovy rimase là ininterrottamente per giorni e giorni per sistemare i danni, e Katerina si sentì ancora più sola. Finchè un giorno, approfittando del clima mite, decise di uscire di casa, avventurandosi nell’aia dove lavoravano i contadini alle dipendenze del suocero. Qui li trovò nel bel mezzo di un allegro scherzetto perpetrato ai danni della cuoca, una donna piuttosto grassa, da poco mamma, che i contadini avevano posto in un barile per la farina e issato su una bilancia per pesarla. Un giovane contadino (Sergei…) la irride: ora, a digiuno, pesa 70 Kg, ma dopo mangiato non basteranno più i pesi! E ciò detto, la rovescia fuori dal barile. Katerina allora sale sul piatto della bilancia e chiede di essere pesata, cosa che Sergei fa, annunciandole il responso: 50 Kg! Poi prende confidenza e aggiunge che potrebbe portarla in braccio tutto il giorno senza affaticarsi. Katerina si sente punta sul vivo e sfida Sergei che le stringe la mano fino a farla dolorare, al che Katerina lo scaraventa via con uno spintone. Ora Sergei e Katerina improvvisano una sessione di lotta libera, dove l’uomo ha facilmente la meglio, e ne approfitta per stringere a sé la padrona, per poi issarla di peso sulla bilancia. Katerina se ne va senza una parola, ma la cuoca la avverte che Sergei è uno sciupafemmine, pare che abbia sedotto la moglie del suo ultimo padrone, che per questo l‘ha cacciato. 

Capitolo 3.
Mentre il marito è sempre al mulino e il suocero è fuori (ad una festa) Katerina cena presto e si mette a sgranocchiare semi di girasole alla finestra. Ora anche i lavoranti hanno cenato e se ne vanno verso le loro stanze. Sergei passa sotto la finestra di Katerina e le dà la buona notte. Poco dopo qualcuno bussa alla porta della camera: è Sergei che si fa ricevere da Katerina, con la scusa di chiederle un libro per combattere la noia e la tristezza per la sua condizione senza futuro. Parlano dei problemi del matrimonio e Sergei le fa notare che lei è come chiusa in gabbia. Katerina si lascia scappare che sì, anche lei si annoia, così Sergei arriva a prospettarle una vita migliore con qualcuno al suo fianco che le dia dei figli, e le offre il suo cuore! Katerina cerca di resistergli e di cacciarlo, ma lui la raggiunge, l’abbraccia e… il gioco è fatto! Dopo una buona mezz’ora Katerina invita Sergei ad andarsene prima che il suocero torni e chiuda a chiave la porta. Sergei ribatte che per lui c’è sempre una porta che conduce verso o da Katerina, indicando i pali di sostegno della balconata…         

Capitolo 4.
Zinovy restò fuori casa per un’altra settimana, e Katerina passò tutte le notti con Sergei, che all’alba se ne andava dal balcone. Ma un bel giorno il suocero lo vede scendere all'alba dalla camera nuziale e lo ferma prendendolo per le gambe. Sergei non oppone alcuna resistenza, anzi si offre per la meritata punizione: Boris gli fa un processo sommario, gli dà una manica di frustate e lo rinchiude in un magazzino, poi manda ad avvertire il figlio. Nel frattempo Katerina scopre dove si trova Sergei, gli parla e poi va dal suocero dichiarandosi innocente e chiedendogli sfrontatamente di liberare l’amante. Ne riceve ovviamente una risposta negativa ed una minaccia: appena il marito tornerà, lei verrà frustata a dovere e l’amante spedito in galera. 

Capitolo 5.
La sera stessa Boris Izmailov mangiò un piatto di kasha con funghi e subito fu preso da convulsioni e vomito: morì il mattino dopo, proprio come i topi che infestavano i suoi magazzini e che mangiavano le esche che Katerina riempiva di veleno. Il corpo fu seppellito senza che vi fossero inchieste giudiziarie: era quasi normale che una persona morisse avendo mangiato funghi velenosi… Nemmeno il figlio fu atteso per le esequie: era ancora in giro per affari e il clima era assai caldo! Katerina ospitò apertamente Sergei nella camera nuziale, per farlo guarire dalle ferite provocate dalle frustate del suocero, poi distribuì ai lavoranti regali sufficienti a chiuder loro la bocca riguardo al nuovo ménage – more-uxorio - che lei e l’amante inaugurarono dopo la sepoltura del vecchio. 

Capitolo 6.
Dopo pranzo Katerina è a letto con Sergei e sogna un gatto che le si avvicina e si struscia su di lei. La cuoca annuncia che il samovar si sta raffreddando sotto il melo in cortile. Katerina ancora sogna il gatto, cerca di afferrarlo,  ma trova solo… aria. Bacia Sergei, sempre appisolato, e scende in cortile per il the, sdraiandosi sotto il melo in fiore. Racconta alla cuoca il suo sogno, completato dalla vista della luna crescente: un figlio in arrivo! sentenzia la cuoca. È una meravigliosa sera d'estate e Katerina fa scendere Sergei che si sdraia ai suoi piedi. I due vivono una vera e propria love-scene, circondati dall’incanto della natura. Lui dice di aver sofferto per lei, prima di diventare suo amante; lei dapprima lo mette in dubbio, poi si commuove alle sue confessioni. Lo sente indifferente e cerca spiegazioni. Gli riferisce delle strane voci che circolano sul suo conto (di essere una persona falsa, un ingannatore) e allora Sergei le esprime il suo disagio per l'equivoca situazione in cui si trova, una felicità destinata a svanire al ritorno del marito di lei; la incalza con i suoi dubbi e i suoi desideri: ah, come sarebbe tutto diverso se loro fossero marito e moglie! Sergei ha colto nel segno: Katerina gli giura che non lo lascerà mai, e alla domanda di lui su come ciò potrà accadere lei gli assicura di avere in mente il modo per fare di lui un commerciante e di averlo sempre al suo fianco. È ormai disposta a tutto pur di avere sempre con sé il suo Sergei. Dopo un ultimo abbandono nell’idilliaco scenario naturale, i due tornano in camera per la notte.

Capitolo 7.
Appena addormentata, Katerina rivede accanto a sé il gatto. Ma questa volta lui parla: è il suocero Boris, venuto lì dal cimitero per verificare il suo adulterio! Ha anche la testa di Boris, con due cerchi che ruotano vorticosamente al posto degli occhi. Sergei si sveglia, tranquillizza Katerina, e torna a dormire. Lei, per sua fortuna, rimane sveglia, così avverte qualcuno scavalcare il cancello del cortile, i cani avvicinarsi, ma senza abbaiare… Poco dopo sente la serratura della porta di casa scattare: non può che essere il marito Zinovy! Katerina sveglia Sergei, mentre si odono passi furtivi di qualcuno che sta salendo le scale. Sergei esce dalla finestra e Katerina gli intima di rimanere lì, sulla balconata, in attesa di… ordini. Lei si mette a letto e avverte la presenza del marito, che sta ascoltando da dietro la porta. Non ha alcun timore, anzi dentro di sé sorride perfidamente. Ora il marito si decide e bussa, facendosi riconoscere. Katerina gli apre e lo accoglie con nonchalance, poi si offre di preparargli il samovar, esce per mezz’ora e nel frattempo va alla balconata da Sergei, dicendogli di star pronto ad intervenire. Sergei sente e vede tutto ciò che accade nella camera: Katerina che torna; il marito che le chiede dove sia stata per tutto quel tempo; lei che risponde di aver preparato il samovar; lui che si lava e si asciuga; poi comincia a far domande imbarazzanti e a manifestare sospetti sul comportamento della moglie. Lei con la scusa del samovar, esce di nuovo, va da Sergei e gli chiede di seguirlo. Poi rientra in camera, dove il marito torna a farle altre domande imbarazzanti, cui lei risponde sfrontatamente. Ora Zinovy trova una cintura maschile e ne chiede conto alla moglie, che mente dicendo di averla raccolta in cortile. Quindi continua a tempestarla di domande e di accuse, mostrando di conoscere tutto del suo tradimento. A questo punto Katerina va alla porta e fa entrare Sergei, chiedendo sfacciatamente al marito di interrogarli sulla loro tresca. Zinovy resta interdetto e Katerina rincara la dose: ho già pensato a cosa fare di te in una simile circostanza, e ora lo farò! gli dice con insolenza. Zinovy va su tutte le furie e cerca di allontanare Sergei, ma Katerina chiude la porta a chiave e poi arriva all’estrema sfrontatezza di baciare ardentemente l’amante! Zinovy le ammolla un gran ceffone, poi però si sente in trappola e cerca di fuggire dalla finestra.

Capitolo 8.
Katerina abbandonò Sergei e con un balzo afferrò il marito da dietro, piantandogli le sue unghie in gola, e lo trascinò a terra, facendogli battere pesantemente la nuca. Zinovy rimase stordito e incapace anche di gridare. Lei cominciò a soffocarlo, chiedendo a Sergei di aiutarla. Con un disperato sforzo, Zinovy afferrò l’amante della moglie per i capelli e gli affondò gli incisivi e i canini nel collo. Ma subito ricadde indietro con un lamento: Katerina lo aveva colpito alla tempia con la base di un pesante candelabro. Invano Zinovy invocò un sacerdote per confessarsi prima di morire: Sergei continuò a premere le sue mani, insieme a quelle di Katerina, sulla gola di lui e dopo qualche minuto il marito tradito era già cadavere. Sergei si incaricò di trasportarlo nella cantina sottostante il magazzino dove lui stesso era stato rinchiuso da Boris, seppellendolo - in una buca scavata con pala e piccone - in modo così perfetto che nessuno mai avrebbe potuto scovarne il cadavere per l’intera eternità. Katerina si occupò di lavare accuratamente ogni più piccola traccia di sangue dal pavimento e dalle scale. Adesso sei un mercante, disse Katerina ad un Sergei ancora scosso da tremiti febbrili: lei aveva semplicemente le labbra fredde…   

Capitolo 9.
Per qualche tempo Sergei girò con un fazzoletto al collo, denunciando un gonfiore alla gola. Intanto non si avevano più notizie di Zinovy e lo stesso Sergei continuava chiedersi, di fronte agli altri lavoranti, il perché di tale scomparsa. Furono fatte indagini al mulino e si scoprì che il marito di Katerina lo aveva lasciato già da qualche tempo, andandosene su un carretto noleggiato laggiù. Fu rintracciato e perfino arrestato il proprietario del carro, che testimoniò di aver accompagnato Zinovy fino a due miglia da casa, dove il possidente aveva chiesto di scendere, vicino al monastero, andandosene poi lungo il fiume. Ogni tanto si facevano congetture sulla sua presenza in uno o in un altro posto, ma di certo Zinovy non tornò più (e nessuno meglio di Katerina ne sapeva il perchè…) Dopo tre mesi Katerina scoprì di essere incinta, ne informò Sergei e poi andò dalle autorità locali per farsi assegnare la proprietà del suocero, con la motivazione di evitare una crisi all’azienda. Essendo lei l’unica erede degli Izmailov, come legittima moglie dello scomparso Zinovy, ciò le fu accordato. Così da quel giorno lei visse come una regina e Sergei al suo fianco, ormai di fatto asceso nella scala sociale, come un principe. Ma ecco arrivare la classica tegola: da Livny (un paese a sud-est di Mzensk) qualcuno scrive alle autorità locali facendo presente che il capitale investito nell’azienda degli Izmailov non era interamente del fondatore, Boris, ma in parte era di un suo giovanissimo nipote, Fyodor Zakharovich Lyamin. La cosa viene accertata e una cugina di Boris arriva a casa Izmailov con il ragazzino. Da questo momento Sergei comincia a torturare Katerina con dubbi e cattivi presagi: dovranno cedere parte dell’azienda, scendere di livello nella scala sociale. Mentre lei sembra ben disposta verso il ragazzo e pronta a cedere una parte della proprietà, lui si sente sminuito nelle sue prerogative, impossibilitato a renderla sempre più affluente e rispettata; insomma, vede nero sul loro futuro e sulla loro felicità. Certo… senza quell’ostacolo che si chiama Fyodor, sarebbe il figlio loro, che sta per nascere prima di nove mesi dalla scomparsa di Zinovy, a divenire l’erede unico della fortuna degli Izmailov! E la loro felicità non avrebbe più limiti!   

Capitolo 10.
Sergei smise improvvisamente di parlare di Fyodor e subito… la figura del bambino cominciò ad occupare sempre di più, fino ad invaderli totalmente, i pensieri di Katerina. Perché mai avrebbe dovuto cedere parte di ciò che aveva ottenuto a così caro prezzo? Fosse almeno un uomo (!?) ma Fyodor era solo un ragazzino… Il quale giocava allegramente in cortile, rompendo pozzanghere di ghiaccio (la stagione volgeva ormai all’inverno) e così si prese un bel raffreddore e dovette essere messo a letto e curato. La vecchia zia era sempre presso di lui, salvo quando andava alle funzioni religiose; Katerina le dava allora il cambio somministrando al piccolo le medicine prescritte dal medico. La sera della vigilia delle festa dell’Entrata di Maria nel Tempio (verso la fine di novembre) la vecchia zia si recò alla funzione, che si sarebbe protratta per buona parte della notte, e lasciò Katerina a vegliare il nipote, che stava peraltro migliorando, e a somministrargli le medicine. Nella mente di Katerina un pensiero balenò come un fulmine: si può morire a causa di una medicina sbagliata! E mentre Fyodor legge le storie dei Santi, Katerina fa chiudere tutte le imposte della casa; poi sale in camera dove viene raggiunta da Sergei; Fyodor è solo, dice lei; si guardano negli occhi, un lampo d’intesa. Katerina torna giù da Fyodor; tutte le imposte sono chiuse; il ragazzino chiede un altro libro; Katerina vorrebbe che lui si mettesse a dormire, ma Fyodor vuole aspettare la zia, che ha promesso di tornare dalla funzione portandogli del pane benedetto. Katerina trasalisce, persino il figlio che porta in grembo si agita; poi esce e torna su da Sergei; che si toglie gli stivali e la segue in silenzio, giù verso la camera di Fyodor.  

Capitolo 11.
Fyodor sembra accorgersi di qualcosa di strano e ha paura; Katerina cerca invano di convincerlo a mettersi a dormire. Poi esce e confabula con Sergei. Fyodor adesso è terrorizzato e si mette ad urlare, così Katerina gli tappa la bocca, chiama Sergei che immobilizza il bambino, mentre lei gli preme un cuscino sul volto, appoggiandovi tutto il suo peso. Quattro minuti, ed è tutto finito, un silenzio di tomba cade nella stanza. Ma ecco che, come fosse scoppiato un improvviso terremoto, la casa comincia a tremare, porte e finestre sono scosse da colpi fortissimi, le lampade ondeggiano sinistramente. Sergei scappa via e corre su in camera, urta una porta, prendendosi un colpo in testa. Viene raggiunto da Katerina, crede di vedere Zinovy che li insegue con una fune d’acciaio e di udire altri tuoni. Ma in realtà tutto quel fracasso è provocato da decine, centinaia di pugni e calci che si abbattono su porte e finestre: una moltitudine di persone è entrata in cortile scavalcando il muro di cinta ed ora cerca anche di entrare in casa. Katerina corre a sistemare sommariamente il corpo di Fyodor, simulandone il sonno, poi apre la porta. Viene letteralmente travolta da un fiume in piena di gente che si precipita in casa.

Capitolo 12.
Ecco come andarono le cose. Vicino alla casa degli Izmailov c’era la chiesa parrocchiale con una cappella dedicata all’Entrata di Maria nel Tempio. Così alla festa del 21 novembre una gran folla di persone veniva anche da paesi circonvicini per assistere alla funzione, impreziosita da canti di solisti e cori. Quella sera però alcuni di loro, invece di seguire la funzione, avevano cominciato a spettegolare sulla moglie del povero Izmailov che se la faceva con un servo e allora, vista della luce filtrare attraverso le imposte della casa, si erano avvicinati per spiarvi dentro. Fu così che avevano scoperto in flagrante l’omicidio del piccolo Fyodor, cominciando quindi a battere pugni e calci sulla porta e sulle finestre, fino a costringere Katerina ad aprire. Sergei fu portato in carcere, Katerina rimase agli arresti domiciliari. La casa degli Izmailov rimase aperta ed una folla di curiosi venne a visitare la bara del piccolo Fyodor. Ma accanto a quella ce n’era un’altra, più grande: conteneva i resti di Zinovy! Sergei, riportato sul luogo del delitto, di fronte alla vista del cadaverino di Fyodor e ai severi richiami al pentimento fatti dal sacerdote, era scoppiato in lacrime, confessando anche l’omicidio di Zinovy e guidando la polizia a dissotterrarne il cadavere. Accusò quindi l’amante di essere sua complice in entrambi gli omicidi. Katerina cercò invece di negare ogni responsabilità, fino a quando, dopo un drammatico confronto con Sergei, ammise la sua colpevolezza, spiegando di aver fatto tutto ciò per lui. A fine febbraio il processo si concluse con la condanna di entrambi: fustigazione pubblica e poi invio ai lavori forzati in Siberia. Ai primi di marzo la prima parte della sentenza fu eseguita sulla piazza del mercato: Sergei - sul volto il triplice marchio riservato ai criminali - scese dal patibolo sporco, sanguinante e barcollante, attirandosi quasi le simpatie della gente. Invece Katerina rimase fredda ed impassibile sotto le frustate. Pochi giorni dopo, nell’ospedale della prigione, darà alla luce un figlio, che non vorrà nemmeno vedere!

Capitolo 13.
Il gruppo dei forzati si mosse verso la Siberia all’inizio di primavera, con tempo bello ma ancora gelido. Il bambino di Katerina era stato affidato alla vecchia sorella di Boris: registrato come figlio legittimo di Zinovy, era l’erede unico dell’intera fortuna degli Izmailov! Ma a Katerina non importava più nulla di nulla di nulla, lei conservava un unico desiderio: poter vedere e stare ancora accanto al suo Sergei. E il destino così volle: entrambi si ritrovarono nello stesso gruppo: lei con pochissimi oggetti e ancor meno denaro, lui con l’indelebile marchio sul volto. Per Katerina persino il terribile cammino verso la Siberia - avendo Sergei vicino - divenne una passeggiata felice! Ben prima di arrivare a Nizny lei aveva già consumato il suo poco denaro, dandolo alle guardie in cambio della possibilità di camminare a fianco di Sergei, o di poter passare qualche momento stretta a lui nelle carceri in cui sostavano la notte. Ma chi diventava ogni giorno più riservato ed anche aggressivo era proprio l'amante: per lui era impossibile accettare quello stato di cose e arrivò persino a maledire tutta la sua vita… Il loro rapporto si stava deteriorando, quando arrivarono a Nizny, dove si unirono ad un altro gruppo di deportati, proveniente da Mosca. Nel gruppo femminile spiccavano due donne assai interessanti. La prima si chiamava Fiona, una splendida ragazzona moglie di un militare, alta, con una treccia nera e languidi occhioni scuri, che sembravano nascosti sotto fitte ciglia. L’altra, che chiamavano Sonetka, era invece una diciassettenne esile, biondina, con una bocca piccola e fossette sulle guance. Fiona era sempre (anche sessualmente) disponibile, non si negava a nessuno. Sonetka era del tutto diversa: dicevano di lei come di un’anguilla che sguscia via dalle mani senza mai fermarsi un attimo; era assai riservata ed esigente e pretendeva dai suoi selezionati amanti passione e… sofferenza. Non così Fiona, che era certa di una sola cosa: essere donna (sono le donne che piacciono a bande di ladri, carcerati e… alle comuni socialdemocratiche di Pietroburgo!) La presenza di queste due donne accanto a Sergei e Katerina avrà nefaste conseguenze per quest’ultima.

Capitolo 14.
Nel tragitto da Nizny a Kazan Sergei comincia a corteggiare Fiona e non gli manca certo il successo. Una sera Katerina gli dà un appuntamento notturno, dopo aver corrotto una guardia. Attende pazientemente il via-libera, che arriva dopo altri dati ad altre donne… percorre un lungo corridoio, passa davanti al dormitorio maschile da dove vengono sghignazzi, poi la guardia la spinge in un angolo, prima di allontanarsi. La sua mano avverte un pastrano e una barba; l’altra mano… il viso di una donna! Sergei chiede chi sia arrivato, Katerina gli chiede chi è che sta nelle sue braccia; strappa il velo alla donna, che fugge precipitosamente. Disgraziato! gli sibila, e se ne torna a letto, seguita da sghignazzate ancor più forti dal dormitorio maschile. Quella notte Katerina cercò di convincersi a non amare più Sergei, per scoprire di amarlo ancor di più! Mentre ricordava piangendo la scena nel corridoio, una mano la scosse: era Fiona, che chiedeva indietro il suo velo. Katerina glielo restituì senza problemi; poichè pensò che non aveva nulla da temere da un simile barile dipinto… Ma ora Sergei si faceva sempre più intrattabile: il giorno dopo le ricordò di non essere suo marito, quindi di non doverle nulla; e che lei, non essendo più una benestante, non poteva più dargli né pretendere alcunché. Katerina non gli rivolse la parola per giorni e Sergei, da parte sua, cominciò a concupire Sonetka, abbordandola con approcci ora galanti, ora carnali: sembrava ormai che l’anguilla si fosse ammansita assai! E la stessa Fiona mise in guardia Katerina da quella ragazza intraprendente. Passano dei giorni e mentre Katerina medita un gesto di riconciliazione con lui, è proprio Sergei che le dà un appuntamento per la sera. Lei non risponde, ma poi è vista allungare del denaro ad una guardia, al che Sergei fa un esplicito cenno a Sonetka, poi va ad abbracciare Katerina lodandola come la miglior donna del mondo. Katerina si sente in paradiso, ma la notte, quando incontra Sergei, dopo un fugace abbraccio, le cose cambiano: lui lamenta dolori alle caviglie, le fa credere che potrebbe rimanere in infermeria a Kazan, il che preoccupa sommamente Katerina, angosciata da un’eventuale separazione da lui. Ecco, un paio di calzettoni potrebbe alleviargli il dolore, dice Sergei, e Katerina esultante corre a prendere l’ultimo paio di calzettoni di lana che le sono rimasti, quelli blu con la baghetta. Glieli consegna, poi torna a letto e dorme felice. Non accorgendosi di Sonetka che lascia il dormitorio, per farvi ritorno solo al mattino. Erano a due giorni di marcia da Kazan. 

Capitolo 15.
Al mattino successivo il gruppo dei deportati lasciò il carcere in un giorno grigio, freddo, sotto pioggia mista a neve. Katerina tuttavia si avviò con gran lena quando, improvvisamente, divenne verde e tutto il suo corpo fu preso da convulsioni: davanti a lei stava Sonetka, indossando i suoi bei calzettoni blu con la baghetta! Poco dopo, Katerina si presentava davanti a Sergei, sputandogli in pieno viso e gridandogli: mascalzone! La notte successiva due uomini entrarono nella baracca delle donne. Sonetka indicò loro il giaciglio di Katerina, che si trovò immobilizzata, con una coperta sulla testa, e fu bersaglio di 50 frustate. Distinse chiaramente la voce di Sergei scandire il numero dei colpi. In un attimo, i due uomini scomparvero e a Katerina non restò se non il vasto petto di Fiona sul quale versare lacrime e meditare la vendetta. Il suo animo divenne di pietra, e andò a prepararsi per la partenza, verso il traghetto sul Volga. Durante la marcia Sergei si avvicina a Katerina e la schernisce, chiedendole se il suo onore è salvo, poi canta una canzonetta e quindi bacia spudoratamente Sonetka. I forzati si permettono di fare del sarcasmo su di lei, vanamente rimproverati da Fiona, ma è ancora Sergei il più vile, chiedendo a Katerina se vuole comprare i calzettoni di Sonetka. Katerina lo apostrofa nuovamente: mascalzone! All’imbarco sul traghetto Sergei raggiunge il colmo della perfidia: chiede a Katerina di pagargli della vodka, in nome dei meravigliosi momenti trascorsi a Mzensk, in una tiepida sera d’autunno! Katerina ha il corpo in subbuglio, ma ora guarda sempre più intensamente le onde del Volga. Sergei e Sonetka ancora la offendono a morte, mentre lei crede di vedere fra le onde la testa di Boris, poi quella di Zinovy che reca il piccolo Fyodor… Agita le braccia, poi si piega, afferra per le gambe Sonetka e la trascina nel Volga con lei! A nulla vale un appiglio lanciato in acqua: Sonetka appare fra le onde, ma Katerina piomba su di lei come un salmone si avventa su un piccolo rutilo; ed entrambe scompaiono per sempre.
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Ecco, come si può dedurre, il racconto di Leskov non ha alcun messaggio da comunicare, nessuna morale da tirare, essendo tutto incentrato sui rapporti personali ed in particolare sui sentimenti dei protagonisti, quindi di Katerina e Sergei. Semplicemente ci racconta, senza secondi fini, una storia di amore e di tradimento che matura fra due comuni mortali e che porta ad una catena di fatti di cronaca nera.

Uno degli aspetti peculiari della storia (che perciò diverge assai da Shakespeare) è che i tre omicidi di Katerina (ma in realtà anche il quarto) sono sì premeditati, ma determinati esclusivamente dal suo possessivo amore per Sergei, non certo da sete di potere o di ricchezza: prima avvelena il suocero dopo che questi ha riempito di frustate l’uomo di cui lei (trascurata dal marito) si è innamorata; poi architetta l’omicidio del marito ancora per amore, per dare a Sergei la possibilità di riscatto sociale dalla sua condizione di schiavo; poi ancora premedita l’uccisione del piccolo Fyodor (con cui era personalmente disposta a condividere la proprietà degli Izmailov) sempre per garantire all’amato Sergei la pienezza della sua nuova condizione sociale. Ogni azione della protagonista è ispirata dalla volontà – costi quel che costi - di perpetuare la propria felicità, assecondando tutti i desideri (anche e soprattutto materiali) dell’uomo che ha cambiato la sua vita, facendola prima sentire donna e poi rendendola madre. E la tragedia che si compie alla fine (con il quarto omicidio e il suicidio) non è nemmeno causata dal pubblico riconoscimento delle sue colpe e dai conseguenti rimorsi, ma dal tradimento di quell’uomo al quale lei aveva dato tutto, ma proprio tutto: se stessa (corpo e anima) per prima cosa, poi la promozione sociale e alla fine persino gli ultimi… calzettoni di lana!

Se ci pensiamo bene, anche la sua decisione di cedere il figlio neonato (alle cure di parenti ricchi, si badi bene, non certo ad un orfanatrofio…) è dettata dal desiderio di restare accanto a Sergei: tenendo con sé il piccolo, non c’è dubbio che il suo trasferimento in Siberia sarebbe stato rimandato di qualche settimana come minimo, se non di qualche mese, per darle modo di svezzare il bambino; ma così lei avrebbe perso i contatti con il suo amante, rischiando di non ritrovarlo mai più! Ugualmente: durante il viaggio verso la Siberia, sarà il timore di perdere Sergei che la spingerà a dar credito alle falsità dell’uomo riguardo lo stato delle sue caviglie e all’eventualità di un suo fermo in ospedale.

Ecco perché la lettura del racconto, se non induce in noi un’aperta simpatia o approvazione per i suoi comportamenti, quanto meno ci muove ad un certo rispetto per questa donna che ha sempre agito, anche quando lo ha fatto con efferatezza, per garantirsi un unico ma preziosissimo bene: l’amore! Certo: un amore viscerale, cieco, selvaggio, feroce, nevrotico, egoista, possessivo, totalizzante e pure… criminale! Vedremo come Shostakovich, pur senza stravolgere né tanto meno eliminare questo peculiare aspetto del dramma, cambierà parecchio le carte in tavola, al momento di stendere il libretto della sua opera.   

(1. continua

24 novembre, 2014

Giulio Cesare per la prima volta a Torino

 

Quando si dice la tempestività: non sono passati nemmeno tre secoli (!) dalla prima di Londra e già il Regio di Torino ha ospitato Giulio Cesare (in Egitto).

Veramente più che in Egitto è in uno scantinato di un Museo Egizio, così per lo meno lo ha ambientato Laurent Pelly in questa produzione proveniente da Parigi (2011): un modo come un altro (e ce ne sono di ben peggiori, va detto!) per far digerire a noi scafati del terzo millennio una mappazza confezionata quando si portavano le parrucche e si girava con lo spadone alla cintola. Eh già, il barocco!

Ciò che ci rende particolarmente ostico questo genere di spettacolo è una micidiale miscela fatta di soggetti più o meno improbabili (come peraltro molti nell’intero teatro musicale) e soprattutto del terreno sonoro su cui sono adagiati: i cosiddetti recitativi secchi, dove le voci e il continuo sembrano proprio volerci torturare con qualcosa che non è né musica, né parola, ma una perfida fusione del peggio di entrambe…

Dopodichè, miracolo dei miracoli, ecco che da questo arido deserto spuntano oasi, palmizi e dimore principesche, e vi sgorgano chiare, fresche e dolci acque! Sono i numeri musicali, e soprattutto le arie. Parliamoci chiaro: anche nel caso in questione ciò che ha salvato l’opera dal cimitero della storia della musica è precisamente… la musica! Che oggi a 300 anni di distanza, grazie al mago Händel, è ancora capace di affascinare e di emozionare, mentre lo spettacolo a noi rischia di risultare una pizza indigeribile e insopportabile.

Ma bisogna avvicinarsi ancora un po’ al nocciolo della questione, per rendersi conto dell’insolubilità del nodo musica-teatro che caratterizza (rispetto ai gusti nostri, sia chiaro) questo genere di opere. In esse c’è sicuramente azione e inter-azione fra personaggi (= teatro!) ma essa è purtroppo relegata quasi esclusivamente a quelle parti supportate dal recitativo secco, cioè la componente per noi indigeribile dell’opera. Invece la componente non solo digeribile ma (proprio nel caso di Händel) addirittura entusiasmante, emozionante, affascinante… ecco, questa componente è intimamente connessa con la musica vera, cioè con le arie, dove però di azione, interazione - e quindi di teatro - non v’è quasi nulla, poiché lì c’è solo il cantante (quasi sempre un solo cantante) impegnato a raccontarci con monologhi (magari di celestiale lunghezza) i suoi gravi - o presunti tali - problemi esistenziali. E lo fa appoggiandosi appunto sull’aria, fra l’altro strutturata in modo davvero dittatoriale: sezione A, magari subito ripetuta con varianti, poi sezione B, contrastante, e quindi ancora la sezione A con abbellimenti lasciati all’interprete.

Per avere un’idea del problema, prendiamo come esempio proprio il Giulio Cesare: nell’originale intonso (a Torino è stata fatta qualche sforbiciata) su 4 ore complessive nette di spettacolo, abbiamo circa 50 minuti di recitativi secchi (= teatro) e più di tre ore di arie o consimili (= monologhi). Mettiamoci ora nei panni del regista, cui compete la componente teatro dello spettacolo: per quanto detto sopra, il suo campo di azione è limitato al 25% scarso della durata complessiva, perché sul restante 75% abbondante (quello che determina però la sopravvivenza del lavoro!) lui non può praticamente nulla, poiché condizionato dalle ferree leggi di questo genere di opera. Certo, nel presentare le arie può agire sulla recitazione, sui movimenti e sulle espressioni del volto dell’interprete, ma siamo ad aspetti poco più che marginali del teatro… Perché lì tutta l’azione è irrimediabilmente ferma per definizione, totalmente sospesa, in attesa che l’interprete abbia finito di presentare il suo elaborato, rigorosamente in struttura A-B-A. E allora ecco che al regista non resta che scimmiottare teatralmente quella struttura dell’aria facendo assumere all’interprete posizioni diverse per le due sezioni A e per la B, oppure introducendo alle spalle dell’interprete dei movimenti (di cose o persone) che attutiscano l’inevitabile staticità che indissolubilmente si lega al numero musicale.

E così accade anche per questo allestimento di Pelly: che si inventa uno scenario magari intelligente (il retrobottega di un museo egizio) per attingervi mille risorse che gli servono brillantemente per fare del teatro per… 30 minuti, mentre per le restanti 3 ore si vede costretto a miseri trucchi, tipo far cantare al malcapitato interprete dell’aria di turno la sezione A al proscenio, la sezione B appollaiato su un trespolo e la ripresa della sezione A sdraiato a pancia all’aria! E/o facendo contemporaneamente muovere qualcosa o qualcuno (quasi sempre inservienti e/o reperti archeologici del museo egizio) alle spalle o davanti all’interprete, tanto per dar l’idea che lì ci sia teatro! Ma raggiungendo invece il mirabile risultato di distrarre l’attenzione dello spettatore proprio dalla parte più a-valore-aggiunto dell’opera!    

Si dirà: ma anche Mozart è ancora strutturato così. E anche molto Rossini, se è per quello… E il Fidelio che è in programma a SantAmbrogio contiene – nell’originale – una buona dose di parlato (puro) accanto al cantato.

Sì, però attenzione: rispetto a Händel (che pure i Mozart e i Beethoven idolatravano) c’è qualche piccola differenza, e non solo quantitativa (il minor peso relativo dei recitativi secchi o del parlato); perché è la struttura della parte cantata ad essere totalmente diversa: certo ci sono ancora i numeri, ma sono assai più liberamente strutturati – o de-strutturati! - e proprio in funzione di acquisire quella teatralità che prima vi era quasi assente.

Ecco perché sono personalmente convinto che un’edizione in forma di concerto, o semi-scenica come si usa dire oggi, con taglio del 90% almeno dei recitativi secchi (sostituibili facilmente con la voce di un narratore e/o con audiovisivi che in poche battute spieghino allo spettatore l’azione che non viene mostrata) renderebbe assai più giustizia a Händel e al suo Giulio Cesare. Come a cento altre opere, anche non barocche, per la verità. E anche a rischio di trasformarle in qualcosa di più vicino al recital di canto, piuttosto che insistere a proporre messinscena che fatalmente rischiano di far più danno (alla musica) che altro: certo, così i vari Pelly si dovrebbero dare all’ippica, ma l’art.18, se si abolisce, si abolisce per tutti…
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Sulla parte allestimento e in particolare sui costumi aggiungerò che Pelly (di cui ho recentemente deplorato la goliardica visione del Comte rossiniano proposta alla Scala) è stato più tradizionalista che mai, ricoprendo gli interpreti con corazze, calzari, tuniche e pepli (mancava solo qualche elmo con la cresta!) che paiono trafugati da un vecchio set di BenHur; e abbigliando le donzelle di Cleopatra con abiti e orpelli squisitamente settecenteschi, probabilmente simili a quelli della prima di domenica 20 febbraio 1724 a Haymarket. Efficace l’impiego delle luci (Joël Adam). Sulle scene di Chantal Thomas (e relative comparse di lavoranti e muletti trasportatori) ripeto che l’idea non è proprio da buttare, poiché almeno conserva la coerenza dell’ambientazione con il soggetto.
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Discrete e anche buone le notizie dal fronte sonoro: innanzitutto un bravi! agli strumentisti del Regio e dell’Academia Montis Regalis, il cui Direttore stabile, Alessandro De Marchi, ha curato da par suo la concertazione dell’opera. Tutti innalzati di un metro e mezzo rispetto alla buca normale, per condivisibili ragioni. Bene anche il Coro di Claudio Fenoglio, pur impegnato da Händel con grande parsimonia. Quanto ai contenuti della partitura, il secondo atto è stato quello più… preso di mira (magari a fin di bene): vi è stata recuperata, cosa non infrequente, l’aria di Nireno (Chi perde un momento) dalla seconda versione (1725) dell’opera e spostata alla fine la strappalacrime Se pietà di me non senti, facendo così chiudere l’atto a Cleopatra invece che a Sesto.

Sonia Prima ricopre il ruolo del titolo: devo dire che la sua prestazione non mi è parsa impeccabile, soprattutto nelle parti più virtuosistiche delle arie, mentre l’ho trovata assai più convincente nelle esternazioni più intimistiche del complesso personaggio. Buon per lei che noi non abbiamo avuto diretta esperienza del Senesino, così possiamo evitare imbarazzanti paragoni (smile!)

La giunonica (quindi, probabilmente poco cleopatresca…) Jessica Pratt fa qui il suo esordio nel barocco e se la cava discretamente (ma per emergere in questo repertorio serve probabilmente lavorarci assai più a fondo): la voce c’è e arriva tranquillamente ai super-acuti, come nella sua ultima aria, però mi pare manchi ancora di quella fluidità e agilità necessarie a questi ruoli (dove per fortuna non si deve risalire alla Cuzzoni per trovare interpreti di grande spessore).

La trionfatrice del pomeriggio è stata indubbiamente Sara Mingardo, un nome, una certezza: la sua è una Cornelia quasi perfetta, non aggiungo altro.

Maite Beaumont impersona Sesto: mi sarei aspettato da lei più… mascolinità, ecco. È vero che si tratta di un giovinetto, ma Händel gli fa tirar fuori le unghie spesso e volentieri, e ciò non è emerso al meglio.

Il Tolomeo di Jud Perry mi ha personalmente lasciato indifferente: certo il personaggio sembra fatto apposta per non piacere, però questo non significa che debba anche dispiacere il suo canto.

Come detto, per Nireno (qui Riccardo Angelo Strano) è stata riesumata l’aria del second’atto e l’interprete ce l’ha proposta con un’esagerazione di cachinni francamente degna di miglior causa.

Meglio di lui ha fatto Guido Loconsolo come Achilla: voce di bel timbro e autorevolezza appropriata al personaggio.

Senza aria (smile!) è rimasto solo il povero Antonio Abete (Curio) che ha sostenuto onestamente i suoi recitativi secchi.
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Grande successo per tutti in un teatro piacevolmente affollato: oggi Torino non batte Milano solo nell’arte pedatoria!

21 novembre, 2014

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 10


Il flamboyant Wayne Marshall (uno dei tre Direttori Principali Ospiti) esordisce nella stagione con un bel pieno-di-RavelPieno e anche… piano, visti i due concerti offerti dal palinsesto e proposti da uno degli aficionados dell’Auditorium, Roberto Cominati.    

Anche il pezzo di apertura avrebbe in realtà a che fare con la tastiera: infatti è Alborada del gracioso (serenata mattutina del giullare) quarto dei 5 Specchi per pianoforte composti nel 1905. Noi però ascoltiamo la versione orchestrale che l’Autore produsse 13 anni più tardi. La maestria di Ravel in fatto di orchestrazione rifulge qui più che mai, basti pensare alla suddivisione degli archi, per i quali nella sezione centrale (Plus lent) del brano sono previste ben 24 parti (6-6-5-4-3)!

Questa di Ravel è una Spagna immaginaria perché… immaginata (forse dai racconti della madre) ma non per questo meno suggestiva ed accattivante. L’intera orchestra sembra impiegata come fosse un’unica, gigantesca chitarra, che accompagna danze sfrenate o languidi canti. Insomma, un breve ma straordinario affresco musicale, che l’orchestra ci porge nel migliore dei modi.
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Dal Ravel giovane passiamo direttamente a quello maturo, anzi ormai prossimo all’inesorabile decadenza, legata probabilmente all’incidente d’auto del 1932: sono i due concerti per pianoforte. Arriva quindi il… pilota di jet Cominati per cimentarsi dapprima con il Concerto in RE, quello amputato della mano destra, richiesto a Ravel dallo (e quindi dedicato allo) sfortunato quanto ricco pianista Paul Wittgenstein, tornato dal fronte ukraino della Grande Guerra (e dalla conseguente prigionia in Siberia) con il solo braccio sinistro…

Ravel ha cercato in tutti i modi di dissimulare la presenza di una sola mano, con una scrittura che – impegnando il solista al massimo – dà l’impressione che il suono provenga da tasti percossi da entrambi gli arti! Il Concerto è in un solo movimento, anche se vi si distinguono alcune sezioni in agogica cangiante: dapprima c’è un rigido alternarsi fra strumenti e solista (introduzione in Lento degli strumenti gravi) poi il pianoforte solo con una prima cadenza, quindi ancora la sola orchestra e poi il solista in tempo Più lento. Ora abbiamo il dialogo (Andante) che sfocia nell’Allegro (6/8) di piglio marziale e sapore jazzistico, un lungo passaggio con interventi improvvisi del solista e di strumenti diversi. Dopo una grande accelerazione, dove si sentono quasi degli accenti del Bolero, torna il tempo lento iniziale, orchestra e solista dialogano accanitamente, finchè si arriva alla virtuosistica cadenza conclusiva, chiusa infine da 5 battute di crome martellanti dell’intera orchestra.

Possiamo ascoltare il dedicatario in brani (fra cui la cadenza) del concerto in questa esecuzione a Parigi, 1933.

Cominati ha fatto del suo meglio per farci digerire questo pezzo che è francamente ostico, oltre che per l’interprete, anche per l’ascoltatore: non è un caso che fra autore e dedicatario fossero insorte, ai tempi, divergenze e persino liti sui contenuti estetici dell’opera.
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Ancora Cominati nel celebre Concerto in SOL, da lui già eseguito e con grande successo qui in Auditorium più di 3 anni fa. Questo lavoro è praticamente contemporaneo dell’altro, ma ha una struttura assai più tradizionale, quindi più abbordabile, oltre a risentire ancor più dell’influsso americano (Ravel aveva viaggiato in USA) e così jazz e blues vi hanno una parte fondamentale (evidentissima già all’attacco del tema del clarinetto, che pare proprio Gershwin!)

Il lungo centrale Adagio assai è noto per aver impegnato Ravel fino alla consunzione fisica (parole sue). In esso compare, fra gli altri e verso la fine, un bellissimo intervento del corno inglese, ieri suonato dalla bravissima Paola Scotti.

Il breve Presto conclusivo è una palestra di virtuosismo, e non solo per il pianista. Ad esempio i due fagotti sono chiamati, nella sezione centrale, ad autentiche acrobazie, con inebrianti volate di semicrome, e lo stesso avviene verso la fine per tutti gli strumentini.

Cominati non si smentisce e ci offre ancora un’interpretazione davvero trascinante, accolta con grande calore.
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Tornando indietro negli anni (nella vita di Ravel, s’intende) ecco per finire la seconda suite di Daphnis&Chloé, che include tre brani (Alba, Pantomima e Danza generale) della seconda parte del balletto e dura poco più di 15 minuti, circa un quarto dell’intero balletto. La partitura prevederebbe anche la presenza del coro, che qui (come quasi sempre) non viene scomodato, anche perchè Ravel stesso ha pensato a come rimpiazzarlo con parti dell'orchestra.

All’apertura, flauti e poi clarinetti sono impegnati in incredibili virtuosismi (biscrome ondeggianti) sui quali ottavino e flauto paiono uccellini che cinguettano al sorgere del sole, sottolineato dall’esplosione di tutta l’orchestra, mentre Daphnis ancora dorme. Arriva poi a svegliarla il pastore con il suo gregge (accompagnato dal clarinetto). Quindi la Pantomime inizia con il flauto che suona il richiamo di Daphnis, fino al'abbraccio fra i due innamorati e al giuramento, che apre la travolgente Danza generale, in LA, dove si alternano il tempo zoppo di 5/4 (3+2) e quello ternario, fino alla conclusiva apoteosi in 2/4.


Marshall e soprattutto i ragazzi non si sono risparmiati,  meritandosi così l’applauso del loro pubblico, che peraltro non era proprio oceanico: chissà, forse parecchi frequentatori abituali dell’Auditorium hanno storto il naso di fronte ad un menu troppo a senso unico, un po’ come una cena a base di solo… camembert (smile!)

17 novembre, 2014

Ancora Simonacido alla Scala

 

Ieri penultima recita alla Scala del Boccanegra targato Barenboim-Domingo. Quest’anno, a differenza della prima edizione di qualche anno fa, la coppia è relegata (almeno dal punto di vista dei tempi di programmazione) a secondo cast (?!)

Teatro con il solito e un po’ deprimente colpo d’occhio dei palchi occupati forse al 50%, cosa cui andrebbe posto rimedio (a meno che non ci sia un sacco di gente che butta quattrini in abbonamenti e biglietti che poi non utilizza… mah).

Di questo Simone si sapeva ovviamente tutto, fin dal 2010, e poco di nuovo è emerso oggi. Bravo per me Barenboim, che con questo Verdi evidentemente si sente a suo agio, bravi con lui gli strumentisti e bravissimi i coristi di Casoni.

Fra gli interpreti Fabio Sartori è quello che ha convinto di più (per lui l’unico applauso a scena aperta della serata) ma questo già la dice lunga sulla mediocrità del resto. Anastassov ha una voce adatta a salette per pochi intimi (Barenboim lo ha inesorabilmente coperto, specie nella scena finale, e forse questo è l’unico appunto da muovere al Kapellmeister); per lui gli unici buh alla fine. La Serjan direi senza infamia e senza lode, una voce certo adatta al personaggio di Amelia-Maria - né soprano drammatico, né leggero - ma ieri piuttosto opaca e in certi momenti calante. Un filino meglio Rucinski, voce proprio baritonale (!) anche se nell’ottava bassa tende a… sparire. Panariello, Albani e Lavarian come da minimo sindacale (ma a questi ruoli non si chiede di più).

Eccomi quindi al Topone: che può cercare di ingrossare la voce quanto vuole, ma resta sempre un… Gabriele Adorno! Nobbuono davvero, perché a cantare le note giuste sarebbe capace anche… Sartori! E così, col protagonista cantato dal cantante sbagliato, addio Simone. 

Tiezzi non inventa concetti arditi, si lascia andare solo nelle ultime battute, quando ci mostra il popolo in abiti… verdiani e poi il solito specchione che cala dall’alto e si inclina, facendo vedere al pubblico l’orchestra a 45 gradi! (sempre meglio che a… 90, smile!)  

15 novembre, 2014

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 9


Zhang Xian ancora sul podio per proporci un tardo- e tardissimo-romantico concerto. Il tardo sarebbe poi Antonin Dvorak, che incastona fra due sue composizioni il tardissimo Erich Wolfgang Korngold, aka… la musica di Errol Flynn! Concerto già andato in onda questa settimana in quel di Bolzano-Trento, dove laVERDI ha fatto tappa martedi e mercoledi. 

Ma andiamo con ordine. Apre le danze (è proprio il caso di dirlo) Karneval, che il venerabile Aldo Ceccato (di Dvorak innamorato…) ci aveva proposto un paio di stagioni orsono. Eseguendolo da solo – come del resto è prassi istituita dall’Autore medesimo – si perde il fil rouge che lo lega agli altri due brani del ciclo (Natura, Vita, Amore) rappresentato da una specie di motto musicale che compare nelle tre opere del trittico. Ma pazienza, anzi… meglio così, tutto sommato.

Vigorosa prestazione dei ragazzi, che così scaldano i muscoli per il prosieguo del concerto, che vede il 24enne Eugene Ugorski (nato a SanPietroburgo, ma emigrato a 5 anni in California, al seguito della famiglia) cimentarsi con il Concerto per violino di Korngold. Opera composta dopo la WWII, quando Korngold, avendo ormai fatto il suo (gran) tempo come autore di colonne sonore di Hollywood, si rimise a comporre musica (cosiddetta) seria.

Un concerto che sembra volersi rifare a modelli del profondo ‘800 (che so, Wieniawski o Bruch o Saint-Saens) o magari del primissimo ‘900 (Sibelius) calati dentro un mondo che nel frattempo è cambiato da così a… cosà (non so se questo spieghi la presenza di una cospicua batteria di percussioni, peraltro impiegata con grande parsimonia). E infatti qualcosa di Sibelius si intravede, così come del conterraneo Mahler (alla cui moglie Alma Werfel il concerto è dedicato) anche se le reminiscenze più evidenti sono quelle delle musiche da film, con cui il compositore originario della Boemia (austriaca, ai tempi) aveva inondato l’America.   
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Seguiamone la struttura in questa recente esecuzione di Arabella Steinbacher.

Il Moderato nobile che apre il concerto (in RE maggiore, tonalità che è quasi un must nella fattispecie) è basato su due temi presi da colonne sonore di film dell’Autore:

Il primo (tema-a) è subito esposto (a 26”) dal violino solista e viene dalla colonna sonora di Another Dawn, un film poco fortunato del 1937. Il solista arricchisce la melodia (51”) con un controsoggetto e qualche moderata variazione, poi ecco un crescendo che culmina (1’21”) su una veloce ascesa dei flauti a cui segue una risposta del solista, che inserisce qualche virtuosismo e quindi esegue una scalata fino alla sensibile DO#, sulla quale un rullo di timpani e i trilli di flauti e clarinetti preparano (1’45”) la riesposizione del tema-a nell’orchestra, subito però raggiunta dal solista che contrappunta il tema con veloci figurazioni che ricordano il finale del concerto di Sibelius.

Qui abbiamo una lunga transizione cadenzante, affidata al solista con interventi dell’orchestra, finchè a 2’54” l’oboe introduce un ponte (basato sempre sul tema-a) che vede impegnati gli archi in veloci semicrome; ponte che conduce, su un intervento dei corni, all’esposizione (3’16”) del secondo tema (tema-b) Meno mosso, cantabile. Ligio alle convenzioni (effettivamente si può qui parlare di forma-sonata, con sviluppo limitato) Korngold lo presenta nella tonalità dominante di RE: LA maggiore. Il tema è di stampo vagamente mahleriano - 4a sinfonia – e proviene dalla colonna sonora di Juarez (si ascolti a 1’33”) del 1939. Il solista lo sviluppa con grande nobiltà e portamento (oltre che inframmezzando un paio di velocissime scale ascendenti) fino a chiudere, su un glissando dell’arpa, sul DO maggiore. Qui (4’54”) si può individuare l’inizio dello sviluppo, dove è il corno a farci riudire l’incipit del tema-a, mentre il solista riprende le figurazioni che richiamano Sibelius, fino a sfociare (5’26”) in una cadenza (sulla quale c’è qualche intromissione dell’orchestra) con passaggi in corda doppia, cadenza che poi porta ad un’ascesa fino ad un trillo sul RE.

E quindi, a 6’54” abbiamo la ripresa, dove si ripresenta, nel canonico RE maggiore in orchestra, il tema-a, sul quale ancora interviene il solista che riprende le redini del discorso e con veloci arpeggi guida al ritorno – dopo un gran rullo di timpani - del tema-b (8’02”) in corni, oboi, clarinetto, violini e celli, e in tonalità appropriata alla circostanza (RE maggiore!) Dopo che il solista ha completato l’esposizione del tema, a 9’15” un crescendo generale dà inizio alla coda, che a 9’51” si fa parossistica, col solista rimbeccato da autentici starnuti dei legni e degli archi, solista che chiude con la sigla del tema-a su cui si schianta l’intera orchestra.

Il secondo movimento, Romance, impiega un tema derivato, peraltro abbastanza liberamente, dalle musiche per il film Anthony Adverse del 1935:

La struttura è tripartita, del tipo A-B-A, quindi con il tema principale che incastona una sezione centrale, contrastante nella tonalità più che nell’atmosfera.

10’22” Vibrafono, arpa, violini II e viole, poi seguiti dalla celesta preparano un tappeto di SOL maggiore, appena sporcato da un FA#. A rinforzarlo entrano flauti e oboi (10’37”) poi i clarinetti e i corni, che preparano l’entrata del solista (una prima versione prevedeva l’ingresso del clarinetto ad esporre il tema principale).

10’54” il violino solista espone il bellissimo tema, languido, caratterizzato da un ondeggiamento fra dominante, tonica (SOL) sottodominante e risalita alla sensibile, subito sviluppato (11’21”) con salita fino alla mediante superiore. L’entrata del corno inglese (11’47”) introduce una nuova frase del violino, che comincia una lunga peregrinazione che lo porta a sfociare (12’45”) in DO maggiore, dove inizia (13’07”) una transizione che porta (13’30”) ad una lunga e languida cadenza che chiude la prima esposizione del tema. 

La breve sezione centrale del movimento – Poco meno (misterioso) - inizia a 15’07” con un improvvisa virata a MI maggiore. Violino, legni e archi, con la celesta, sembrano dipingere soffici arabeschi sonori, sfociando in SI maggiore dove (16’00”) i primi violini cominciano a ricordare l’incipit del tema principale, due volte, salendo prima al SIb, poi al DO#. Qui rientra il solista (16’06”) ad esporre il tema in FA maggiore (!) ma tornando subito sul precedente MI per poi avvicinarsi - passando dal SI fino a raggiungerlo a 16’50” - al SOL maggiore di impianto. Da qui riprende lo sviluppo del tema, che si protrae languidamente fino a 18’46” (Tranquillo) dove inizia la conclusiva e sognante cadenza.

Anche il finale - Allegro assai vivace, 2/4 in RE maggiore - è tributario di una colonna sonora, precisamente quella di The Prince and the Pauper, del 1937. È in effetti costituito da una serie di variazioni sul tema dal film. Curioso che il tema non venga esposto immediatamente, ma sia preceduto (e poi seguito) da sue variazioni.

20’08” Uno schianto dell’orchestra apre il finale e il solista subito entra con una variazione del tema, una specie di giga, tutta in terzine e in staccato. Lo imitano poco dopo tutti i legni, prima che il violino la riprenda a sua volta. Il gioco si ripete, ovviamente con continue varianti e interventi di diverse sezioni dell’orchestra, finchè (a 21’20”) ascoltiamo per bene il tema, esposto dal solista in SIb maggiore:

Notiamo subito che il suo incipit richiama da vicino quello del tema iniziale del concerto. Vedremo come alla fine verrà scandito proprio come lo era stato il primo, alla chiusa del movimento iniziale. Quindi possiamo da subito apprezzare la coerenza tematica di questo concerto, e il suo carattere ciclico.

Il tema ha un controsoggetto, che udiamo a 21’34” nel violino, di sapore mozartiano: sale da mediante a dominante e da qui fino alla settima abbassata superiore. Poi il tutto è ancora ribadito, finchè si torna (22’11”) dopo una presa di respiro, al RE maggiore e al tema variato. Come da sacri canoni, a 22’35” il solista lo riprende nella dominante LA maggiore, questa volta tutto in quartine di semicrome. E così si continua con l’orchestra e sporadici interventi del solista, fino ad arrivare a 23’43”, dove il violino riespone il tema nella sua forma genuina e adesso nel canonico RE maggiore.

A 23’57” è il violino di spalla che si sostituisce momentaneamente al solista, esponendo il controsoggetto, ma subito ecco che il solista si riappropria delle sue prerogative e riprende il tema variato, poi (24’12”) espone il controsoggetto in SOL maggiore. Dopo una pausa di riflessione - con un intervento del fagotto - il solista attacca (a 24’32”) una nuova variazione del tema, con un botta-e-risposta con le viole che introduce un affrettato crescendo, culminante (24’52”) in un paio di pesanti accordi di DO, seguiti da uno stentoreo intervento dei corni (in FA maggiore) a stamparci bene nella memoria, per due volte, il tema del film!

Il violino solista (25’16”) espone con suoni in armonici il controsoggetto (sempre in FA) poi l’atmosfera si fa più calma e vira, con i corni, al MI maggiore, poi al LA maggiore, dove torna (a 26’11”) l’iniziale schianto dell’orchestra, questa volta seguito da altri sei!    

IIl solista, sempre in LA, riprende ancora a variare il tema principale, librandosi in virtuosismi degni di Paganini, finchè l’orchestra lo zittisce con un’orgia di semicrome. Ma il solista (26’53”) risponde per le rime, in corda doppia, con un’accelerazione che culmina, a 27’16” nell’enfatica perorazione dei corni, che ancora esplodono (adesso nel canonico RE maggiore) l’incipit del tema. Subito dopo, un’affrettata rincorsa del violino principale porta direttamente all’esilarante conclusione dove, dopo una scala discendente, uno sbifido DO# si ostina ad inquinare l’accordo perfetto di RE maggiore, decidendosi a togliere il disturbo proprio sull’ultima battuta!
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Rimarchevole la prestazione di Ugorski, dotato di grandissima tecnica ma anche di sensibilità interpretativa, emersa soprattutto nel movimento centrale. Per lui grandi applausi, ripagati con… Ysaye.
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Il concerto si chiude in gloria con la sinfonia Dal nuovo mondo, uno di quei pezzi che sono da sempre nel repertorio dell’orchestra e che Xian ha già diretto qui proprio ad inizio anno. Come dire: difficile che non sia suonata al meglio! Col che si potranno perdonare alcuni eccessi… interpretativi (soprattutto nel movimento iniziale) che la cinesina evidentemente lascia in giro come segni del suo passaggio (smile!)

Superfluo dire dell'accoglienza trionfale.

07 novembre, 2014

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 8

 

Zhang Xian ci propone una gita in Spagna, servendoci nel concerto di questa settimana un menu spagnolo (o para-). Sappiamo che parecchia musica spagnola (o spagnoleggiante) fu composta da non-spagnoli (francesi e russi in testa) e così in questo concerto abbiamo due autori locali (peraltro… svezzati a Parigi) e due alieni (russo e francese, guarda caso) simmetricamente disposti attorno ad un perno… italo-turco!

Manuel deFalla apre il programma con la seconda Suite dal balletto El sombrero de tres picos, per la descrizione del cui contenuto letterario rimando a questo mio post di un paio d’anni fa, in occasione di un concerto che aveva tre brani in comune con quello attuale e che Bignamini era stato chiamato a dirigere proprio in sostituzione della Xian, allora divenuta prematuramente mamma per la seconda volta. Dal balletto (con intervento di una voce di mezzosoprano, che possiamo vedere qui in una versione di Antonio Márquez) deFalla estrasse due suites, la seconda delle quali ascoltiamo in questo concerto, chiusa dalla trascinante Jota.

Un brano proprio adatto a rompere il ghiaccio e scaldare l’atmosfera, accolto da scroscianti applausi.
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Ecco poi il secondo spagnolo-doc, Joaquín Rodrigo, con il suo celeberrimo Concerto de Aranjuez che viene interpretato da Miloš Karadaglić. Oddio, forse celeberrimo è un’esagerazione, e comunque riguarda, caso mai, solo il centrale tempo in Adagio, che effettivamente ha fatto il giro del mondo:


Lo si può apprezzare qui eseguito proprio dall’interprete di oggi. Il Concerto, dedicato al chitarrista Regino Sáinz de la Maza y Ruiz, fu composto a Parigi nei primi mesi del 1939 ed eseguito per la prima volta a Barcellona, solista il dedicatario, sabato 9 novembre 1940, in pieno regime franchista. Rodrigo ne formulò una specie di programma, secondo il quale il primo movimento (Allegro con spirito, in RE maggiore) si ispirerebbe all’idilliaca natura dei giardini del palazzo reale di Aranjuez, che lui aveva visitato con la moglie; il secondo (il famoso Adagio, in SI minore) sarebbe un autentico lamento per il figlioletto nato morto e il terzo (Allegro gentile, RE maggiore) rappresenterebbe la sua serena accettazione del destino. Mah… secondo me è meglio ascoltare questa musica per quello che è, non per quello che dovrebbe evocare.

Al grande successo di pubblico il bel Miloš risponde con un celebre bis, sempre in terreno ispanico, ma facendosi stavolta accompagnare dall’orchestra.
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La zeppa italiana del concerto è una suite per chitarra denominata Koyunbaba, di Carlo Domeniconi, ancora interpretata dal bravissimo Miloš, che introduce la sua performance parlandoci di sé e di come ha incontrato e amato questo pezzo. Il cui titolo ai milanesi può suonare fra lo scurrile e l’offensivo, ma in realtà è anche… peggio, avendo fama di menagramo. In ogni caso ha a che fare con la Turchia, dove l’Autore ha soggiornato a lungo occupandosi di musica del folklore locale: Koyunbaba è il nome di un paesino sul mar Egeo, vicino a Budrun, ma anche quello di antiche famiglie turche di pastori e possidenti, legate a vicissitudini poco rassicuranti… L’inserimento di questo brano in un concerto tutto spagnolo in realtà non è per nulla fuori luogo, non solo per lo strumento, un classico della musica iberica, ma anche per le inflessioni della melodia. Del resto Spagna e Turchia risentirono, nei secoli, dell’influsso della grande cultura araba, musica compresa.

Il brano è in quattro parti, più una coda che richiama l’inizio; lo possiamo ascoltare qui dallo stesso Karadaglić. È aperto in tempo Moderato, seguito (3’20”) da un Mosso, poi (4’31”) da un Cantabile e dal conclusivo Presto (7’48”) cui segue la coda (Moderato, 10’00”). In realtà la partitura, derivata in origine (1985) da un’improvvisazione, è stata rivista diverse volte nel corso degli anni e presenta (in particolare nel Presto, ma non solo) diversi da-capo che l’interprete può decidere se rispettare o meno, a seconda della sua sensibilità, il che può determinare tempi di esecuzione più o meno lunghi, rispetto agli 11’ del filmato.

Grandissimo successo per il 30enne montenegrino, protagonista di questa straordinaria esibizione di tecnica e insieme di sensibilità interpretativa.
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La parte finale del concerto ci propone i due autori non-spagnoli di musica spagnola divenuta celebre. Dapprima il Capriccio spagnolo di Rimski, che la Xian ha già eseguito qui almeno un paio di volte, e che dà modo all’orchestra di esprimere tutta la sua potenza di fuoco, ma anche alcune individualità di spicco. Prestazione trascinante, accolta da ovazioni.
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Infine ecco il bolerodiravel, un modo di dire più che un titolo (smile!) È sempre il percussionista-capo de laVERDI, Ivan Fossati, a porsi al centro dell’attenzione e dell’orchestra con il suo tamburino che deve sostenere – a mo’ di pedale - l’intera esecuzione, per un buon quarto d’ora! Però questa volta Xian ha evidentemente deciso di essere ultra-fedele alla partitura, che prevede l’impiego di un secondo tamburino per l’ultima apparizione del tema del bolero e da lì fino alla fine; e così a fianco di Ivan Fossati si è esibito anche Luca Bleu, per raddoppiare il fracasso della chiusa! 

Immancabile successo, così Xian ci fa riascoltare proprio la sezione finale del Bolero e ci manda a casa col morale alle stelle.

01 novembre, 2014

Il Quartetto di Cremona a MilanoMusica

  

L’Auditorium SanFedele ha ospitato ier sera il sesto dei dieci concerti del 23° Festival (Percorsi di musica d’oggi 2014).

Siccome a me non piace usare giri di parole o espressioni politically-correct o, peggio, ipocrisie, dico subito che mi sono recato al concerto esclusivamente perché l’ultimo dei brani in programma era (in origine almeno) l’ottavo quartetto di Shostakovich, poi rimpiazzato dal decimo, che personalmente metto un filino al di sotto dell’altro, ma sempre grande musica è.  E come fioretto per meritarmi quel premio ho ascoltato, con vivo interesse ed altrettanta delusione, gli altri tre brani in programma.

Il primo dei quali era un altro quartetto, il Terzo, di Helmut Lachenmann (nato nel 1935) che è sottotitolato Grido, composto nel 2001. Qui lo si può ascoltare eseguito dai dedicatari del Quartetto Arditti (1., 2., 3.) A Lachenmann Alex Ross dedica ben… una pagina del suo The rest is noise, prima per citarne una specie di programma etico (La mia musica si occupa di un negazionismo rigidamente strutturato, con esclusione di ciò che mi appare come l’aspettativa di ascolto che si forma nella società); poi per ricordarne le idee di estrema-sinistra-estrema, che si materializzano (nel libretto della sua opera La piccola fiammiferaia) persino in una citazione della terrorista Gudrun Ensslin, della banda Baader-Meinhof (Rote Armee Fraktion), che inneggia a se stessa e ai suoi complici come distrutti che si ribellano alla distruzione; infine, bontà sua, gli riconosce di sapere ancora darci degli shock, dopo un secolo di rumore! A ribadire il concetto: di simili shock farei volentieri a meno, mi bastano ed avanzano quelli procurati da giornali, tv e web.

Ecco poi due pezzi di giovani (30enni) autori italiani, presenti in sala, composti a margine di una sessione di studio proprio con Lachenmann, e che gli interpreti avevano dato alla luce pochi mesi fa.

Dapprima ci viene proposto Come di tempeste di Daniele Ghisi. Sul suo sito, dove il brano può essere ascoltato nella sua interezza, il compositore ce ne descrive una specie di programma: che per fortuna ha come protagonisti quattro grammofoni, e non i quattro… elicotteri di funesta memoria… E va bene così (faccio per dire).

Poi Grammar Jammer di Alessandro Perini. Il titolo suggerisce un’intrusione non propriamente delicata all’interno di un discorso. Secondo Giorgio Pestelli il contenuto…  si riferisce alla funzione di disturbo o meglio di inceppamento esercitata su un flusso di parole o di note, alla ricerca di un rapporto tra suono e rumore entro i limiti di una grammatica che tende a costituirsi a partire da trasformazioni lineari di elementi diversi. Oh, così sì che si capisce tutto (stra-smile!) E no-comment.

Il pezzo forte – sì, almeno per me – della serata è stato il Quartetto n°10 di Dimitri Shostakovich. Un brano apparentemente disimpegnato, ma che in realtà lascia emergere tratti nobili e soprattutto, una narrativa chiara e convincente: che non ha bisogno di spiegazioni legate a grammofoni o ideologie assortite, perché si fa benissimo apprezzare come musica!

I quattro movimenti presentano temi ben riconoscibili ed efficacemente dialoganti: ci troviamo reminiscenze mahleriane (nell’Andante iniziale) e stilemi inconfondibili del compositore (i due Allegretti). Magistrale anche la passacaglia dell’Adagio, che ritorna, seguita dal tema del primo movimento, nella sezione conclusiva (in Andante) del quartetto, che viene così ad assumere anche caratteri di ciclicità.

I cremonesi si sono confermati compagine di grande valore e il successo è stato pieno, in un SanFedele che vedeva deserte pochissime delle sue 350 (circa) poltrone.