affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

19 giugno, 2012

L’onirica Luisa Miller di Martone-Noseda alla Scala


Ieri sera alla Scala settima (e terz’ultima) recita di Luisa Miller, con il (cosiddetto) primo cast, che però ha visto la prevedibile (date le vicissitudini recenti) sostituzione di Marcelo Álvarez con il suo secondo, Piero Pretti, annunciata da una speaker poco prima dell’inizio.

Opera bellissima, pur non potendosi definire capolavoro, nel soggetto come nella musica. Salvadore Cammarano costruì un mirabile libretto di dramma popolare che anticipa in qualche modo, quasi condensandoli, i contenuti della trilogia: un padre altolocato che ostacola l’amore del figlio per una diversa, ricorrendo anche all’inganno (Traviata); un altro padre, plebeo, che teme che la figlia venga sedotta da un potente (Rigoletto); un giovane innamorato che disprezza l’innamorata credendola traditrice (Trovatore). Prese spunto da Schiller, del quale Kabale und Liebe impiegò peraltro solo ciò che gli serviva (personaggi principali e canovaccio generale) ignorandone invece tutto il peso e in particolare i contenuti socio-politico-filosofici.

E Verdi ci mise tutta la dirompente carica – dei suoi anni di galera – per comporre questa grande opera romantica. La cui Sinfonia, dove si condensa l’essenza del dramma, contiene chiare tracce del romanticismo tedesco, come già a battuta 42, all’entrata del secondo motivo (o idea secondaria) che richiama quasi alla lettera (orchestrazione e tonalità incluse) un analogo inciso dall’Ouverture del Freischütz di Weber:
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In analogia al modello delle ouvertures mozartiane, la Sinfonia della Luisa, lungi dal presentarsi come un bigino dei temi delle arie principali dei tre atti che seguono, ne rappresenta la caratterizzazione profonda, con il suo unico tema (che non ricorre mai come specifico contenuto vocale di alcuna aria o coro o concertato, all’interno dell’opera) subito esposto con grande cipiglio, pur nel pianissimo, dai primi violini, che sembrano letteralmente evocare tre sussulti di un anima inquieta (gli anapesti che caratterizzano il tema e che vengono anticipati dagli altri archi):
Il tema, che trasuda agitazione e oscuri presentimenti, non solo comparirà esplicitamente nel terzo atto, a prefigurare l’epilogo tragico della vicenda, ma lo udiamo spesso e volentieri – magari in piccoli frammenti e in forme sottilmente derivate, o in motivi che ne presentano il ritmo inconfondibile - nei frangenti topici dell’opera, e sempre a metterne in risalto aspetti inquietanti o a preconizzare sventure, anche in  momenti apparentemente sereni e felici: insomma, è una specie di tema del destino di Luisa (ma non certo un Leit-Motiv, concetto che ancora doveva essere inventato, smile!)

Gli anapesti compaiono già nell’introduzione, sulla seconda frase di Luisa (Né giunge ancor) a sottolineare l’agitazione della ragazza che attende impazientemente l’amato:
 
E anche l’arrivo di Rodolfo sarà accompagnato da un marziale ritmo, proprio guidato da anapesti. Una variante del tema fa capolino poi sulle parole della protagonista (Iddio le avea in ciel) quando ricorda il suo incontro con Rodolfo e il relativo colpo di fulmine:
Invece è il ritmo del tema, con l’anapesto che lo caratterizza, a udirsi anche nel brillante T’amo d’amor ch’esprimere, che Luisa e Rodolfo cantano nel duetto dopo l’arrivo del giovane nella casa di lei:
E anche l’intervento di Miller (Non so qual voce infausta) che getta un’ombra sulla felicità dei due giovani, contiene i sinistri anapesti di cui il tema della sinfonia è pervaso. Poco dopo gli archi sottolineano l’entrata dello sbifido Wurm con figurazioni che, ancora una volta, derivano direttamente dal tema.   

Nel finale del primo atto, Miller rientra sconvolto dall’aver avuto conferma della vera identità di Rodolfo e del progettato matrimonio con la Duchessa, ed esprime la sua disperazione con poche parole, proprio su un frammento del tema del destino:
Subito dopo Rodolfo si ripresenta in casa di Luisa e le conferma, davanti a Miller, la sua promessa (Son io tuo sposo). È il clarinetto ad introdurre mestamente la sua esternazione, su un motivo che deriva dal tema principale della Sinfonia; poi appena prima del canto, espone la prima battuta del tema: qui è in MIb maggiore e non in DO minore, è vero, poiché la circostanza parrebbe fausta, ma il riferimento ritmico-melodico dell’intera frase del clarinetto non lascia presagire nulla di buono:
E poco dopo, infatti, quando Rodolfo canta A me soltanto e al cielo arcan tremendo è manifesto… (alludendo al delitto con cui suo padre conquistò la sua posizione) è ancora il clarinetto, con il fagotto, a sottolineare questa esternazione con terzine che rimuginano l’incipit del tema:
Immediatamente dopo, all’arrivo di Walter, un’altra forma derivata del tema – che ne contiene la cellula anapestica - ne accompagna la proterva pretesa di ristabilire l’ordine:
E ancora la udiamo nel successivo sfogo di Miller, offeso dal conte nell’onore della figlia. E anche il grandioso Deh! mi salva di Luisa altro non è se non una forma variata e dilatata della cellula del tema principale.

Nel secondo atto ancora udiamo negli archi la cellula anapestica del tema del destino: dapprima quando Wurm si appresta a dettare la falsa confessione a Luisa; poi sull’esternazione della ragazza (A brani, a brani o perfido); e quindi quando il medesimo Wurm notifica a Walter il procedere dell’intrigo. Ed essa torna poco dopo, durante l’incontro fra Federica e Luisa, quasi a condizionarne l’andamento, sotto la pressione delle minacce di Walter e Wurm alla poveretta.

E allorquando Rodolfo entra in possesso della (falsa) confessione di Luisa, è ancora una variante del tema a sottolinearne la tremenda agitazione:

E un’altra volta si affaccia subito dopo il mancato duello Rodolfo-Wurm, all’accorrere di armigeri e famigliari e quindi ancora nel drammatico dialogo di Rodolfo col padre.

Il terzo atto poi, fin dalle primissime battute, è sinistramente illuminato da questo tema del destino, che ormai si avvia al suo compimento:
Essendo qui notato con valori dimezzati, rispetto alla Sinfonia, e soprattutto a causa del metronomo  (ridotto quasi ad un quarto: 69 rispetto a 252) e nonostante l’abbreviazione del secondo dei tre sussulti (una semiminima invece di 2, per comprimerlo nel tempo di 3/4) il tema suona assai più lento che nella sua iniziale proposizione, con quasi il doppio di durata (matematicamente l’intera cellula tematica qui prende 5,22 secondi, nella sinfonia 3,33).

Interessante è proprio la manipolazione del secondo inciso, che rende la melodia, per così dire, zoppicante, asimmetrica, conferendole un carattere ansioso e caricandola di ulteriore tragicità; quindi pienamente adatta a sottolineare il canto di Laura e del coro Come in un giorno solo, come ha potuto il duolo stampar su quella fronte così funeste impronte? e il successivo invito di Laura Ah! l’infelice ignori qual rito nuzial s’appresta. Ma nel frattempo l’inciso anapestico, nel clarinetto, aveva anche infettato l’esternazione di Luisa A questo labbro più non s’appresserà terreno cibo! (chiaro riferimento al suo proposito suicida) e poco dopo tornerà, negli archi bassi, a sottolineare il presentimento di Miller: Il cor mi serra non so qual rio presagio!...

Il tema del destino torna – e per l’ultima volta, ormai - sulle drammatiche parole di Miller (che in realtà sta leggendo il proposito suicida che la figlia ha scritto per Rodolfo) Havvi dimora, in cui né inganno può, né giuro aver possanza alcuna...

Anche qui il tema è sottilmente variato rispetto all’originale: ora è il terzo sussulto ad essere compresso in una semiminima (invece di 2) quasi ad evocare l’improvviso precipitare della situazione. Il metronomo (80) fa sì che la durata della cellula tematica (6 semiminime) sia un poco inferiore a quella delle battute introduttive dell’atto (4,5 secondi contro 5,22).

La successiva progressione, che vede la cellula ripetuta sei volte, partendo da gradi sempre più alti (LA-SIb-DOb-REb-MIb-FA) mirabilmente esprime la crescente costernazione del padre alla lettura del messaggio della figlia a Rodolfo, costernazione che sfocia nel tremendo LAb di tutta l’orchestra, mentre il foglio cade di mano  a Miller, che mormora Sotto al mio piè il suol vacilla!...      

Poi, nel tragico duetto fra Rodolfo e Luisa, già posseduti dal veleno, sarà ancora l’inciso anapestico a comparire più volte. Compiutosi il destino, con lui se ne andranno anche i segni musicali che ne hanno accompagnato il materializzarsi.
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L’ambientazione pensata da Mario Martone è – parole sue – di stampo fiabesco-onirico. E ciò si giustificherebbe con le pesanti modifiche ambientali che Cammarano apportò al dramma di Schiller. Insomma, portandoci il libretto - da una città della Germania - in una malga del Tirolo e venendo a mancare il personaggio della madre di Luisa, ecco che la vicenda – secondo il regista – perde ogni carattere di realismo e diventa un sogno. Dove però – sono sempre parole di Martone – tutto ciò che accade sembra proprio reale… (smile!)   

Altra perla del regista (ascoltata nel video accessibile dal sito web del Teatro): l’assenza di costumi d’epoca mette il cantante in rapporto diretto con se stesso e con lo spettatore. Quindi abiti moderni, perché interpreti e spettatori possano vivere meglio la vicenda, evitando di farsi quattro risate al cospetto di gente abbigliata in modo bizzarro. Peccato però che lo strumento usato da Luisa per scrivere la confessione dettatale da Wurm non sia – come sarebbe coerente con la vision registica – Winword, ma una bella e lunga penna d’oca (stra-smile!)

Il letto è il protagonista-centrale dell’allestimento martoniano. Se leggiamo il libretto, scopriremo che effettivamente il letto vi compare, una volta sola. Ma è un letto assai particolare, come ci spiega Luisa poco prima della fine: La tomba è un letto sparso di fiori… Immagine invero poetica uscita dalla fervida penna del buon Cammarano. Ora, innalzare questo pezzo d’arredamento a simbolo dell’intero allestimento può spiegarsi solo in coerenza con la visione onirica del regista, chè – di solito almeno – è proprio a letto che si sogna. Ma ciò che invece lo spettatore capisce è che il letto, oltre ad essere lo strumento per sognare, è anche l’obiettivo (freudiano?) dei sogni di taluni (e talune).

Così rappresenta dapprima le aspirazioni (innocenti?) di Luisa: tutto candido e ricoperto di fiori (quindi sarebbe la tomba?) accoglie l’incontro fra i due innamorati. Poi quelle dello sbifido Wurm, che smania (più che sognare) per portarvici Luisa, impeditone però da Miller, che ricopre il letto con il lenzuolone bianco (la purezza della figlia?) per far capire al bavoso che quel posto lui se lo deve scordare.     

Letto che può venire benissimo a proposito nel caso di Federica, la cui caratterizzazione mi è parsa convincente: lei è una donna che ha avuto tutte le ricchezze immaginabili e desiderabili, ma le è purtroppo sempre mancato un manico. Ora che è tornata libera – ma evidentemente con qualche annetto in più sul groppone sui glutei (mi riferisco al personaggio, non all’odierna interprete, per carità) – altro non cerca che un maschio con cui finalmente usare il letto (che non per nulla viene ricoperto di lenzuolone e cuscini rosso-scarlatto) in modo piacevole e… sanguigno; e meglio ancora se quel maschio è uno che già eccitava le sue fantasie fin da quando frequentavano insieme le elementari; e di fronte al quale la bellona non esita a mettersi in desabillé per rinfrescargli la memoria.

Un altro pezzo d’arredamento (talvolta usato come alcova per imprese erotiche) – una poltrona, smile! - fa anche da scenario dell’odioso ricatto del vile verme Wurm (ma sì, mettiamoci pure una Stabreim!) ai danni della povera Luisa. Pochi dubbi che il tristo figuro abbia una voglia matta di scoparsela seduta (in poltrona) stante, ma qui pare che il regista esageri un filino, propinandoci una motivazione proprio hard-core della giusta indignazione della pudibonda ragazza, che sbotta: A brani, a brani, o perfido, il cor tu m’hai squarciato!

In casa Walter vengono portati in scena anche alcuni spezzoni di un’aula parlamentare, sui cui scranni prendono posto i rappresentanti della casta di quei tempi. La cosa sarebbe più plausibile se si rappresentasse il dramma di Schiller, tutto intriso di significati politici, mentre (almeno stando a Cammarano) nella Luisa dovremmo trovarci in una malga del Tirolo dell’inizio del 1600… smile! Ma vuoi vedere che si tratta invece di un trucco come un altro che il regista si è inventato per insinuare che i parlamenti di oggi non sono per nulla più democratici delle corti assolute di 400 anni fa? Nel primo atto gli scranni circondano il lettone rosso dove la provocante Federica cerca invano di soddisfare le sue smanie con il ritroso Rodolfo. Parrebbe quindi un’apologia, o una velata satira, dell’attuale camera dei deputati, trasformata tempo fa da un nostro ex-PM in luogo di supporto alle sue simpatiche burlesque.   

Il letto torna poi completamente bianco nel terzo atto, allorquando Luisa vi sogna effettivamente la tomba, sogno che non tarderà a materializzarsi.

Insomma, un’ambientazione – quella di Martone - fra l’intelligente e il bizzarro, che non mi sentirei di censurare totalmente, ma che vanifica almeno in buona parte gli sforzi con cui il librettista aveva cercato di poetizzare la vicenda. 
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Leo Nucci è il trionfatore di questo allestimento: la sua voce non sarà più perfetta, ma francamente il suo Miller è ancora di livello eccellente. Strepitosa, vocalmente, la sua salita al LAb dell’onor, anche se drammaticamente fa un poco scadere la nobile figura del vecchio padre a vanesio personaggio da tenorino in calore…

Elena Mosuc – accolta da ovazioni - non mi è troppo piaciuta: la sua incarnazione del tormentato personaggio di Luisa è convincente nel suo lato intimista, dove ascoltiamo una bella voce e acuti in mezzo-forte benissimo eseguiti; invece piuttosto volgarotta quando si tratta di far venir fuori la grinta: qui il canto, soprattutto in alto, tende assai verso il bercio. Insomma, una prestazione decorosa, ma non entusiasmante, nonostante la facilità con cui la Mosuc sale al REb sovracuto, che arriva al termine di una parte già di per sé faticosa e costellata da DO in abbondanza.

Conferma le sue doti Piero Pretti, che già si era fatto apprezzare nelle recite precedenti, compresa quella in cui era stato catapultato in scena di punto in bianco, dopo la rottura di Álvarez. Voce chiara e piuttosto leggera, ma abbastanza appropriata a scolpire la natura di questo personaggio pieno dei classici complessi da figlio-di-papà. Per lui consensi unanimi del pubblico.

Lo sbifido Wurm è benissimo impersonato da Kwangchul Youn, che in Verdi, come in Wagner, è ormai una sicurezza. Martone lo gratifica anche di un chiaro handicap fisico, così, tanto per infierire.  

Vitalij Kowaljow è un più che discreto Walter, peraltro un poco, diciamo così, sbiadito, almeno per come immagino il ruolo del conte, ricco di psicologiche contraddizioni.

Daniela Barcellona è una Federica professionalmente impeccabile, scenicamente perfetta (per come il regista immagina questo personaggio). La sua è una parte relativamente facile, e lei mostra di padroneggiarla assai bene, meritandosi grandi applausi.     

Valeria Tornatore (Laura) e Jihan Shin (un contadino) si sono guadagnati, come si suol dire - e specialmente la prima, più impegnata - la pagnotta.  

In bella evidenza il coro di Mario Casoni (che il redattore delle locandine web deve avere in uggia, visto che lo ignora regolarmente…)  

Da ultimo, Gianandrea Noseda. Si è letto di qualche contestazione nelle precedenti recite (evidentemente anche lui fatica a sfatare il vecchio adagio nemo propheta in patria…) Ieri invece solo applausi, compresi i miei (che sono di parte, essendo suo concittadino). Però, fossi in lui, qualche esagerazione nei fracassi me la sarei risparmiata…

In definitiva, uno spettacolo dignitoso, ma siamo sempre lì: dalla Scala non ci si dovrebbe aspettare di più?

15 giugno, 2012

Orchestraverdi – concerto n°37


Zhang Xian chiude questa settimana la parte concertistica della stagione 11-12 con tutto-Ciajkovski.

Il vincitore ex-aequo (in realtà il primo premio non è stato assegnato) del prestigioso Concorso Ciajkovski 2011, il 24enne Sergey Dogadin, si presenta per interpretare il Concerto op. 35, quello che, secondo lo schizzinoso Eduard Hanslick, era musica che puzza (effettivamente, dopo l’impiego fattone anni fa a scopo pubblicitario da una nota marca di brandy, emana ancora un certo olezzo di… alcool, smile!) Qui il ragazzo e il suo prezioso violino (oltre all’orchestra tenuta a bada dalla Xian, se si esclude un forsennato accelerando poco prima della cadenza) ce lo propongono però in modo sobrio e per nulla stomachevole.

Certo, è uno di quei pezzi che un violinista emergente non può non iscrivere in repertorio, e l’ascoltatore in questi casi assume il ruolo di assaggiatore di una nuova annata di chianti o di refosco: sarà la migliore degli ultimi 30 anni, o va archiviata nella grande massa delle produzioni dignitose-ma-non-più? Ecco, personalmente non mi sentirei di parlare di annata eccezionale: per carità, ascoltare il concerto eseguito con grande virtuosismo dal solista e con solida professionalità da orchestra e direttore è sempre un piacere, ci mancherebbe… e infatti il successo non manca, premiato con un bis paganiniano.

Poi un’altra pagina inflazionata: la Quinta, che laVerdi ha ormai interiorizzato fin dai vecchi tempi di Vladimir Delman. Anche in questo caso prestazione rimarchevole, soprattutto per la lettura accattivante della Xian, ma esecuzione non proprio impeccabile (i corni, croce e delizia di ogni orchestra…)

Pubblico osannante che dà l’arrivederci alla Direttora per il prossimo settembre, inizio di una nuova, speriamo altrettanto positiva, stagione.  

L’ultima fatica del 2011-12 per laVerdi sarà uno specialissimo appuntamento con l’opera: Andrea Chénier.

08 giugno, 2012

Orchestraverdi – concerto n°36


Corposo il programma del terz’ultimo concerto della stagione de laVerdi, in un Auditorium non proprio affollatissimo. E dal palinsesto ultra-classico: Ouverture, Concerto solista e Sinfonia; e tutto nel segno dell’ottocento, classico e romantico.

Difficile pensare a qualcosa di più romantico, nel senso proprio del termine, del weberiano Freischütz, la cui Ouverture apre la serata.
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È una mirabile sintesi del cuore filosofico dell’opera, la lotta fra il bene e il male, che abitano l’animo umano nello scenario della natura, a sua volta splendente o minacciosa.

È la melodia dei corni, da battuta 10, a introdurre lo scenario profondamente romantico di boschi e montagne:


Poi ascoltiamo un riferimento all’aria di Max, dalla quarta scena del primo atto (Doch mich umgarnen finstre Mächte), un motivo agitato, poiché Max sta subendo l’influsso sinistro di Samiel. È immediatamente seguita dal terrificante motivo del malefico Caspar, che si udrà nella gola del lupo, alla fine del second’atto:

   
Su un tremolo degli archi, adesso è il clarinetto che presenta un dolce motivo, in MIb, che deriva dall’esclamazione di Max di fronte alla gola del lupo, alla fine del second’atto (Ha! Furchtbar gähnt der düstre Abgrund!) ma qui introduce il tema che rappresenta il bene, impersonato da Agathe, e la sua aria dalla seconda scena del second’atto (Süß entzükt gegen ihm) che lei canta all’arrivo dell’amato Max:



Tornano il truce motivo di Caspar, poi ricompare Agathe, ma in un’atmosfera sospesa e poco rassicurante, che infatti lascia spazio ancora ai motivi di Max e Caspar, prima della coda finale, che è ovviamente occupata dal motivo di Agathe, a chiudere nel glorioso DO maggiore.
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Trascinante l’esecuzione di Xian dell’Orchestra, a dispetto del non impeccabile esordio dei corni.


Il bravissimo Roberto Cominati (che ha recentemente inciso l’integrale pianistico di Ravel!) torna all’Auditorium, dove è quasi di casa, per proporci un autentico monumento della classicità su tastiera: il Quarto di Beethoven.

Di cui dà una lettura, appunto, classica, senza sconfinare il romanticherie fuori-luogo. Qualche piccola sbavatura nell’iniziale Allegro moderato nulla toglie al valore della sua esecuzione, ben sostenuta da Xian, che toglie le briglie all’orchestra giusto nei momenti più caldi del finale Rondo. Rimarchevole la resa delle atmosfere quasi impressioniste dell’Andante con moto.

Gran trionfo per Cominati, che ci regala un focoso bis con DeFalla.


In chiusura, un classico dell’epoca romantica, Johannes Brahms, con la sua Quarta.
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Il cui tema principale (con cui la sinfonia si apre) è abilmente costruito manipolando due semplicissime serie di terze (maggiori e minori). La prima discendente per due ottave dalla dominante: SI-SOL-MI-DO-LA-FA#-RE#-SI, in cui Brahms inserisce due rivolti, MI-DO e RE#-SI, ottenendo una melodia, per così dire, a dente-di-sega (diagonale-verticale-diagonale-verticale) che torna al SI di partenza. La seconda ascendente: MI-SOL-SI-RE-FA-LA-DO, in cui il MI e il RE sono raddoppiati e rivoltati un’ottava sotto, ottenendo un altro dente-di-sega (verticale-diagonale-verticale-diagonale):

Insomma, un esempio di come una melodia che suona come ispirata si possa ottenere con semplici interventi su una serie di suoni banalotta e di per sé abbastanza priva di attrattive.  

Poi viene l’Andante moderato, che si articola su due motivi; il primo è quello piuttosto crepuscolare, esposto inizialmente dai corni, col supporto degli strumentini:


Il secondo, più avanti, affidato inizialmente ai violoncelli, davvero brahmsiano fino all’osso:

Il terzo movimento, Allegro giocoso, è di fatto uno scherzo senza trio. In questo, che fu l’ultimo movimento di sinfonia composto da Brahms, entra anche – per la prima e ultima volta in tutta la sua produzione sinfonica - il triangolo.

L’incipit della ciaccona che chiude la sinfonia (e che Brahms aveva già fatto balenare verso la fine dell’Allegro giocoso) è ispirato da quello che conclude la bachiana Cantata Nach dir Herr verlanget mich (BWV150) e precisamente da quello del basso (fagotto e continuo):


Dalla melodia principale (Meine Tage in den Leiden) Brahms prende spunto per lo sviluppo delle innumerevoli variazioni di cui è ricco questo ultimo movimento. In una delle quali, prima del conclusivo Più allegro, ricompare ciclicamente la prima sezione (ampliata) del tema che aveva aperto l’opera, con una sequenza di terze discendenti, che qui ha la seguente struttura: MI-DO-LA-FA#-RE#-SI-SOL-MI-DO-LA-FA#-RE#... con il dente della sega ottenuto rivoltando il SOL e innalzandolo di un’altra ottava:

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Esecuzione che mi permetto di definire straordinaria. Xian tiene tempi praticamente perfetti; nell’iniziale Allegro chiede agli archi l’attacco delle frasi quasi con timidezza, impercettibilmente ritardati; e gli strumentini da parte loro fanno mirabilie. Nell’Andante corni e violoncelli meritano la lode. Splendida la compattezza di tutte le sezioni nell’Allegro giocoso e grandiosa la perorazione della conclusiva passacaglia. Davvero una prova maiuscola, che si merita ovazioni a non finire.


Il penultimo appuntamento (ma dal punto di vista concertistico sarà l’ultimo, poi… Chénier!) vedrà ancora sul podio Zhang Xian con una full-immersion di Ciajkovski.

04 giugno, 2012

Dittico-Bartók al Maggio


Béla Bartók è protagonista al Maggio fiorentino con due diverse opere teatrali: un balletto-pantomima e un dramma. Purtroppo la prima di giovedi scorso è saltata, causa lavori alle strutture del teatro, e così l’esordio è avvenuto ieri pomeriggio, in un Comunale per la verità afflitto da troppi vuoti (il che rinfocolerà le polemiche fra chi apprezza queste proposte e chi vorrebbe solo trilogie popolari, per far cassetta).

Ma il contrattempo più grave si era verificato mesi fa, quando purtroppo quello che doveva essere il grande protagonista dell’evento, Seiji Ozawa, aveva annunciato la propria rinuncia per serie ragioni di salute; ed anche il suo (quasi) naturale sostituto, Peter Eötvös, non ha potuto farcela. Così la direzione è affidata al 44enne Zsolt Hamar, magiaro pure lui, quindi in qualche modo di casa con Bartók

La produzione è giapponese (con scene della DGT) opera del Saito Kinen Festival, di cui Ozawa è più che un partner, quasi un padre fondatore, e certo la sua simbiosi con la regìa di Jo Kanamori avrebbe garantito un altissimo livello allo spettacolo, come avvenne lo scorso anno a Matsumoto. Spettacolo che ha comunque riscosso un notevole successo.


Dapprima viene presentato Il Mandarino miracoloso (o meraviglioso, come si usa più spesso titolare) in forma integrale e con le coreografie di Kanamori e i complessi Noism Dance Company e MaggioDanza.     
   
Coreografie assai intelligenti, con i mimi a impersonare l’ambiente (a cominciare dall’iniziale caos del traffico) in cui si muovono i 5 personaggi principali (i tre malfattori, qui individuati nel padre e madre adottivi della ballerina Mimì, e la di lei cognata; e appunto Mimì e il Mandarino) e i 2 secondari (i primi avventori della ragazza, che qui sono a ruoli modificati rispetto all’originale, dove lo squattrinato è il primo e non il secondo). Il Mandarino ha incollato alle spalle una specie di ombra, che in realtà lo pilota continuamente nei movimenti, evidentemente rappresentando tutto il complesso di vincoli materiali, venali e prosaici cui il nostro soggiace. E di cui si libererà solo alla fine, dopo aver provato almeno per una volta un poco di amore e prima di… tirare le cuoia.

Ottima prova di Hamar e dell’orchestra (clarinetto, manco a dirlo, in testa!) e breve ma efficace intervento del coro femminile, a sottolineare la luminescente trasformazione finale del Mandarino.

Calorosa l’accoglienza per tutta la troupe, in particolare per Sawako Iseki (Mimì) e il Mandarino Satoshi Nagakawa.


Poi il pezzo forte del programma, Il castello del duca Barbablu (in magiaro sarebbe Kékszakállú, nome che a noi pare più che altro uno sfottò piuttosto volgare, smile!) Il Maggio fu il primo teatro italiano ad ospitare l’opera, nel lontano 1938, a 20 anni dalla prima, e dopo un lungo periodo in cui l’opera rimase ineseguita a causa delle proibizioni del governo militare di Miklós Horthy a citare sulle locandine il nome del librettista Balázs (di orientamento comunista) il che convinse Bartók a ritirare l’opera per parecchi anni.    
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Opera di chiara ascendenza al simbolismo francese, che riprende molto liberamente il libretto di Maeterlinck per Ariane et Barbe-bleue di Dukas. Nel quale, contrariamente alla tradizione consolidata da Perrault (dove le 7 mogli perdono fisicamente la testa per il protagonista) il finale è quasi lieto, con Ariane che se ne va incolume, e Barbablu cui viene risparmiata la vita, e così continua a starsene con le altre 5 mogli che lo accudiscono amorevolmente… come brave schiave (!)

Anche Béla Balázs non fa morire fisicamente nessuno (per lui le mogli precedenti sono 3) ma la sua è una storia dalle mille implicazioni: psicologiche, sessuali, filosofiche, antropologiche (per citarne solo alcune). Già il Prologo (recitato da un menestrello) pone questioni da nulla, del tipo: dov’è la scena, dentro o fuori? (pare un soggetto creato apposta per Robert Carsen… smile!, ma lui non l’ha ancora abbordato, credo.)

La prima cosa certa che si evince dal libretto di Balázs è che è stata Judit a cercare Barbablu e non viceversa (!): cosa non proprio scontata, dati i… precedenti. Le prime parole che i due si scambiano in scena sono continue e insistite domande che l’uomo fa alla donna, per sincerarsi della sua persistente volontà di seguirlo, a dispetto del fatto che il suo castello è una ciofeca, a confronto con quello del padre di lei, e che i di lei familiari non l’hanno presa per niente bene, la sua fuga con lui; alle cui domande lei sempre risponde con la massima sicurezza, rivelandoci addirittura di aver lasciato, oltre alla famiglia, pure il promesso sposo, pur di seguire il duca fin lì. E ben sapendo (o sospettando) che il duca medesimo abbia parecchie e turpi cose da nascondere!

Allora, come la mettiamo qui? È Judit una pazzoide, così morbosamente attratta da un uomo, da affrontare una prospettiva terribile, compiendo un gesto a dir poco temerario, e ficcandosi di proposito nella tana-del-lupo? O una stupidella mossa da pura curiosità, che sta giocando, senza saperlo, col fuoco? O più probabilmente una donna affetta da complesso di redenzione-del-peccatore, che si è messa in testa di portare il fedifrago sulla retta via? In effetti alcune sue esternazioni ce lo fanno pensare, ad esempio quando, a precisa domanda di Barbablu (Perché sei venuta?) lei risponde che è lì per aiutarlo a riscaldare il suo castello con le sue labbra e il suo corpo (qui il simbolismo sconfina peraltro dall’erotismo nella pornografia, smile!) Quindi: una ninfomane sado-maso amante del rischio? Mah… forse tutte le cose insieme.

E lui, il duca, che tipo sarebbe? Uno di quelli che non-devono-chiedere-mai, perché per le donne sono come il miele – o la m… - per le mosche? Oppure un inguaribile narcisista sognatore e perennemente insoddisfatto, che ha bisogno di sempre nuove sensazioni estetico-sessuali (mattino-pomeriggio-sera-notte, come per le previsioni del tempo, smile!) per soddisfare il proprio io? (Dopodichè, invece di limitarsi a metterle-in-lista, come fa DonGiovanni, lui le donne le rinchiude in cantina…) E questo morboso vivere nell’oscurità, proprio à la Tristan, rappresenta forse lo stereotipo del cinico nichilista, che cerca quasi inconsciamente qualcuno(a) che lo salvi, ma sa benissimo che inevitabilmente dovrà tornare all’apeiron? (Finisce con le parole e ora sarà sempre notte… notte… notte.) O incarna per caso il simbolo di tutta la mascolinità universale e delle relative malefatte, dalla tortura alla guerra, alla conquista di sontuose dimore e di sconfinati possedimenti, tutti traguardi raggiunti più che altro spargendo sangue e facendo riempire laghi di lacrime? O ancora: è forse il duca l’espressione esteriore dell’io profondo, che rifiuta ogni contatto con l’esterno e chiude tutte le sue porte di accesso (Perché nessuno penetri qui con lo sguardo)? Ma allora perché, apparentemente riluttando e pur avvertendo per sé e per la donna un pericolo, consegna a Judit, una dopo l’altra, tutte le chiavi delle sue più segrete profondità?

O forse il protagonista-simbolo è proprio il castello (pare che Balázs ci avesse pensato seriamente…): che piange, sospira, sanguina e trema alla presenza degli umani? E le sue sale segrete, non possono essere i repository della conoscenza? Di segreti arcani, misteriosi, spaventosi e… pericolosi per l’Uomo che vi si avventura? (Perché mai Barbablu, a Judit che apre le prime due porte, chiede: che cosa vedi, che cosa vedi?)  
  
Insomma, un soggetto dai cento volti e dalle mille possibili interpretazioni.

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Quanto alla parte musicale, l’opera ha una struttura fortemente simmetrica, che peraltro rispetta la simmetria testuale/scenografica.

Ciascuna delle 9 scene principali (l’Introduzione, la Presentazione e le 7 porte) ha a sua volta una struttura in tre sezioni (nell’Epilogo sono due) come qui sotto schematizzato:



Questo specchietto invece illustra schematicamente l’impiego delle tonalità nelle diverse scene, anche in corrispondenza dei colori prevalenti di ciascuna:

  
Macroscopicamente si percorre un arco che parte dalla tonalità di FA# (nel buio pesto) e dopo essere passato per il RE e il MIb di tesori e giardini, raggiunge il culmine (porta 5, il meraviglioso regno di Barbablu, nella luce più piena) sul DO, a distanza quindi di un tritono (l’antipodo nel circolo delle quinte) dal punto di partenza, per poi tornare al buio del FA# conclusivo.  
   
Non ci sono propriamente temi assimilabili a Leit-motive di buona memoria wagneriana, ma alcuni motivi si distinguono perché ricorrono spesso, come ad esempio il richiamo al protagonista, fatto da Judit, che si presenta talvolta così:

Oppure quello che si riferisce al sangue (ma anche alle lacrime) iniziante con due note a distanza di un semitono, che si ode proprio all’inizio, ma poi torna sotto diverse forme:
Straordinario il DO maggiore che caratterizza l’apertura della quinta porta, mostrando l’abbagliante – e allo stesso tempo retorica e tronfia - bellezza del panorama che da lì si gode:
Nel canto di Barbablu che segue, par di sentire Froh che presenta il Walhall agli dèi, nel finale del Rheingold (!) mentre Judit (praticamente parlando, proprio senza alcun accompagnamento) con un contrasto tremendo commenta attonita la vista mozzafiato con due frasi fatte di otto crome, tutte bemollizzate! 
  
Struggente e piena di cupi presagi l’implorazione di Barbablu a Judit (amami, e nulla chiedimi) poco prima dell’apertura dell’ultima porta:
Ma tutta l’opera è un’autentica miniera di idee musicali, assolutamente appropriate ad evocare in modo straordinario le diverse atmosfere che si presentano all’apertura delle porte, e i sentimenti che scatenano nell’animo dei protagonisti.   
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Bene, come ci è stata proposta qui al Maggio?  
  
L’allestimento nipponico è di assoluto livello, coniugando un approccio moderno (scenografia essenziale e intervento di mimi) con il totale rispetto di libretto e partitura, a volte persino troppo didascalico, come negli abiti dei due protagonisti: palandrana scura (come la notte) per lui, che poi se la sfila alla porta 5, restando in… pigiama tutto bianco, per poi rimettersela dopo la porta 6, passata l’euforia; vestito candido per lei (la luce) che però alla fine viene ricoperta da un mantello scuro (chè è destinata pure lei a finire nell’eterna notte di una cantina). Judit ha anche un’anima (impersonata dalla bravissima Sawako Iseki) che appare in momenti topici del dramma, proprio quando la ragazza è più sottoposta a stress. Così come mimi nero-vestiti rappresentano le ombre del duca in prossimità delle varie porte.   
  
I contenuti delle stanze o non si vedono (già la musica li evoca mirabilmente!) o sono rappresentati da mimi. Fa eccezione l’ultima porta, dalla quale escono temporaneamente le tre mogli del duca, ma tutte, così come poi Judit (la quarta) fermamente pilotate nei loro movimenti da grigie presenze, che le rendono prigioniere dell’oscurità.    
  
Matthias Goerne è stato un efficace Barbablu; personalmente preferirei un baritono puro, con voce più chiara, rispetto a quella piuttosto… ehm, cavernosa di Goerne. Ma immagino che oggigiorno di cantanti che abbiano così bene in repertorio questo personaggio non ne esistano a bizzeffe.  
  
Ottima mi è parsa la Daveda Karanas, forse un poco deboluccia nelle note basse, ma dotata di personalità e di buon timbro, oltre che sicura negli acuti, incluso il DO della porta 5.  
   
Andras Palerdi ha interpretato efficacemente il menestrello che presenta l’opera. Brevissimi tutti i mimi-danzatori italo-nipponici.  
  
Anche qui una piacevole sorpresa è venuta da Zsolt Hamar, che ha mostrato di tenere in pugno la difficile partitura con grande autorità, sia sull’orchestra, che negli attacchi ai cantanti. Orchestra che ha risposto assai bene in tutte le sezioni, inclusi i sei ottoni (3 trombe e 3 tromboni, in luogo dei 4+4 prescritti) e le due arpe, dislocati su palchetti di platea.  
  
Alla fine lunghi e meritati applausi e ripetute chiamate per tutta la compagnia. Peggio per chi ha disertato! 

01 giugno, 2012

Orchestraverdi – concerto n°35


Interessante programma questa settimana all’Auditorium, che impegna orchestra e coro de laVerdi. Sul podio un altro giovine asiatico, il poco più che trentenne Darrell Ang, da Singapore, che ha già dalla sua un curriculum invidiabile: direttore, compositore, educatore, fondatore di complessi… accipicchia!

Si apre con Mendelssohn e i suo Ein Sommernachtstraum, musiche di scena per il Sogno shakespeariano, di cui vengono eseguiti i numeri principali (4 su 13, più l’Ouverture). A differenza di quanto annunciato su locandina e programma di sala (dove lo Scherzo era spostato in penultima posizione, quasi si volesse dare al brano la forma di una sinfonia in 5 movimenti) l’ordine rispetta precisamente quello scenico.
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L’Ouverture, composta da un Mendelssohn poco più che fanciullo, è in tonalità di MI maggiore e principia con i quattro accordi introduttivi che sono diventati una specie di paradigma dell’atmosfera romantico-leziosa di cui tutta la composizione è permeata. Ed è una sola nota, il DO naturale del secondo clarinetto, a caratterizzarla inconfondibilmente:

Poi abbiamo l’esposizione dei tre temi principali, manipolati nello sviluppo e ripresi, in ordine diverso, nella ricapitolazione, prima della coda dove ricompaiono i quattro accordi iniziali, con lievissime sfumature armoniche, legate ad abbassamenti o innalzamenti di ottava nel primo clarinetto e nel primo corno.

Ecco quindi lo Scherzo, in SOL minore, con il famoso tema introdotto dai flauti e poi dagli oboi, ben spalleggiati da clarinetti, fagotti e corni; e poi ripreso anche dagli archi.

Segue quindi l’Intermezzo, che è pur’esso un brano piuttosto mosso, in LA minore, con un motivo secondario in DO maggiore e un secondo tema, per terze, in LA maggiore, esposto dai fagotti e seguito da un controsoggetto negli altri strumentini, che chiude il brano.

Ora il tempo lento, il Notturno, ancora in MI maggiore, dove i corni creano quella straordinaria atmosfera proprio da sogno all’interno del bosco abitato da fate ed elfi.    

L’inflazionata Marcia Nuziale – le cui prime 11 note della trombetta, spostate di un semitono in alto, verranno impiegate da Mahler per aprire la sua Quinta - chiude questa specie di suite con un prosaico DO maggiore. (Le musiche di scena si chiudono invece assai più appropriatamente, sul piano delle tonalità, con la Marcia dei clown, in SI maggiore e con un Finale ancora in MI.)
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A me pare che Ang abbia una certa tendenza a privilegiare – nei momenti di insieme – le sonorità degli ottoni, a tutto scapito di quelle degli archi e degli altri fiati. Questo può andar bene per la Marcia nuziale, ma meno per l’Ouverture, ad esempio. Qualche imprecisione proprio dei corni nell’attacco del Notturno e delle tre trombette in quello della Marcia hanno poi macchiato un’esecuzione non propriamente impeccabile. E musica come questa, se non eseguita con la massima cura, rischia purtroppo di degradare verso il banale e il dolciastro.

Ora un’opera moderna, le Sacrae Symphoniae di Flavio Testi, composizione che compie 25 anni ed è per la verità pochissimo eseguita, anche perché impegna parecchie risorse: oltre alla grande orchestra, con arpa, celesta e pianoforte, anche il coro e tre solisti di canto. Testi ha anche scelto i testi (smile!) prendendoli dalle Sacre Scritture. Sono per la precisione cinque, interpretati, nell’ordine: dal coro, tenore, soprano, basso e tutti quanti.    

Caratteristica della composizione è il grande contrasto fra il fracasso infernale di accordi dissonanti (cluster di note con intervalli di semitono, principalmente urlati dagli ottoni -  4 trombe e 4 tromboni) e momenti di religioso raccoglimento, dove magari è la celesta a creare atmosfere rarefatte. Il canto del coro è prevalentemente a voce spiegata, fortissimo, mentre quello dei solisti è più intimistico, quasi straniato.

Anna Carbonera, Gianluca Bocchino e Abramo Rosalen sono i tre solisti che danno voce a Matteo (V, 11-12), al Cantico dei Cantici (VII, 11-12) e al Lamento di Geremia (V, 15-16-17) mentre il Coro di Erina Gambarini espone Paolo (Epistola ai Galati II, 20) e, insieme ai solisti, il Salmo 105 (1-2-3).

Caloroso successo per l’opera – che è stata giustamente apparentata a Stravinski, più che a certe discutibili avanguardie novecentesche – e per l’autore, un arzillo 89enne presente in sala e salito sul palco a raccogliere applausi (e a ringraziare gli esecutori).

Chiude la serata la celeberrima Italiana, dove Ang conferma – nel bene e nel male – quanto mostrato nel Sogno. Eccessivo lo spazio sonoro concesso agli ottoni (qui corni e trombe) anche quando dovrebbero suonare solo parti di accompagnamento, da non far venire in primo piano. Molto meglio i tempi interni, dove gli ottoni tacciono o quasi, e possono quindi risaltare strumentini e archi.

Buon successo e applausi da un pubblico abbastanza folto.

Per il prossimo appuntamento, torna Zhang Xian con un programmone classico-romantico: Weber, Beethoven (con il bravissimo Cominati) e Brahms! 

28 maggio, 2012

La Norma del Regio


Ieri terz’ultima delle 11 recite di Norma al Regio torinese, piacevolmente stracolmo. Trattasi di una ripresa dell’allestimento di Alberto Fassini di parecchi anni fa.

Che dire di un’opera sulla quale sono state scritte enciclopedie? Allora la prendo alla larga, esaminando qualche aspetto, come dire… etno-geografico-storico. Intanto, dove è ambientata l’opera? Qui dobbiamo subito rilevare una grande incongruenza del libretto, che consiste nell’ubicare nelle Gallie - quindi nel mondo celtico-druidico-francese - l’Irminsul, che è invece simbolo religioso e divinità tipicamente sassone-germanica.

Questa operazione però non è farina del sacco di Felice Romani, che già dieci anni prima di Norma aveva scritto per Pacini La sacerdotessa d’Irminsul, coerentemente ambientata ad est del Reno. Per il libretto di Norma, Romani si rifece alla tragedia – nuova di zecca al tempo - di Alexandre Soumet, da cui copiò anche questa (ma per fortuna soltanto questa!) incongruenza. Ma Soumet era stato a sua volta convinto a compiere questa forzatura da François-René de Chateaubriand, che nei suoi Les Martyrs aveva deliberatamente importato l’Irminsul nel mondo druidico, in base alla superficiale considerazione che anche i Galli adoravano divinità arboree.

Per la cronaca, la foresta dove si trovava l’Irminsul è posizionabile nella parte nord-orientale di quello che oggi è il Land tedesco Nordrhein-Westfalen, all’interno di un triangolo che ha come vertici Dortmund, Kassel e Hannover. Sulla sua localizzazione precisa ci sono almeno due teorie. Secondo la prima, basata su un fatto storico (la presa di Eresburg nel 772 da parte di CarloMagno, che vi fece distruggere i simboli delle religioni pagane) l’Irminsul si trovava nelle vicinanze dell’odierna Obermarsberg, e precisamente sul vicino Priesterberg (monte dei sacerdoti). La seconda supposizione (che fu avallata dalla propaganda nazista, e qui avanzare qualche sospetto è lecito…) ubica invece il luogo sacro una sessantina di Km a nord, nei pressi dell’odierna Detmold, dove sono ancor oggi visibili le Externsteinen, gigantesche formazioni di pietra che recano delle incisioni e bassorilievi in cui si riconoscerebbe anche l’Irminsul umiliato da CarloMagno.

Irminsul era probabilmente una grande quercia venerata come una divinità, analogamente al frassino Yggdrasil delle saghe nordiche di cui si occuperà – nel suo Ring - tale Richard Wagner. Il quale, guarda caso, fu un grandissimo ammiratore di Bellini e di Norma in particolare, arrivando al punto di scrivere una sua aria (alternativa a quella di Oroveso prima del finale) per una rappresentazione (poi sfumata) a Parigi nel 1839! E come non riconoscere in Tannhäuser e soprattutto in Lohengrin chiari spunti presi proprio da Norma… per non parlare del Liebestod, il cui modello fu quel crescendo sempre e incalzando che accompagna Io più non chiedo, io son felice che Norma canta avviandosi al rogo.

Un’altra curiosità, più o meno rilevante rispetto ai problemi di ambientazione dell’opera, riguarda il periodo storico in cui collocare la vicenda. Il libretto di Romani, per fortuna, non ci lascia molti dubbi – supponendo che il suo Pollione sia proprio il proconsole Gaio Asinio Pollione – nel collocare la vicenda ai tempi di Giulio Cesare, quindi ben prima di Cristo (Pollione fu nominato proconsole nel 39 a.C. e morì nel 4 d.C.)

Invece qui era stato Soumet a fare una gran confusione, fornendoci un’indicazione della massima rilevanza, nel definire Clotilde come una nutrice cristiana, e nel metterle in bocca, nei dialoghi con Norma e il di lei figlio Agenor, giudizi negativi sulle religioni pagane e l’invito ad abbracciare il cristianesimo. Il che comporterebbe di spostare in avanti le lancette dell’orologio come minimo di parecchie decine d’anni, se non di un paio di secoli addirittura, a Pollione ampiamente defunto!

Probabilmente Romani si accorse dell’incongruenza ed evitò accuratamente di adeguarcisi, anche per non introdurre nell’opera un ulteriore, pesantuccio - e, nella fattispecie, fuorviante - aspetto quale il problema del conflitto fra religioni. Nulla di ciò quindi nel libretto, dove Clotilde non solo è semplicemente definita come confidente di Norma, ma nelle sue fugaci esternazioni mostra di essere fedele osservante del culto pagano. Non parliamo poi del finale di Soumet (Norma che ammazza i figlioletti e poi si suicida!) che Romani letteralmente (e mirabilmente) reinventò.  

Detto ciò, com’è l’allestimento di Fassini, ripreso oggi da Vittorio BorrelliLa vicenda ci viene presentata – toh! – precisamente come vien fuori dalla lettura del libretto. Peccato perché, proprio come Butterfly, anche Norma si presterebbe molto bene ad una proposizione in chiave di turismo sessuale (smile!) Vorrà dire che sarà per il prossimo regista-genio.

Sempre come da libretto, i movimenti di tutti i protagonisti e comparse sono ridotti quasi a zero e chi canta – salvo la povera Norma, sdraiata, ma per pochissime battute – lo fa stando sempre in posizione eretta e non da fachiro o contorsionista.
   
Le scene sono austere, proprio minimaliste, in un’ambientazione cupa, con alte pareti di pietra granitica, impersonate da quinte mobili che traslano parallelamente al proscenio, aprendo o chiudendo di volta in volta la vista su panorami più ampi, rappresentati da fondali che raffigurano cieli chiari con una grande luna piena (atto primo) o foreste impenetrabili (atto secondo). L’altare del clandestino Irminsul è sovrastato da due blocchi di granito che ricordano (in scala) la Garisenda e l'Asinelli, forse per far sentire Mariotti a casa sua (smile!)  

I costumi sono più o meno plausibilmente (vedi gli stivaletti di Pollione e Flavio...) dell’epoca romana (repubblicana o imperiale, chi può dirlo?)  

Insomma, una visione abbastanza classica e nobile, che a qualche snob saprà di museo, ma che al sottoscritto non è per nulla dispiaciuta.
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Sul fronte musicale, do senza esitazioni un ottimo a Michele Mariotti: per come ha guidato l’orchestra e soprattutto per come ha pilotato i cantanti, con un gesto sempre essenziale e composto. Ha tenuto tempi comodi, ma mai slentati, né ha ecceduto in enfasi o retorica. Meritatissimo l’autentico trionfo che il pubblico gli ha tributato.

Subito appresso, il Coro di Claudio Fenoglio, che in quest’opera ha una parte determinante, e l’ha sostenuta in modo eccellente.

Note meno entusiasmanti sul fronte interpreti. Aspettavo un grande Marco Berti, e invece è arrivato sul palco il secondo, Aquiles Machado (che Berti aveva sostituito la sera precedente…) Lui ce l’ha messa tutta, ma il suo è un Pollione un pochino… approssimativo; ha anche provato a sparare il DO con corona puntata nell’aria di esordio, con esiti non propriamente edificanti, e per il resto ha navigato sul limite della sufficienza.

Le due protagoniste femminili, Dimitra Theodossiou e Kate Aldrich non mi sono dispiaciute nei loro incontri-scontri-duetti, in atmosfere più intimiste, mentre nelle parti squisitamente solistiche non hanno brillato particolarmente, la prima urlando eccessivamente gli acuti e difettando spesso in intonazione, la seconda mostrando qualche limite nella zona bassa e una certa freddezza nell’espressione. Alla Dimitra il pubblico ha comunque riservato un clamoroso trionfo alla fine di entrambi gli atti: buon per lei!

Bene invece Giacomo Prestia, che ha impersonato un più che degno Oroveso, gran portamento e bella voce penetrante sull’intera gamma. Sì, la parte non sarà tipo Filippo o simili, ma non è proprio una cosuccia da nulla.

Gianluca Floris e Rachel Hauge hanno ben compitato le loro parti di comprimari.
  
Uno spettacolo tutto sommato più che dignitoso, anche se non entrerà in guinness o in annali delle meraviglie.

25 maggio, 2012

Orchestraverdi – concerto n°34


È John Axelrod ad occupare il podio nel concerto di questa settimana in Auditorium. Con un palinsesto che, contrariamente a certe più o meno radicate consuetudini, presenta due composizioni (relativamente) moderne che prendono in sandwich una dell’ottocento più romantico che si possa immaginare.

I due lavori che aprono e chiudono il programma hanno il titolo di Concerto per orchestra (il primo con la specifica di orchestra d’archi) e sono stati composti a breve distanza uno dall’altro (1948 e 1943). Gli autori sono due musicisti del vicino est (Polonia-Lituania e Ungheria) che hanno avuto profondi, anche se differenti, legami con la civiltà musicale mitteleuropea.

Si inizia con Grazyna Bacewicz, il cui Concerto per orchestra d’archi è la più famosa composizione del suo periodo classico (successivamente si sposterà su posizioni più moderniste, dodecafonia inclusa). È in tre movimenti ed è saldamente ancorato alla tonalità (per quanto sui righi non compaiano mai accidenti in chiave).

C’è chi tira in ballo Bach, chi Händel, per dare dei riferimenti formali-estetici di questa composizione. Che però già alla battuta 7 ti spara un bell’accordo di tritono (SOL#-RE) che avrebbe fatto fare il segno della croce ai due imparruccati barocchi (smile!)   
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Il primo movimento (Allegro) è in tonalità base di RE (con parecchie divagazioni…) e presenta in sostanza due temi: il primo, esposto in origine dagli archi bassi e sostenuto da un pedale ostinato di crome dei violini, è costituito da scalette discendenti di semiminime (che portano all’accordo col tritono) che poi verranno riprese dai violini e dalle viole:
Una variante del tema è proposta dai soli violino primo e violoncello, poi abbiamo il secondo tema, energico, in tempo di 2/4 con frequenti intrusioni di 3/4, 4/4 e 5/4, presentato da viole e archi bassi, con incisi di accordi dei violini, prima sincroni e poi sincopati:
Temi che vengono poi ripresi in una specie di sviluppo e ricapitolazione, quasi da forma-sonata, ed è il secondo a concludere su un RE pizzicato di tutti.   

L’Andante (3/4) riprende il ritmo oscillante del pedale di accompagnamento del primo tema dell’Allegro, sul quale il violoncello solo, all’inizio, poi due viole sole, cantano una delicata melodia:
Il tema è sviluppato assai gradevolmente – sembra quasi anticipare certe atmosfere di Ligeti, e nel contempo richiama vagamente l’impressionismo di Debussy - fino ad arrivare ad un climax (accelerando) da cui rifluisce lentamente, per poi chiudere (ancora verso il RE) su note in armonici.

Il terzo movimento è un Vivo (6/8) aperto, sempre sul RE, da martellanti semicrome che introducono il tema di questa specie di Scherzo:

Che è inframmezzato da due specie di Trii (in cui il tempo diminuisce e l’atmosfera si fa languida e rarefatta) prima che il tema principale si rifaccia largo per chiudere - con un anapesto - ancora sul RE in unisono di tutti gli strumenti.
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Questa composizione conferma come si potesse scrivere – ancora a metà del ‘900 - dell’ottima musica impiegando la vecchia cassetta degli attrezzi, senza necessariamente rincorrere avanguardie e sperimentalismi che hanno dato risultati (per me) francamente deludenti.

E gli archi de laVerdi ce l’hanno propinata con gran perizia ed efficacia, sotto l’esperta bacchetta di Axelrod, meritandosi convinti applausi dal non oceanico pubblico.

Ora si fa avanti il 32enne funambolo yankee-tedesco David Garrett, bardato come fosse appena sceso da una Harley-Davidson (gli mancava solo il foulard…) per proporci il Primo Concerto di Max Bruch. Per usare un linguaggio da pasticceria, trattasi di un babà al miele ripieno di mascarpone, ricoperto di panna vanigliata e sciroppo di fragole e guarnito con marron-glacé e cioccolato gianduia liquido. Insomma: al confronto la mappazza del cacao-meravigliaio ha il sapore di un grissino integrale (smile!)  

Per dire: per tutta la partitura è come se il compositore usasse solo i tasti bianchi del pianoforte, servendosi di quelli neri due o tre volte al massimo, e conoscesse solo accordi di tonica e dominante… roba da chiodi! Il culmine di questa melassa lo si raggiunge nell’Adagio, dove incontriamo quella che è la melodia più famosa – delle tante, una più dolciastra dell’altra - del concerto:
Insomma, siamo in un clima adatto ad un episodio di Harmony (smile!) Il vulcanico Garrett pare il primo a digerire con fatica questo pezzo, tanto che ci infila anche qualche gigionata di troppo, compresi un paio di glissando che Bruch si guardò bene dallo scrivere. Certo, lui ha una tecnica straordinaria e col violino può fare ciò che vuole, quindi tutto ok.

Per lui, tifo da discoteca alla fine, così prima fa il solito bis carnevalesco, con accompagnamento chitarristico degli archi, poi si congeda seriamente con Bach. Peccato che, con lui, si congedino anche decine e decine di spettatori (ahiahi!)

Quindi, dopo l’intervallo, è un Auditorium semideserto quello che accoglie il Concerto per orchestra di Béla Bartók, già altre volte eseguito da laVerdi (ad esempio un paio d’anni fa). Altro caso di ottima musica del ‘900 composta, con mezzi tradizionali, da quello che fu probabilmente il più ispirato autore del secolo scorso.

Pezzo che, programmaticamente, impegna gli strumentisti - timpani inclusi - a livello solistico, e i verdiani hanno quindi l’occasione per mostrare le loro eccellenti doti, sciorinando un’esecuzione (quasi) impeccabile, trascinati da un convincente Axelrod.

Perciò tanti e meritati applausi dal poco pubblico rimasto.

Un altro emergente direttore-bambino-prodigio (asiatico, si dà il caso) Darrel Ang ci delizierà (speriamo) la prossima settimana con un Mendelssohn inframmezzato da Testi.