affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

13 aprile, 2012

Orchestraverdi – concerto n°28


In programma un concerto monografico dedicato a Musorgski. Sul podio il giovane Jader Bignamini, che nell’organico orchestrale copre la posizione di clarinetto piccolo (quello in MIb, per intenderci, molto impiegato nelle bande e meno nel sinfonico, Mahler a parte, smile!) ma che si è da anni avviato anche sulla strada della direzione, al punto da essere promosso a Direttore Assistente de laVerdi.

Il cuore del programma è rappresentato dai Quadri di un’esposizione. Molto interessante l’accostamento delle due versioni, quella originale per pianoforte e quella – francamente più famosa ed eseguita, fra le mille – per orchestra, dovuta a Maurice Ravel.

Sappiamo che l’ispirazione per la suite venne a Musorgski dalla contemplazione di quadri del suo amico Viktor Hartmann, prematuramente scomparso. Ecco come l’ultimo dei quadri, La grande porta di Kiev, è stato dipinto e musicato dai due artisti:

I poderosi accordi del pianoforte (per la chiusura dell’opera) evocano con efficacia anche grafica l’elefantesca figura della porta immaginata da Hartmann.

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La suite consta di 15 numeri: 10 che richiamano altrettanti quadri (di cui l’ottavo suddiviso in due) più l’introduzione e 4 intermezzi (da essa mutuati) che rappresentano gli spostamenti dell’osservatore (il musicista medesimo) da un quadro all’altro della mostra.

Promenade (Allegro giusto, nel modo russico, senza allegrezza, ma poco sostenuto. 5/4 e 6/4 è 6/4).
È il motivo principale delle passeggiate, filo conduttore e autentico motto dell'intero brano. In questa prima apparizione è in SIb e fa uso della scala pentatonica più comune (quella priva di sottodominante e sensibile, per intendersi senza il FA e il SI in chiave di DO). È quindi un motivo dal sapore vagamente esotico e orientaleggiante (ad esempio Mahler impiegherà quella scala nel suo Das Lied von der Erde, ambientato, per così dire, in Cina; e Puccini se ne servirà per le orientali Butterfly e Turandot). Chissà se la disparità del ritmo (motivi principali di 11 tempi, su due battute di 5 e 6 quarti) indica la camminata inizialmente un poco incerta di un visitatore attirato da quadri in diverse direzioni, prima di aver stabilito verso quale dipinto muoversi decisamente, al che il ritmo si stabilizza sui 6/4. (attacca)
  
1. Gnomus (Sempre vivo – Meno vivo – Sempre vivo. 3/4) (Poco meno mosso, pesante. 4/4) (Vivo. 3/4) (Poco meno mosso, pesante. 4/4) (Vivo. 3/4) (Meno mosso. 4/4) (Vivo. 3/4) (Meno mosso. 4/4) (Poco a poco accelerando – Sempre vivo. 3/4).
Il primo quadro rappresenta un elfo malmesso e magari poco raccomandabile che si aggira in un bosco. La tonalità è MIb minore. I frequenti cambiamenti di tempo danno l’idea dei suoi movimenti imprevedibili, dai lenti passi felpati agli improvvisi scatti felini. La prima sezione (18 battute) è una specie di presentazione del tizio, una cosa fra lo schizofrenico e il menomato fisico. Poi seguono 10 battute col da-capo, dove si può immaginare l’individuo che fa sei passi in discesa su un dirupo scosceso. Quindi ancora nove battute agitate, seguite da una lunga sezione più lenta, dove lo gnomo si muove con circospezione, ma con improvvisi scatti isterici. Chiude il quadro ancora una serie di scarti bruschi, fino a che lo gnomo scompare alla vista con una velocissima fuga.    

(Promenade) (Moderato commodo assai e con delicatezza. 5/4 – 6/4)
È assai breve e variata rispetto all’introduzione. Siamo in tonalità di LAb e in uno scenario rasserenato, in vista del quadro successivo. (attacca)   

2. Il vecchio castello (Andantino molto cantabile e con dolore. 6/8) 
La tonalità passa per enarmonia dal LAb al SOL# (minore). La scena ci mostra un menestrello che, su un tempo di siciliana, canta la sua lunga e struggente melodia davanti alle mura di un castello medievale. Dopo 7 battute introduttive, che presentano una specie di ritornello che scende progressivamente da dominante a tonica, il tema principale, che inizia con una quarta ascendente, da dominante a tonica, viene presentato due volte; poi un’idea secondaria appare pure due volte, prima che il tema principale venga riproposto ancora due volte, variato e sviluppato. Il quadro si chiude con una quinta ripresa del tema, nella forma iniziale, seguita da una cadenza che porta alla conclusione, ancora sulla quarta ascendente dell’incipit del tema.

(Promenade) (Moderato non tanto, pesamente. 5/4 – 6/4)
Adesso si passa alla tonalità relativa SI maggiore e il visitatore della mostra parrebbe risolutamente avviarsi verso un nuovo quadro. Il suo cammino si interrompe però bruscamente (la seconda sezione del tema viene troncata di netto) come se lui fosse stato attirato in direzione diversa da un quadro interessante. (attacca)
  
3. Tuileries (Disputa di bimbi al gioco) (Allegretto non troppo, capriccioso. 4/4)
Siamo rimasti in SI maggiore per ammirare questo terzo quadro. Alcuni bambini giocano e sgambettano nel parco parigino delle Tuileries. Il motivo principale inizia con intervalli di dominante-mediante (semiminima-croma) seguiti da rapide quartine di semicrome. Un intermezzo sembra mostrarci le tate dei piccoli che se la raccontano tranquillamente. Ora si passa evidentemente ad ammirare un quadro vicino, senza dover fare alcuna… promenade, ed anche la tonalità si sposta di pochissimo, tornando alla relativa SOL# minore.

4. Bydło (Sempre moderato, pesante. 2/4)
Il bydło è un grosso carretto agricolo polacco, dotato di grandi ruote. Trainato da buoi su un sentiero fangoso, si avvicina lentamente, ci passa dinanzi e poi se ne va. La musica mirabilmente ne rappresenta il lento avvicinarsi, poi aumenta d’intensità al passaggio del carro – con diverse modulazioni che sfociano in SI minore - quindi sfuma, tornando a SOL# e perdendosi insieme alla vista dello stesso.

(Promenade) (Tranquillo. 5/4 – 6/4)
Siamo passati ora a RE minore: il trasferimento qui è piuttosto lento, il visitatore, chissà, accusa forse un po’ di stanchezza. Poi un sussulto, qualcosa ha attirato la sua attenzione: quattro veloci accordi in semicroma, alternati su mano destra e sinistra, che anticipano il tema del prossimo quadro! (attacca)  

5. Balletto dei pulcini nei loro gusci (Scherzino: Vivo, leggiero. Trio, Scherzino, Coda  2/4)
Hartmann predispose dei disegni di costumi per un balletto (Trilby, di Yuli Gerber). Nel quadro sono appunto rappresentati due ballerini vestiti con gusci d’uovo, più la maschera da pulcino che indossano. Il brano è in FA maggiore, strutturato come un mini-scherzo. Lo scherzo (inizialmente da ripetersi) si muove esclusivamente su veloci crome, e ci pare proprio di vedere dei pulcini che corrono freneticamente qua e là. Poi c’è un trio, composto da due sezioni con da-capo di 8 battute ciascuna, caratterizzate rispettivamente da trilli e da pigolìi (!) Si ripete lo scherzo e poi si chiude con una coda di 4 battute. (attacca)  

6. Due ebrei, uno ricco e l’altro povero (Andante. Grave-energico – AndantinoAndante, Grave. 4/4)
Anche qui la modulazione è assai morbida, verso la sottodominante (SIb minore). Il quadro è interpretato da Musorgski con due motivi: il primo, legato all’ebreo ricco (Samuel Goldenberg), è tronfio e retorico, pieno di sé, già fin dall’attacco (semibiscroma-croma, tonica-dominante!); il secondo, legato al povero Schmuÿle, è invece tutto un querulo lamento (ciascun tempo della battuta è costituito da una terzina di semicrome, preceduta da acciaccatura e seguita da un’appoggiatura alla successiva croma!) che scende prima dalla tonica e poi dalla sesta fino alla sottostante mediante, passando anche da veloci svolazzi di biscrome. Poi, mentre Schmuÿle reitera, amplificandola, la sua petulante lagna, ecco arrivare il contrappunto del motivo di Goldenberg, che pare proprio volerlo zittire! Dopo un attimo di sospensione (con dolore recita lo spartito!) dove forse è il poveraccio che si lecca le ferite, ecco arrivare la perentoria chiusa, nel nome del riccone.  

Promenade (Allegro giusto, nel modo russico, poco sostenuto. 5/4 – 6/4 – 7/4)
Altra modestissima modulazione (a SIb maggiore) e ritorno dell’introduzione della suite, che viene praticamente qui ripetuta, quasi a voler dividere in due la visita alla mostra (come se ci si dovesse spostare in una sala piuttosto lontana). Le differenze rispetto alla prima esposizione risiedono soprattutto in una maggior corposità dell’accompagnamento (mano sinistra) e in una maggior movimentazione del tempo, che varia continuamente fra 5, 6 e 7 quarti a battuta. Non da poco è l’assenza, nell’indicazione agogica, del termine senza allegrezza, che caratterizzava l’introduzione, quasi che il visitatore (Musorgski) abbia superato il momento di sconforto provato all’ingresso della mostra del suo grande amico così improvvisamente scomparso. Questo brano venne omesso da Ravel nella sua orchestrazione dell'opera. (attacca)
 
7. Limoges. Il mercato (La grande notizia) (Allegretto vivo, sempre scherzando. Meno mosso, sempre capriccioso. 4/4 – 3/4 – 4/4)
Nuova modulazione morbida, col passaggio dal SIb alla sottodominante MIb, per evocare – con spiritose quartine di semicrome, i chiacchiericci di massaie e ortolane al mercato di Limoges, conditi da battibecchi per futilissimi motivi (le vicende della vacca di Monsieur Pimpant de Panta Pantaléon, piuttosto che quelle di Madame de Remboursac  e della sua nuova dentiera in porcellana!) Il brano è una specie di moto perpetuo, che si conclude con una folle rincorsa che finisce direttamente… sotto terra! (attacca)
 
8. Catacombae (Sepulcrum romanum) (Largo. 3/4)
In questo quadro è raffigurato lo stesso Hartmann che, in compagnia dell’architetto Vasily Alexandrovich Kenel e di una guida che regge una lanterna, si aggira nelle catacombe di Parigi. Sono 30 battute in cui si odono accordi pesanti ed arcani, di tonalità quasi indefinita e cangiante (nessun accidente in chiave) che ben evocano la misteriosa atmosfera del luogo. (attacca)
  
8b. Cum mortuis in lingua mortua (Andante non troppo, con lamento. 6/4)
È la seconda parte del numero precedente, tutta articolata su un tremolo di ottave, a partire dal FA#, forse la nota che più compare nel brano, dapprima come dominante di SI minore e poi – nella chiusa – come mediante di RE maggiore. Vi sentiamo cupi echi della promenade (in fondo qui si passeggia in luoghi bui e poco confortevoli!) L'autografo del compositore spiega: Lo spirito creatore del defunto Hartmann mi conduce verso i teschi e mi chiama verso di loro; questi si illuminano dolcemente all'interno. Ohibò!

9. La capanna sulle zampe di gallina (Baba Jaga) (Allegro con brio, feroce 2/4 - Andante mosso.  4/4 2/4 – Allegro molto. 2/4)
La prima nota del quadro è ancora il FA# che aveva chiuso quello precedente, ma tosto cala al FA naturale e da qui ci si trova in tonalità di DO maggiore. Il quadro raffigura il progetto di un grande orologio (sembra un cucù) poggiante su zampe di gallina e rassomigliante alla strega Baba Jaga. Il brano è in forma A-B-A, con la prima sezione molto vivace, dove ci sembra di vedere lo zampettamento di questo autentico mostro, che per ora non fa paura. Ma nella sezione centrale, nella mano sinistra compare – ohibò! – lo sbifido tritono (LA#-MI) che ci mette in agitazione, come agitate sono le sestine (SOL-MI) nella mano destra! Si torna poi al tema principale, con la strega che pare diventata per la verità un’allegra befana e se ne scappa con una vertiginosa salita fino al SOL acuto. (attacca)  

10. La grande porta (Nella capitale di Kiev) (Allegro alla breve. Maestoso. Con grandezza. 4/4 tagliato. Meno mosso, sempre maestoso. 2/2. Grave, sempre allargando. 4/4)
Il SOL che saluta la strega diventa la mediante del MIb con cui Musorgski ridipinge per noi il quadro. Va detto che Hartmann era anche architetto ed aveva predisposto un progetto per una nuova, grande porta di Kiev, che doveva essere costruita per celebrare lo Zar Alessandro II, scampato ad un attentato in quella città nel 1866. Quella porta in realtà non fu mai costruita, ma una assai più duratura e inossidabile fu messa in partitura dall’amico fraterno di Hartmann! Dopo l’esposizione maestosa del tema, Musorgski lascia spazio a due intermezzi di mestizia – il ricordo dell’amico perduto? – e una reminiscenza della promenade (forse è lui che si sposta avanti e indietro dal quadro per apprezzarne tutte le bellezze) prima di dare sfogo alla finale perorazione (in terzine di semiminime sul tempo 2/2) e alla solenne cadenza conclusiva.
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Ma un altro interesse artistico fu sollevato dai Quadri (quelli di Musorgski, orchestrati da Ravel) in Vassily Kandinsky, che nel 1928 ideò e mise in scena in Germania uno spettacolo con disegni, filmati e giochi di luce (più un paio di danzatori) che ebbe un enorme successo. Ebbene, impiegando i pochi disegni sopravvissuti di quell’allestimento, il pianista russo-francese Mikhail Rudy ne ha predisposto un’esecuzione animata, che ha debuttato nel 2010 a Parigi e che in questo periodo viene riproposta in Italia: dopo la recente esibizione a Foligno, ecco Rudy presentarcela in Auditorium. Davvero accattivante questa soluzione, che consente di apprezzare la musica di Musorgski senza eccessive distrazioni, ma anzi con appropriata focalizzazione sui diversi quadri. Ecco come Rudy interpreta la visione kandinskyana de La grande porta di Kiev.

Calorosa l’accoglienza del pubblico (non proprio da record) che spinge Rudy a ripetere, quali bis, Tuilieries e Pulcini (con diversa colorazione delle immagini proiettate).

Dopo l’intervallo, entra l’orchestra e, come intermezzo fra i due Quadri, propone Una notte sul Monte Calvo. Qui viene eseguita la versione – famosissima e bellissima, va detto subito – di Rimski. Non quella originale (in realtà essa stessa un terzo o quarto tentativo) di Musorgski (qui diretta da Abbado) assai più dura, rozza, primitiva, ma indubbiamente più originale e… moderna (l’ascoltammo al MI-TO tempo fa da Salonen). (Proposta per laVerdi: perché non eseguire nello stesso concerto le due versioni?) 

Bignamini conferma la sua grande sicurezza, guidando i colleghi da par suo in un’interpretazione scoppiettante e tesissima, accolta da grandi applausi.

Poi torna sul podio (sempre senza leggìo, segno che si è davvero preparato a dovere) per proporre i Quadri raveliani: ecco, se c’è un brano musicale che ha sollevato tanto interesse in arrangiatori, è proprio questo: basti pensare che sono non meno di 26 le diverse versioni per orchestra sinfonica e 40 quelle per altri complessi, messe a punto da altrettanti compositori (neanche la Settimana Enigmistica vanta tanti tentativi di imitazione, smile!

Ravel si mantiene fedele all’originale (tempi, tonalità, agogica) con pochissime deroghe: la principale è l’espunzione dell’ultima Promenade (prima di Limoges); poi i brani si chiudono su corone puntate di pausa, mentre prevalentemente la versione originale li concatena con l’indicazione attacca (è il visitatore che si muove senza pausa da un quadro al successivo); per il resto, un microscopico quanto insignificante taglio delle prime due battute della coda del N°5 e una diversa notazione della chiusa dell’opera, che porta le battute da 13 a 21, ma sostanzialmente rispetta in pieno la scrittura di Musorgski.

Qui sono gli ottoni (tromba in particolare) a farla da padroni, fin dalle prime battute del peripatetico motto:

L’orchestrazione di Ravel è lussureggiante, apporta un grande valore aggiunto alla partitura pianistica, anche se magari la priva della sua caratteristica essenzialità e di quella splendida rozzezza, così caratteristica di Musorgski.

Splendida prova di Bignamini (un giovane che sta crescendo senza clamori, pubblicità e sponsor in paradiso) e dell’orchestra (con Alessandro Caruana sugli scudi) e trionfo assicurato.

La prossima settimana (quasi) tutto Brahms, con intermezzo ultra-moderno. 

11 aprile, 2012

Due cosette per Alberto Mattioli, op-eroinomane


In un forum del prestigioso OperaClick, che ospita una discussione sul suo libro, Alberto Mattioli è intervenuto per rispondere o commentare alcuni interventi colà comparsi.

Una delle risposte, indirizzata a notung (uno dei moderatori del forum) fa un chiaro riferimento al mio post dello scorso 8 aprile, in cui mi sono permesso di esprimere alcune – circostanziate, anche se ovviamente personali e quindi opinabili – critiche ad affermazioni contenute nel suo libretto. Questo è quanto Mattioli scrive al proposito:


Prima considerazione: l'aggettivo anonima con cui Mattioli etichetta la mia recensione è il classico strumento usato per screditarne il contenuto, evitando quindi di rispondere nel merito (della serie: anonimo = non credibile). Non c'è bisogno di ricordare che, come titolare di blog, ho un profilo ed un indirizzo e-mail colà pubblicati e quindi sono contattabile e "incontrabile" senza problemi. Ma anche fossi davvero e totalmente anonimo, ciò che ho scritto non perderebbe un solo grammo del suo valore.

Seconda considerazione: lui conferma di non aver capito Neuenfels e sembra fare dell'ironia su chi – come me, anonimo e quindi non credibile – lo critica per questo. A Mattioli quindi mi permetto di segnalare non già un mio post sull'argomento (che sarebbe di un anonimo e quindi non credibile) ma una recensione comparsa sull'autorevole The Wagner Journal. Non è molto lunga e con poco sforzo Mattioli potrà sicuramente scoprire ciò che non ha decifrato a Bayreuth.

08 aprile, 2012

Alberto Mattioli, diario di un op-eroinomane


In questi giorni nell'ambiente dei melomani si fa un gran parlare del libro di Alberto Mattioli Anche stasera – Come l'opera ti cambia la vita. Sono meno di 200 pagine che l'Autore definisce come la cronaca di una passione.

E infatti nel suo libro il 43enne Mattioli ci presenta una specie di catalogo dongiovannesco (invero invidiabile!) di tutte le sue imprese (le recite cui ha assistito, che sono al momento di andata in stampa del libro 1100, quindi già più delle 1003 spagnole del Don, ma circa la metà delle 2065 totali… auguri): una lista ovviamente lunga (e talvolta parecchio noiosa, mi permetto di dire) di titoli, luoghi e interpreti; arricchita poi da resoconti di tour-de-force francamente velleitari e poco raccomandabili (la vacanza intelligente?) quali 13 opere in 13 giorni, o 2 opere in un pomeriggio-sera a distanza di centinaia di Km, oppure ancora frenetiche spole fra Bayreuth, Monaco e Salzburg, con annesse indigestioni di Wagner, Strauss e Mozart. Ecco, se Mattioli ci voleva dare l'idea della sua dipendenza dal teatro musicale, come da una droga, il suo scopo l'ha raggiunto. Resta da vedere se – come lui si ripromette programmaticamente – tutto ciò lo aiuti a fare proseliti per la causa… o invece a far prendere semplicemente lui per… matto (smile!)

C
i racconta poi moltissimi aneddoti (tipo l'ambiente di Bayreuth, o quello del MET, o Salzburg o Zurigo) qualche volta umoristici, altre volte piuttosto patetici; e anche i soliti luoghi comuni, primo fra tutti il SantAmbrogio scaligero: con tanto di irrisione per la colorita fauna che lo popola e per l'incompetenza (musicale, e non solo) che vi regna sovrana. Poi però si lascia andare ad una lode per il pubblico (e per i relativi giudizi) che affolla la primina del 4 dicembre: lì sì che, essendo tutti (o quasi) giovani, vi regna sovrano il sincero interesse per l'opera e si danno giudizi ed apprezzamenti intelligenti. Può darsi, ma che i giudizi di questi giovani siano da prendere quasi come oro colato mi pare francamente eccessivo: perché è da dimostrare che anche quei giovani, in media e in maggioranza, non abbiano lo stesso livello di ignoranza dei loro ingioiellati e impomatati papà-mamme (o nonni!) del 7 dicembre.

Il principale argomento serio che Mattioli tratta nel suo libro riguarda i problemi e gli approcci alla regìa dell'opera, o in generale alla messinscena. Chi legge abitualmente i suoi resoconti e recensioni sa benissimo che lui è un tifoso del modernismo (o magari del post-modernismo) e un fautore del cosiddetto teatro-di-regìa. E nel libro si sprecano le lodi per Robert Carsen, Claus Guth e compagni, puntualmente affiancate da denigrazioni anche poco soft nei confronti dei vari Zeffirelli, Pizzi e Pier Alli. Per carità, tutte esternazioni legittime, come quelle di qualunque manicheo. E ad essere presi di mira non sono soltanto i registi tradizionalisti, ma soprattutto quella parte di pubblico e critica che dileggia le mirabili intuizioni di quelli di avanguardia. A questa parte di pubblico e critica, colpevole di non apprezzare le regìe dei Carsen di turno, Mattioli riserva un trattamento assai sbrigativo: sono dei cretini. Perché non sono in grado di capire ed afferrare quelle mirabili intuizioni. Peccato però che poi il dottor Freud si insinui subdolamente nella sua psiche, allorchè il nostro ammette candidamente di non aver capito la recente regìa (quella coi i topi, per intenderci) del Lohengrin di Hans Neuenfels! Allora, caro Alberto, chi è qui il cretino? (smile!) Sì, perché quella regìa è di sicuro agli antipodi della sostanza dell'opera wagneriana, ma si basa su un Konzept chiarissimo e – in sé e per sé - pure molto intelligente. Ma il peggio è che dal giudizio negativo su una regìa (che lui non è arrivato a capire) Mattioli tragga la conclusione che tutto Neuenfels sia da buttare e da evitare come l'aids. Invece - toh! – la regìa della Butterfly di Damiano Michieletto (che riduce l'opera pucciniana a volgare racconto di turismo sessuale) sarebbe un capolavoro! 

Mattioli cerca poi di spiegarci i razionali che giustificherebbero queste regìe moderne, il primo dei quali sarebbe quello di allineare, per così dire, la presentazione delle opere alla nostra attuale civiltà, alle nostre conoscenze, alle esperienze che l'umanità ha maturato da quando quelle opere liriche furono composte. Bene, fin qui ci siamo. Ma allora, visto che il citato Lohengratt di Neuenfels interpreta precisamente queste esigenze, ponendo (sia pur gratuitamente e surrettiziamente) al centro dell'opera i problemi filosofici, psicologici e persino politici della nostra civiltà, perché mai Mattioli lo dileggia, esponendolo al pubblico ludibrio?

E infatti poi arrivano degli esempi che sono tutto fuorchè convincenti. Prendiamo Rigoletto. Mattioli rileva giustamente come nella prima scena dell'opera ci troviamo in presenza di una festa tutt'altro che pura e casta, anzi propriamente di un'orgia (come dice espressamente Monterone). Quindi – e fin qui possiamo concordare – presentarla come hanno fatto e fanno troppo spesso le regìe tradizionali, che ci mostrano una scena degna di un menuetto dove gli individui si toccano solo col mignolo, è sbagliato e ridicolo. Ma Mattioli va oltre: essendo un'orgia, oggi che non abbiamo più le censure dell'800 e abbiamo infranto tutti i tabù del sesso, è logico e giusto che venga presentata come tale, quindi: vai con lo stupro e vai con scene di pura pornografia. Ecco, qui francamente mi pare che Mattioli sia fuori strada. Perché non lo sfiora nemmeno il dubbio che quella scena del Rigoletto sia stata costruita e musicata da Piave e Verdi con caratteristiche, diciamo così, soft, non solo e non tanto per evitare gli strali della censura o per non urtare la suscettibilità dello spettatore di allora, quanto per ragioni squisitamente estetiche: in sostanza, per poetizzare anche una vicenda truculenta. La quale, se invece viene presentata in modalità hard, con pieno e nudo realismo, ridiventa appunto truculenta e perde tutta la sua poesia! Lo stesso ragionamento applicasi a Giacosa-Illica-Puccini e alla loro Butterfly.

In fatto di allineamento ai tempi moderni, Mattioli fa anche un accenno ai contenuti musicali (mica sarà una velata proposta perché, oltre ai libretti, si cominci anche a metter mano alla strumentazione?) Quando fa l'esempio della scena del cimitero nel DonGiovanni. Lì (ed è l'unico momento in tutta l'opera) Mozart impiega, per sottolineare i versi cantati dalla statua del Commendatore (11 battute in tutto) i tre tromboni (oltre ai legni e ai contrabbassi). Ora, credo che anche un bambino capisca che ciò sia legato ad esigenze drammaturgiche: accentuare la forza evocatrice di quei versi minacciosi, che arrivano propriamente dall'oltretomba, attraverso il suono profondo di quegli strumenti gravi. Mattioli come lo spiega, invece? Con un ragionamento che definire capzioso è fargli un complimento: siccome siamo in luogo sacro (cimitero=chiesa) ecco che Mozart impiegherebbe uno strumento che ai suoi tempi si usava – secondo lui - solo in chiesa e non in orchestra; ma oggi che udiamo il trombone quasi in tutte le opere musicali, questo significato si perde e quindi sarebbe opportuno sostituire il trombone con altro strumento (!?!)

Mattioli ripete più volte che il suo libro, più ed oltre che ai melomani, vorrebbe indirizzarsi a chi non si sia ancora avvicinato al teatro musicale. E allora, giustamente, propone un elenco di buoni motivi per invogliarlo a fare il primo passo. Ora, chiunque abbia un minimo di cognizione di tecniche del convincimento, sa benissimo che il miglior risultato si ottiene proponendo pochissime (magari una soltanto) ragioni, purchè veramente efficaci e tali da scatenare nella vittima non solo la curiosità, ma proprio la voglia matta del prodotto che viene proposto. Fare una lista interminabile di motivi più o meno plausibili ottiene di solito l'effetto contrario. Ecco, Mattioli di motivi - in ordine sparso - ne elenca addirittura 100 (tanto per dare un esempio di motivazione sospetta bizzarra, al n°44 troviamo: Verdi diretto dal giovane Omer Meir Wellber!)

In sostanza, da melomane (spero: non ignorante) ho trovato il libretto di scarso valore aggiunto, non dico utilità. Mettendomi viceversa nei panni di un non-melomane, francamente dubito che sarei arrivato in fondo alla lettura. 

Comunque, per par-condicio, ecco qua una recensione politically-correct del sempre più famoso Amfortas.

04 aprile, 2012

Orchestraverdi – concerto n 27


In vista della Pasqua torna in Auditorium, dopo due anni, la Johannes-Passion, preceduta ieri sera da un'interessantissima introduzione del Direttore artistico Ruben Jais (che è anche il papà de laVerdi barocca).

Con dovizia di esempi e robustezza di argomenti, Jais ha esaltato il supremo magistero di Bach nell'esprimere i più diversi scenari (materiali e spirituali) dell'opera; ha anche sottilmente criticato certe sottovalutazioni di Bach (la quasi totale assenza di indicazioni agogico-dinamiche) dovute a semplice ignoranza della materia (è il testo stesso a guidare in modo infallibile l'esecutore, nel più classico spirito del recitar cantando) e anche certe interpretazioni novecentesche (Karajan e Richter) che hanno trasformato opere come questa in kermesse sesquipedali quanto infedeli. 

Poi Jais è salito sul podio per riproporci questa Passione nel modo più fedele allo spirito e alla lettera bachiani: orchestra composta da 22 archi (incluse viole d'amore e da gamba, ove prescritte) e 6 fiati, più organo e tiorba; coro di Erina Gambarini (femminile a sinistra, maschile a destra) composto da meno di 40 elementi; rispetto allo scorso aprile c'è poi la novità del cast principale, tutto maschile, con il sopranista Paolo Lopez a sostenere il ruolo del soprano e, come allora, il controtenore David Hansen a sostenere la parte di contralto; confermati anche i bravissimi Makoto Sakurada (Evangelista, tenore) e Christian Senn (basso, recitante anche Pilato); Gesù è il basso Thomas Tatzl; altro tenore Randall Bills; completano il quadro dei solisti due componenti del coro (tenore Francesco Frasca e soprano Saito Kaoru).

Esecuzione davvero rimarchevole, accolta dal folto pubblico con un autentico trionfo.

La prossima settimana… a tutto Musorgski.


30 marzo, 2012

Orchestraverdi – concerto n 26


Ieri è tornato sul podio dell'Auditorium il grande sir Neville Marriner con un programma che spazia su tre secoli di musica.

Si parte infatti dal secolo XX (quasi esattamente 100 anni orsono, peraltro) con Ralph Vaughan-Williams, di cui ascoltiamo la Fantasia su un tema di Thomas Tallis. Tallis fu un musicista rinascimentale (1500) che fra l'altro compose 9 salmi per l'arcivescovo Matthew Parker, di cui il terzo (Why Fum'th In Fight) è stato preso da RVW come base per la sua fantasia, composta dopo una proficua residenza a Parigi per… sciacquare i panni chèz-Ravel

L'Autore prescrive di distribuire le parti su tre diversi complessi, esclusivamente formati da archi: due orchestre, una corposa, l'altra smagrita (di soli 9 elementi: 2+2+2+2+1) e il classico quartetto (violini I-II, viola e violoncello). La cosa ha un senso pratico solo se i tre complessi vengono dislocati in posizioni ben diverse, in modo da creare effetti eco-stereo come quelli che si hanno in chiesa quando i cori vi cantano le antifone… altrimenti la suddivisione serve a ben poco. E in effetti la prima della Fantasia fu eseguita nella cattedrale di Gloucester, nel 1910, in occasione di un celebre festival.
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La melodia originale è in modo frigio (la scala che parte dal MI, in pratica, e percorre i tasti bianchi) che secondo gli antichi greci era il modo collerico (non per nulla melodie frigie venivano suonate per dar la carica ai soldati in battaglia!) che ben supporta il testo di Tallis, che tratta di guerre e odio. Consta di 20 battute, suddivise in 4 (quanti sono i versi del salmo) sezioni di 5:

Vaughan la presenta trasposta sulla tonica di SOL (minore-maggiore) e impiega soprattutto le linee melodiche di soprano e tenore (1° e 3° rigo). Mirabile l'uso del contrappunto per creare atmosfere armoniche continuamente cangianti, dal modo frigio al minore e maggiore del SOL, quindi mescolando intelligentemente stilemi musicali antichi con moderni. 

In tempo Largo, sostenuto, già alla quarta battuta - dopo i cinque accordi iniziali e il RE in unisono - viole, violoncelli e contrabbassi presentano in pizzicato il primo frammento del tenore, e subito dopo la chiusa del primo verso:

Poco più avanti ecco motivi ricavati dal terzo verso e dal quarto, fino alla conclusione in maggiore:

Quindi l'esposizione dei temi continua con l'insieme degli strumenti e con arpeggi in semicrome dei secondi violini. 

Poi si distinguono tre episodi: nel primo (Largamente) sono le due orchestre che si fronteggiano con domande-risposte; nel secondo (Poco più animato) è la viola solista ad esporre la melodia, subito seguita dal violino e poi dagli altri due strumenti solisti, contrappuntati dalle due orchestre; quindi un terzo episodio, assai lungo (Ancora più animato) di cui è protagonista il quartetto dei solisti supportato dall'orchestra da camera e poi anche dalla principale, fino a sfociare in un tutti

Improvvisamente il tempo rallenta, con quattro battute in Molto adagio. Poi ancora violino e quindi viola solisti, sul Tempo del principio, ripropongono il tema, con sommessi interventi delle orchestre.

Infine la coda, col suono che subisce una progressiva rarefazione, sia nel tempo (Molto ritardando) che nel volume, fino al conclusivo accordo (in pppp) di SOL maggiore.
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Intanto, come ha disposto le orchestre Marriner? Allora, la seconda è stata dislocata sul fondo (area solitamente occupata dalle percussioni): contrabbasso al centro, a sinistra (per l'osservatore) i quattro violini (2 primi e 2 secondi) e a destra i 2 violoncelli e le 2 viole; l'orchestra principale disposta secondo tradizione moderna; i solisti del quartetto erano in realtà le prime parti dell'orchestra principale. Tutto sommato mi è parsa una scelta più che opportuna ed efficace.

Il pubblico, abbastanza folto anche se non proprio oceanico, ha mostrato di gradire quest'opera interessante certo, ma che si può definire un capolavoro solo se si restringe il campo alla perfida albione (smile!

Poi si fa un salto indietro di 2 secoli (in realtà di circa 120 anni) con il Quarto Concerto per corno di Mozart. Che si è scoperto essere per la verità il secondo in ordine di composizione (ma son problemi di scarsa rilevanza) dato che la numerazione di Köchel era imprecisa al proposito.

È il residente Radovan Vlatkovic a proporlo – dopo il Terzo eseguito un paio di mesi orsono - come sempre con grande sfoggio di virtuosismo e maestrìa. Qui lo vediamo impegnato qualche anno fa (ancora imberbe) in una specie di kermesse estiva pugliese, con contrappunto di gaie vocine da scuola materna (!)

Anche ieri prestazione di altissimo livello, accolta da ovazioni e scroscianti applausi, inclusi – ed è proprio una bella cosa – quelli del primo corno scaligero, Danilo Stagni, presente in platea e salito poi nel retropalco per salutare e – immagino – felicitare il virtuoso croato. 

Che ha concesso un bis collegiale (Reicha) insieme ai due cornisti che lo hanno accompagnato nel concerto.

Chiude la serata l'ottocentesca Scozzese di Mendelssohn. Forse – ma è solo la mia personalissima convinzione – la più ispirata delle cinque sinfonie del ragazzino-di-buona-famiglia nato più di 200 anni fa in quel di Amburgo e poi diventato quasi il re-di-Lipsia, oltre ad aver conquistato – more Handel – anche i cuori albionici. E del resto è anche l'ultima – a dispetto della numerazione – ad essere stata completata, quindi certo la più matura.

È noto come tale Richard Wagner – incallito antisemita – abbia detto e scritto peste e corna del mite Felix, considerato un traditore della… natura, che gli avrebbe dato enormi talenti da lui – in quanto ebreo - regolarmente dissipati (si legga il Das Judenthum in der Musik). 

Epperò quando si trattava di trovare spunti interessanti per le proprie creazioni, ecco che Wagner non esitava a saccheggiare anche la bisaccia dei suoi cosiddetti mostri. E la Terza Sinfonia ne è un eclatante esempio, laddove il suo tema introduttivo fu impiegato da Wagner per costruirci uno dei principali Leit-motive del Ring, quello che si ode all'inizio della quarta scena del second'atto di Walküre, passato alla storia come tema del presagio di morte (che Brünnhilde annuncia a Siegmund):

Mendelssohn trasse lo spunto per la sinfonia da sensazioni e ricordi di un suo viaggio giovanile in Scozia (così come accadde per l'Italiana, ispirata da un soggiorno romano) ma solo quasi al termine della sua breve esistenza vi mise mano con decisione. 

Uno dei punti più alti della sinfonia mi pare essere l'Adagio, che presenta questa sublime melodia:

Il Finale ha una conclusione inaspettata, almeno per Mendelssohn, solitamente poco propenso a gesti di smaccata teatralità (cosa invece normale in Schumann, tanto per dire): l'Allegro vivacissimo, 4/4 tagliato, in LA minore, invece di arrivare ad una prevedibile stretta finale, pare progressivamente arenarsi, fino a spegnersi sulla dominante grave dei violini. Da qui – a velocità più che dimezzata (Allegro maestoso assai, in 6/8) – parte un corale in LA maggiore, tanto enfatico quanto (apparentemente almeno) avulso dal contesto. Che ha peraltro il pregio di dare una chiusura solare ad un'opera su cui aveva imperato un notturno Ossian

Grande prestazione dell'orchestra, clarinetti e corni in primo piano, e trionfo per il Maestro, accolto con il classico pestone ritmato di tutti i professori.

Prossimamente entriamo in clima pasquale con una celebre Passione.

26 marzo, 2012

Strehler va ancora a Nozze alla Scala


Nuovo – e gradito, a giudicare dall'accoglienza del pubblico non oceanico del Piermarini - revival alla Scala di una produzione storica, ma sempre di grande valore e di attualità: Le Nozze di Figaro del sommo Giorgio Strehler, ripresa per l'occasione da Marina Bianchi.

Poi, tanto per non smentire quella che ormai pare una ferrea regola del Teatro, ecco arrivare puntuale la defezione di uno dei protagonisti, Ildebrando D'Arcangelo, sostituito in Figaro da Nicola Ulivieri

Sul podio un ragazzino - si fa per dire, a 25 anni è incallito fumatore di sigaro e ha un curriculum impressionante, avendo già diretto oltremodo (sic!) la metà delle orchestre del pianeta - Andrea Battistoni da Verona: pare entri nel guinness come il più giovane direttore mai salito sul podio scaligero, beato lui… Forse perché invidiosi di questo primato, i loggionisti del lato destro gli hanno tributato, all'uscita singola finale, una salva di buh (unici della serata, in mezzo ad applausi non isterici, ma robusti). A me, che lo sentivo-vedevo per la prima volta, è parso assai sicuro di sè e per nulla sprovveduto; ha un piglio toscaniniano (vedi l'Ouverture, che ha diretto - non saprei se giudicarlo un pregio o un difetto – battendo il Presto in 4! certo molto diverso dalla compostezza di questo Levine) e persino il gesto (l'ampia sbracciata in chiusura di battuta) ricorda quello del Toscanini che si vede in tanti filmati d'epoca. 
In più ha diretto a memoria (salvo qualche pagina di partitura che ha sfogliato nel terzo atto) il che è comunque un segno di applicazione e di studio. Per lui devono aver fatto un'eccezione persino i famigerati corni filarmonici, con attacchi precisi e assenza di stecche o stonature, il che non è poco. E comunque lui ha almeno cinque anni di tempo davanti a sé per raggiungere (infallibilmente) l'età di altri colleghi che qualcuno fa già passare per fenomeni. Perciò… auguri.

Detto del Kindlein-Kapellmeister, buone notizie dal cast, a cominciare proprio da Nicola Ulivieri, che non ha fatto rimpiangere il forfait-tario D'Arcangelo. Ancor meglio di lui la Contessa, Dorothea Roschmann, che ha tuttora una bella voce e gran recitazione. Su un livello più che dignitoso il Conte di Fabio Capitanucci e la Susanna di Aleksandra Kurzak. Il Cherubino di Katija Dragojevic non ha demeritato, pur non destando entusiasmi (almeno nel sottoscritto). Degli altri, al solito bene la Pretty Yende (Barbarina) ma anche apprezzabili la Marcellina di Natalia Gavrilan e il Basilio di Carlo Bosi, gratificati da applausi dopo le rispettive arie sindacali (l'aggettivo è di Massimo Mila, smile!) del quarto atto. Maurizio Muraro come Bartolo, Emanuele Giannino il giudice don Curzio e Davide Pelissero Antonio: tutti all'altezza dei rispettivi compiti da comprimari. Il coro di Casoni, ultimamente parecchio criticato, non mi è sembrato demeritare, anche perché ha un ruolo francamente tutt'altro che tremendo. Alla fine applausi moderati ma convinti per tutti (cui si sono aggiunti i buh per Battistoni).

Dell'allestimento non si può parlar altro che bene, essendo uscito a suo tempo dalle mani e dalla testa di un maestro assoluto del teatro. Io devo dire che mi ero abbastanza divertito mesi fa alla moderna messinscena di Michieletto (alla Fenice); ma qui con Strehler siamo davvero su un altro pianeta. Francamente non so proprio quante delle regie di oggi verranno ancora riprese nel 2040!