sarà vero?

una luce in fondo ai tunnel

17 dicembre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 15




Ancora Schumann, con Ciajkovski, nel programma del concerto n° 15 de laVerdi, sul cui podio torna lo yankee John Axelrod, protagonista lo scorso febbraio di un'interessante Fantastica. Il nostro ha fatto nel frattempo un po' di carriera in più, essendo oggi Direttore Musicale dell'Orchestra Nazionale dei Paesi della Loira (mica pizza&fichi… smile!) e così si permette gigionerìe da Kapellmeister ottocentesco, come il girare un paio di volte le spalle all'orchestra, ammiccando al pubblico delle prime file.

 
La cosiddetta Renana (ultima delle sinfonie composte da Schumann, a dispetto del n°3 di catalogo) differisce dalle altre tre – oltre che per i 5 movimenti - per non presentare la classica introduzione lenta al movimento iniziale. Parte subito con il Lebhaft (vivace) in tempo 3/4, ma dove due battute si possono interpretare come una in 3/2 (tipo sesquialtera, o emiolia) con un effetto di spiccata energia, come di possenti vogate di un rematore. Axelrod qui rende bene l'atmosfera, con piglio deciso e tempi serrati.

 
Il secondo movimento è uno Scherzo, ma piuttosto moderato, in 3/4; anche qui par d'essere in barca, ma cullati dalla possente quanto tranquilla corrente del grande fiume. Non per nulla qualche armonia ricomparirà anni dopo nella Moldava di Smetana.

 
Il terzo movimento, Nicht schnell (non rapido, in 4/4) è una danza leggera, proprio eseguita in punta di piedi, con le semicrome in staccato di archi e strumentini.

 
Il quarto movimento, Feierlich chiama in causa i fiati, e soprattutto gli ottoni (inclusi i tromboni che suonano qui per la prima volta) per una solenne esposizione di un motivo a canone, del quale incipit forse si ricorderà Edouard Lalo (che come violinista nel suo quartetto suonò spesso Schumann) al momento di comporre il quarto dei cinque movimenti della sua Symphonie Espagnole… Qui i corni non mi son parsi per la verità proprio impeccabili.

 
Si chiude con il secondo Lebhaft, questa volta in tempo pari, che sfocia in un poderoso Höhepunkt dei fiati:

dove Schumann sembra mettere tutta la sua volontà di vivere, rifiorita in quel di Düsseldorf e grazie al grande fiume (nel quale peraltro anni dopo si butterà, preso da raptus suicida). Anche qui la resa non è stata però adeguata, e ancora i corni, secondo me, ne portano qualche responsabilità. Eccellente la coda, dove invece tutti recitano bene la loro parte, trascinati da Axelrod che interpreta lo Schneller come fosse un prestissimo.

 
Si passa poi a Ciajkovski e alla sua Quinta Sinfonia (già eseguita all'inizio della scorsa stagione con Xian Zhang) che è stata introdotta dai Prof. Fausto Malcovati e Mario Marcarini prima del concerto, nel terzo appuntamento del ciclo di conferenze sulla musica russa. Sinfonia con un programma più o meno esplicito e dichiarato: il destino che incombe sempre ed ovunque (non è questa una novità peraltro per Ciajkovski, che già 10 anni prima – nella Quarta, forse con più retorica e affettazione – ci aveva intrattenuto sul tema).

 
Qui il nostro, reduce dal pellegrinaggio a Bayreuth per l'inaugurazione del tempio wagneriano, applica in modo più strutturato la tecnica del Leit-motiv del genio di Lipsia (da lui peraltro piuttosto snobbato) col far ricomparire via via il tema (del destino) sottoposto a variazioni più o meno ampie di tempo, ritmo e colore (quindi imitando anche Berlioz).

 
È nel secondo movimento (Andante cantabile con alcuna licenza) che si trova quella che è per me la più alta vetta espressiva della sinfonia:


A raggiungerla è il primo corno Giuseppe Amatulli, che per la verità mi è parso stranamente contratto, nella circostanza.

 
L'ultimo movimento è proprio da arrivano i nostri (è sempre il destino, smile!) con John Wayne in testa. Quindi nessuno meglio di un altro John americano lo sa vivere e interpretare come si deve! Però il buon Axelrod – volendo strafare, credo - finisce per rovinare un po' il tutto proprio nelle ultime due battute della sinfonia, il classico taaaaa-ta-ta-ta/tà, dove si inventa un insopportabile rallentando e poi trasforma l'ultima semiminima in una minima preceduta da una pausa (mah…) Sia come sia, il successo non manca di certo.

 
Adesso c'è una pausa nel cartellone principale (non per l'Orchestra, che emigra in Montenegro con programma e direttore di un recente concerto) e ci si ritrova per fine anno, con il consueto – ormai – appuntamento con la Nona del sommo Ludwig. Ma laVerdi barocca si esibisce a ridosso di Natale (il 22) con il monumentale (anche se ristretto) Messiah.
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16 dicembre, 2010

Se Ceronetti chiude, che male c’è?


Il filosofo-poeta del pessimismo cosmico sta facendo parlare di sé con il suo recente articolo su LaStampa.

Provocazione? Ignoranza crassa? Fustigazione di costumi? Sottilissima e criptica ironia?

Forse sarà il caso di ricordare qualche aforisma del nostro, tanto per volare basso:
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- Tutto quel che non si mangia, fa bene alla salute.

- Dentro la scienza non si rintraccia neanche un aborto di pensiero.

- Il disastro più profondo non è la distruzione delle città con più milioni di abitanti, ma il loro sussistere.
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- L'esperienza della società e della storia insegna che l'uomo è, per eccellenza, l'essere non pensante.

- La maggior parte delle mie paure, circa i mali fisici, riguarda i medici e le loro cure, non la malattia.

- La morte come liberatrice dall'Informazione.

- L'uomo è un'anima che trascina un cadavere. Noi deploriamo come morte il suo stancarsi, alla fine, di fare da spazzino.


Ecco, proprio impiegando le sue parole ed applicandole alla sua persona: se Ceronetti chiude, che male c'è?
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15 dicembre, 2010

C’è ancora chi discute seriamente di 4’33”

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L'opera maxima di John "charlatan" Cage è quella dove un complesso della consistenza che va da un singolo solista (con uno strumento scelto a piacere) ad una Berlioz-iana orchestra da 1100 strumentisti schierati all'Hippodrome, si presenta, si accomoda e comincia a… girarsi i pollici. Nel frattempo si potrà udire il rumore di fondo dei condizionatori dell'auditorium, o magari quello di un aereo in atterraggio (se siamo all'Hippodrome) oppure – oggi siamo progrediti – un cellulare che squilla, oppure ancora lo scartamento di caramella di qualcuno che cerca di sedare una tosse insistente (con ciò privando però l'opera di altra musica trascendentale).
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.Ecco, 4'33" è una partitura colma esclusivamente di pause, in modo che lo spettatore (meglio – per gli organizzatori – se pagante) possa bearsi nell'ascolto di tutti i suoni che arrivano alle sue orecchie da ovunque, tranne che dall'unica sorgente destinata canonicamente a produrli in una simile circostanza: l'orchestra.
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L'imbecillità umana non ha proprio limiti (Berlusconi al confronto è Einstein) se c'è gente che ancora discute seriamente di queste stronzate.

ps: dimenticavo la cosa più importante: il pezzo è in FA maggiore (o RE minore, ad libitum).
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La discreta Walküre della Scala


Dopo la prima diffusa in TV, ieri sera terza rappresentazione della Walküre. Comincio dagli interpreti.
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O'Neill è tornato, dopo un turno di riposo; la raucedine è passata, ma ovviamente tre giorni non bastano per irrobustire una vocina; né purtroppo per correggere imprecisioni sparse negli attacchi.
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Sir John è l'unico ad avere ancora un vocione che non teme la vastità del Piermarini, né le intemperanze degli ottoni… però esce ormai solo attraverso schiamazzi, il che serve a dare ad Hunding un aspetto ancor più truce di quanto immaginato da Wagner.
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Kowaljow si conferma un Wotan promettente; in ambienti più raccolti è probabile che la sua presenza si faccia ancor meglio sentire.
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La venerabile Waltraud conferma tutte le sue qualità (Sieglinde ormai fa parte della sua vita, insieme ad Isolde) ed anche i suoi limiti (soprattutto di udibilità in basso).
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La Nina si conferma una Brünnhilde coi fiocchi, e la consuetudine con il ruolo non potrà che dare risultati ancora migliori.
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La Gubanova credo avesse speculato assai sui microfoni della ripresa televisiva. Dal vivo mi è sembrata meno autoritaria e incisiva; comunque una Fricka dignitosa.
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Le otto sorelle (vedi locandina per i nomi) hanno dato il loro onesto contributo ai parapiglia del terzo atto, e ciò è quanto basta.
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Barenboim (che ricorda a memoria il primo atto… poi si fa recapitare la partitura) guida l'orchestra con sicurezza e mestiere consolidati da 30 anni di consuetudine con questi drammi. Peraltro mi è parso aver tolto troppo allegramente le briglie agli ottoni (impeccabili, tecnicamente) in alcuni passaggi topici (soprattutto nel secondo atto) col risultato di coprire le non potentissime voci sul palco.
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Ciò che – rispetto alla ripresa TV – mi ha piacevolmente sorpreso è stato lo spettacolo di Cassiers. Può darsi che la regìa televisiva fosse troppo sbilanciata sui primi piani, ed abbia così prodotto due nefasti risultati: mostrare il peggio di Cassier (la mimica facciale degli interpreti) e celarne il meglio, o il meno-peggio: la visione complessiva dell'azione. Un esempio per chiarire il concetto: la (prima) scena-madre del secondo atto, fra Wotan e Fricka. L'aspetto drammatico peculiare qui è la transizione lenta, ma inesorabile, dello stato d'animo di Wotan, che deve passare dall'assoluta sicurezza e tranquillità alla totale e più nera disperazione. E ciò è mirabilmente ottenuto, dal mago Wagner, attraverso la musica, oltre che naturalmente supportato dalla recitazione. Ecco, quella scena è stata resa complessivamente in modo adeguato (grazie appunto alla musica) salvo che per un punto: l'espressione del volto di Kowaljow-Wotan, sempre corrucciata e disperata fin dall'inizio. Ma ciò per fortuna si può notare solo usando un binocolo, o il primo piano della ripresa TV, mentre a visione naturale non si avverte più di tanto.
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Per il resto, Cassier si è attenuto abbastanza scrupolosamente alle didascalie di Wagner: ad esempio Wotan che accarezza i capelli a Brünnhilde, nella scena delle confidenze. O ha addirittura tenuto conto delle osservazioni raccolte alle prove del 1876 da Heinrich Porges, come il Siegmund che si inginocchia al momento di implorare la spada promessa dal padre. In verità, qualcosa di bizzarro l'ha voluto anche inventare, come la scena della morte di Siegmund, del tutto strampalata: Brünnhilde che si intravede soltanto (mentre dovrebbe attivamente proteggere Siegmund); Wotan che, dopo aver spezzato la Nothung, letteralmente spinge Siegmund addosso alla punta della spada (perché non una lancia, come prescrive Wagner?) di Hunding; e soprattutto Siegmund che non muore subito, ma continua a dibattersi al suolo, avvinghiato a Sieglinde (forse Cassiers ha voluto qui introdurre una reminiscenza della Völsungasaga, dove Sigmund sopravvive per giorni e giorni, e ha tempo di fare testamento!) finchè Hunding non lo finisce con un orripilante colpo di spada, inferto a due mani, dall'alto in basso… Mah! Comunque, una regìa abbastanza fedele all'originale, che non si inventa troppe cose cervellotiche e non pretende di aggiungere valore al capolavoro con trovate intellettualoidi.
Le scene sono improntate ad un certo minimalismo, qui con qualche libertà gratuita, come il caminetto settecentesco nella stamberga di Hunding, ma in complesso sono sufficientemente efficaci. Meno, credo, le proiezioni, che finiscono più che altro per distrarre. Bizzarri davvero, invece, i costumi, in particolare delle Valchirie, vestite da megere dal busto in su, e da volatili sul lato-B (forse perché dei cavalli c'erano solo tracce da sala di macelleria, smile!)
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In totale, uno spettacolo sufficientemente godibile, accolto con entusiasmo e generosi applausi per tutti, ma in particolare per Nina e Daniel.

10 dicembre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 14


Tutto Schumann per il 14mo appuntamento de laVerdi. Sul podio una vecchia gloria (86 anni suonati e splendidamente portati!) albionica: Sir Neville Marriner, indissolubilmente legato all'Orchestra londinese Academy of St. Martin in the Fields, da lui fondata più di 50 anni fa, senza un Direttore (lui era un violinista e solo dopo qualche anno si convinse a salire sul podio).

Il concerto è interamente dedicato a Schumann (centenari…) ed in particolare a tre sue composizioni (Opus 52-54-61) del periodo 1841-1847. La prima parte ha lo stesso programma del famoso concerto che il 6 dicembre 1845 (quasi esattamente 165 anni fa!) vide la presentazione della versione definitiva dell'Op.52 e la prima esecuzione (con Clara) del famoso concerto Op.54.

Si comincia appunto con Ouverture, Scherzo e Finale, composto originariamente nel 1841, a ridosso della Prima Sinfonia; un brano non propriamente famosissimo, in effetti una sinfonia in formato ridotto (Symphonette, l'aveva inizialmente battezzata Schumann): nella durata (meno di 20 minuti) e nel numero di movimenti (soltanto 3); una cosa del tipo delle prime sinfonie di Schubert.

L'Ouverture ha una introduzione in stile haydn-iano: 17 misure piuttosto lente (Andante con moto) in MI minore, cui segue l'Allegro, in forma sonata semplificata: un primo tema di carattere Florestan-iano, in MI maggiore, seguito da un secondo, à la Eusebius, SI maggiore, sfociante in RE. Una transizione basata su uno sviluppo del tema dell'introduzione porta alla riesposizione dei due temi, il secondo in MI, sfociante in SOL. Altro ponte e quindi la coda Un po' più animato, che chiude l'Ouverture, nel MI di impianto.

Lo Scherzo, in DO# (minore poi maggiore, con Trio nell'enarmonico REb) in si basa su un tema scalpitante, mutuato dal primo tema dell'Ouverture, che non può non richiamare alla memoria una più celebre cavalcata, che si ode di questi tempi alla Scala:



Il Finale è un Allegro molto vivace, in MI e SI maggiore. Il tema principale ha un caratteristico andamento con metro giambico, e progressione ascensionale, che contrasta con il lirismo della seconda idea, che scende da dominante a tonica e risale alla mediante. Dopo l'esposizione (di cui Marriner ci risparmia il ritornello) si passa ad un complesso sviluppo che porta alla risoluta conclusione in MI maggiore. Come aperitivo, non è davvero male…

Ora arriva il 36enne finnico Henri Sigfridsson (nome impegnativo, e stazza da corazziere, in effetti…) a interpretare il celeberrimo e fin troppo inflazionato Klavierkonzert (combinazione, mentre scrivo lo sto ascoltando da Radio3, che stamane non trasmette Prima Pagina, causa scioperi...) Un'esecuzione dignitosa, quella di Sigfridsson, ma una specie di frutto ancora acerbo, mi sentirei di definirlo. Il non foltissimo pubblico comunque gradisce e lui, da buon patriota, come lo sono tutti i finlandesi, come bis ci suona nientemeno che Finlandia (qui un suo emulo).

Si chiude con la Seconda Sinfonia, forse la meno famosa delle quattro che ci ha lasciato il genio di Zwickau. Ma piena di slancio vitale, quasi una sfida del compositore al tremendo male che ormai lo attanagliava e che – fra alti e bassi – lo avrebbe portato, in meno di 10 anni, alla tomba. Sinfonia omotonica, tutta in chiave di DO maggiore (con l'eccezione del minore all'inizio del terzo movimento).

Si apre con una lunghissima introduzione lenta (Sostenuto assai, 49 misure in 6/4, neanche Haydn!) che principia con un religioso, bachiano corale degli ottoni, ad esporre una specie di motto dell'opera (un salto di quinta ascendente DO-SOL) con gli archi sotto a contrappuntare con semiminime ondeggianti:


A misura 25, su un poderoso accordo di LA minore, il tempo accelera di poco e si comincia a delineare, nei legni, quello che sarà il tema principale dell'Allegro, ma non troppo, cui si arriva non prima della reiterazione del motto e di uno stringendo dei primi violini:



Chissà se tale Giuseppe Verdi si rese conto di citare vagamente l'incipit di questo tema, nel Finale Secondo della sua Aida…

Qui vien fuori proprio l'inquieta e selvaggia personalità di Florestan, non c'è che dire, con quel caratteristico procedere giambico, a singulti, a convulsioni… Da essa è pervaso l'intero movimento, poiché anche la seconda sezione, in MIb, sfociante canonicamente sul SOL, mantiene vivacità e grinta, chiudendo l'esposizione con un ritorno furtivo del primo tema. Esposizione di cui Schumann prevede il ritornello (e Sir Neville non ce lo fa mancare) prima di passare allo sviluppo, che rielabora anche temi dell'introduzione. Che vengono quindi ricapitolati (il secondo portato – secondo le sacre regole della forma-sonata - sulla tonalità di impianto, DO, passando per LAb) e poi il tutto sfocia (con fuoco) nella coda, ancora attraversata dal primo tema. Marriner lo affronta con gran cipiglio e l'orchestra gli risponde da par suo.

Segue lo Scherzo, anche qui con Florestan imperante. I primi violini – sempre compatti, ieri sotto la guida del Konzertmeister Nicolai vonDellingshausen -  si intestardiscono in una specie di moto perpetuo, col resto dell'orchestra a scandire il ritmo. Poi i legni si svegliano con un paio di scale discendenti, dopo le quali i flauti, a distanza di una terza, scandiscono una specie di cucù, in SI maggiore. Questo passaggio domina interamente lo scherzo, interrotto soltanto dai due Trii (qui Schumann ripete quanto fatto nella Prima Sinfonia). Da notare come, nel secondo, Schumann renda esplicitamente omaggio al sommo Johann Sebastian, citandone musicalmente il nome:


Prima della conclusione, si rifà ovviamente vivo il motto della sinfonia, fortissimo, in corni e trombe, tutti bravi, senza sbavature.

Finalmente arriva anche un po' di Eusebius, con l'Adagio espressivo, che principia in DO minore, ed è caratterizzato da grandi intervalli, di sesta e di ottava, che si innalzano quasi a cercare il cielo, seguiti da altrettante ricadute… sulla terra. È un lungo peregrinare, in cui si distinguono un paio di rapide salite di flauti e clarinetti (più l'oboe, nella seconda) quasi a raggiungere un sospirato traguardo, ma a cui succede immediatamente il ritorno in basso, dove c'è una specie di serena rassegnazione. Qui Marriner ci mette tutta la sua esperienza cameristica per cavarne il meglio.

Il tema del finale assomiglia un po' a quello dell'inizio… dell'italiana di Mendelssohn! Non manca, come spesso in Schumann, parecchia teatralità, come al termine della ricapitolazione, allorquando tre grandi pause, intercalate da due accordi di DO minore degli archi, fanno spazio alla Coda, che l'oboe introduce ricordando Beethoven (Nimm sie hin denn, diese Lieder, dalla raccolta An die ferne Geliebte, già precedentemente ripreso nel Quartetto Op.41-2). Trasuda poi altro Beethoven (Alle Menschen!) prima del ripresentarsi, immancabile, del motto DO/DO---DO/SOL, per chiudere come in un cerchio l'intera opera.

Prestazione rimarchevole dell'orchestra e nutritissimi applausi, che continuerebbero ancora se Sir Neville (alla sua età non può fare le ore piccole!) dopo la seconda chiamata non trascinasse via per un braccio Nicolai, decretando il rompete le righe.

La prossima settimana ancora un programma tutto intriso di romanticismo (pieno e… tardo) e con un altro anglofono (però texano) sul podio. 
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08 dicembre, 2010

Barenboim, Bondi e Stinchelli



 
Ieri sera il Maestro Scaligero (che si è anche auto-incensato per quel bizzarro titolo, ma lo perdoneremo volentieri per meriti artistici) ha ricordato - anzi ha proprio letto, da un foglio che aveva in tasca, per non rischiare figuracce - l'Art. 9 della nostra (ma lui ha preso anche il passaporto italico? smile!) Costituzione, che promuove lo sviluppo della cultura. Applausi scroscianti, assai lontani dalle vibrate proteste che avevano accolto i proclami sindacali anti-Bondi in più di una rappresentazione della scorsa stagione (il pubblico era diverso: per la cronaca, c'era un tale Napolitano…)

 
Oggi il simpatico Enrico Stinchelli, prima di ripeterle alla radio dalla prua (o poppa) della sua barcaccia, ha scritto parole assai dure sul suo blog. Sintetizzando al massimo, ha riconosciuto la legittimità (direi l'ovvietà) del richiamo di Barenboim, ma al contempo ha stigmatizzato l'uso improprio (tradotto: ladri!) che delle pubbliche risorse hanno fatto e fanno tuttora i responsabili dell'italico teatro d'opera. Fra i quali cita, ma senza nominarlo e senza calcar la mano, anche l'ineffabile Lissner. Fra i teatri in via di bancarotta cita anche il Massimo di Palermo. Che però, a credere al suo sovrintendente, sarebbe invece un modello da imitare! (salvo leggerne attentamente i bilanci).

 
Se la prende poi, il nostro Enrico, con la visione statalistica del sostegno alla cultura, che preclude in maniera antiquata e rigida l'ingresso ai privati. I quali, secondo lui, investono e rischiano di tasca loro. Però non spiega come accada che il 16% - mica quisquilie e pinzallacchere – del budget della Scala venga da investimenti privati (quelli pubblici sono circa il 45%). L'Orchestra Verdi di Milano (nel suo piccolo) ha più del 30% del suo budget coperto da contributi privati, contro il solo 10% di quelli pubblici. Ma com'è che Garrone è entrato nel CdA del CarloFelice? Ci rischia soldi suoi, come sostiene Stinchelli, o forse qualcuno gli ha promesso di lasciargli portare la benzina a 2 euri? Altra domanda: ma chi e cosa preclude in maniera rigida l'ingresso ai privati? Certo, una maggiore detraibilità fiscale degli impegni finanziari potrebbe migliorare la situazione, ma queste barricate io non le vedo proprio; la domanda, caso mai, è: non c'è per caso - nei privati, aziende e cittadini – un interesse solo marginale per la cultura? E qui si dovrebbe tirare in ballo non Bondi, ma tale Gelmini, almeno credo io.

 
Altra cosa che il buon Enrico si guarda bene dallo scrivere è che dello sperpero di risorse pubbliche sono responsabili, oltre alle poche decine di sovrintendenti e loro manutengoli, anche i sindacati che – coscientemente o ingenuamente – si rendono complici spesso e volentieri della mala gestione.

 
Purtroppo il dramma italico è che, a reclamare rigore, sacrifici e moderazione sono gente come – appunto – Brunetta, Bondi, Gelmini e, più di tutti, l'esperto in evasione fiscale Giulio Tremonti. Mentre per il loro padrone – mai visto in un teatro d'opera - tout va bien, madame la marquise


07 dicembre, 2010

L’apertura della Scala, fra Corriere e RAI5



Il Corriere della Sera ha dedicato oggi alla Scala un inserto speciale di 24 pagine, di cui 13 di presentazione dell'opera che ha aperto la stagione. Il titolo in prima pagina dell'inserto è di quelli che solleticano le fantasie macho dei nostri ragazzotti moderni: Donne selvagge mai sottomesse al maschio guerriero.

Come distillato della Walküre è davvero strepitoso. (A scanso di equivoci, dirò subito che il contenuto del pezzo che appare sotto a quel titolo restituisce tutta la dovuta serietà alla nostra Valchiria). Certo che attorno a quel titolo si potrebbe costruire qualche film con le famose valchirie Giovannona e Ubalda e qualche improbabile arrapato alla Alvaro Vitali. In realtà, è in linea con la classica atmosfera del foyer di SantAmbrogio, dove Sieglinde e Brünnhilde possono facilmente diventare Matilde e Clotilde, tanto tutto fa brodo. Meno male che la presenza del Presidente (sempre quello buono, l'altro ha gusti differenti, lo sappiamo bene) tira su la media.

C'è la diretta di RAI5 - ma solo via TV, non in web, evviva il progresso! – che con le sue riprese sembra farci capire che la messinscena, oltre che costosa, sia anche sostanzialmente innocua, nonostante gli sforzi disperati di Cassier di spiegarcela, con arrampicate sugli specchi sui concetti di famiglia borghese e nobile. Più spettacolare – fuoco compreso - è ciò che accade fuori dal teatro, dove c'è gente che urla incazzature e rivendicazioni. Riprese, dentro il Piermarini, da Barenboim, che prima di attaccare Mameli, sale in platea a leggere un comunicato anti-Bondi; solo che Bondi si è guardato bene dal venire e gli fa un virtuale cippirimerlo da chissà dove.

Tu sei la soave primavera, che di nuovo mi adornò,
che mi ringiovanì la linfa di rami e tronco:
fu il tuo richiamo, che allontanò da me la notte,
che nell'inverno teneva intorpidita la mia arte.
Così come mi affascinò il tuo nobile saluto benedicente,
che deliziosamente impetuoso le mie pene rimosse,
così io ora fieramente ricolmo di gioia vago su nuovi sentieri
nel regno estivo della grazia.

No, non sono versi dello sbudellante duetto Siegmund-Sieglinde. Sono parole che Wagner indirizzò al giovane re Ludwig, nell'estate del 1864, da Starnberg, dove abitava grazie alla munificenza de re, e dove aveva iniziato la sua love-story con Cosima, dopo una surreale scenata con il di lei marito, Hans vonBülow, fino a quel giorno suo idolatrante ammiratore. Ma ben dipingono la natura del nostro, tanto sublime nella produzione artistica, quanto leccaculo e mangiapaneatradimento (oltre che antisemita, così, tanto per gradire) nella vita materiale.

C'è chi sostiene che Wagner si immedesimasse in alcuni personaggi dei suoi drammi: Re Marke, Hans Sachs, Gurnemanz. E magari anche in Wotan, come ci è stato spiegato da Daverio &C. Personalmente credo invece che la grandezza del nostro consista nell'aver saputo immedesimarsi in qualunque personaggio, per esprimerne mirabilmente pensieri, sentimenti e azioni.

E mai come nella Walküre ciò emerge in modo straordinario, basta ascoltare parole e musica, senza farsi distrarre troppo dagli effetti speciali di regìe che si illudono – o ci marciano – di aggiungere valore ad opere d'arte come questa, con giochi di luce e proiezioni. (Ma forse è la ripresa televisiva a trarre in inganno… chissà se dal vivo le cose andranno meglio).

Interpreti? Al solito, è il price/performance a lasciare qualche ombra di dubbio. Con il price di un teatro di provincia, la performance sarebbe anche più che accettabile. Con il price della sedicente unica, invece, il rapporto peggiora un filino.

O'Neill ha una vocina leggera, che di certo non piacerà a chi si è fatto una certa idea dell'Heldentenor. Io sarei anche disposto a transigere (Siegmund in fondo è poco più che un ragazzo) senonchè la mezza raucedine (che gli ha risparmiato i SOL bemolle e naturale dei Wälse e il LA del Wälsungen Blut, ma non il SOLb del Geliebte della terza scena del secondo atto) me lo ha fatto scendere sotto la sufficienza.

Tomlinson è un vecchio marpione che garantisce sempre un servizio decoroso.

La Gubanova devo dire mi è piaciuta assai: il suo Deiner ew'gen Gattin heilige Ehre è stato la degna conclusione di una prestazione maiuscola.

La Meier è sempre la Meier, e in Sieglinde si trova proprio a casa sua, niente da dire.

Kowaljow era acconciato che pareva il fratello, non il padre dei gemelli e delle Valchirie, ma a parte questo non mi ha deluso: anche la voce è giovanile, baritonale, quindi un po' fuori dagli stereotipi tradizionali, però ci ha messo espressione e – soprattutto, a differenza di O'Neill – non ha mai costretto Barenboim a rincorrerlo.

La Stemme è pure una Brünnhilde un po' leggera, ma canta magnificamente, e ciò è per me quel che conta di più. 

Dignitosa la prova delle otto sorelle, tutte voci adeguate, con un paio di piccole sfasature nelle entrate.

Barenboim non sarà Thielemann (che però ha imparato qualcosa da lui sulla collina) ma con Wagner non delude mai: per lo meno a livello di gestione della dinamica (sul suono meglio giudicare dal vivo).


A meno che non siano stati tagliati dalla ripresa audio, non si sono uditi buh (nemmeno per Cassier, smile!) il che stabilisce un autentico record per una prima alla Scala, e in specie a SantAmbrogio.

 

03 dicembre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 13




La musica americana in cattedra per il 13mo Concerto de laVerdi. Wayne Marshall porta a Milano la sua versione di Porgy and Bess, già eseguita a fine estate con gli stessi solisti a Firenze; un anno fa al SanCarlo; un paio d'anni fa con la S.Cecilia e prima ancora con l'Orchestra Nazionale RAI a Torino (ma in passato il simpatico Wayne l'aveva portata in giro per il mondo). Marshall, direttore di origini afro-americane, sia pure di nazionalità britannica, ha un rapporto speciale con quest'opera fin dal 1986, allorquando suonò la parte del pianoforte nell'edizione diretta da Simon Rattle al festival di Glyndebourne.

La versione che Marshall ha predisposto per queste esecuzioni in forma di concerto, con tanto di beneplacito della Fondazione Gershwin, riduce a meno della metà la durata dell'opera originale (quasi 3 ore nette) ma soprattutto la depura di (quasi) tutti quei tratti che contribuirono, al suo primo apparire nel 1935, a farla tacciare nientemeno che di razzismo, per aver dipinto un microcosmo di gente di colore dove imperano violenza, omicidi, droga, prostituzione, alcool, gioco d'azzardo, malaffare e persino oltraggio alla religione. Ecco, nella versione di Marshall, di tutto ciò resta solo un pallido accenno a polverine magiche, la poco più che goliardica parodia biblica di Sportin'Life al pic-nic di Kittiwah, la fuga di Bess e un paio di camere ardenti per gente morta non si sa come. Sparisce del tutto il personaggio di Crown (omicida di Robbins e poi ammazzato da Porgy) e vi emergono in primo piano esclusivamente le qualità positive che pure esistono – ma annegate nel resto - nell'originale: duro e onesto lavoro, cristiana carità e solidarietà e persino… amore!

Marshall ha anche accentuato la forma di Suite dell'Opera, presentandocela come una giustapposizione di numeri chiusi (la trama vi è del tutto inconsistente) e non come un dramma che si dipana con un filo logico e poche soluzioni di continuità, limitate ai cambi di scena. Ciò che ci viene presentato è quindi assai più vicino ad un simpatico e divertente musical (con una spruzzatina di patetico) anziché un'opera con contenuti altamente drammatici.

I tagli comportano anche la perdita di un dettaglio dell'opera originale, dove c'è un caso più unico che raro: uno stesso brano (un'aria, si potrebbe dire, con linguaggio ottocentesco) viene cantato, in momenti diversi e in tonalità diverse, da due diversi personaggi (e due diversi soprano): ed è il brano di gran lunga più famoso, Summertime, la ninna-nanna cantata da Clara al suo bambino (due volte nel primo e poi, parzialmente, nel secondo atto); e successivamente cantata da Bess (che ha preso in carico il piccolo di Clara dopo la morte di lei) nel terzo atto. Qui invece la udiamo solo una volta all'inizio e cantata – nei panni di Clara - da Indira Mahajan, che per il resto sostiene la parte di Bess!

Venendo agli interpreti, oltre alla Mahajan, che ha mostrato una voce calda ed espressiva, bravi tutti, a partire dal tenore Ronald Samm (taglia da Pavarotti ingrassato, smile!) che ha presentato al meglio la figura di Sportin'Life; Angela Renée Simpson (deve pesare ancor più di Samm!) ha impersonato diversi ruoli femminili (Serena soprattutto) con voce chiara e potente; e Kevin Short, un grande Porgy, peraltro con voce non proprio potentissima. Al meglio anche il coro di Erina Gambarini, con le signore avvolte in scialli multicolori per dare un tocco di teatralità all'atmosfera.

Tour-de-force per i professori, con percussioni, sax, clarinetto e violoncello in grande spolvero. Lo stesso Marshall si è esibito - ma solo all'inizio, nella scenetta da saloon - al pianoforte (verticale) che aveva davanti a sè.

Alla fine gran trionfo, con ripetuti applausi ritmati e urla e fischi all'americana.

La prossima settimana arriva il venerabile Sir Neville Marriner per farci fare una scorpacciata di Schumann!

26 novembre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 12





Per il 12mo Concerto de laVerdi sale in cattedra l'Opera italiana. In realtà, principalmente ciò che nelle opere oggi rappresentate in teatro quasi mai si suona, si sente e si vede: balli e balletti.


Rossini e Verdi dovettero – a malincuore? – pagare un certo pedaggio per poter accedere con loro opere nel tempio parigino. Dove vigeva una bizzarra quanto ferrea regolamentazione artistico-estetica (sic!) che escludeva tassativamente la rappresentazione di opere che non contenessero siparietti di balletto. Non solo, ma il siparietto, si badi bene (tale Wagner non ci badò, credendosi protetto nientemeno che dall'Imperatore, e fu impietosamente impallinato) doveva necessariamente essere collocato a metà, più o meno, della rappresentazione, per dar modo a certi simpaticoni (che casualmente erano anche pseudo-azionisti del teatro, in quanto detentori di abbonamento perpetuo a numerosi palchi) di arrivare con comodo, dopo cena, per ammirare le danzatrici e… portarsele poi a letto, a fine serata.



Quindi, si sospetterà: se quello era lo scopo, del tutto estraneo a canoni artistici ed estetici (un'anticipazione, per dire, degli odierni happening a base di bunga-bunga… smile!) chissà quale ciarpame musicale sarà stato scritto alla bisogna, dai pur grandi Verdi e Rossini. E questo sospetto sembrerebbe avvalorato dal fatto che, fuori dalle mura del teatro imperiale parigino, quei balletti e quelle musiche furono spesso e volentieri espunti dalle rispettive opere, e quasi sempre per iniziativa, o con l'esplicito consenso, degli stessi compositori.

Nulla di più falso e bugiardo. I tre brani eseguiti qui dimostrano come Verdi e Rossini ci misero tutta la loro ispirazione e la loro maestrìa, pur sapendo già in partenza che si trattava di corpi estranei rispetto al contenuto drammatico delle opere in cui dovevano essere inseriti.

A mo' di esempio vorrei citare Le Quattro Stagioni, la cui profondità di ispirazione e il cui solido contenuto sinfonico sono appassionatamente messi in rilievo da Riccardo Muti, in questa serie di prove d'orchestra (Inverno e Primavera) con la Cherubini, oggi disponibile in DVD, dopo essere uscita lo scorso anno per iniziativa di Repubblica-Espresso.

Con il cimbasso che spunta come un airone in mezzo ai fiati, si apre con La Pérégrina, questo siparietto del terzo atto del Don Carlos (in corrispondenza dell'incontro fra il principe ed Eboli, creduta Elisabetta) che è scenicamente una specie di bizzarro miscuglio di Bella addormentata e di Rheingold (prima scena) dove i legami con la trama e i personaggi del dramma bisogna scoprirli munendosi di microscopio elettronico. Invece la musica è a dir poco sopraffina, degna del miglior Ciajkovski! Con un assolo del violino - associato alla dormiente Perla bianca avvicinata dal pescatore (Alberich, per caso? smile!) – che, nell'incipit, sembra ricordare la celebre introduzione del violoncello al monologo di Filippo:

Qui ha modo di mettersi in mostra Gianfranco Ricci, avanzato per l'occasione al posto di spalla.

Ecco poi le citate Stagioni: quasi mezz'ora di musica, splendida da ascoltarsi da sola, mortale quando eseguita all'interno del terzo atto dell'Opera, di cui spezza inesorabilmente il pathos drammatico. Sull'esecuzione di ieri, credo proprio che anche il Muti perfezionista di cui sopra avrebbe poco da ridire.

Apre la seconda parte Rossini con il Pas de six dal primo atto e il Pas de soldats dal terzo atto del Tell: quest'ultimo brano, davvero trascinante, si merita un'ovazione.

Subito dopo Damian Iorio ci ha presentato la Boutique Fantasque, Suite dalle musiche del balletto di Diaghilev-Massine (della serie: bambole meccaniche e marionette semoventi e semi-umane, à la dottor Coppélius, o Spalanzani di turno, per capirci) che Ottorino Respighi trasse nel 1918 dal tardo Rossini (dai cosiddetti Riens, inclusi nei Péchés de vieillesse per pianoforte). Un pezzo frizzante e orecchiabile, nelle sue 7 sezioni (più l'ouverture).

Tanto per riderci un po' sopra: ecco, qui come ouverture non c'è male; la miglior tarantella? Eccola! Questi cosacchi sono un po' pesantucci; qui invece una cosacchina in erba, portata via proprio come una marionetta; e questo è precisamente un forsennato Galop! laVerdi è ovviamente meno spassosa, ma più precisa (smile!)

Si chiude in bellezza, a mo' di encore, con la sinfonia dal ??? (Barbiere? Aureliano? Elisabetta?) Iorio, che ha introdotto i vari brani con qualche pertinente riferimento (peccato che la sua voce, senza amplificazione, arrivi neanche a metà sala) informa che la sinfonia viene eseguita impiegando una edizione recenteVero, non è certo quella ottocentesca di Ricordi (visto che i tromboni elisabettiani mancano) ma neanche quella del 2008 di Barenreiter (Gossett) come testimonia la presenza dei timpani, tanto per dirne una. Ma al pubblico, tutto sommato, ha fatto l'effetto di sempre: straordinario!

Prossimamente su queste scene… Porgy&Bess!



24 novembre, 2010

Barenboim tutto austriaco alla Scala


Prima di metter mano alla Walküre, con la quale aprirà la stagione a SantAmbrogio, Daniel Barenboim torna sul podio della Filarmonica per un concerto tutto austriaco: tre opere, che in comune hanno il labile legame della tonalità DO (maggiore per Schubert e Bruckner, minore per Mozart).
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Si comincia con Schubert e il suo Gesang der Geister über den Wassern. Goethe venne ispirato per questa poesia dalla vista mozzafiato della Staubbach-Wasserfall, nell'Oberland bernese:


 
E la chiuse con questi versi: Anima dell'uomo come somigli all'acqua! Destino dell'uomo come somigli al vento!

 
Una poesia che, pur nella sua brevità, rappresenta un autentico compendio della natura e dell'esistenza umana: l'acqua che viene dal cielo e ad esso ritorna, come l'uomo ha natura terrena, ma spirito celeste; la cascata, che rappresenta l'efficienza dell'uomo; la trasformazione dell'acqua in vapore acqueo, simbolo della creatività e dell'arte umana; il suo movimento rallentante, che rappresenta l'invecchiamento dell'uomo; le rocce, simbolo degli ostacoli che l'uomo deve superare; il torrente di montagna, simbolo dei pericoli che ci trascinano verso l'abisso; le stelle che si rispecchiano nel lago, che rappresentano l'incontro dell'uomo con la trascendenza e l'eternità; il vento che rimescola le acque, simbolo dell'esistenza umana soggetta a mutamenti a causa di influssi esterni.

 
Schubert - che adorava Goethe (come dimostra la gran quantità di musica scritta sui versi del poeta) mentre stranamente era da questi del tutto ignorato (!?) - la musicò in varie versioni successive, dalla prima per baritono e pianoforte, fino all'ultima per 8 voci maschili (4 tenori e 4 bassi) e quintetto d'archi (2 viole, 2 violoncelli e un contrabbasso) che viene eseguita qui. Barenboim – dato che siamo nell'enorme Piermarini, e non nell'ambiente raccolto di una sala di musica - moltiplica praticamente per sei l'intero organico (strumenti e voci) il che forse toglie al lavoro un pochino della sua intimità, ma va bene così. Tutti bravi nel porgere questo non facile lavoro: precisamente 72 misure in 4/4, senza accidenti in chiave, ma che si allontanano spesso rispetto al baricentrico DO maggiore, in un proliferare di modulazioni che bene rappresentano lo spirito dell'opera di Goethe.

 
Poi Daniel si mette al pianoforte per interpretare – e contemporaneamente dando gli attacchi all'orchestra – il K491 di Mozart. Lavoro davvero tosto e difficile, che il Maestro abborda con gesti ed espressioni quasi di contrarietà, ma poi esegue da par suo (comprese le sue due cadenze) meritandosi applausi unanimi e convinti, che gli fanno tornare il sorriso. Un bravo ai legni, che in questo concerto fanno quasi squadra a sè, nel dialogare con il solista, specie nel finale Allegretto.

 
Si chiude con Bruckner e il suo TeDeum.


 
Si noti nel manoscritto la mancanza della parte dell'Organo, che è invece presente sulla partitura a stampa, sia pure indicata come "ad libitum". Barenboim ne ha fatto a meno, disponendo poi l'orchestra secondo l'usanza alto-tedesca (come già prima in Mozart) e facendo accomodare i solisti (Dorothea Röschmann, Ekaterina Gubanova, Joseph Kaiser e Kwangchul Youn) fra l'orchestra e il coro di Casoni. Onorevole prestazione per i solisti (Youn su tutti, direi) e grande, al solito, quella del coro.

 
Il motivo ostinato a quartine di crome discendenti negli archi è il supporto di gran parte dell'opera, uno di quei pilastri tipici del Bruckner sinfonico, che non a caso (DO-SOL-SOL-DO) apre e chiude la partitura:


E gli archi hanno mostrato compattezza e precisione. Menzione particolare per il primo violino (Daniele Pascoletti, credo) che nel Te ergo e nel Salvum fac ha una parte di rilievo (sulla scia del Benedictus nella Missa beethoveniana).

Gran trionfo alla fine per Barenboim: speriamo sia un buon viatico per dicembre…
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