affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

22 gennaio, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 15

Pur dovendo rinunciare alla Iolanta di Ciajkovski, originariamente programmata dal disertore Fedoseyev (il che ha forse tenuto molti spettatori lontano dall'Auditorium) il programma resta in Russia, con tre mostri sacri della musica di lassù.

Gavriel Heine, americano di nascita e russo di adozione, comincia con il terzo (o quarto, a seconda delle numerazioni) brano della Suite Lo Zar Saltan di Rimsky: è l'introduzione all'ultimo quadro dell'opera, che descrive le tre meraviglie (lo scoiattolo che sgranocchia noci dorate, i 33 guerrieri che sorgono dal mare, e la principessina-cigno) dell'isola del Principe Guidone. È un vero gioiellino, uno dei tanti che Rimsky ha sparso sui suoi pentagrammi.

Val la pena di analizzarlo da vicino, perché pur durando meno di 10 minuti, ma ha una struttura assai articolata: si parte da un Allegro (8 misure in 2/4): è una fanfara, che tornerà a separare le meraviglie, dalla tonalità cangiante (qui centrata sul SOL). Quindi segue un Moderato (24 misure in 2/2): è inizialmente in MIb maggiore; ci introduce la prima meraviglia: lo scoiattolino, ben caratterizzato dalle note puntate del flauto; dopo un poderoso colpo di grancassa, sfocia sulla sottodominante LAb e chiude con una sospensione sulla settima, SOL. Su cui riprende il successivo Andantino (16 misure in 2/4): mi minore; è sempre lo scoiattolino alle prese con le noci, ed infatti qui – nell'ottavino - si riconosce vagamente un po' di ciajkovskiano Schaccianoci (la Marcia n°2). Ora segue un Allegro (24 misure in 2/4) dove riprende la fanfara, stavolta centrata sulla nota SI; si prosegue con accordi degli ottoni sulla triade di SOL maggiore, che ci introducono la seconda meraviglia, i 33 guerrieri. Dopo la seconda esposizione della fanfara, si passa ad accordi sulla dominante di MI maggiore, col SI che introduce il successivo Andantino (16 misure in 2/4): inizialmente in DO minore, negli strumentini vi compare quasi una citazione della Shéherazade, dello stesso Rimsky. Poi si passa a SOL minore e quindi ad uno sforzato crescendo orchestrale in SOL maggiore; fugace ritorno a DO minore, poi SOL minore e preparazione del passaggio al SIb maggiore del successivo Allegro (10 misure in 2/4): ancora la fanfara, centrata sul SIb, che prepara l'entrata dei 33 guerrieri, ma sembra quasi di essere in presenza dei Meistersinger! Ecco adesso un Allegro animato assai (38 misure in 4/4): siamo in MIb, e sono i guerrieri in azione: torna sempre la fanfara, centrata sul SIb, che adesso sfocia nel LAb di tutti gli ottoni e poi, modulando la sopratonica (SIb) in dominante, torna al Mib per un Allegro (8 misure in 2/4) sempre con la fanfara, centrata qui sul SOL. Ora stiamo raggiungendo l'apice del brano: un Andante (36 misure in 3/4) in tonalità DO maggiore, introdotto da terzine dei flauti, in cui nasce una melodia nei violini e poi nei legni, che è proprio un "love theme" (è la principessina-cigno) che ci porterà fino alla conclusione del brano; qui il DO lascia spazio ad una fugace digressione a LA maggiore, quindi ad un'altra in MI maggiore, da dove si modula verso il definitivo LAb, con cui si apre la grandiosa perorazione del tema, dapprima su un Lento (8 misure in 3/4), poi sul colossale Moderato (12 misure in 4/4); quindi su un Allegro (25 misure in 2/4) e infine con un Presto (21 misure in 2/4) che porta alla trionfale chiusura.

Davvero trascinante l'esecuzione di Heine (che qui ha diretto a mani nude).

Dopo un po' di trambusto, per far avanzare il pianoforte sul proscenio, abbiamo il Terzo Concerto per Pianoforte di Prokofiev, interpretato dal giovanissimo Daniil Trifonov. Che lo suonò nel 2008 al concorso – da lui vinto – a San Marino (1°mov, 2°mov, 3°mov). Una vera forza della natura, questo diciannovenne russo! Che sembra proprio trovarsi a suo agio di fronte alle straordinarie difficoltà di questa partitura, dove il pianoforte alterna momenti di liquidità (come le innumerevoli biscrome del secondo movimento) ad altri di forsennato percussionismo. Oggi abbiamo cento anni in più di civiltà (!?) musicale alle spalle e opere come questa le possiamo – magari faticosamente – apprezzare. Ma si comprende lo scandalo che fecero quando videro la luce, poco meno di un secolo fa… Trionfali applausi per il ragazzino-compositore, che ci dedica un paio di bis virtuosistici.

Dopo l'intervallo, la suite da Petruška di Stravinski. Che è alla seconda comparsa nella stagione, dopo il concerto inaugurale in Scala (allora diretto dalla Zhang). È la versione 1947, che Stravinski preparò per un organico un pochino ridotto (ma sempre di grande orchestra si parla…) rispetto all'originale del 1911. Tutti i professori sono qui chiamati a dare il meglio, per far emergere le bellissime e – per i tempi – assolutamente innovative sonorità stravinskiane. E l'Orchestra non manca all'appuntamento, sfoderando una maiuscola prestazione in tutte le sezioni, ma in particolare in strumentini e percussioni.

Gran successo e appuntamento per il prossimo concerto che sarà quasi esclusivamente dedicato a Sibelius, con un intermezzo (ancora) russo.

20 gennaio, 2010

Salome a Bologna

Ieri sera, la seconda della Salome a Bologna, in un teatro con alcuni vuoti (cosa che francamente mi ha sorpreso).

Personalmente mi dichiaro più che soddisfatto. In particolare (ed è ciò che conta in questi casi) della prestazione musicale: Nicola Luisotti mi pare avere bene in mano questa partitura, di cui ha trasmesso efficacemente il pathos, coadiuvato dall'Orchestra che – pur ridotta rispetto a quella sterminata prevista da Strauss – ha dato il meglio, in particolare proprio nei fiati (la sezione più… sacrificata). Ora, gli interpreti.

Erika Sunnegårdh è una Salome assai efficace come presenza scenica, oltre che come fisico, ben adatto al ruolo (e se la cava discretamente anche come danzatrice). Mi è parsa però dare della personalità della protagonista un'interpretazione – come dire - troppo romantica, o troppo poco perversa. Quanto ciò sia responsabilità sua o della regìa è difficile da giudicare (ma la seconda ipotesi sembra suffragata da ciò che il regista scrive sul programma di sala). Sul piano musicale non mi è per nulla dispiaciuta, mi è parsa migliorata rispetto all'ascolto in radio dello scorso sabato (evidentemente c'era anche più affiatamento con la buca).

Anche Mark S.Doss – che in radio non mi aveva entusiasmato - se l'è cavata bene. Io personalmente metterei in quel ruolo un baritono più tenoreggiante, più chiaro (Jochanaan è un profeta che deve pontificare sì, ma è anche giovane!) ma a parte questo la sua prestazione è stata di rilievo; tenuto conto poi che deve cantare per tre scene su quattro sepolto sotto il palcoscenico (qui Luisotti è stato bravo a non coprire la sua voce, tranne purtroppo nella quarta scena, laddove a quella del profeta si sovrappongono le voci di Herodes, dapprima, e poi di Herodias). Immagino Doss più adatto, come voce, al Capitano Balstrode, nei cui panni lo rivedremo a marzo nel Peter Grimes a Torino.

Robert Brubaker è stato un po' il mattatore della serata. Gran voce e soprattutto grandissima prestazione scenica. È proprio l'Herodes che ci si immagina leggendo il libretto e scorrendo la musica!

Per Dalia Schächter farei un discorso analogo a quello su Doss. Herodias è una donna non più giovanissima (e quindi si comprende la tessitura da mezzosoprano) ma è anche una bisbetica petulante, dalla quale ci si aspetterebbe una voce più chiara e non un vocione cavernoso da vecchia megera.

Mark Milhofer era Narraboth, il bel siriano che perde la testa, non quella fisica, lui! ma quindi comunque anche la vita, per Salome. Prestazione più che dignitosa, direi, come quella di Nora Sarouzian, nei panni del paggio, che con lui ha il compito non facile di aprire l'opera.

Speciale menzione per i cinque giudei (Gabriele Mangione, Paolo Cauteruccio, Dario Di Vietri, Ramtin Ghazavi, tenori, e Masashi Mori, basso, che ha anche cantato le poche battute come Uomo di Cappadocia): sono stati efficacissimi nel loro siparietto, in cui Strauss ha imitato e amplificato il Wagner del Ring (Alberich-Mime).

Han fatto la loro onesta parte gli altri: i Nazareni Paulo Paolillo e Rainer Zaun (che ha fatto anche un soldato) e Cesare Lana (l'altro soldato).

Edoardo Milletti (uno schiavo) sostiene una di quelle parti da guinness di fugacità di apparizione (cinque sole battute musicali, 11 parole in tutto). A dir la verità l'originale straussiano prevederebbe qui una soprano… ma va bene lo stesso.

Vengo ora alla regìa. Della fulminante intuizione di Gabriele Lavia (ambientare Salome in Germania, datosi che è opera tedesca) avevamo già avuto contezza dall'intervista rilasciata dal regista a Radio3 a pochi minuti di distanza dall'alzata del sipario della prima, sabato scorso. È l'ennesimo, patetico caso di scoperta dell'America (anzi, della Germania, trattandosi di Regietheater) di qualcuno che cerca di contrabbandare - come autentiche - delle idee riciclate e ampiamente scadute (i vari Carsen e McVicar hanno già fatto a Salome tutti i possibili danni, in proposito). Nullo, manco a dirlo, il valore aggiunto recato all'originale sul piano artistico-estetico.

Come si possa sostenere che il pubblico si sarebbe annoiato a morte a vedere ambienti e costumi dell'epoca di Cristo, e che sia invece andato in brodo di giuggiole trovandosi di fronte a uniformi e suppellettili di epoca guglielmina, è cosa che non arrivo proprio a capire. Per di più, in un'opera dove il sangue (di Narraboth prima, su cui dovrebbe letteralmente scivolare Herodes, e di Jochanaan poi) dovrebbe scorrere fisicamente a fiumi, nulla di nulla. In compenso, per dare comunque il suo tocco macabro, Lavia fa issare, appeso per i piedi, un manichino rappresentante il cadavere decollato del profeta. Mah… in sostanza, mai come in questi casi ci si domanda se non fosse più interessante (oltre che economicamente giustificata, in tempi di vacche magre) un'esecuzione in forma di concerto!

18 gennaio, 2010

Bruckner con la Filarmonica della Scala

Christoph Eschenbach ha guidato i filarmonici scaligeri nella grandiosa Settima Sinfonia di Anton Bruckner. Che un disgraziato quanto comico refuso sul frontespizio del programma di sala (roba da mandare in vacca il prezioso e fulminante pezzo di Quirino Principe) ci informa aver campato la bellezza di 172 anni (1824-1996)!

Orchestra disposta modernamente, ad eccezione dell'inversione viole-celli. Un corno ed una tromba di rinforzo, rispetto all'organico canonico.

Eschenbach attacca l'Allegro moderato come fosse un Adagio! Va bene che sono discutibili e controverse, ma sulla partitura bruckneriana ci sono meticolose indicazioni metronomiche: per l'incipit del primo movimento sono 58 minime; ecco, il Maestro deve aver interpretato la nota piena, invece che vuota… Più di 25 minuti di durata sono una cosa davvero al limite dell'umana sopportazione!

Meno male che poi le cose rientrano nella normalità e così questa sinfonia piena di sesso (ohibò, lo scrive il professor Quirino!) non dura più di 80 minuti. Da corni e trombette si potrebbe pretendere di più, mentre le tubette wagneriane, i tromboni e le tube (basso e contrabbasso che si alternano nei 4 movimenti) sono da elogiare, in uno con il resto della compagine. Alla fine applausi fragorosi per il Maestro e per tutti i professori, compreso l'addetto ai piatti.

E al proposito: una bizzarra curiosità di questa sterminata quanto famosa partitura riguarda proprio la presenza dei piatti. Nell'autografo di Bruckner non ce n'era traccia alcuna. Ma suoi sedicenti apostoli-ammiratori (Nikisch, Löwe e i fratelli Schalk) vi aggiunsero - pare contro la stessa volontà dell'Autore, interpellato in proposito – un colpo, uno solo, verso la fine dell'Adagio, proprio nel suo punto culminante:









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E praticamente tutti i Direttori – Eschenbach non ha certo fatto eccezione - adottano questa soluzione, tanto apocrifa quanto plateale e di sicurissimo effetto. La conseguenza pratica di tutto ciò è che un esecutore se ne deve stare per quasi tre quarti d'ora - disoccupato - a sonnecchiare, prima di alzarsi in piedi per sferrare il suo unico colpo; e poi tornare a sedersi e sonnecchiare per i restanti venti minuti della sinfonia. Domanda maliziosa (smile!): ma al FUS cosa dicono, di simili sprechi di risorse?

16 gennaio, 2010

Salome da Bologna

Radio3 ha irradiato in diretta la prima di Salome dal Teatro Comunale di Bologna.

Interessanti due brevi interviste di Giovanni Vitali ai principali responsabili della rappresentazione: concertatore e regista.

Nicola Luisotti, rispondendo alla domanda su quale idea interpretativa avesse scelto, fra le diverse che altri direttori hanno proposto (decadente, novecentesca, …) ha risposto: "Non so, io so solo che un direttore deve studiare a fondo la partitura, e poi cercare di renderla al meglio". Ohibò, finalmente qualcuno che tiene bene i piedi per terra!

Invece Gabriele Lavia, richiesto di spiegare i fondamenti della sua regìa, e in particolare dell'ambientazione, ha risposto (parafraso): "Un ambiente in Palestina, dove si parla tedesco? Ridicolo! Così ho ambientato Salome in Germania, in un luogo vicino a quelli in cui l'opera fu composta". Quindi immaginiamo che Lavia ambienterà Il mercante di Venezia a Stratford, il Ratto a Vienna e La fanciulla del West sull'Amiata. Qui i piedi, oltre che la testa, sono evidentemente usati per calpestare ben bene l'originale…

Salome è opera difficile, si sa, e quindi è difficile cantarla e suonarla al meglio. All'ascolto radiofonico l'Orchestra è parsa all'altezza, Luisotti ha mantenuto la sua promessa e realizzato i suoi propositi, senza cercare invenzioni strampalate. Quanto ai cantanti, la svedesina Erika Sunnegårdh (chiamata a rimpiazzare la Nadja Michael) mi è parsa fisicamente dotata e potente, ma non certo impeccabile, con urletti sugli acuti e qualche raucedine in basso. Lo Jochanaan di Mark Doss mi è sembrato poco autorevole (forse i microfoni lo hanno penalizzato?) Buono l'Erode di Robert Brubaker e discreti tutti gli altri, con i 4 tenori ebrei bene in evidenza ed efficaci nell'inflessione vocale à la Alberich-Mime.

Vedremo e sentiremo prossimamente dal vivo.

15 gennaio, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 14

Dalla sinfonia al poema sinfonico è il canovaccio del concerto N°14 della stagione de laVerdi. E sul podio, come 7 giorni prima, un organista passato alla direzione. Che dirige senza bacchetta.

Come antipasto ascoltiamo tre marce schubertiane orchestrate da Franz Liszt. Schubert fu uno dei compositori più sfruttati da Liszt come sorgente di materia prima da impiegare – ai tempi di Weimar - anche a scopo didattico-scientifico, si potrebbe dire.

Di marce schubertiane – scritte dal viennese per pianoforte a quattro mani – esistono trascrizioni lisztiane (che non si limitano al trasporto, ma integrano e arricchiscono gli originali) ancora per pianoforte e poi per orchestra. Ad esempio quelle ascoltate ieri sera sono accorpate nel catalogo lisztiano come Opus S363 col titolo Quattro marce da Schubert Op. 40-54-121 e datate 1859-60. Ma una di queste, ad esempio, era stata trascritta per pianoforte molti anni prima (1846) e pubblicata con altre nell'Opus S426 col titolo Marce di Schubert.

La prima è la N°3 delle Sei grandi marce dell'Op.40, D819. La seconda è il movimento interno dell'Op.54, D818 (Divertimento all'ungherese). La terza è presa dall'Op.121, D886: è la prima delle due marce in DO. Francamente piuttosto pesantucce da digerire, credo che la trascrizione per orchestra abbia loro addirittura nuociuto. O forse sarà stato Haselböck a tenere un profilo troppo basso e soporifero.

Ora escono le percussioni (timpano escluso) e i fiati bassi, che non sono contemplati nell'Ottava di Beethoven (ritorneranno per i Poemi lisztiani). Poco da dire sulla sinfonia, arcinota come tutte le sorelle maggiori beethoveniane. Fra l'altro il programma di sala, come sempre pregevole, porta un'analisi nientemeno che di Quirino Principe! Giusto una curiosità sul metronomo del tempo iniziale (Allegro vivace e con brio). Sappiamo come le indicazioni di Beethoven siano da prendersi con le molle (spesso non furono nemmeno apposte di suo pugno) e famoso è rimasto l'ineseguibile 138 minime dell'Allegro della Hammerklavier. Qui le edizioni in commercio espongono l'indicazione metronomica di 69 minime puntate. Essendo il tempo in 3/4, ciò significa esattamente 69 battute al minuto, una cosa davvero esagerata! A titolo di curiosità, HvK qui va apparentemente veloce (è anche uno dei più veloci in assoluto) ma è in realtà di un buon 25% più lento rispetto a quel metronomo… che nessuno evidentemente rispetta!

Discorso quasi analogo per il Finale (4/4 con metronomo a 84 semibrevi, cioè 84 battute al minuto): è un treno in corsa. Sempre il citato Herbie, pur col fiatone, resta comunque lento di più del 10%.

E Haselböck che fa? Direi che si attiene alla prassi, anzi forse prendendosela ancora più comoda, nel primo movimento, francamente eseguito con poco brio. Si rifà nel secondo, e anche nel menuetto. Ma è nel finale che dà – con l'orchestra, timpano in testa – il meglio di sé.

Dopo l'intervallo (il Maestro si ripresenta con i capelli gelati) si passa a Liszt, e a due dei suoi tanti poemi sinfonici. Si comincia con il secondo: Tasso, lamento e trionfo (frutto di un lavoro a più mani, quelle di Conradi e Raff, che si occuparono delle prime orchestrazioni) nato da - e tutto basato su - uno spunto musicale fornito a Liszt dai gondoliér venesiàn che sentì cantare nei canali strofe della Liberata.

Qui prendo lo spunto per fare una considerazione (peregrina?) sul rapporto autore-interprete, come mediato da segni e indicazioni in partitura. Dopo l'introduzione lenta, in DO minore, attacca un Allegro strepitoso (27 misure, che verranno riprese alla lettera anche più avanti, dopo la sezione centrale del menuetto). Ohibò, se foste il Kapellmeister, come interpretereste questa bizzarra indicazione dinamico/agogica? (che Liszt prescrive all'esecutore anche altrove, ad esempio in un passo della cadenza iniziale del suo primo concerto per pianoforte.)

Strepitoso significa, letteralmente: rumoroso, chiassoso, risonante, che fa strepito; col che si dovrebbe pensare che Liszt chieda di suonare quella frase con quanta più forza, esuberanza e fracasso possibile. Ma allora non bastava segnare un fff su tutti i righi della partitura? Invece vi troviamo un modesto f, per tutti gli strumenti.

Cerchiamo così un altro significato di strepitoso e troviamo che vuol dire anche: clamoroso, sensazionale. Quindi – caso mai - che suscita strepito, cioè suscita grida, ovazioni e ooohhh! negli astanti. Ma allora, se il chiasso non sta nell'esecuzione, ma nella reazione degli ascoltatori, per essere strepitosa, l'esecuzione stessa deve essere fuori dal comune, caratterizzata da un'abilità più unica che rara, da suprema maestrìa, insomma un qualcosa che strappa applausi di meraviglia. Ma allora, perché ciò deve valere solo per qualche decina di battute della composizione, e non per la sua totalità? Mah… Infine, se ci domandiamo: 1. quale fosse, verso la metà dell'Ottocento, il significato prevalente del termine strepitoso… e 2. quanto profondamente Franz Liszt conoscesse la lingua italiana… fate voi. Meno male che gli orchestrali de laVerdi l'impegno massimo ce lo mettono dalla prima all'ultima battuta!

E a proposito di lessico musicale italiano, ecco un'altra chicca: all'inizio della pomposa cadenza finale, in un pesantissimo DO maggiore, Liszt prescrive (in tedesco) Die Viertel wie früher die Halben e lo traduce: le semiminime come prima le semimassime (strasmile!)

Orbene: Haselböck, come ci ha propinato il tutto? In modo direi fin troppo enfatico, con tempi sempre al limite inferiore e un finale dove la pompa mi è parsa davvero insopportabile. Salverei l'Allegretto mosso con grazia centrale, in 3/4. Applausi in particolare per il clarinetto basso, che ha un ruolo di primo piano nell'iniziale esposizione – Adagio mesto - del tema del gondoliere.

E che abbandona la scena, non essendo in organico nel terzo dei poemi lisztiani, l'arcinoto Les Prèludes, che ebbe una genesi complicata (nato come preludio ad una cantata, passato nelle mani del solito Raff, finalmente ripreso da Liszt e riferito – a posteriori - alle meditazioni su Lamartine) e poi un successo enorme (anche troppo, visto l'uso improprio che ne fece il nazismo!) È curioso rilevare come una sezione di uno dei temi principali (a parte la dinamica e la tonalità) sia costituita esattamente dalla sequenza di note (dominante-mediante-tonica-sesta-tonica-sopratonica-mediante) che ritroviamo nel Ring (tema del Walhall) ideato da Wagner proprio a ridosso della sua permanenza nell'esilio di Weimar, dove il futuro suocero componeva – spesso appaltandone qualche spezzone ai collaboratori - i suoi poemi sinfonici.






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E forse la cosa non è per nulla casuale: nel programma del genio ungherese, vagamente mutuato dal poeta transalpino, si trovano un'atmosfera di ineluttabilità della morte e l'innata, naturale propensione dell'Uomo per la sfida e il cambiamento. Che sono proprio i concetti (Wandel und Wechsel liebt, wer lebt) che Wagner traspone nella figura e nell'approccio esistenziale di Wotan, e di cui il Walhall è strumento materiale.

Qui il Maestro per fortuna non ha esagerato (e sarebbe facile) con la pesantezza e ha discretamente messo in risalto le diverse anime del poema; da parte loro i Professori si sono superati, cavando fuori un'esecuzione di buon livello, accolta da nutriti applausi.

Nel prossimo concerto saranno ancora protagonisti i russi, della patria e della diaspora.

13 gennaio, 2010

I 90 di Farulli

Un grande benefattore della musica: ascoltatori, allievi, istituzioni.

Questa sera Radio3 lo ha festeggiato con alcune interpretazioni del glorioso Quartetto italiano.

Ho un personale ricordo di una delle esecuzioni ritrasmesse poco fa: una sera di quei lontanissimi primi anni 70 ero seduto in platea alla Scala, quando Farulli&C eseguirono il fresco-fresco I semi di Gramsci, loro dedicato da Silvano Bussotti.

Grazie Piero!

11 gennaio, 2010

Henze e Mahler a SantaCecilia

Poco fa Radio3 ha irradiato in diretta la seconda esecuzione (dopo la prima assoluta di domenica) di Opfergang di Hans-Werner Henze diretta da Antonio Pappano con la SantaCecilia.

Il Maestro legge un breve e poetico sunto dell'Opera, scritto proprio dal compositore, ci fa una rapida analisi del brano e poi si mette al pianoforte, che concerta con l'orchestra a supporto dei cantanti. Che dire? Difficile giudicare al primo ascolto (e probabilmente anche al secondo e terzo e quarto… come sempre accade quando ci si confronta con la tecnologia musicale dodecafonica); restano le sensazioni epidermiche di una musica che non sembra lasciare spazio alcuno a ottimismo e positività… che però emergono proprio quando la musica tace, nelle parole del cagnolino ormai passato a miglior vita: Die Liebe fängt an (comincia l'Amore).

A seguire Das Lied von der Erde di Mahler. Musicista che scopriamo oggi - grazie all'agenzia di stampa del simpatico Capezzone (detto anche la-voce-del-padrone) - aver vissuto fino alla veneranda età di 100 anni!

C'è un legame artistico-estetico fra le due opere: il concetto di morte, fisicamente imposta o serenamente prefigurata; poi anche uno biografico, impersonato da Franz Werfel, autore del testo di Opfergang e terzo marito (dopo Mahler e Gropius) di Alma Schindler.

Esecuzione davvero impeccabile dell'orchestra (non così mi è parso della ripresa audio, che spesso ha messo i legni troppo in primo piano); qualche sbavatura negli attacchi dei cantanti, comunque più che meritevoli e pulitissima l'interpretazione di Pappano, che mi è parso rispettare alla virgola la lettera e lo spirito di questa straordinaria partitura.

10 gennaio, 2010

Inizio d’anno con l’altro Strauss

Oltre al tradizionale concerto dedicato agli Strauss viennesi, le onde della radio e/o i torrenti di bit della banda larga ci hanno portato, tra la fine del 2009 e questo inizio 2010, due produzioni del Metropolitan dello Strauss bavarese: si è trattato di Elektra, ripresa il 26 dicembre anche da Radio3, e di Der Rosenkavalier - protagonista Renée Fleming - che sabato sera è stato diffuso da varie web-radio europee (la RAI ha invece optato per la Manon viennese). Due esecuzioni di buon livello nella resa orchestrale, ma discreto, direi non di più, nelle voci, almeno all'ascolto in cuffia.

Ma nei prossimi giorni di Strauss se ne produrrà assai qui da noi, dapprima a Bolzano e poi in Emilia, sull'asse Bologna-Modena (seguite da Piacenza-Ferrara): in scena andranno precisamente Salome ed Elektra. (In attesa della maggiolina Die Frau ohne Schatten).

Sono le due opere (54 e 58 del catalogo straussiano) che, proprio all'inizio del '900 (1905-09) portarono un'autentica rivoluzione nel mondo del teatro musicale, sotto tutti i punti di vista: soggetto, forma, canto, orchestrazione. Sono anche due soggetti che hanno – fu Strauss per primo a paventarlo – diversi punti in comune: genere tragico, ambientazione storico-mitologica e implicazioni psicanalitiche. Come accadrà praticamente per tutte le opere del nostro, hanno protagoniste femminili. E le due tragedie si chiudono con le loro sfrenate - quanto fatali - danze.

Altra caratteristica comune alle due opere è l'ipertrofia della compagine orchestrale, specialmente nella sezione fiati. In Salome (Salòme sarebbe l'autentica pronuncia, ricordava Hofmannstahl con un filino di spocchia, forse per non essere stato lui a scriverne il libretto) abbiamo, fra i legni: 3 flauti, ottavino, 2 oboi e corno inglese, heckelphon, 5 clarinetti (uno in MIb), clarinetto basso, 3 fagotti, controfagotto. Ottoni: 4 trombe, 6 corni, 4 tromboni, contrabbasso-tuba. Percussioni: tamburino, tamtam, timpani, timpano piccolo, tamburo piccolo, grancassa, triangolo, glockenspiel, piatti, castagnette, xilofono, legno. Poi la partitura prevede 2 arpe. Gli archi, di cui non è precisamente indicato il numero, sono talora divisi in varie parti (4 i violini primi, 5 i secondi, 5 le viole, 5 i violoncelli, 2 i contrabbassi). E come non bastasse: celesta, armonium e organo!

Certe fanfare di corni (che udiamo in specie ad accompagnare il pontificante Jochanaan) forse sarebbero più adatte a scenari di alpeggi bavaresi, che non alle dolci colline di Palestina… e infatti le ritroveremo più avanti nella Alpensinfonie e un pochino pure nel Rosenkavalier! Però… che musica, ragazzi! Come pure questa:













A Bologna – con ripresa Radio3 della prima di sabato 16 gennaio - la Salome sarà diretta da Nicola Luisotti, che si è da poco insediato a SanFrancisco, come successore di Runnicles.

Elektra prevede precisamente in organico 62 archi: 24 violini (divisi in 6), 18 viole (divise in 5), 12 violoncelli (divisi in 4) e 8 contrabbassi (divisi in 2). Due arpe. Legni: 3 flauti, ottavino, 2 oboi, corno inglese, heckelphon, 5 clarinetti (uno in MIb), 2 corni di bassetto, clarinetto basso, 3 fagotti, controfagotto. Ottoni: 4 corni, 4 tubette wagneriane (anche come 4 corni aggiuntivi), 4 trombe (una bassa), 3 tromboni, trombone contrabbasso, contrabbasso-tuba. Percussioni: timpani (con 2 esecutori), glockenspiel, grancassa, piatti, triangolo, tamburino, tamburo militare, tamburo piccolo, 2 castagnette, legnetti, tamtam. In più la celesta.

La parte della protagonista è di quelle da far tremare… l'ugola. Tanto per dire, nella citata recente produzione al MET, peraltro magistralmente diretta da Fabio Luisi, la Susan Bullock si è concessa un bello sconto, tramite due generosi quanto barbari tagli, nei duetti con Clitemnestra e Oreste (questa dei tagli sembrerebbe peraltro un'usanza costante in quel teatro, visto che anche il Cavaliere di sabato non ne è andato esente).













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A Modena sul podio ci sarà Gustav Kuhn, una garanzia in questo repertorio, reduce oltretutto dalle due serate di Bolzano.

Entrambe le opere sono in un unico atto, ed anche la loro durata è assai simile: poco più di 90 minuti. Chissà se a qualcuno è mai venuto in mente di rappresentarle nella stessa serata? In fin dei conti, non supererebbero in durata lo stesso Rosenkavalier, tanto per dire. E forse oggi, a differenza di qualche decennio fa (quando la prima italiana di Elektra alla Fenice fu fatta seguire dal rossiniano Bruschino, in qualità di antidoto) noi avremmo meno problemi a digerire due cruente tragedie in rapida successione... (o no?)

In ogni modo, staremo a vedere e sentire.

08 gennaio, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 13

Inizio di 2010 nel segno del più profondo classicismo austro-tedesco.

Ivor Bolton, cinquantunenne grassottello del Lancashire, passato alla direzione dal clavicembalo, ha diretto laVerdi in due autentici capolavori del terz'ultimo passaggio di secolo. (A proposito, anche il penultimo è stato costellato da innumerevoli opere di grandi figure, entrate nella storia… L'ultimo?)

Il nostro dirige alternando movimenti molli e flessuosi ad altri invero marionettistici. Poi brandisce la bacchetta come una spada e, nell'andante beethoveniano, fa un affondo à la Montano, scaraventando a terra un pacco di fogli della parte del primo violoncello (musica già eseguita, per fortuna…) Insomma, un gran gigione, che sembra anche - lo dico con il massimo del rispetto e persino con simpatia (smile!) – un po' gay.

A parte queste curiose qualità esteriori, Bolton rispetta alla lettera le indicazioni dei da-capo sia in Beethoven che – soprattutto, perché sono davvero parecchi – in Mozart. Cosa che pochi maestri fanno, accampando discutibili ragioni estetiche (seguendo una moda in parte alimentata, nel secolo scorso, dai vincoli imposti alla durata delle esecuzioni dalle necessità di incisione su disco) ma che è tutt'altro che censurabile, in specie quando si ha a che fare con musica sopraffina, che non ci si stancherebbe mai di riascoltare.

Per la Jupiter del sommo Teofilo l'orchestra è proprio quella settecentesca, poco più che cameristica, così come prescritto dalla partitura: qui un solo flauto e niente clarinetti, archi assai ridotti di numero e disposti secondo layout antico (tutti i violini davanti). Anche la simpatica Viviana (oltre che bravissima timpanista) impiega delle bacchette sottili con testa dura. Pur senza arrivare agli eccessi delle HIP (Historically Informed Performance, con uso di strumenti d'epoca, o millantati tali, e rinuncia al vibrato) si è però potuta sentire una Jupiter come forse l'ascoltarono i viennesi nel 1788… E assai diversa, francamente, dalle solite esecuzioni moderne che impiegano organici ipertrofici, soprattutto nella sezione degli archi (nel bene e nel male, comunque). In definitiva, una scelta e una proposta intelligente e interessante.

Indi la Pastorale di Beethoven. Qui, essendo passati quasi vent'anni dalla Jupiter, l'orchestra è proprio moderna, sia come numero di esecutori che come disposizione degli archi (violoncelli sul proscenio). Per la verità (in omaggio al sottotitolo) alcuni strumenti sono impiegati da Beethoven con estrema parsimonia: ottavino e timpano esclusivamente nel passaggio del Temporale; trombe e tromboni nello stesso passaggio e nel Finale. Bolton tiene tempi in genere abbastanza rapidi, rispetto al metronomo beethoveniano, ma la cosa non disturba affatto, anzi. Esecuzione di tutto rilievo, con particolare encomio per i legni e per i due corni, davvero superlativi, soprattutto nei difficilissimi passaggi dei due movimenti conclusivi.

Successo pieno e grandi applausi. Il prossimo appuntamento vede ancora una sinfonia di Beethoven (alla settima, seconda, nona e sesta, già eseguite, nella stagione seguiranno poi tutte le altre) accerchiata da Liszt (e Schubert).

07 gennaio, 2010

È ancora Natale alla Verdi

LaVerdi Barocca ha celebrato il Natale anche alla Befana con il celebre Oratorio bachiano, che del resto copre esattamente l'arco delle festività dal 25 dicembre al 6 gennaio.

Per curiosità riporto i giorni della settimana e le due chiese principali di Lipsia in cui furono eseguite per la prima volta le sei cantate, raggruppate successivamente in Oratorio:

Natale 1734: sabato (mattino a S.Nicola, pomeriggio a S.Tommaso)

Santo Stefano 1734: domenica (mattino a S.Tommaso, pomeriggio a S.Nicola)

III di Natale 1734: lunedi (mattino a S.Nicola)

Capodanno 1735 (circoncisione): sabato (mattino a S.Tommaso, pomeriggio a S.Nicola)

Prima domenica di Gennaio 1735: 2 gennaio (mattino a S.Nicola)

Epifania 1735: giovedi (mattino a S.Tommaso, pomeriggio a S.Nicola)

(È la configurazione di giorni che si ripeterà fra un anno, fine 2010 – inizio 2011).

Ruben Jais, Direttore residente de laVerdi, nonché fondatore de laVerdi Barocca, ha guidato (con Gianluca Capuano all'organo) i complessi strumentali e corali e i quattro solisti lungo questo grande pellegrinaggio musicale in sei tappe in Terrasanta, che dura circa 2 ore e 40 minuti. C'è chi sostiene che – senza fare tagli – sia impossibile eseguirlo tutto in una sola serata; ma Jais ha bellamente smentito questa teoria, rispettando anche scrupolosamente tutti i da-capo e concedendosi solo due brevi intervalli dopo la seconda e la quarta giornata.

Martedi c'era stata l'anteprima Discovery per i soci della Fondazione, una specie di lezione di Jais, seguita da una prova ridotta e senza solisti, ma col coro, dove si erano potuti ammirare ed ascoltare da vicino alcuni pregevoli strumenti d'epoca, in dotazione al complesso (ragazzi e ragazze, tutti bravi e belli), come oboi e corni da caccia, oboi d'amore e flauti traversi, trombette barocche e un bel violone, che riprende il posto del contrabbasso. Completano l'ensemble violini, viole, violoncelli, fagotto e organo.

Ieri sera (platea dell'Auditorium al completo) gran trionfo per tutti: gli strumentisti, chiamati fra l'altro a superare difficoltà non da poco, alle prese con quegli sbifidi strumenti d'epoca; i coristi di Gianluca Capuano, sempre efficaci e precisi nei cori e corali ricchi di contrappunto; e i quattro solisti, cantanti più che dignitosi anche se dai nomi non proprio familiari a tutti, che hanno ben esposto arie e recitativi.

Insomma, un'esecuzione apprezzabile, forse proprio simile – chissà - a quelle che Bach stesso dirigeva nelle chiese di Lipsia. Chiusa con un bis dell'ultimo Corale in RE maggiore, con i solisti mescolatisi ai ragazzi del coro, a scandire "presso Dio ha il suo posto la stirpe umana". Un meritato successo per Jais e per questa sua creatura che è un altro fiore all'occhiello della Fondazione.