07 dicembre, 2009
Radioascolto di Carmen a SantAmbrogio
06 dicembre, 2009
Aspettando Carmen a SantAmbrogio - 7
05 dicembre, 2009
Aspettando Carmen a SantAmbrogio - 6
04 dicembre, 2009
Aspettando Carmen a SantAmbrogio - 5
Stagione dell’OrchestraVerdi - 9
Il nono concerto della stagione è a beneficio di Telethon, ed anche questo è un segnale di attenzione de laVerdi per i problemi di tutti. Il programma è diviso a metà fra Russia e America, avendo come baricentro la Boemia.
Dopo la breve, ma intensa Ouverture di Guerra e Pace, che apre la serata nel nome di Prokofiev, arriva Kun Woo Paik per il Secondo Concerto per pianoforte. Paik è uno dei primi musicisti ad essere approdato ai lidi occidentali dalla lontana Corea. Ha 63 anni suonati, ma non li dimostra proprio, nel fisico e nella verve con la quale affronta il concerto che (1913) aveva provocato scandalo e che Prokofiev fu costretto a riscrivere nel 1923, essendo andato bruciato in una stufa il manoscritto originale. Sarà perché i nostri gusti sono più evoluti di quelli di 90 anni fa, o perché nel riscriverlo Prokofiev ammorbidì parecchio l'originale, ma oserei dire che, specialmente nell'atmosfera del primo movimento, questo sembra quasi un concerto tardoromantico, con ammiccamenti à la Rachmaninov, per intenderci, e irruzioni enfatiche dell'orchestra a rompere la sognante e liquida quiete del solista. Almeno fino alla poderosa cadenza, una sessantina di battute, quasi un vero e proprio movimento di sonata incastonato nell'Andantino iniziale, dove c'è davvero di tutto: molto espressivo, precipitato, pesante, con effetto, colossale, tumultuoso, con tutta forza sono le indicazioni dinamico-agogiche che si leggono sulla partitura.
Nel brevissimo Scherzo, una sorta di frenetico moto perpetuo, il solista la fa da padrone, pungolato da intrusioni di fiati e percussioni e col sostegno discreto degli archi. Si pensi che il pianista, in tempo vivace, deve suonare, con entrambe le mani, esattamente 1500 semicrome (più la croma finale). Il tutto in circa 2'30", quindi 10 tocchi di semicroma al secondo con ciascuna mano per 150 volte di fila, senza una sola presa di respiro! E Paik qui si butta davvero a tutta velocità, mettendo in risalto le sue eccellenti qualità virtuosistiche. L'Intermezzo è una cosa tendente alla marcia funebre, con pochi momenti di relax, ma l'agogica prevalente è il pesante, subito imposto da tromboni, trombe e corni in sequenza. Nel finale Allegro tempestoso emergono i ritmi da catena di montaggio, tipici di Prokofiev (e anche di Shostakovich) alternati a intervalli di relativo riposo. Trionfo per Paik, che mostra tutta la proverbiale gentilezza e finezza orientale, voltandosi ripetutamente a ringraziare tutti gli strumentisti che lo hanno accompagnato al meglio. Numerose chiamate, ma niente bis.
La Nona Sinfonia di Dvorak è un'altra di quelle opere talmente note, suonate ed ascoltate, che si corre il rischio di non seguirla con il dovuto rispetto e il giusto riguardo. Insomma, si tende a subirla un po' passivamente, forse perché è fin troppo orecchiabile e quindi impegna (relativamente) poco il cervello. È la sinfonia americana, ma vi si trova l'America di Spillville, non quella di Atlanta. Michael Schønwandt, che dirige con flessuose movenze fra il danzatore e il mimo, cerca di far emergere dettagli, di aumentare i chiaroscuri, prendendosi anche qualche libertà nei tempi. Forse lo fa lodevolmente, per togliere parte del dolciastro di cui la sinfonia è imbevuta. Ma è un po' come mettere il peperoncino nel cioccolato: si ottiene un sapore interessante, ma alla fine il cioccolato tende comunque a stomacare. Del che peraltro ci si accorge sempre dopo averlo divorato.
In ogni caso, esecuzione encomiabile da parte di un'Orchestra apparsa ieri in gran forma, in tutte le sezioni. Orchestra che la prossima settimana si dedicherà alla Russia minore (? o quasi).
01 dicembre, 2009
Aspettando Carmen a SantAmbrogio - 4
27 novembre, 2009
Stagione dell'OrchestraVerdi - 8
Programma pesante (ma in senso buono) per la nuova apparizione di Damian Iorio sul podio de laVerdi (Orchestra disposta alla tedesca, come evidentemente preferisce il Maestro).
L'apertura è dedicata a Gian Francesco Malipiero, e alle sue prime (1917) sette Pause del silenzio. Sette – numero fatidico per il compositore – brani composti in piena Grande Guerra a descrivere atmosfere o stati d'animo. La composizione intercala regolarmente un tempo lento o andante a uno mosso, chiudendo poi con un altro Allegro vivace e marcato. Ha un segnale che si ripete, variato e proposto da strumenti diversi (fiati) all'inizio di ciascuna pausa. In ciò è labilissimamente legata alla sinfonia mahleriana, che apre con un altro squillo, quel celebre pa-pa-pa/pà in DO#, suonato dalla prima delle quattro trombe. Se posso muovere una critica, non è all'esecuzione ma alla logistica: fare un intervallo di 20' dopo un brano introduttivo di 13' mi è parso fuori luogo; si poteva omettere tranquillamente l'intervallo (spesso la Quinta di Mahler viene anche presentata da sola, senza preamboli, senza offesa per Malipiero, sia chiaro!)
Ecco quindi la Quinta Sinfonia di Gustav Mahler. Un'opera da tempo entrata stabilmente nei repertori di tutte le orchestre e di tutti i Direttori di questo mondo. Perché, almeno dall'ultimo dopoguerra, Mahler ha finalmente cessato di essere inattuale, e il suo tempo è finalmente venuto (come lui stesso profetizzava quando era in vita). Ma più di un secolo fa l'establishment musicale – che gli riconosceva indubbi meriti come Direttore – nutriva assai scarsa considerazione per le sue doti di compositore.
Ecco cosa scriveva Arturo Toscanini (fine 1904, quindi molto prima dell'incontro-scontro con Mahler a NY) proprio a proposito della Quinta, al cognato-violinista Enrico Polo, che gli aveva spedito una copia della partitura: "Non puoi immaginare con quanta gioia e curiosità ho ricevuto il tuo plico inatteso e come lo abbia subito letto, anzi divorato! Malauguratamente, gioia e curiosità sono sparite e si son mutate in triste, assai triste ilarità. Credimi, caro Enrico, Mahler non è un artista serio. La sua musica non possiede né personalità, né genio; è una mistura di Italianità alla Petrella e Leoncavallo accoppiata alla magniloquenza musicale e strumentale di Ciajkovski, e con la ricerca di bizzarrìe straussiane (anche se lui si vanta di avere tendenze opposte) ma senza l'originalità né dell'uno né dell'altro. Ad ogni piè sospinto cade non già nel clichè ma nel triviale. Guarda qui (8 misure iniziali del tema della Trauermarsch): Petrella e Leoncavallo proverebbero solo sdegno di fronte a questo piccolo motivo di marcia che Mahler non si vergogna di introdurre nel primo movimento di una sinfonia. E potresti immaginare una boiata più tremenda di quest'altro passaggio (le 13 battute dei corni dal numero 7 della partitura)? L'idea di un'esecuzione a Torino è da scartarsi."
Beh, come accoglienza, non è davvero male! E il grande Arturo aveva un occhio, oltre che un orecchio, infallibile: ad esempio non doveva essergli sfuggita – nel Trio del primo movimento - la chiara reminiscenza dello straussiano Zarathustra…
Positivo, ma con qualche frecciatina, l'amico-rivale Richard Strauss, che scrive a Mahler, dopo la prima di Berlino: "La sua Quinta sinfonia mi ha donato nuovamente un'immensa gioia, che si è velata solo un poco durante il breve Adagietto. (…) I primi due tempi sono veramente grandiosi; il geniale Scherzo è risultato forse un po' troppo lungo…"
Un altro ricordo assai curioso ci arriva dai Briefe di Alma: "La Quinta era stata la prima opera alla cui nascita avevo assistito e a cui avevo pienamente partecipato! Ne avevo copiato tutta la partitura, anzi più ancora: Mahler aveva lasciato in bianco dei righi interi, perché sapeva che conoscevo le parti, e si fidava ciecamente di me. In primavera ne aveva fatto una prova di lettura con l'Orchestra Filarmonica, a cui avevo assistito nascosta in galleria. Io che avevo sentito tutte le melodie nel copiarle, ora non riuscivo a sentirle, perché Mahler fece suonare la batteria col tamburo piccolo tutto il tempo tanto selvaggiamente che, al di fuori del ritmo, non si percepiva quasi nulla. Corsi a casa in lacrime. Mi seguì. Non volli parlargli per parecchio tempo. Finalmente dissi singhiozzando: <<Hai scritto una sinfonia per batteria!>> Egli rise, prese la partitura e cancellò con una matita rossa tutta la parte del tamburo piccolo e la metà della batteria."
Come è andata ieri sera? Purtroppo un'esecuzione che poteva essere più che dignitosa è stata macchiata da troppe imprecisioni degli strumentisti, in special modo delle parti semi-solistiche. La prima tromba, ad esempio, dopo aver eseguito in modo impeccabile l'esordio (strumento in SIb) ha invece steccato e storpiato totalmente (con lo strumento in FA) la frase che precede immediatamente la coda nel movimento iniziale. Nello Scherzo, il corno obligato (in FA) ha rovinato una performance che poteva essere ottima con più di un'imprecisione (l'abbiamo visto far ripetutamente ruotare lo strumento, come per …svuotarlo). Ma queste sono solo le più evidenti fra le pecche che si sono riscontrate qua e là nell'esecuzione. Peccato, poiché Iorio ha da parte sua staccato tempi sempre rispettosi della partitura, senza prendersi mai libertà né introdurre effetti personali.
A proposito del Maestro, non possiamo che augurargli di seguire le orme di un altro inglese di sangue italiano, che ha raggiunto i vertici assoluti.
Come sempre ben curato il programma di sala, in particolare la presentazione della sinfonia del professor Enrico Girardi, alla quale mi permetto di fare solo un piccolo appunto riguardo le autocitazioni di Mahler (di propri Lied) che non sono tre (Nun will die Sonn', Ich bin der Welt e Lob des hohen Verstandes) ma quattro: al numero 29 del rondò finale compare, in flauti, oboi e clarinetti, un inconfondibile inciso che viene direttamente da Revelge (un Lied la cui ispirazione Mahler candidamente confessò di aver avuto nel 1899 durante una seduta sul WC!)
La settimana prossima, come dice il titolo del concerto, si va dalla Russia all'America.
24 novembre, 2009
Aspettando Carmen a SantAmbrogio - 3
Lunedi, nell’ambito del programma di Conferenze Prima delle Prime, presso il Ridotto Toscanini del Teatro, Quirino Principe ha tenuto una concione dal titolo: “La Distruttrice distrutta, ovvero l'essenza drammatica e musicale di Carmen”.
Il professor Quirino è grande, lo sappiamo tutti, e certo non ci si può aspettare che lui accetti di fare una conferenza su Carmen per raccontarcene l’intreccio, o le fonti, o le versioni circolanti. Il nostro però la prende davvero alla lontana, partendo dall’ostilità di Solone per il teatro e dal disprezzo di Hegel per la musica; poi passa ai significati reconditi dei fiori, ricordandoci che Carmen ne offre uno a Josè (ma tacendo di dire che in realtà glielo tira violentemente in mezzo agli occhi, ndr); poi risale alla fonte-della-fonte di Bizet (la futura moglie di Napoleone III, ispiratrice di Merimée in quel di Granada); quindi passa per le opere dello zio del librettista Halévy (nonché suocero di Bizet); accenna ai tritoni (=diavoli, =inferno, =fuoco) che accompagnano Carmen; spazia sui tre piani dell’amore: libido, eros e agape (sempre visti dalla prospettiva di Josè, dove l’agape peraltro scarseggia). Visto che l’oggetto è Carmen, non tralascia di citare Leonore e lo squillo della trombetta liberatrice di Don Fernando (che in realtà sappiamo essere quella dello scherano di Pizarro, ndr). Chiude poi proponendo un ardito parallelo fra Carmencita e Violetta.
Insomma, un volo talmente alto e pindarico che si è totalmente perso di vista l’oggetto – concreto e immanente - del titolo della conferenza e di ciò che verrà rappresentato a SantAmbrogio. A noi, comuni mortali, sono cadute in testa un po’ di briciole, come quelle che si gettano ai piccioni della vicina piazza Duomo. Ma va bene lo stesso, è tutta cultura!
Un poco più stimolante, appunto in vista della prima, l’incontro tenutosi oggi pomeriggio presso l’Università Cattolica, che ha ospitato i due principali artefici della Carmen 2009, Daniel Barenboim ed Emma Dante. Annessa un’esposizione di documenti (per lo più… contabili!) relativi a due storiche rappresentazioni scaligere: Toscanini del 1906 e Serafin del 1913.
Si può cominciare a farsi un’idea di cosa ci aspetta? (le conclusioni e i giudizi matureranno dopo aver toccato con… occhio e orecchio). Direi di nì, nel senso che non abbiamo ascoltato clamorose rivelazioni o anticipazioni.
La parte del leone l’ha fatta il Maestro scaligero, che si è esibito, oltre che in un rapido esercizio di Habanera al pianoforte, anche in un meno riuscito numero da giocoliere con bottiglia e bicchiere, finito quest’ultimo a pezzi… A parte ciò, Barenboim ci ha spiegato che Carmen non è un’opera spagnoleggiante, perché contiene appunto la Habanera, ergo ha radici cubane, ergo africane: il triangolo africa-cuba-spagna visto da un francese. Speriamo non sia quello delle Bermude, dove ogni cosa finisce in vacca!
In sostanza dovremmo sentire ciò che l’Autore aveva deciso di proporre al pubblico dopo le prove in vista della prima (e non ciò che altri, dopo la sua scomparsa, decisero di propinarci, per più di un secolo!) Dopodichè Barenboim ci metterà la sua sensibilità e il suo approccio interpretativo, e lo si giudicherà dal risultato, ma insomma, intanto la materia prima impiegata appare come la più genuina, o la meno adulterata. Ed è già un punto a favore del Kapellmeister. Che ha poi spiegato – ma era cosa risaputa - la circostanza in cui ha scelto la nuova Carmen, scherzosamente definendosi – a proposito di scoperte – come un tale del 1492. Rispondendo ad una domanda, ha spiegato che la differenza fra il suono di un clarinetto della Unter den Linden e un clarinetto della Scala dipende dal fatto che il berlinese suona Schwester, mentre il milanese suona sorella!
Vengo ora alla più attesa protagonista dell’incontro: Emma Dante. Devo dire che, forse oscurata dall’esuberante personalità del Maestro, la bella sicula dalle bianche mèches ha parlato poco, e quel poco è stato piuttosto scontato, non dico banale: grande onore essere alla Scala, grande emozione alla prima visita al Teatro, Carmen grande opera, da interpretare guardando avanti (!?) ed altre frasi di circostanza. Per me però è stata sorprendente una sua promessa, fatta subito, di botto, quasi una excusatio-non-petita: nella mia Carmen non ci saranno né vare, né suore.
Ecco, per oggi è la notizia più confortante, poiché della Habanera cantata da una suora davvero non si sentiva la mancanza.
21 novembre, 2009
Ein italienisches Requiem, alla Scala
Un cast davvero di prim’ordine sotto la bacchetta di Barenboim&Casoni (che si ritroveranno col Kaufmann-Josè a dicembre per l’apertura della Stagione). Il programma di sala presenta sempre Youn e non Pape, almeno un fogliettino con errata corrige si poteva predisporre, credo…)
Sala non proprio esaurita: non vorrei sbagliare, me ho il sospetto che la pricing-policy del Teatro – forse dato il frangente di crisi generale e di tagli FUS – stia privilegiando la massimizzazione dell’incasso, e non quella delle presenze. Mi spiego: ad una media di 80€ a biglietto si attirano 1500 persone, per un incasso di 120.000€. Per attirare 2000 persone (cioè riempire il teatro) bisognerebbe abbassare la media a 50€, il che porterebbe un incasso di 100.000€. Quindi: meglio pochi, ma disposti a spendere, piuttosto che tanti con meno euri da cacciare. Forse bene per le casse scaligere; per la cultura, un disastro.
Note tecniche: orchestra con disposizione teutonica (anche questo è un segno…) ma con i corni a destra, sotto gli altri ottoni (con la tuba e non l’oficleide); trombette lontane disposte in due palchi del 3°ordine; solisti dislocati – scelta ragionevole - sul proscenio.
Mercoledì c’era stata l’altra rappresentazione, preceduta da quella di Parigi, in tournée, di cui erano giunte notizie ora esaltanti, ora preoccupanti. E anche il 18 qui a Milano le cose sembravano essere andate così-così, stando ai super-esperti di canto verdiano.
Che dire? Con una facile battuta si potrebbe sostenere che abbiamo ascoltato Ein italienisches Requiem… Brutto? Per me, direi proprio di no, forse perché vedo poca distanza fra l’ultimo Verdi e la tradizione teutonica. Mi ero portato la partitura, e così ho potuto controllare da vicino, almeno l’aspetto puramente tecnico. Barenboim è stato più svizzero che tedesco (come puntualità). A parte un paio di cambiamenti di tempo appena un pochino anticipati, ha spaccato il capello (la partitura di Verdi) in quattro. Pianissimi e fracassi sempre al posto giusto e della giusta intensità. Le uniche sue sbavature sono state le due discese dal podio: prima del Dies Irae, per sistemare il leggìo alla Ganassi e prima dell’Offertorium, per spostare, con l’aiuto di Kaufmann, la sua pedana di 30 cm. verso il proscenio (forse per meglio vedere o essere visto dai solisti). E sul Kapellmeister ho detto tutto, semplicemente strepitoso.
Come compito a casa, prima del concerto, ho riascoltato – riversata da un vecchio vinile – l’edizione di Serafin, Opera Roma 1939, con le sante Caniglia e Stignani, insieme ai beati Gigli e Pinza. Roba sopraffina, ed anche un po’ umoristica (a proposito di corretta pronuncia di cui facciamo menda a qualche straniero): la grande Stignani doveva farsi chiamare Aba e non Ebe, visto che per lei la e si pronunciava a (tipico side-effect, questo, del prezioso immascheramento della voce…) Come: Quidquid latat apparabit; o anche: Nil inultum ramanabit, e così via storpiando il povero latino. Certo, voci sontuose, da rimpiangere come …Coppi e Bartali o Meazza e Piola in altri campi delle umane arti.
I cantori moderni, invece, come se la sono cavata? A mio modestissimo avviso passabilmente bene, chi più, chi meno, come sempre accade. Ma sempre bene, intendiamoci. I due tedeschi, proprio perché tedeschi, erano i più sospettati di essere in combutta con il Maestro, oltretutto tedesco adottivo pure lui, per rovinare l’arte italica. Invece in quest’opera, che è italiana ma non è né Traviata, né Rigoletto (infatti piacque moltissimo a Brahms, che di Requiem se ne intendeva) un po’ di rigore teutonico non guasta. Kaufmann il meno appariscente direi, ma si merita ampiamente la sufficienza, di fronte ad una parte espressivamente assai difficile. Quanto alla sensibilità, se uno come Pape riesce a fare, come fa, il Wotan del terzo atto di Walküre, certo sarà difficile imputargli di non sapere cogliere le sottigliezze verdiane nascoste nel Confutatis. E infatti la sua prestazione è stata per me più che degna, se non proprio eccellente. Le due signore non saranno come la premiata coppia Caniglia-Stignani, ma ieri sera se la sono cavata dignitosamente. Frittoli bravissima in alto, anche se poco udibile in basso; la Ganassi ha forse poca voce, ma quella poca la sa valorizzare al meglio.
Quindi autentico e meritato trionfo per tutti alla fine, con ripetute chiamate per Barenboim, Casoni (ça-va-sans-dire, ormai il coro è una sicurezza matematica) e i solisti. Una gran serata di musica!
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PS: curiosità (mia) parlando di aspetti tecnico-filologici del Requiem.
Resta sempre un rebus, per me, l’Offertorium, in quanto alla dinamica. Io non possiedo tutte le edizioni di questo mondo, menchemeno il manoscritto verdiano. Guardo la tascabile Eulenburg-975, e anche un’edizione della Biblioteca Classica russa, oltre che una riduzione inglese per piano (accessibili in rete). Sempre compare il metronomo di 66 semiminime puntate. Nelle edizioni curate da Saladino, riduzioni per pianoforte, pure accessibili in rete, invece il metronomo è indicato a 66 semiminime e basta. Una differenza di un terzo! E pare che la prassi esecutiva si sia orientata – magari a ragione – su questa versione più lenta. Secondo la quale, in un minuto si devono percorrere 22 misure (6/8, quindi 3 semiminime a misura) e arrivare quindi alla fine della linea discendente del violoncello dopo il primo Christe di mezzosoprano e tenore. Ed è ciò che fanno – in tempi di 55-58 secondi - Serafin, nell’edizione citata, come anche Abbado, Karajan, Bernstein e Giulini. Viceversa Toscanini sembra avvicinarsi al metronomo più veloce (che in un minuto comporterebbe di raggiungere la fine del Libera animas del basso, 11 misure più avanti) e più veloce ancora va il compianto Jansug Kakhidze, che si avvicina moltissimo al metronomo più rapido. Barenboim? Ad orecchio, anche lui si è allineato alla prassi dei più (a Parma in ottobre Maazel mi era parso più veloce, diciamo almeno come Toscanini, mentre la Zhang con laVerdi a fine ottobre aveva tenuto l’approccio moderato).
È questa una questione filologica, che qualcuno avrà evidentemente affrontato, anche se non ho trovato in giro riferimenti puntuali. Poi ognuno può avere i propri gusti (io sono per la velocità…)
20 novembre, 2009
Stagione dell’OrchestraVerdi - 7
È doveroso far notare questa caratteristica – quasi unica nel panorama italiano – di un’orchestra che si impegna, e non a livello episodico, ma in modo serio e strutturato, a portare il messaggio musicale in giro per l’Italia. In città dove non c’è un’Orchestra Sinfonica stabile e magari neanche un Auditorium, dove non ci sono stagioni sinfoniche e la gente è costretta a viaggiare, se vuole ascoltare buona musica. Una ragione di più perché le pubbliche Istituzioni non facciano mancare il loro sostegno alla Fondazione.
Chiudo il carosello pubblicitario segnalando un’altra lodevole iniziativa, fra le tante, rivolta agli studenti: Concerto a porte aperte all'Auditorium. Proprio questa sera, al Turno B, essi potranno gratuitamente accedere alla sala: è anche questo un segnale di attenzione e di sensibilità di cui dare atto alla Fondazione.
Ora, la musica. Come è costume per concerti multiformi, si parte con una coinvolgente Ouverture: nella fattispecie i Vespri verdiani. Un vero gioiello, cui il termine sinfonia si attaglia perfettamente (ne avesse avuto il tempo e la voglia, Verdi avrebbe tranquillamente potuto rivaleggiare con i contemporanei Dvorak e Ciajkovski nell’agone sinfonico).
Intanto: la disposizione dell’Orchestra è in stile tedesco (tutti i violini davanti, bassi a sinistra) e poi, in evidente omaggio a Verdi, c’è un bel cimbasso (al posto della moderna tuba). Visto che non c’è molto da inventare su questo pezzo, qualche curiosità sui tempi. A parte il prestissimo finale (introdotto dalla fanfara degli ottoni) Verdi indica minuziosamente il metronomo: 52 semiminime per il Largo introduttivo - 33 misure 4/4 - e poi 88 minime per il resto, in Allegro agitato – 185 misure, 4/4 alla breve. Essendoci un solo, brevissimo cambio di dinamica, su una sola battuta (più un paio di corone puntate) che può pesare al massimo 2” sul tempo totale, si può precisamente calcolare la durata teorica dell’ouverture, escluso il prestissimo: 2’32” + 4’12” = 6’44”. Tanto per fare due esempi, qui Abbado con i Berliner (Palermo, 2002) tiene 3’06” + 4’52” = 7’58”, quindi è molto, molto lento rispetto alla prescrizione verdiana. Tradotto in metronomo: 43 semiminime + 76 minime. Anche Mehta (Roma,1990) è più lento del Verdi teorico, ma solo nell’allegro, chè nel largo è più rapido: 2’20” + 5’03” = 7’23”, corrispondenti a metronomo 57 semiminime + 73 minime. Qui invece un riferimento fra il comico e il deprimente (è evidente che in Guatemala non hanno El Sistema…)
Damian Iorio come l’ha fatta? Beh, io non giro col cronometro, né tanto meno col metronomo in tasca, quindi devo fidarmi dell’impressione del momento. Direi complessivamente sopra i tempi verdiani, ma non di molto. Sul piano del suono, mi è parsa un’esecuzione ben curata, senza eccessi retorici nei momenti di maggior impeto. Certo, anche il fracasso è inevitabile, ma è di quelli d.o.c. e l’Orchestra lo ha reso al meglio. In particolare bravi i violoncellisti, nelle esposizioni del tema di Henry&Monfort.
Poi è di scena Massimo Quarta, violinista che sale a volte anche sul podio di direttore, per interpretare una composizione in prima assoluta, commissionata dall’Orchestra Verdi e scritta per lui da Silvia Colasanti, Il canto di Atropo. Qui una presentazione di Massimo Colombo. Un brano assai profondo e coinvolgente, anche se nella sezione centrale il solista si distingue poco dagli altri archi dell’orchestra. Successo di stima, ovviamente, per l’autrice, presente in sala e salita sul palco a raccogliere meritati applausi.
Poi ancora Quarta in un’opera celebre, la Tzigane di Ravel, in cui mette in risalto tutte le sue qualità virtuosistiche (ma anche l’arpa ha la sua parte di gran rilievo!) Credo che il suo problema – per il futuro – sia la necessità di scegliere fra la specializzazione concertistica (ha già inciso quasi tutto Paganini, per dire) e quella di Direttore d’Orchestra: si sa che entrambe le cose sono assai difficili da conciliare a livello altissimo.
Il piatto forte del concerto è la Quinta di Prokofiev. Che prevede, come peculiarità rispetto all’orchestra classica, la presenza del pianoforte, ovviamente solo con compiti di riempitivo (spesso di rinforzo o complemento all’arpa, che pure ha qui un impiego assai corposo) e non certo solistici. Robuste anche le percussioni, rinforzate da tamburo, tamburino, tamburo di legno e tam-tam.
Nell’Andante introduttivo, Iorio fa emergere molto bene il contrasto fra i due temi (che pure hanno una qualche parentela melodica). In particolare eccellenti gli ottoni (trombe in testa) nel grandioso sviluppo, dove sono attesi da impervie difficoltà.
Lo Scherzo (Allegro marcato) ha un incipit di cui si dev’essere ricordato Nino Rota, al momento di comporre le musiche per il felliniano 8½. Poi nella partitura c’è un dettaglio francamente curioso, quasi maniacale: le due misure prima del segno 29, otto coppie di crome suonate in staccato ff dagli archi, contrabbassi esclusi, sono prescritte al tallone (la base dell’archetto) unica indicazione di questo tipo nell’intera sinfonia. Bravissimi qui gli archi a mantenere quel ritmo che ricorda una sbuffante locomotiva lanciata a gran velocità, o anche un maglio meccanico che – siamo in piena guerra! - modella lingotti d’acciaio per costruirci carri armati. Eccellenti nel trio gli strumentini, come anche arpa e pianoforte, che vi hanno un ruolo importante. Perfetta l’accelerazione che riporta il tema principale ad Allegro, con la conclusiva volata, tutta in staccato negli archi bassi e nel pianoforte, verso il tonfo finale, sull’accordo di RE minore di tutta l’Orchestra.
Nell’Adagio il rischio che corre il Direttore è quello di non riuscire a catturare l’attenzione del pubblico su un brano che è effettivamente ostico, e può facilmente trasformarsi in letale morfina. Siamo in un mondo espressionista, che ricorda vagamente certi passaggi dell’Adagio della decima mahleriana, con gli archi a disegnare contrappunti quasi dissonanti e gli strumentini che sovrappongono la melodia principale. La parte centrale è più mossa, e poi Prokofiev vi inserisce poderosi colpi di tam-tam, evidentemente per risvegliare gli assopiti, prima della chiusa, che il clarinetto conduce in un’atmosfera sempre più rarefatta.
Infine l’Allegro giocoso: è un Rondò, introdotto da richiami del tema principale del primo movimento, poi subito inizia il ritmo da treno in corsa che sostiene sempre il tema principale, che ricorrerà più volte, esposto via via – e variato - da diversi strumenti. I temi secondari sono per lo più a carico degli strumentini, davvero tutti bravi. All’ultima ripresa del tema principale c’è per le trombette (con sordina) un tour-de-force particolare, con velocissime semicrome puntate a sottolineare il generale trambusto, che porta alla conclusione, dove le stesse trombe, ora a voce spiegata, sembrano quasi imprigionare gli archi che - con pianoforte, arpa e percussioni - vorrebbero perpetuare il loro isterico moto. Smagliante la chiusa, repentina, sul tempo debole.
Un’esecuzione rimarchevole, e una bella serata nel suo complesso. Iorio torna sullo stesso podio fra una settimana, con un’altra Quinta, se possibile ancor più impegnativa, per lui e per i professori: quella di Gustav Mahler.
Intanto stasera ci aspetta un altro Requiem.