Zelensky e l'alternativa lose-lose, fra perdere:

la dignità VS l’alleato che ti chiede di perderla 

30 novembre, 2025

Tjeknavorian da camera al Gerolamo.

Come pre-riscaldamento per il concerto russo del pomeriggio in Auditorium, questa mattina il Tjek ha portato nella preziosa bomboniera del Teatro Gerolamo alcuni archi della sua Orchestra Sinfonica di Milano per offrirci, al loro fianco e non sul podio, un concerto cameristico davvero sontuoso: Brahms e Strauss!

Ecco quindi lo splendido Sestetto op.18 n°1, per tre coppie di violini, viole e violoncelli. Con il Tjek erano, da sinistra a destra, Nicolai Freiherr von Dellingshausen (spalla dell’Orchestra), le viole di Kirill Vishnyakov e Miho Yamagishi, e i celli di Nadia Bianchi e Tobia Scarpolini.

Esecuzione da incorniciare. Il Tjek non ha nemmeno bisogno di indicare gli attacchi, tanta e tale è la perfetta intesa con gli amici che lo accompagnano; si limita a sguardi d’intesa con il dirimpettaio Scarpolini. E per il resto mostra un perenne sorriso di beatitudine nel condividere, con gli altri cinque e con noi, questo Brahms giovane, ancora non austero e burbero, ma laicamente sereno e distaccato.

L’emozione è grande, quasi a strappare lacrime di appagamento.

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Poi ecco le profondissime Metamorphosen straussiane, un autentico distillato di tutta la musica occidentale, prodotto da un protagonista assoluto del passaggio dall’epico tardoromanticismo al turbolento ‘900, proprio nei giorni più bui della nostra storia. Qui il brano, composto per 23 strumenti ad arco (10-5-5-3) viene eseguito in una trascrizione per settimino (Rudolf Leopold, 1996, sulla base di un manoscritto di Strauss rinvenuto nel 1990): ai sei musicisti del sestetto di Brahms si aggiunge, dietro agli altri, tra viole e celli, il contrabbasso di Joachim Massa.

Beh, se davvero quel manoscritto è autentico, bisogna dire che Strauss aveva visto giusto a pensare ad un organico ridotto (sul tipo del sestetto di Capriccio) poi ampliato a 23 archi per compiacere il committente/dedicatario/benefattore Paul Sacher. Naturalmente, se ad eseguirlo è un gruppo di autentici solisti, trascinati dal loro ispirato leader.  

Sotto l’ultimo rigo della partitura, dove è citato il tema della Marcia funebre della Quinta beethoveniana, Strauss vergò il motto IN MEMORIAM!

Il Tjek ha voluto perciò rispettare un minuto di silenzio (del tutto appropriato peraltro rispetto alle presenti luttuose circostanze…) tenendo l’archetto a mezz’aria: qualcuno fra il pubblico ha cominciato ad applaudire assai prima, poi zittito dal… silenzio generale.


29 novembre, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano – 25-26.5 – Tjeknavorian-Obiso.

Tutta Russia per il concerto settimanale dell’Orchestra Sinfonica di Milano. Sul podio il Direttore Musicale e al violino Andrea Obiso. Pubblico strabocchevole!

Programma di struttura ultra-classica (Ouverture, Concerto solistico e Sinfonia) aperto nel nome di Michail Glinka, il compositore considerato padre del teatro musicale russo (con la sua Una vita per lo Zar del 1836 si aprì la grande stagione romantica russa di cui saranno protagonisti Ciajkovski, Musorgski, Rimski-Korsakov, …) Qui viene presentata l’Ouverture da Ruslan e Ljudmila (1842, ispirata a Puškin). 

L’Ouverture è un brano breve (6 minuti scarsi) e indiavolato, fatto apposta per scaldare a dovere i suonatori e catturare l’attenzione e l’entusiasmo del pubblico. È un vero pezzo di bravura per le orchestre (archi in testa) che da sempre si sfidano a chi la sa suonare più velocemente. In partitura c’è l’indicazione metronomica di 140 minime (o 135, per i dilettanti, ed è già parecchio) che significa un tempo totale teorico di meno di 5’35” (l’intero brano in C tagliato è notato come Presto per 372 battute e Più mosso per le restanti 30). Quel demonio che rispondeva al nome di Yevgeny Mravinsky la fece eseguire ai Filarmonici di Leningrado (che qui gli tengono splendidamente bordone!) addirittura in 4’38”, equivalente a più di 173 minime, un vero record!

Ecco, non saprei dire se il Tjek abbia fatto meglio di Mravinsky, ma deve essergli andato assai vicino! 

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Andrea Obiso, bambino prodigio, oggi poco più che trentenne, che coniuga l’attività di concertista con la prestigiosa posizione di spalla a Santa Cecilia, fa il suo esordio in Auditorium con l’inflazionato Concerto op.35 di Ciajkovski.  

Che, alla sua prima esecuzione viennese, il simpatico Eduard Hanslick accolse con questo caloroso indirizzo di benvenuto:

“Il compositore russo Ciajkovski non è sicuramente un talento ordinario, ma piuttosto gonfiato, con un'ossessione da genialoide senza sensibilità nè gusto. Tale è anche il suo ultimo, lungo e pretenzioso Concerto per violino. Per un po' si muove sobriamente, musicalmente e non senza carattere. Ma presto la volgarità prende il sopravvento e si afferma fino alla fine del primo movimento. Il violino non viene più suonato; viene stirato, strappato, bastonato. L'Adagio torna al suo miglior comportamento, per rappacificarsi con noi e convincerci. Ma ben presto sbrocca per far posto ad un finale che ci trasferisce nella brutale e miserabile allegria di una festa russa. Vediamo precisamente facce selvagge e volgari, ascoltiamo bestemmie, sentiamo odore di vodka. Friedrich Vischer una volta osservò, parlando di immagini oscene, che puzzano alla vista. Ecco: il Concerto per violino di Ciajkovski ci porta per la prima volta a fare la pessima constatazione che ci può essere musica che puzza all’orecchio.”

Beh, qualcuno non troppo tempo fa prese Hanslick in parola, usando le note del concerto come colonna sonora per pubblicizzare precisamente un prodotto di… spirito

Ma in fin dei conti, parlando di pubblicità, anche il buon Piotr per primo si servì nientemeno che dei favori di tale Carmen (una escort di cui il nostro gay si era maledettamente infatuato):

Aveva ragione Hanslick! Nel senso che Andrea ci ha letteralmente ubriacato di suoni con una prestazione trascendentale, per tecnica stupefacente unita a sapientissimo uso del rubato e di tutti gli ingredienti interpretativi che solo un fuoriclasse possiede. Cosa non è stata poi la massacrante cadenza dell’Allegro moderato, che però abbiamo scoperto - dopo l’uragano di applausi (ripetutisi ad ogni fine di movimento…) e finali urla belluine che il pubblico gli ha riservato - essere solo il riscaldamento in vista dell’immancabile bis, una cosa da marziani!

Abbracci ripetuti fra i due protagonisti (verrebbe voglia di ascoltarli suonare insieme…) e inchini e applausi di Obiso all’orchestra, da lui pubblicamente elogiata, prima del bis. Insomma, un'autentica consacrazione per tutti. 
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Il concerto si è chiuso con Rachmaninov e la sua Seconda Sinfonia. Per la quale devo ammettere di non nutrire particolare ammirazione: il Rach sinfonico (esclusa la sfortunata e innovativa Primafrancamente mi dà l’impressione di velleitarismo coniugato con il tentativo di accaparrarsi a buon mercato il favore del pubblico (cosa che per la verità accade regolarmente!) Molto fumo e poco arrosto, insomma, più che tardo-romanticismo mi pare… la metastasi del romanticismo, come ho già scritto in passato, commentando altre esecuzioni, sia qui che altrove.

La dimostrazione che (forse) non ho tutti i torti sta nel trattamento che spesso è stato riservato (persino con l’avallo dell’Autore!) alla Sinfonia, tagliata a volte in maniera addirittura barbara (durata ridotta da 60 a 40 minuti!) e come minimo (quasi) mai eseguita – nemmeno qui - con il da-capo dell’esposizione del movimento iniziale.

E però – incredibile! - il Tjek è riuscito a farmela gustare quasi come un piatto prelibato! E per di più senza de-romanticizzarla (si dice così?) né toglierle tutte le scorie decadenti e melliflue di cui è ricoperta. Ecco fin dove può arrivare il carisma! [E domani mattina questo mago sarà al Teatro Gerolamo con le sue… stringhe.]


28 novembre, 2025

Lohengrin di Mariotti-Michieletto in TV.

L’Opera di Roma ha aperto la stagione con il Lohengrin della coppia di esordienti wagneriani in buca e alla regia, cui si è aggiunto l’esordiente protagonista, Dmitry Korchak. Personalmente ho ascoltato prima in radio e poi, con calma questa mattina, ho visto la ripresa TV. [Nota a margine: come ormai di lunga tradizione, anche a Bayreuth, vengono tagliate le 168 battute che separano il racconto di Lohengrin (In fernem Land…) dal ritorno del cigno.]

Il battesimo di Mariotti è da giudicare a pieni voti, un approccio quasi perfetto per quest’opera che fa da spartiacque nella produzione wagneriana, e ha molte affinità con il belcanto italiano. L’ascolto tecnologico consente solo di valutare con buona approssimazione l’agogica, mentre le dinamiche sono fatalmente falsate rispetto all’ascolto dal vivo. Ecco, sulla gestione dei tempi di Mariotti mi sento di dire solo bene, anzi benissimo.

Il Coro di Ciro Visco, che Wagner impegna spesso a sezioni distinte, è parimenti da lodare, per compattezza ed anche per… dizione.

Fra le voci ha svettato su tutti Korchak, che ha proprio impersonato il protagonista con approccio belcantistico, pienamente aderente alla natura musicale del ruolo.

Bene anche la Elsa di Jennifer Holloway, capace di passare dalla mestizia della sua condizione alla gioia della materializzazione del miracolo, all’ingenuità del suo rapporto con Ortrud, e da qui al lancinante e insopportabile dubbio con conseguente crollo delle sue certezze e perdita della grazia ricevuta.

A proposito di Ortrud, più che apprezzabile Ekaterina Gubanova, dalla quale mi sarei aspettato ancor più grinta di quella messa in campo.

Tómas Tómasson è stato un solido Telramund, vocalmente e scenicamente, anche lui efficace nei cambiamenti psicologici imposti dalle trame della moglie.

Onesta la prestazione di Andrei Bondarenko, il portavoce del RE, mentre proprio quest’ultimo – Clive Bayley – mi è parso decisamente sotto la media degli altri.

I quattro maschi del Progetto Fabbrica e le quattro donne del coro hanno completato degnamente il cast. Per tutti grandi applausi e ovazioni.

Michieletto? Mah, dirò subito che i buh (fra le ovazioni) che lo hanno accolto alla fine mi son parsi eccessivi, se non ingiustificati: definirei la sua una regia innocente, nel senso di non aver perpetrato crimini contro il soggetto. Perché oggi ormai nessuno deve scandalizzarsi se i brabantini non sono abbigliati come nell’anno 1000 o se è Lohegrin a trascinare il cigno e non viceversa… O se la tenzone non è all’arma bianca, ma sa di prova per fachiri. O se, al finale happening sulla Schelde, non vediamo quattro diversi gruppi di soldati arrivare sul palco cavalcando equini in carne ed ossa (come vaneggiava Wagner!) ma un ammasso indistinto di popolo. O ancora: Ortruda che cerca di affogare Elsa alla fine; o la mancanza della… locomotiva della barchetta di Lohengrin per il ritorno (la colomba del Gral). Insomma, tutte trovate gratuite ma, appunto, irrilevanti.

L’unico affronto alla sostanza dell’originale è – a mio modesto avviso - la diversa fine fatta fare ad uno dei quattro personaggi principali dell’opera: Telramund. Presentarcelo come suicida prima e non come vittima di Lohengrin( sia pure per legittima difesa) durante la fatal scena dello spergiuro di Elsa, mi sembra proprio un affronto alla personalità di Telramund, che Wagner ci dipinge come pronto a tutto e perfettamente convinto delle teorie di Ortrud.

Apprezzabili invece i richiami, fin dal Preludio, all’antefatto riguardante Gottfried, con la reiterata apparizione in scena del piccolo; e l’ultima esternazione di Lohengrin, che arriva da fuori scena, cioè da lontano, ormai nel viaggio di ritorno a Monsalvat.   

In definitiva, almeno stando a ciò che ci è pervenuto grazie alle diavolerie tecnologiche, una proposta di alto livello.


22 novembre, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano – 25-26.4 – Ceretta-Lucchesini.

Dopo poco più di un anno dal suo esordio con laVerdi, il rampante Diego Ceretta (che stabilmente guida la ORT) torna sul podio dell’Auditorium per dirigervi un impegnativo programma, condiviso nella prima parte con Andrea Lucchesini, già ospite qui nel 2017. Pubblico abbastanza folto, nonostante la giornata davvero proibitiva, e ben disposto.

Programma aperto da Compass, recital per pianoforte e orchestra, che Luciano Berio compose nel 1994 (Ceretta doveva ancora nascere!) avvalendosi della collaborazione di Renzo Piano per gli aspetti visivi e coreografici per cui l’opera avrebbe dovuto caratterizzarsi. [Ma l’originale di Berio-Piano fu stravolto – rispetto alla volontà degli autori - alla prima zurighese del 1995, pur accolta con successo dal pubblico, così Berio fece pubblicare solo la partitura, priva di ogni riferimento visivo e coreografico, da eseguirsi – appunto - esclusivamente in concerto, come è avvenuto qui.] 

L’opera è una specie di centone (si direbbe in gergo melodrammatico) di opere di 5 e fino a 40 anni precedenti, rivisitate e arricchite da interventi dell’orchestra (che ha tre numeri per sé, e per il resto accompagna con discrezione il solista) in 11 tappe: quindi testimonianze di stili e approcci diversi, rivisitati alla luce dell’esperienza. 

Lucchesini è chiamato ad un tour-de-force non da poco, e se la cava alla grande, tenendoci sempre sulla… corda (insomma, questa non è propriamente musica fischiettabile) e così come digestivo (haha!) ci propina caritatevolmente un bis in qualche modo collegato a Berio: > Rendering > Schubert > Improvviso in SOLb maggiore op 90 n°3 (la volta scorsa aveva fatto il n°2…) 

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La seconda parte del concerto è occupata da due opere del primo Novecento, ma di due compositori rimasti, pur con diverse personali attitudini, fedeli al tardo ‘800.

Ecco quindi i Valses nobles et sentimentales di Maurice Ravel, ovviamente nella versione orchestrale, derivata – per farci il balletto Adélaïde ou le langage des fleurs - da quella originale per solo pianoforte.

Ravel rende omaggio alla tradizione viennese (Schubert e Johann Strauss) componendo una specie di austero e raffinato distillato della danza che aveva spopolato per tutto il secolo precedente. Epigono quindi dei due tardoromantici per eccellenza, il Mahler che piegò il walzer al servizio dei suoi programmi esistenziali, e il Richard Strauss che ne esaltò invece gli aspetti più mondani e persino politici.

Sulla prima pagina della partitura Ravel riportò una frase di Henri de Régnier, intellettuale e poeta per cui aveva grande ammirazione e di cui citò spesso versi e aforismi: il piacere delizioso e sempre nuovo di un'occupazione inutile. E qualche anno più tardi completerà l’opera con il capolavoro di La valse, del quale già si sentono qui chiare anticipazioni.

Gli otto brani di cui si compone l'opera hanno una grande unità stilistica ed anche un ristretto campo tonale, con poche escursioni dal prevalente SOL. I primi sette (ad eccezione del 4 e 6) sono in tempi moderati o lenti. L'ultimo walzer, che fa da epilogo, presenta ripetuti cambi di tempo e agogica; e finisce proprio en se perdant, con archi e celesta ad esalare un accordo sulla dominante di SOL maggiore, appena appena increspato dai LA di celesta, violini secondi e viole.  

E infine ecco Ottorino Respighi e il suo poema sinfonico Fontane di Roma, brano di grande raffinatezza impressionista, aperto dai secondi violini con sordina (ad introdurre il tema debussyano negli oboi) con una vaga reminiscenza mahleriana:


Sono le prime battute di Der Einsame im Herbst, ambientato, guarda caso, nei pressi di un laghetto, di cui si ode il lento sciacquio, che qui rimanda al tenue sgocciolare della fontana di Valle Giulia.

Seguono due sezioni mosse, con lo squarcio di luce del sole che inonda il Tritone di prima mattina. Qui fa capolino anche Sheherazade del grande Rimski, maestro di Respighi:

E poi la fantasmagoria di zampilli e cascatelle di Trevi, dove la solenne sfilata del carro di Nettuno ricorda le poderose sonorità della straussiana Alpensinfonie. Si chiude con il tramonto di Villa Medici, languido quanto lo specchio d'acqua della circolare fontana, e scandito dai 29 (!) rintocchi della campana. 

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Ceretta, che ha diretto entrambi i brani a memoria, ha trovato la complicità di un’orchestra in gran forma, che lui ha guidato con autorevolezza e sobrietà di gesto, meritandosi il convinto consenso del pubblico e l’applauso ritmato - innescato dalla spalla Dellingshausen – che è sempre segno tangibile di apprezzamento anche da parte degli esecutori. 

21 novembre, 2025

SantAmbrogio si avvicina.

A Milano fervono le iniziative di divulgazione della prima del 7 dicembre, con incontri, conferenze e articoli di stampa.

Il 19 scorso Franco Pulcini e Riccardo Chailly hanno amabilmente discettato sulla Lady nel consueto appuntamento degli Amici della Scala, esaltando l’opera di Shostakovich come il più gran capolavoro di teatro musicale del novecento. Il Direttore musicale ha – come sempre – sottolineato alcuni particolari della partitura, come le controverse indicazioni metronomiche, a volte falsate proprio dal… metronomo (piuttosto scalcinato) di cui disponeva il compositore; oppure i richiami a Mahler (Lied von der Erde, Abschied) nell’aria del lago nero di Katerina; o l’inaspettata presenza – data la nota idiosincrasia del compositore riguardo la musica seriale – di una serie dodecafonica in piena regola! Sono state anche mostrate due esecuzioni di brani di Shostakovich dirette da Chailly: il Quarto Interludio dell’opera (l'indiavolata corsa dell’ubriacone verso la stazione di polizia, con la batteria di 28 ottoni!) e il secondo walzer della Jazz Suite 2 (oggi impiegato come sigla del talk di Augias La torre di Babele).

Fra pochi giorni il Teatro No’hma della benemerita Teresa Pomodoro ospiterà l’ormai tradizionale presentazione dell’opera, curata come sempre dal simpatico e raffinato Stefano Jacini.

L’iniziativa La prima diffusa propone la visione cinematografica del 7 dicembre in diverse sale della città, oltre ad una nutrita serie di incontri di presentazione dell’opera.

Sul fronte dei contenuti di divulgazione di alto livello segnalo questa fulminante presentazione di Max Vono, storico forumista del (purtroppo) defunto blog La voce del loggione, che sviscera tutti i segreti musicali del capolavoro di Shostakovich, mettendoli poi in relazione con i suoi successivi lavori strumentali, e sottolinea l’assoluta attualità del soggetto, il cui suono (cit) è ancora il suono del nostro caos.  


15 novembre, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano – 25-26.3 - Tjeknavorian alla sfida con Verdi.

Per il Direttore musicale arriva un nuovo appuntamento capitale, un ennesimo esame di maturità: il Requiem verdiano! [Qui un mio personale bigino dell’opera.]

Eccezionalmente il concerto, oltre che domenica, come di consueto, sarà replicato anche questa sera, con impiego di strumenti indirizzati a persone con disabilità intellettive.

Concerto con una dedica tutta particolare, quanto appropriata: alla memoria di una storica bandiera dell’Orchestra, la leggendaria Viviana Mologni, che purtroppo da pochi giorni ci ha lasciato, piegata da una malattia inesorabile. Il Konzertmeister Santaniello, come lei decano dell’Orchestra, prima di ordinare all’oboe il LA per l’accordatura, l’ha voluta ricordare, chiamando il pubblico (alzatosi in piedi) ad un minuto di raccoglimento.

Ecco qui una toccante esternazione della maga dei timpani - precisamente di cinque anni fa - dopo aver tenuto a battesimo la nuova batteria acquistata dalla Fondazione con il sostanzioso contributo del suo fedele pubblico.  

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Auditorium gremito all’inverosimile, sul palco come in sala, e soprattutto con larga presenza di giovani e giovanissimi, che evidentemente dimostrano di essere molto più maturi di qualche ministro saputello…

Il Tjek, che ci ha abituato a dirigere tutto a memoria, si tiene invece la partitura sotto il naso. Ma questo non significa certo che la conosca poco, al contrario, il suo dev’essere un atto di grande rispetto per un lavoro con il quale è saggio non correre rischi. E ciò gli fa onore.

Il Coro, come l’Orchestra in forma strepitosa, è affidato alle cure di Massimo Fiocchi Malaspina.

Le quattro voci soliste (SATB) sono Chiara Isotton, Szilvia Vörös, Raffaele Abete e Manuel Fuentes; e parliamo subito di loro.

Chiara Isotton è ormai più che una promessa, e la sua voce potente, calda e penetrante ha svettato in ogni occasione, a partire dal Kyrie, poi nel Quid sum miser e nel Salva me, dove deve toccare il SI e il DO acuti; ancora nel sognante Recordare, dove si aggiunge al mezzosoprano per toccare il SIb; supera poi di slancio l’apnea del lungo legato sul Sed signifier. Ma ovviamente la prova più ardua per lei è l'interminabile Libera me: dove si cimenta con i drammatici declamati, i due urli sul LAb dell’Ignem, poi con il Requiem, chiuso mirabilmente con il lungo SIb acuto in pppp! Nella colossale fuga deve salire due volte al SI naturale, poi (ancora sul Libera me) al culminante DO, dove deve fronteggiare la marea di suono di orchestra e coro! Per poi portare l’atmosfera dal DO minore al maggiore, sulle ultime esalazioni del Libera me.         

Una gradita sorpresa (almeno per me, che l’ascoltavo per la prima volta) la Szilvia Vörös. Voce corposa, portamento ricco del pathos che la parte richiede. Dopo il suo esordio nel Kyrie è protagonista nel Liber scriptus, culminato nel LAb acuto dello Judicetur; efficace l’attacco del Recordare, commosso quello del Lacrymosa; dolce quello del Domine Jesu Christe che apre l’Offertorio. Da incorniciare Lux aeterna, di cui è protagonista assoluta.

Raffaele Abete ha sfoggiato voce chiara e squillante, fin dall’esordio nel Kyrie. Ma la prova più impegnativa per il tenore è notoriamente l’Ingemisco, e devo dire che lui l’ha superata abbastanza bene, chiudendo (in parte dextra) con il SIb forte che scende in piano al MIb. Apprezzabili i suoi contributi al Domine Jesu e al dolcissimo incipit dell’Hostias.    

Manuel Fuentes (da Alicante) ha completato più che degnamente il cast. Timbro forse non eccelso, ma buon portamento, messo in mostra, in particolare, nello… stupefatto Mors stupebit; poi nel Confutatis, dove passa efficacemente dal protervo al dolce; bene anche il contrappunto con il mezzosoprano nel Lacrymosa, come pure l’intervento (Libera) nell’Offertorio.    

L’esame del Tjek? C’era da dubitarne? Superato magna-cum-laude! Sarebbe lungo elencare tutte le perle della sua interpretazione: sonorità eteree, epici slanci, attenzione maniacale ai dettagli, precisione chirurgica negli attacchi a coro e strumenti…

Per farla breve: un trionfo epocale, con pubblico in delirio e ovazioni per tutti.   


08 novembre, 2025

Sulla Scala incombe una Lady sovietica.

Siamo in guerra con la Russia, parliamoci chiaro (sennò come si spiegherebbe la montagna di quattrini da spendere in armi contro Putin, invece che per risanare la… Sanità?) e quindi ogni minima attività che possa inquadrarsi come propaganda filo-putiniana deve essere bandita e combattuta senza se e senza ma, come doverosamente han fatto i patrioti veronesi, sventando tempestivamente potenziali cabalette eversive del pericoloso Ildar Abdrazakov.

Ma con la… Lady che si fa? La locandina è piena di nomi di artisti russi (o affini…) a partire dal regista, quindi domanda: sono stati tutti accuratamente passati ai raggi X, prima che ce li ritroviamo in casa come quinte colonne del nemico?

Ma soprattutto: come la mettiamo con Shostakovich? Eh, qui le cose si complicano, perché ci sono due correnti di pensiero che fanno del compositore due ritratti opposti: la prima è garantista, e si appoggia essenzialmente sulle memorie di Shostakovich pubblicate nel 1979 da Solomon Volkov in un libro dal titolo Testimony, dal quale emerge la figura di un convinto anti-stalinista, che non perdeva occasione per esprimere in musica, magari cripticamente, critiche radicali contro il regime. L’altra corrente è colpevolista, ricordando come il compositore ebbe rapporti personali con Stalin ed accettò dal baffuto dittatore persino l’incarico prestigioso (altro che Scala…) di Ambasciatore dell’URSS alla Conferenza internazionale della Pace, tenutasi a New York nel 1949. 

Insomma, qui il CoPaSiR avrebbe materiale a josa per intervenire sulla scelta (avventata?) del Teatro di proporre l’opera di un personaggio così sospetto. E la DIGOS farebbe bene a tener d’occhio qualche sconsiderato, o pericoloso agitatore, che potrebbe uscirsene il 7 dicembre, davanti ad un esterrefatto Mattarella, urlando Viva la Russia anticapitalista!

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Bene, esaurita la politica, passiamo alle notizie serie.

Oggi pomeriggio, nel ridotto Toscanini del Teatro, si è tenuta un’interessante conferenza, moderata da Raffale Mellace, dove sono state esaminate alcune peculiari problematiche in vario modo legate all’opera.

Lo scrittore Paolo Nori (librettista della recente Anna.A di Sivia Colasanti), profondo conoscitore della letteratura russa, si è soffermato sulla personalità, sullo stile e sull’approccio estetico di Nikolai Leskov, lo scrittore che ispirò a Shostakovich (e al suo librettista Alexander Preis) il soggetto dell’opera.

Successivamente Franco Pulcini, super-esperto in materia… Rus, si è occupato in dettaglio del soggetto della Lady, esplorandone le principali sfaccettature e implicazioni, in particolare quelle legate alla figura della protagonista e ai suoi problemi esistenziali.       

Anna Giust, autorevole conoscitrice del mondo russo e in particolare di quello musicale, si è focalizzata sulle controverse vicende dell’opera, accolta entusiasticamente dal pubblico e poi stroncata (da Stalin in persona?) come sovversiva, e in generale sui rapporti fra arte e censura sotto il regime sovietico.

A conclusione dell’evento, Riccardo Chailly ha conversato con Raffaele Mellace, esplorando i tratti fondamentali di questo che lui considera uno dei massimi capolavori di tutti i tempi.  

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Anche se il taglio degli interventi è stato forse un po’ troppo, diciamo, specialistico, mi sento comunque di suggerirne la visione (il video dovrebbe arrivare su youtube), e nel frattempo mi faccio anch’io un po’ di pubblicità.

06 novembre, 2025

Gran ritorno alla Scala della terz’ultima di Mozart.

Così fan tutte è tornata alla Scala dopo 11 anni di assenza (2014, Guth-Barenboim) affidata alle cure della coppia Carsen-Soddy.

In Largo Antonio Ghiringhelli un gruppo di sindacalisti del CUB distribuisce e legge il testo di un volantino in cui si richiama l’attenzione del pubblico su alcuni problemi di carattere organizzativo e gestionale che sono oggetto di rivendicazioni delle maestranze cui la Direzione del Teatro non avrebbe ancora dato risposta. Si tratta di criticità relative agli organici e alle professionalità, al ricorso sempre più frequente agli appalti e all’attenzione alle problematiche di sicurezza negli ambienti di lavoro (Teatro e Laboratori Ansaldo). L’obiettivo dichiarato è di conservare al Teatro la prerogativa di luogo d’arte, evitando che diventi solo fabbrica di spettacoli.

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L’interesse principale di questa nuova produzione risiedeva nella messinscena di Robert Carsen e del suo team (Luis Carvalho per scene e costumi, Peter vanPraet per le luci, Renaud Rubiano per i video e Rebecca Howell per le coreografie). E già faceva discutere la decisione del regista di ambientare la vicenda in uno scenario tipico dei moderni reality televisivi. Il che ha provocato (prevedibili?) isolate contestazioni alla fine dello spettacolo. Personalmente le ritengo abbastanza pretestuose e probabilmente frutto di pregiudizi e non di seria e oggettiva valutazione.

Ripropongo qui alcune mie personali elucubrazioni sul soggetto di DaPonte che mi portano a riconoscere a Carsen l’intelligenza del suo approccio. In sintesi, l’abilità e il merito del regista stanno nell’aver evitato di far aderire a tutti i costi il testo originale al suo personale Konzept, ma di aver utilizzato con parsimonia ed efficacia alcuni aspetti (soprattutto esteriori) dell’ambiente reality per dare valore aggiunto alla sua proposta.

È fuor di dubbio che esistano sostanziali differenze fra i due scenari, in primo luogo riguardanti la posizione dei quattro personaggi che costituiscono le due coppie: in un reality essi, come ogni altro partecipante alla kermesse, sono perfettamente coscienti di ciò che li aspetta (hanno fatto richiesta di partecipare, sostenuto esami di idoneità e ricevuto in anticipo tutte le regole e raccomandazioni del caso); viceversa nel soggetto dapontiano i protagonisti si trovano, loro malgrado e involontariamente coinvolti in un’avventura per affrontare la quale non sono minimamente preparati.

Ecco, Carsen rispetta in pieno (anche in dettagli minimi) il soggetto dapontiano, arricchendolo però di verve, vivacità e… modernità. Alcuni esempi: la scena della partenza verso il campo, con l’esagerata portaerei che lentamente si allontana e il picchetto d’onore dei militari (maschi e femmine!) che salutano le nuove reclute; quella del finto avvelenamento, dove i due albanesi tracannano il veleno direttamente dalle taniche del cloro disinfettante della piscina, e dove Despina li guarisce con strumenti di moderna telemedicina; i due dormitori, femminile e maschile, dove prendono vita i pistolotti di Despina alle ragazze (del reality, quindi a tutte le ragazze che lo guardano in TV) o quello di Guglielmo ai maschi, con l’esibizione di riviste erotiche; le coreografie che accompagnano la scena del finto matrimonio, …

Dal punto di vista tecnico, l’ormai imprescindibile impiego della piattaforma rotante (qui divisa in tre spicchi di 120°) rende possibili i frequenti mutamenti di scena; per gli ambienti esterni (imbarco, piscina, terrazza sul mare per gli incontri romantici, giardino per il matrimonio) uno schermo occupa l’intera parete di fondo, dove sono proiettate immagini fisse o mobili. I costumi sono ovviamente moderni, colorati, eleganti; non mancano smartphone e microfoni portatili, schermi che diffondono ciò che avviene in scena…

Insomma, tutte trovate intelligenti e mai volgari che rimuovono gli aspetti un po’ claustrofobici del soggetto originale, tutto concentrato sui soli sei personaggi in scena.

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Notizie eccellenti dal fronte dei suoni. Alexander Soddy ha perfettamente coadiuvato l’impostazione registica con una direzione scoppiettante, senza mai un attimo di respiro, ma supportando al meglio anche i pochi squarci lirici (le accorate esternazioni di Firdiligi e Ferrando) grazie all’Orchestra che ha mostrato come sempre grande compattezza, ma anche le sue risorse solistiche (corno in primo luogo).

Il coro diretto per l’occasione da Giorgio Martano ha fatto egregiamente la sua (peraltro non massacrante) parte.

I sei interpreti tutti all’altezza del compito. A partire dalla Elsa Dreisig, una Fiordiligi dalla voce penetrante in tutta la gamma (perfettamente udibile anche sulle note gravi). Grande maestria nel rendere la complessa personalità della donna, piena di sensi di colpa e combattuta da dubbi esistenziali fino all’ultimo. Punte di diamante della sua interpretazione l’aria Come scoglio immoto resta e il Rondò Per pieta, ben mio, perdona.

Nina van Essen ha sfoggiato la sua brunita voce mezzosopranile per valorizzare al meglio il ruolo della più disinibita Dorabella. Da incorniciare le sue due arie: quella truculenta (Smanie implacabili) e quella ammiccante (È amore un ladroncello).

Sandrine Piau è una perfetta Despina, voce squillante, proprio maliziosa e sbarazzina, si direbbe, esaltata dalle due arie, la prima con la negazione della fedeltà (In uomini, in soldati) e la seconda, con la disinibita lezione alle ragazze (Una donna a quindici anni).

Il poliedrico e versatile Luca Micheletti impersona Guglielmo, mettendo al suo servizio una voce sempre ben impostata, convincente nelle sue avances amorose (Non siate ritrosi, occhietti vezzosi) come nella tutto sommato bonaria e fatalistica invettiva contro le donne (Donne mie, la fate a tanti).

Il complessato Ferrando è efficacemente interpretato da Giovanni Sala, che sfoggia voce robusta e suadente, come nella sua aria Un’aura amorosa del nostro tesoro.

Su tutti i maschi il DonAlfonso di Gerald Finley: splendida voce baritonale e gran presenza scenica, come si addice al personaggio-chiave di tutta la vicenda.

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Al termine applausi a non finire per tutti, con punte per Dreisig e Finley. Fuori luogo davvero i buh per Carsen. Che non tolgono a questa produzione – a mio modesto avviso – il grande merito di aver chiuso davvero in bellezza la stagione 24-25.

Questa sera, RAI5 alle 21:15 diffonde la registrazione di ieri; che resta poi per 15 giorni disponibile su RAI Play. Chi può non se la perda!