intime gioje

chiuder la prigione e buttar la chiave

26 febbraio, 2024

La Scala riesuma – e fa rivivere - il Mozart di Strehler

Dopo le riprese nelle stagioni ’78, ’94 e 2017, la Scala ripropone la mozartiana Die Entführung aus dem Serail come allestita da Giorgio Strehler (e Luciano Damiani per le scene e i costumi) nel lontanissimo ’65 a Salzburg, poi nel ’69 a Firenze e finalmente qui nel ’72.

Oggi la ripresa è affidata a Laura Galmarini (con le luci di Marco Filibeck). Sul podio il rampante Thomas Guggeis, già ben noto a Milano per le presenze al Piermarini e all’Auditorium (oltre che per i suoi trascorsi al Conservatorio). 

Teatro affollato, ma non… issimo, ecco; pubblico però ben disposto, con applausi a scena aperta a tutti i numeri (escluso l’esordio di Pedrillo…) e accoglienza calorosa per tutti alla fine.

Dello spettacolo inutile ripetere la bellezza, incontaminata dopo 55 anni! E a proposito, cito subito l’inossidabile Marco Merlini, sempre strepitoso nella sua gag dell’inizio atto terzo (e anche come coreografo dei Giannizzeri.)

Sven-Eric Bechtolf nella parte di Bassa Selim poi è davvero un lusso…
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Thomas Guggeis überalles! Cosa non ha cavato da un’orchestrina proprio… settecentesca. Magari col tempo sfronderà la sua direzione dalla (esteriore e scusabile, perché giovanile) …motorietà, ma la sostanza c’è e come, e ora ne abbiamo la conferma anche nel teatro, dopo le eccellenti prestazioni nel sinfonico. Per lui un meritato trionfo. Coretto di Giorgio Martano (con i quattro solisti) impeccabile.

Come si poteva prevedere, Jessica Pratt è stata l’altra trionfatrice della serata: una Konstanze musicalmente quasi perfetta, e non solo negli acuti e nelle colorature, che sono la sua specialità: dopo il massacrante passaggio delle due arie consecutive (Traurigkeit e Martern) l’applauso è scrosciato lungo e intenso.

Benissimo anche la Blonde di Jasmin Delfs: voce pulitissima e ottima presenza scenica (vedi il duetto-scontro con Osmin).

Daniel Behle è stato un Belmonte più che discreto. Gli è stata ancora inspiegabilmente risparmiata la commovente aria N°15 del second’atto, Wenn der Freude Tränen fliessen (manco a dirlo, aria giustamente citata fra le più importanti nella presentazione di Elisabetta Fava sul programma di sala…) Ma si è ben rifatto nella più impegnativa Ich baue ganz auf deine Stärke, che apre l’atto conclusivo.

Michael Laurenz è invece emerso assai bene come Pedrillo, voce squillante e gran presenza scenica.

L’Osmin di Peter Rose fa sempre un figurone grazie a… Damiani e Strehler; vocalmente dignitoso, ma non straordinario (e poco… cattivo, ecco).

Come detto, accoglienza calorosa con picchi per Pratt e Guggeis. In conclusione: una bella serata di musica e di spettacolo! 

23 febbraio, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.13

Modernità e tradizione caratterizzano il Concerto di questa settimana, che vede il ritorno sul podio del Direttore Residente Andrey Boreyko.  

La modernità è rappresentata da Mysterium času (Il mistero del tempo) Passacaglia per orchestra di Miloslav Kabeláč, compositore ceco rimasto piuttosto in ombra a causa di un ostracismo di fatto, impostogli a suo tempo dal regime instaurato in Cecoslovacchia dall’URSS alla fine della WWII, che non vedeva di buon occhio artisti non allineati ai dettami del realismo socialista. Le purghe di Stalin erano acqua passata, ma anche Brezhnev non andava tanto per il sottile (come dimostrò nel’68 soffocando con i carri armati la Primavera di Praga…) e così il compositore, forte dell’autorevolezza acquisita fin da prima della guerra, cercò in qualche modo di barcamenarsi (un po’ come Shostakovich in Russia, per dire) in un instabile equilibrio tra libertà di espressione artistica e vincoli imposti dal regime.
In questo video uno dei principali artefici della recente divulgazione delle opere di Kabeláč, Marko Ivanović, presenta – prima di dirigerlo - i tratti salienti del lavoro (inquadrandoli anche nel difficile periodo storico della composizione, 1957) che mutua dalla classica forma di Passacaglia soprattutto il ritmo incalzante e inesorabile (il Tempo, appunto).

È una specie di viaggio dalla notte dei tempi, con l’inizio in pianissimo. Qualcosa si muove in orchestra, ancora quasi indistinto (clarinetto basso, pizzicato del contrabbasso, arpa, clarinetto, rintocchi di timpano, tappeto di archi) poi flauto e violini fanno emergere una melodia, a lungo reiterata:

…e da qui si snoda il lungo, mirabile e continuo peregrinare nel tempo – con l’ingresso progressivo di tutti gli strumenti, il caricarsi del volume di suono, le numerose modulazioni e il sovrapporsi di ritmi diversi ma sempre sulla base stabile della Passacaglia – caratterizzato da successive ondate sonore, a sfondo ora lirico, ora marziale, ora persino guerresco (le ere geologiche? o l’attitudine dell’Uomo nel tempo?) culminanti in altrettanti climax (l'ultimo dei quali rappresenta forse il nostro presente?) per poi spegnersi lentamente, spostando il nostro sguardo verso il più remoto futuro (chissà, forse l’eternità?) con il ritorno all’iniziale motivo in pianissimo

Insomma, una narrativa coinvolgente, che ci guida in un viaggio davvero straordinario… almeno così mi piace immaginarlo e viverlo. E Boreyko e l’Orchestra ce lo hanno trasmesso in tutta la sua accattivante ballezza.

Poi il Direttore, per salutare e ringraziare l’Orchestra al termine della sua residenza qui (ma speriamo sia un arrivederci e non un addio) ci ha proposto un’autentica primizia: la trascrizione per orchestra di una paginetta di poche battute che Wagner scrisse a Palermo come dedica del Parsifal alla sua Cosima: L’Ultima Composizione.
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Ha chiuso la serata il Secondo Concerto per pianoforte di Brahms, interpretato dal 38enne ukraino Vadym Kholodenko.

[Fra meno di un mese saranno trascorsi 8 anni da quel terribile 17 marzo del 2016 quando il trentenne Vadym, a Benbrook (Fort Worth, Texas) passando da casa della moglie divorziata per prendere le due figliolette di 1 e 5 anni, le trovò prive di vita, con la madre in stato di palese shock e ferite da arma da taglio. La madre fu poi formalmente incriminata per la morte delle piccole (per soffocamento) ma tornò libera in quanto dichiarata inferma di mente al momento del delitto. Una storia davvero emblematica dei rapporti fra russi e ukraini: Vadym nasce a Kiev nell’86, fa gli studi a Mosca dove ottiene i primi successi, sposa una russa (Sofya) e con lei si sposta in USA, dove vince premi (2013 a Fort Worth, appunto) e diventa famoso; ha due figlie, ma il matrimonio va a rotoli e finisce in catastrofe; torna in Europa, sposa un’altra russa (Alena, violinista) e si stabilisce con lei in Lussemburgo, dove risiede tuttora. Poi l’altra tragedia, l’invasione di Putin, che non può non aver turbato il rapporto fra i due, legati alla Russia per nascita (lei) e per… carriera (lui). Ma chissà, forse sono proprio l’arte e la musica a fornire ai due un rifugio da queste miserie.]

Dunque, Brahms al culmine dell’epopea classico-romantica e come propulsore del tardo-romanticismo: ne sono testimonianza le primissime battute del Concerto: l’attacco dei corni (salita tonica-sopratonica-mediante) che richiama quello del weberiano Oberon; e poi il controsoggetto del primo tema, che Mahler (vicino anche materialmente a Brahms negli anni di Hamburg) mutuò nel finale della sua Auferstehung… (Qui una mia sommaria esegesi dell’opera).

Kholodenko ha ormai questo Concerto stabilmente in repertorio (lo ha eseguito in passato anche recente con Currentzis e da pochissimo a Baden-Baden con Ivan Fischer) e anche qui ha fatto valere la sua tecnica sopraffina, coniugata col rigore esecutivo dovuto a questo Brahms, il che non significa pesantezza, magniloquenza e pura cerebralità, anzi: ne esce un Brahms pienamente cosciente del suo magistero, nell’arte pianistica come nell’impiego sapiente dell’orchestra, che Boreyko ha mantenuto sempre in piena sintonia con il solista.

Il pubblico dell’Auditoriium (pur scarseggiante, stante il tempo da lupi calato su Milano) lo ha accolto con grandissimo calore. E lui ci ha così premiato con Beethoven: la terza delle Bagatelle op,33, in FA maggiore.

17 febbraio, 2024

L’Orchestra Sinfonica Giovanile di Milano con Tjeknavorian

Nel giorno libero fra le due esecuzioni del concerto della stagione principale, Emmanuel Tjeknavorian ha pensato bene di dare una mano anche alla crescita della Sinfonica Giovanile (già passata al vaglio lo scorso dicembre da Treviño) dirigendo un bel concerto di musiche boeme.

Abbiamo così ascoltato la famosissima Moldava, che Smetana incluse come secondo poema sinfonico nel ciclo dei sei che costituiscono La mia Patria. La Moldava è in effetti il fiume simbolo della Boemia, che attraversa da sud a nord, sfociando nella più piccola Elbe (poco sopra Praga) alla quale lascia però cavallerescamente il nome per i restanti 600 Km che ancora separano il fiume dalla foce presso Amburgo, dopo aver attraversato mezza Germania. In poco più di 150 Km in linea d’aria (fra sorgente e foce) la Moldava compie un percorso di ben 430 Km, il che rende bene l’idea della sua importanza per quei territori.

Dopo che flauti e clarinetti (Allegro commodo non agitato, 6/8) hanno evocato le due sorgenti del fiume, ecco negli archi il famoso tema principale in MI minore (che viene dall’Italia e compare anche nell’inno nazionale d’Israele) che poi ci porta in DO e FA maggiore attraverso una caccia nei boschi, poi (L’istesso tempo, ma moderato, 2/4, SOL maggiore) ad una festa di nozze di contadini; quindi, modulando a LAb maggiore ad una danza notturna di ninfe, in 4/4; dopo un passaggio in MI maggiore, ritorna in MI minore, 6/8, il tema principale del fiume, che poi si getta - con diverse modulazioni di tonalità - nei gorghi e nelle rapide di SanGiovanni; riecco (Più moto) la Moldava nel poderoso procedere delle acque (ritorno del tema principale in MI maggiore) e poi si sale su a nord fino a passare ai piedi del mitico castello di Vyšehrad, che riconosciamo musicalmente dalla comparsa del suo tema, protagonista dell’omonimo primo poema del ciclo, che ci accompagna... alla foce.

A proposito ribadisco un mio auspicio: che laVerdi metta in cantiere l’esecuzione integrale del ciclo, che merita un concerto tutto per sé… magari diretto da Tjeknavorian, visto come ha saputo interpretare questa partitura, che mescola visioni paesaggistiche e di bellezze naturali a nobili contenuti storici e patriottici.

L’Orchestra, grazie anche alla presenza di alcuni tutor che militano in quella principale (la spalla Dellingshausen in testa) ha risposto benissimo al gesto essenziale ma efficace del Direttore. Bravissime in particolare le quattro flautiste/clarinettiste ad evocare ora i gorgoglii, ora le rapide del grande fiume. Applausi per tutti.
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Ha poi chiuso il pomeriggio la penultima sinfonia di Dvořák, l’Ottava, che ha poco da invidiare alla celeberrima che venne dal nuovo mondo… (Qui alcune mie note scritte in occasione di una precedente esecuzione di Xian, e basate su una registrazione del venerabile Kubelik).

Pubblico assai folto (non proprio come ieri, ma fuori impazzava il carnevale…) che ha subito applaudito l’Allegro con brio, e poi ha premiato tutti alla fine con lunghi applausi e l’ormai consueto rituale dei battimani ritmati in onore del Direttore, che evidentemente sta entrando in piena sintonia con i musicisti (senior e junior) ma anche con il pubblico. E che, a questo punto, siamo ansiosi di rivedere e riascoltare (salvo sorprese estive…) a settembre!

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.12

Concerto tutto particolare, questo dodicesimo della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano: Emmanuel Tjeknavorian torna (dopo meno di 15 mesi dall’esordio) sul podio dell’Auditorium nella nuova e prestigiosa veste di Direttore Musicale (per ora designato, poi sarà nel pieno delle funzioni dal 1° luglio…) Auditorium pieno zeppo proprio per lui!

Per l’occasione (è appena trascorso SanValentino) il programma è dedicato (quasi) esclusivamente all’amore, declinato in musica da due coppie di sommi letterati/compositori germanici: Goethe/Wagner e Hofmannsthal/Strauss.

Apre il programma la giovanile Eine Faust Ouverture (1839) sulla quale Wagner ripiegò dopo averla originariamente immaginata come una Sinfonia (ci penserà il futuro genero Franz Liszt a compiere l’opera tre lustri più tardi…)

Questi i sei versi di Goethe posti programmaticamente da Wagner in calce alla partitura, che vide la luce poco prima dell’Holländer (di cui anticipa vagamente la struttura dell’Ouverture e le atmosfere cupe) e che fu poi rivista e pubblicata (1855) quando si affacciava da lontano un tale Tristan…  

Trattandosi di musica dichiaratamente a programma, dobbiamo Immaginare che Wagner vi abbia voluto evocare le tre figure-chiave del capolavoro di Goethe e le relative personalità: Faust, Gretchen e Mephistopheles. Incidentalmente, Liszt nella sua Sinfonia dedicherà proprio i tre movimenti alle corrispondenti figure.

Qui – in assenza di esplicite indicazioni da parte dell'Autore - sta a noi, se proprio lo vogliamo, individuare i motivi musicali che possono evocare struggimento spirituale e slanci eroici (Faust); purezza e nobiltà d’animo (Gretchen); e subdolo cameratismo (Mephistopheles). Motivi che si presentano e ripresentano nel corso dell’Ouverture, fino alla conclusione… tristaniana. Fra essi c’è anche una reminiscenza, negli archi in accompagnamento, del tema principale del beethoveniano Coriolanus… In alternativa, possiamo anche limitarci a godere di questo lavoro come musica pura, bella (o meno bella) in sé.  
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Ancora Wagner e, appunto, Tristan. La giustapposizione (proprio di mano dell’Autore) dell’alfa e dell’omega del dramma: il Preludio e la Liebestod. Nel Preludio il segreto per il Direttore è di non lasciarsi prendere dalla foga, evitando – visto che il tema riguarda anche la libido sessuale – una spiacevole… ejaculatio precox, ecco. Ma invece far di tutto per mantenere proprio la corda tesa al massimo, per portare quasi all’esasperazione (infine all’orgasmo) l’ascoltatore. 

Il postludio (la trance in cui cade Isolde) è francamente meno… memorabile, soprattutto perché l’assenza della voce ne tarpa irrimediabilmente le ali, almeno per una buona metà, prima del trasfigurato finale.         
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Ed ecco ora Richard Strauss e la Suite dal RosenkavalierQui si entra, senza tanto petting, in-medias-res, con la Marescialla e il suo Quinquin proprio all’apex dell’orgasmo e dei successivi languori! E poi è tutto un mirabile campionario (anzi, una vera… orgia!) di Walzer e di preziosa argenteria musicale, con caleidoscopici riflessi Swarovskiani.
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Bene, SanValentino è ormai passato (e anche SanRemo è addirittura quasi dimenticato…) ma a Milano incombe ancora il Carnevale, così la conclusione del concerto manda tutti quanti a quel paese in una nuvola di coriandoli, con l’archetipo dello sberleffo in musica: lo straussiano Till Eulenspiegels lustige Streiche!
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Ecco, descritto sommariamente il menu della serata, resta solo da dire come ce lo ha preparato e servito in tavola il giovin chèf Emmanuel.

Intanto, lui ha messo tutte le partiture su un leggìo virtuale, cioè la sua memoria… e già questo è un indizio non da poco. Certo, il fatto che uno mandi a memoria un testo non garantisce di per sé che poi lo sappia anche recitare al meglio, ma il ragazzo ha invece dimostrato di essere anche un raffinato interprete, assumendo approcci diversi rispetto ai diversi brani in programma: asciutto, essenziale e quasi freddo nel Wagner giovanile; perfetto per rigorosità dei tempi ed espressione nel Wagner maturo (una perla davvero il Preludio…); esuberante e proprio viennese doc (quale lui è anche nella vita) nel dar respiro alle ubriacanti note dello Strauss della Rosa; e infine raffinato miniaturista nei diversi quadri delle avventure del burlone medievale.

Insomma, un esordio come meglio non ci si poteva attendere. Orchestra in formissima (prime parti e sezioni tutte) che già sembra entusiasta della sua nuova guida, il che promette solo ottime cose per il futuro. Pubblico in visibilio per lui, con ovazioni e battimani ritmati.

E oggi per Emmanuel niente riposo, chè lo aspetta la Sinfonica Giovanile!

10 febbraio, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.11

Il Direttore-violinista Kolja Blacher torna in Auditorium (poco affollato ier sera, forse a causa della fastidiosa pioggia che - finalmente, peraltro! - ha cominciato a cadere su Milano) a poca distanza dalla sua precedente comparsa, ma questa volta senza… violino: il solista della serata è infatti Edgar Moreau, trentenne (fra poche settimane) parigino, cresciuto in una famiglia di musicisti, fra pianoforte e violoncello, strumento quest’ultimo che poi ha deciso di privilegiare per la sua attività artistica.

Ci ha presentato il Secondo Concerto di Haydn. La cui paternità fu messa in dubbio per molto tempo nell’800, finchè non si ritrovò il manoscritto originale che ridiede ad Haydn ciò che gli spettava.

Concerto, questo in RE maggiore, del 1783 (posteriore di 18 anni rispetto al Primo, in DO maggiore e ancora legato alla struttura barocca) ricco di interessanti innovazioni che possiamo seguire (vedi Appendice) in una registrazione del grande Giovanni Sollima al Concertgebouw con Antonini.

Con Blacher che schiera un’orchestra opportunamente ridotta all’osso, Moreau ce lo porge con mirabile tecnica e sfoggio di virtuosismi, compresa la lunga e difficile cadenza del primo movimento (…poi però ci nega quella del terzo, evabbè).

Infine, per ringraziarci della calda accoglienza, ci regala un prezioso bis bachiano, la Sarabande dalla Terza Suite, ma anch’essa in forma… liofilizzata, per omissione dei due da-capo.
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Chiusura di serata con un titolo di quelli che anche il pubblico, oltre ai Musikanten, è in grado di fischiettare sotto la doccia: la Quinta di Ciajkovski, dei cui suoni sono ormai impregnate anche le poltrone dell’Auditorium!

È quella di mezzo, delle tre sinfonie del destino, come si potrebbero chiamare la 4, 5 e 6. Ciajkovski stesso pare che non ne fosse contento e l’avesse definita addirittura insincera… E forse aveva ragione, ma allora che dire della Quarta? (Il cui programma, comunicato per lettera alla sua mecenate vonMeck, sa molto di affettazione e, appunto, se ne può mettere in discussione la sincerità.) Insomma, la vera sinfonia del destino è forse solo l’ultima, perché composta proprio in vista della fine che Ciajkovski sentiva approssimarsi giorno dopo giorno. E contro la quale a nulla sarebbero valse le disperate perorazioni che chiudono, in uno sforzatissimo, martellante (e insincero?) maggiore, le due sinfonie precedenti.

Ascoltate e guardate come il venerabile Vladimir Delman (un assoluto specialista di Ciajkovski) descrive l’ultimo movimento della Quinta e in particolare poi la tremenda coda finale (!?) Viene alla mente un giudizio attribuito (in privato…) a Shostakovich a proposito dell’esageratamente trionfalistica conclusione della sua Quinta (la giusta risposta… etc): Il giubilo è forzato, è frutto di costrizione: è come se qualcuno ti picchiasse con un bastone e intanto ti ripetesse: "II tuo dovere è di giubilare, il tuo dovere è di giubilare" e tu ti rialzi con le ossa rotte, tremando, e riprendi a marciare, bofonchiando: "II nostro dovere è di giubilare".  

Tuttavia i nostri gusti un filino imbarbariti (di contro, pensiamo che a Boston, dopo la prima esecuzione USA della Quinta, un critico la stroncò parlando di orde di Cosacchi!) ci fanno esaltare questa sinfonia, come la Quarta, anche per i due retorici finali; e ascoltando la Patetica spesso c’è qualche sprovveduto che applaude alla fine dell’Allegro molto vivace, immaginando che sia finita lì, in gloria… 

Blacher l’ha diretta con il low-profile che lo contraddistingue, il che non è detto sia un limite, e insomma ne è sortita un’esecuzione più che dignitosa (sorvoliamo su alcune piccole défaillances qua e là…)

Così per Direttore ed esecutori non sono mancati applausi anche ritmati.  
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Appendice. Note sul Concerto di Haydn

È aperto (50”) da un Allegro moderato, in forma sonata.

L’iniziale esposizione, di 28 battute, è condotta dai soli archi, che presentano i due temi principali, assai poco contrastanti per la verità: dapprima il Tema-A in RE, poi ripetuto (1’15”) con l’intervento – per terze - dei fiati, che in questo concerto sono limitati ai soli oboi e corni (Antonini ha aggiunto di suo un fagotto con compiti di puro riempitivo). Dopo un breve ponte (1’28”) ecco arrivare (1’38”) il Tema-B nella dominante LA maggiore, che torna rapidamente al RE di impianto, dove riascoltiamo (2’00”) il breve ponte e poi (2’27”) un’ulteriore reiterazione dell’incipit del Tema-A.

Ecco quindi arrivato il momento del solista (2’38”) per la ri-esposizione del Tema-A con qualche abbellimento, tema ripreso (3’02”) dall’orchestra e poi sviluppato a lungo dal violoncello con brillanti virtuosismi. L’orchestra (3’47”) si assesta sul LA maggiore per l’intervento del solista (3’58”) che ri-espone il Tema-B.

Inizia ora (4’37”) uno sviluppo di notevoli proporzioni e di articolazione assai complessa e innovativa. È il solista che lo introduce, sempre in LA maggiore, con una specie di cadenza che sfocia (5’23”) nell’esposizione di un nuovo Motivo-C. Altra sorpresa (5’47”) con il Tema-A portato arditamente in LA maggiore dall’orchestra, che poi ripete (6’17”) il Motivo-C. Il Tema-A viene ancora reiterato (6’44”) dal solista, sempre in LA maggiore.

Ora ecco un improvviso abbrunamento dell’atmosfera, che vira (7’07”) al MI minore. Il solista (7’34”) inizia un lungo passaggio, sommessamente supportato dall’orchestra, dapprima transitando fugacemente dal DO maggiore per poi scendere al SI minore, relativa del RE maggiore con il quale intercala i suoi virtuosismi.

Finalmente (9’07”) il SI minore lascia il posto al RE maggiore sul quale l’orchestra introduce (9’37”) la ripresa, aperta con il solista che espone il Tema-A, subito reiterato (10’01”) dall’orchestra.

Torna poi (10’42”) il solista con il Tema-B, ora trasferitosi - come da sacri canoni - al RE maggiore di impianto. Solista e orchestra dialogano a lungo, poi insieme preparano (11’52”) il terreno per l’immancabile cadenza solistica (12’50”) assai ricca di virtuosismi. Chiude il movimento (14’14”) una coda basata sul Tema-A.

Il movimento centrale è un breve Adagio, in LA maggiore, monotematico.

L’attacco del tema (15’16”, classiche 8 battute in 2/4) è direttamente mutuato dalle tre note che chiudono la frase iniziale del Tema-A del primo movimento. Dopo la prima esposizione del solista, il tema viene chiuso e subito ribadito (15’52”) dalla sola orchestra. Il violoncello propone poi (16’26”) un primo intermezzo di 15 battute, dove la melodia vira verso la dominante MI maggiore.

Ora (17’34”) è ancora il solista a riproporre il tema principale in LA maggiore, impreziosito da delicati abbellimenti e chiuso inopinatamente dall’orchestra con un brusco passaggio a LA minore e successiva fermata sulla dominante MI. Che diviene mediante di DO maggiore, la tonalità sulla quale il violoncello propone ora (18’25”) il secondo intermezzo, una delicata melodia di 10 battute, chiusa ancora sul MI.

Che torna dominante del LA maggiore per l’arrivo (19’16”) della terza ed ultima esposizione del tema principale, chiuso dall’orchestra con la classica preparazione della finale cadenza solistica (20’05”). Tre battute degli archi (20’53) chiudono sommessamente il movimento.

Si torna al RE maggiore (Allegro in 6/8) per il conclusivo Rondo.

Il ritornello del Rondo è un tema di gioiosa danza campestre, intonato subito (21’14”) dal solista accompagnato dagli archi e poi ripreso (21’26) con l’intervento dei fiati. Ecco ora (21’35”) il primo episodio, assai breve, che dal RE modula alla dominante LA maggiore e vede il solista impegnato in veloci sestine di semicrome, per poi preparare il RE del ritornello (21’58”) che viene riproposto praticamente come alla prima comparsa.

Il secondo episodio (22’19”) è ancora in LA maggiore, assai più corposo, con il solista impegnato ancora in veloci sestine, poi (22’29”) su un motivo in corda doppia, ancora (22’34”) su un lungo passaggio in terzine che culmina (23’32”) con il ritorno a RE maggiore e al ritornello.

Il quale, dopo l’esposizione del solista, viene ripreso (23’41”) dall’orchestra sorprendentemente in RE minore, e poi (24’04”) ulteriormente sviluppato in una melodia in corda doppia del solista nella relativa FA maggiore. Altro passaggio virtuosistico (24’17”) del violoncello con ripresa (24’30”) della precedente melodia, che porta (25’00”) alla cadenza.

Cadenza che si incarica di riportare la tonalità (25’45”) al RE maggiore per l’ultima esposizione completa del ritornello. La coda del Concerto (26’06”) vede ancora il tema principale apparire due volte nei fiati, prima del brillante epilogo.

03 febbraio, 2024

Tante penne, tanti Boccanegra

Rapida carrellata di pareri sul Simone del 1° febbraio.

Stefano Jacini:

Suoni: lodi incondizionate per Viotti; Salsi OK per il canto, meno per la gestualità; Buratto e Castronovo di buon livello e disinvolti; Anger meno convincente.

Regìa: stanco déjà-vu; movimenti di scena non troppo riusciti; belli i costumi.

Ugo Malasoma:

Suoni: Viotti apprezzabile, più nei particolari che nell’insieme; Coro efficace; Salsi eccellente; Anger vociferante e si perde per strada il personaggio; Buratto tecnicamente OK, ma acuti spinti, note calanti e bassi con poco volume; Castronovo piuttosto deludente, acuti sforzati e mezze voci opache; DeCandia bravissimo.    

Regìa: per apparire essenziale non esprime granchè; spettacolo triste, scene brutte, personaggi e masse in movimento caotico. Perché non recuperare Strehler?

Fabio Vittorini:

Suoni: Viotti apprezzabile, riscatta la prova opaca del Roméo et Juliette; Salsi dal fraseggio sempre vario e tecnica solidissima; Anger parte bene, ma poi si appanna progressivamente; Buratto con vocalità corposa, troppo spinta negli acuti, efficace l’interpretazione; Castronovo bene negli acuti, per il resto opaco e sforzato; DeCandia insolitamente sonoro.   

Regìa: vuoto sgomentante, complementi scenici insignificanti; scarsissimo lavoro sugli attori, abbandonati a se stessi.

Elvio Giudici:

Suoni: Viotti ancora troppo immaturo; agogica di lentezza mortale, dinamica catatonica, concertazione assente, tensione questa sconosciuta; Coro superlativo; Salsi è l’unica ragione per assistere allo spettacolo: la sua è la voce di Verdi, che commuove anche le pietre; Anger di indecenza inammissibile; Buratto delude, debole sotto, sforzata sopra, il personaggio non c’è; Castronovo né male né bene, nessuna accentazione; DeCandia rende piena giustizia al personaggio di Paolo.    

Regìa: spettacolo vituperevole, scene orrende, regìa ridicola.

Giancarlo Arnaboldi:

Suoni: Viotti non ha mantenuto le promesse del Roméo et Juliette: direzione carente di mistero, priva del caratteristico colore verdiano; concertazione carente, le voci vanno per conto loro; Coro e Orchestra al di sotto del normale livello; a Salsi sfugge il lato nobile di Simone, in difficoltà nei momenti più autoritari; Anger dal suono intubato, acuti laceranti, fraseggio incomprensibile; Buratto discreta dal lato interpretativo, ma voce con acuti spesso forzati; Castronovo offre il momento più emozionante della serata; DeCandia con grande professionalità.

Regìa: scolastica e banale, deprimente e piena di luoghi comuni.
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Insomma: abbiamo capito che l’altra sera alla Scala c'erano contemporaneamente in scena almeno due o tre Boccanegra (e relativi cast) che in comune avevano solo una regìa inesistente, se non proprio obbrobriosa.   
 

02 febbraio, 2024

Un nuovo doge alla Scala

Simon Boccanegra: opera di vecchi, per vecchi? Certo persino un adulto (non dico poi un adolescente) può faticare ad emozionarsi per le vicissitudini di un padre e di un nonno! Roba giurassica. E per di più quando i due sono genero e suocero!

Ah, Verdi aveva 44 anni quando compose la prima versione del Simone, e sulle spalle portava già da tempo i pesanti segni delle sventure che la vita (magari più prima che poi, come nel suo caso) immancabilmente riserva a tutti.

E quindi la tinta (Verdi’s copyright) dell’opera è ammantata di cupezza e pessimismo, se ai problemi personali e privati dei protagonisti si aggiungono anche gli intrighi di palazzo e le smanie di potere in un ambiente ancora medievale e oscurantista.

Dopodichè Verdi non sarebbe stato Verdi se non fosse mirabilmente riuscito a nobilitare questo scenario con le sue note!
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Ebbene, ieri abbiamo incontrato un poco più che ragazzo (ancora non ha compiuto 34 anni) che ha stupito per la profondità con la quale ha illustrato questa musica: Lorenzo Viotti!

Certo, i suoni poi li devono materialmente emettere gli strumenti cui danno anima gli strumentisti… e l’Orchestra scaligera ha magnificamente assolto il suo compito con una prestazione impeccabile. Faccio un unico esempio per tutti: la grande cavata in FA maggiore dei violini che accompagna l’epilogo del duetto Simone-Amelia del primo atto. Una cosa a dir poco sbudellante… [A proposito, Meyer in apertura ha voluto ringraziare gli strumentisti in buca e pure quelli non presenti ieri per il premio ricevuto nei giorni scorsi: la miglior orchestra d’opera oggi sul pianeta!]

Dato poi a Malazzi ciò che è… suo (il Coro in grande quanto solito spolvero) vengo alle voci.

Luca Salsi è ormai quasi stabilmente il baritono di riferimento per la Scala: qui vi ha portato il ruolo di Simone, non nuovo per lui, nel quale si è destreggiato con la consueta maestria. Nella tragicità del suo animo tormentato, come negli slanci di amor paterno e nelle colossali perorazioni pubbliche: insomma, un Simone più che positivo… ma forse non il Simone di riferimento.  

Ain Anger è stato un (non aspirante, nel libretto, ma alla fine convinto) suocero per me non disprezzabile (salvo qualche acuto vociferante). Però ha preso esclusivamente su di sé le rimostranze di qualche purista che lo ha sonoramente buato alla fine.    

L’Amelia-Maria di Eleonora Buratto ha ben meritato, calandosi alla perfezione nella parte di questa bistrattata orfanella: brava nel passare dall’ingenuità e timorosità della ragazza cresciuta senza una famiglia, al coraggio di rivendicare il suo amore fino a diventare il catalizzatore della finale e generale riconciliazione. Il tutto supportato dalla sua voce pura sì come angelo, si potrebbe dire... 

Adorno è Charles Castronovo, figlio di emigrati italiani in USA, già interprete del ruolo a Salzbug (2018) insieme a Salsi e sotto la bacchetta di Gergiev: definirei la sua un’interpretazione più che dignitosa, ecco, ma… non molto di più, almeno sul piano strettamente vocale (la voce è squillante, ma negli acuti si ingola pericolosamente). Bene invece ha fatto come attore, interprete di questo ruolo per nulla semplice, perchè caratterizzato da slanci amorosi e da furenti rancori.

Buone notizie da Roberto De Candia, che ci restituisce efficacemente lo sbifido Paolo Albiani, assatanato per il potere e per il possesso (della… gnocca!) Da ricordare i suoi ripetuti sfoghi contro Simone.

Su standard onorevoli il Pietro di Andrea Pellegrini e gli altri due comprimari: Laura Lolita Perešivana (ancella di Amelia) e Haiyang Guo (Capitano dei balestrieri).
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Daniele Abbado. Mi è parso che – magari come ricordo del padre – abbia preso come riferimento Giorgio Strehler, che con Claudio firmò la splendida produzione degli anni ’70. Ambientazione cupa e buia, con pochi e luminosi squarci… nautici (scene e costumi però impoveriti delle preziosità che oggi non sono più di moda).

Ma anche piccoli dettagli, fra i quali ne segnalo uno: l’avvelenamento. Come in Strehler, anche qui Paolo versa il veleno nella tazza di Simone facendosi… aiutare da un inserviente (là femmina, qui maschio) che gliela reca su un vassoio…

Efficace mi è parsa la recitazione suggerita ai personaggi. Complessivamente una regìa onesta e corretta, senza invenzioni ardite o discutibili ri-ambientazioni. Alla fine lui e il suo team (Angelo Linzalata per le scene, Nanà Cecci ai costumi, Alessandro Carletti alle luci e Simona Bucci per la coreografia delle sommosse) sono stati accolti da moderati consensi.

A parte il malcapitato Anger, per tutti applausi calorosi (ma non proprio un tifo da stadio, ecco). Personalmente la definirei nel complesso una proposta seria e onesta, meritevole di ampia sufficienza.