intime gioje

chiuder la prigione e buttar la chiave

24 novembre, 2021

Macbeth 2021: Chailly la racconta giusta?

Ieri pomeriggio si è tenuto nel ridotto Toscanini - sotto l’egida dell’Associazione Amici della Scala - il primo incontro della stagione 21-22 dell’ormai leggendaria serie Prima delle prime, dedicato ovviamente al Macbeth. Incontro introdotto come sempre da Franco Pulcini e che ha avuto come protagonisti Raffaele Mellace e Riccardo Chailly.

Il Direttore Musicale fra altre dotte considerazioni sull’opera, ha in particolare ricordato l’edizione scaligera del 1975 (Abbado-Strehler-Verrett-Cappuccilli-Ghiaurov) da lui seguita da vicino nella sua qualità di assistente di Abbado. Poi ha ribadito la sua decisione di introdurre nel finale dell’opera (versione 1865, ricordiamolo) la scena della morte di Macbeth (Mal per me che m’affidai...) presa di peso dalla prima versione del 1847 e poi abolita da Verdi a Parigi.

Ma a questo proposito, nel foglio (non firmato, per la verità) di presentazione dell’incontro di ieri si trova un virgolettato attribuito al Maestro, che si può leggere nella parte ingrandita del foglio:

Dalla frase sottolineata in rosso si è portati a dedurre - almeno stando a quanto riportato dall’anonimo estensore del virgolettato - che la scelta di Chailly sia di ripetere oggi quella fatta da Abbado allora: quasi fosse un modo per avvalorarla, indirettamente attribuendola all’illustre predecessore?

Sta di fatto che nel 1975 Abbado si guardò bene dal fare una simile scelta (operata invece da Pappano a Londra nel 2011, come ho riferito in un precedente post) come conferma la registrazione RAI sopra link-ata, precisamente a 2h15’50”: dopo lo scontro con Macduff Macbeth cade morto sul colpo e, dopo il passaggio puramente orchestrale che sottolinea la fine del tiranno, si passa direttamente - 2h16’32”, come prescritto da Verdi nel 1856 - al grido Vittoria! e di seguito al coro finale che inneggia a Malcolm.

19 novembre, 2021

laVerdi 21-22. Concerto 8

Prima del concerto, un prologo con due dedicatari: Ruben Jais ha portato le felicitazioni di tutta laVerdi al Presidente Emerito Gianni Cervetti, insignito di fresco della massima onorificenza del Comune meneghino: l’Ambrogino d’Oro! Poi Franco Iacono (Presidente del Comitato che celebra i 100 anni dalla morte di Enrico Caruso) ha ringraziato la Fondazione per aver dedicato alla ricorrenza il concerto di ieri, affiancandosi all’iniziativa del Teatro alla Scala che il 17 aveva tenuto un convegno sul grande tenore napoletano.  

Il concerto di questa settimana vede il gradito ritorno sul podio di Zhang Xian, la cinesina-americana (oggi a capo della NewJersey Symphony) che guidò l’Orchestra per molti anni, dal 2009 al 2016, essendone quindi divenuta Direttore Emerito.

Programma di classica impaginazione, aperto da Mother and Child, per archi, di William Grant Still, prolifico compositore afroamericano del ‘900. Si tratta di una trascrizione per orchestra d’archi del secondo movimento della Suite per violino e pianoforte del 1943, ispirata a tre sculture moderne esposte in musei di NewYork, SanFrancisco e Washington rispettivamente.

Il breve brano, 7 minuti all’incirca, che la Xian ha già interpretato più volte in America, ha il sapore di una ninna-nanna sulla quale una madre culla il pargolo, una sognante melodia che dal MI maggiore d’impianto (tonalità quanto mai appropriata allo scenario) modula verso la sottodominante LA; poi ecco un motivo che dal MI minore modula alla relativa SOL e al DO, prima del ritorno a... nanna, con la chiusa sospesa sulla sopratonica FA#. Chissà se Xian ha scelto di proporre anche a Milano questo brano per ricordare le due maternità che lei portò felicemente (e un po’ anche... avventurosamente) a termine proprio qui sui Navigli.

La Xian mi è parsa piuttosto dimagrita e ancor più minuta rispetto ai tempi italiani (la cucina USA evidentemente non fa per lei...) ma ha se possibile potenziato la sua proverbiale verve, che si manifesta con il gesto secco e deciso e - a livello interpretativo - con quello che un tempo si definiva un approccio alla Toscanini.
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Ecco poi una vera primizia: il Concerto per violino (op.5, n°1) di Joseph Boulogne, compositore del ‘700 noto come il Mozart nero, essendo lui figlio di un latifondista-colonialista francese e di una senegalese deportata come schiava in Guadalupa. A Parigi fece fortuna come spadaccino e come musicista (dapprima al clavicembalo e al violino e poi sul podio di direttore, con tanto di sciabola brandita al posto della bacchetta!)  

Marc Bouchkov, trentenne franco-belga di origini russe (come lascia intendere il cognome) è l’interprete di questo brano che effettivamente poco ha da invidiare a quelli del Teofilo... giovane, al quale potrebbe benissimo essere attribuito. Lui per prudenza (evidentemente questo lavoro ancora non lo ha stabilmente in repertorio) si tiene davanti lo spartito, cui peraltro dedica solo qualche sporadica occhiata. Ne esce un’esecuzione di grande leggerezza, impreziosita da pregevoli virtuosismi e ben assecondata dal discreto accompagnamento dell’orchestra.

Marc ci lascia con un ispirato bis del suo amato Bach: l’Andante (in DO maggiore) dalla Seconda Sonata (BWV1003, in LA minore).  
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Chiude il concerto la Quarta di Beethoven. Immeritatamente relegata fra le minori (come le sue altre tre pari) nel panorama beethoveniano. Certo, dopo la terrificante novità dell’Eroica, con il suo precipitare in-medias-res fin dalla prima battuta, questa sinfonia pare retrocedere (come del resto la seconda e anche la prima) diciamo di un paio di lustri per uniformarsi all’imparruccato Josephus (Haydn) con quella lunga introduzione lenta all’Allegro di apertura.

In realtà non mancano le innovazioni, a partire dal Minuetto che (sulla scia dell’Allegro vivace dell’Eroica) anticipa già le fattezze dello Scherzo che diventerà da lì in avanti uno standard nella struttura della sinfonia.

La Xian - che già aveva diretto la Sinfonia qui un paio di volte, proprio all’inizio e alla fine del suo direttorato - ha confermato il suo approccio: massima concisione (ignorati i ritornelli nei due movimenti esterni) ed esaltazione dei chiaroscuri nelle dinamiche (cito ad esempio gli strappi dominante-tonica nell’Adagio). L’Orchestra ha risposto alla grande, con un’esecuzione che ha trascinato il pubblico all’entusiasmo.

17 novembre, 2021

laVerdi ancora alla Scala (per MilanoMusica) mentre si prepara al 2022

Ieri sera laVerdi è tornata al Piermarini (abbastanza affollato) nell’ambito del Festival Milano Musica per presentare un programma assai impegnativo, sotto la bacchetta di Michele Gamba, ormai più che una promessa nel panorama direttoriale italiano.

Ha aperto la serata to an utterance di Rebecca Saunders, del 2020, interpretato alla tastiera dal pianista Nicolas Hodges (munito di guanti senza dita, come da precisa prescrizione) che già aveva suonato il brano alla prima assoluta a Lucerna.

Basta un’occhiata alla partitura per avere un’idea, sia pur sommaria, del contenuto: di musica come siamo abituati a pensarla (melodia-armonia, sia pur seriale e dissonante...) non ce n’è. Siamo invece in presenza di continui sussulti, singulti, imprecazioni, cascate e scivoloni (i mille glissando...), strazi sonori che si protraggono per mezz’ora e improvvisamente si estinguono, senza alcuna (fino a prova contraria) narrativa. E la stessa prefazione che l’Autrice pone in testa alla partitura in fondo ce lo conferma. Quanto poi alla meticolosità delle indicazioni per l’esecutore, beh, a me pare già un segno di... impotenza, ecco. 

Detto con tutto il rispetto, sia ben chiaro.

Hodges, che la conosce (quasi...) a memoria, essendone stato primo interprete oltre che dedicatario, e Gamba (che immagino l’abbia conosciuta in questa occasione) l’avranno pur resa secondo le intenzioni dell’Autrice, ma basta questo a far uscire quest’opera dal recinto della musica (?!) di élite autoreferenziali?

Comunque buona parte del pubblico ha applaudito, quindi o tutta l’élite era lì, oppure a molti la cosa è piaciuta, e buon per loro.
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Del maestro (uno dei) della Saunders, Wolfgang Rihm, è stata poi eseguita la Verwandlung III, deI 2007. Qui devo dire che ci si raccapezza già di più, quanto meno melodia-armonia ci sono, e come, magari un po’ ostiche da digerire, ma almeno comprensibili e delineanti un percorso, appunto una narrativa, come del resto indica il titolo (metamorfosi).

Ciò spiega, credo, gli applausi assai più convinti che hanno accolto l’esecuzione dei verdini (! questi sono buoni, però...)
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Ha chiuso la serata Four Sea Interludes di Benjamin Britten. Questo collage estrapolato dal Peter Grimes ha quasi l’aspetto di un poema sinfonico di soggetto marino, musica assai accattivante, anche se personalmente la ritengo più apprezzabile proprio quando inserita nell’originario contesto dell’opera.

Insomma, procedendo a ritroso nel tempo il tasso di musica è cresciuto a vista d’occhio udito d’orecchio! (fossimo retrocessi ancora, tipo a Dvorak, chissà che festa, hahaha!)

Chi ha fatto un figurone è comunque l’Orchestra, che dimostra di non temere alcun terreno, per quanto ostico. Buon viatico per la seconda parte della stagione 21-22, annunciata ieri stesso.
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Poche ore prima in Auditorium si era tenuta infatti la presentazione della seconda parte della stagione 21-22 de laVerdi. La Presidente Ambra Redaelli ha fatto gli onori di casa e il Direttore Generale ed Artistico Ruben Jais ha esposto il programma della stagione principale (20 concerti che spaziano da Capodanno a fine Maggio) e delle sei (!) stagioni collaterali.

Presenti, come da tradizione, gli Assessori alla Cultura di Regione Lombardia (rappresentato da Graziella Gattulli, che ha letto un messaggio del titolare Galli) e Comune di Milano (Tommaso Sacchi) che supportano generosamente le operazioni della Fondazione; gradito anche il messaggio, letto dalla Presidente, del Ministro Dario Franceschini, che ha elogiato l’opera della Fondazione in favore dello sviluppo della cultura in Italia e non solo.

I concerti - si torna ad un approccio degli ultimi anni pre-Covid - avranno per metà tre repliche (giovedi-venerdi-domenica) e per metà due (venerdi-domenica) agli orari consueti (20:30, 20:00 e 16:00).

La scelta dei brani in programma ha tenuto conto di eventuali... recrudescenze nelle limitazioni relative al distanziamento, e quindi si è orientata ad opere che - in casi di emergenza, appunto - possano essere eseguite senza danni anche con organici ridotti rispetto allo standard. Quindi poco Mahler, poco Bruckner e niente Strauss, per dire. In particolare è il Coro ad essere abbastanza penalizzato, e l’unica sua presenza (la Nona beethoveniana di Capodanno) lo vedrà cantare dalla balconata.

Oltre a Flor, che dirigerà 5 concerti (più uno con la Sinfonica Giovanile) prima di concludere il suo term come Direttore Musicale, tornano Axelrod, Caetani, Grazioli, Boreyko, Bignamini, Guggeis, Jais, Lintu, Kochanovsky e Sanderling; e poi Kristian Järvi, Gamzou, Forès Veses, Vizireanu e Pascal.

16 novembre, 2021

La foresta di Birnamo si muove...

Quest’anno - complice forse il Covid - il programma di eventi preparatori al Macbeth di SantAmbrogio è meno nutrito rispetto al passato. Il primo (di quanti non è dato sapere...) è andato in onda ieri nel Ridotto Toscanini con un interessante convegno che ha affrontato diversi aspetti dell’opera, in particolare il rapporto Verdi-Shakespeare e le vicissitudini della versione parigina del 1865 in lingua francese.

Il Direttore Musicale, confermando che la versione in programma quest’anno è, appunto, quella del 1865 (ovviamente in lingua italiana) ha anche annunciato la sua proverbiale e immancabile primizia (il Maestro vuol passare alla storia come colui che ha offerto al pubblico cose mai prima udite o presentate, tipo le 5 misure composte da Rossini per l’Attila...) Ed ecco quindi la novità assoluta del suo Macbeth 2021: nel finale vengono re-inserite (dalla prima versione del 1847) le 29 battute di Macbeth morente (Mal per me che m’affidai...)  

Insomma, un nuovo Macbeth mai visto prima? Beh, non proprio, a giudicare da questa produzione ROH del 2011 con Pappano (che si riprende per la 4a volta dal 2002 proprio da questa sera a Londra con Rustioni!) Ecco, dopo 2h25’30” l’inserzione della morte di Macbeth prima del coro di vittoria, come l’ascolteremo a dicembre.


15 novembre, 2021

12 novembre, 2021

laVerdi 21-22. Concerto 7

Il 7° concerto di questa prima parte della stagione 21-22 (la seconda - gennaio-maggio ’22 - verrà annunciata martedi 16/11) propone, con qualche settimana di anticipo, il... Natale!

Quest’anno non è l’Orchestra della Fondazione ad esibirsi, ma l’Ensemble laBarocca del Direttore Artistico nonchè General Manager de laVerdi, Ruben Jais, con Luca Scaccabarozzi a dirigere il Coro.

Il Messiah è ormai un titolo consueto in Auditorium, ed anche la particolare impaginazione prevista da Jais (due sezioni di 60’ ciascuna: parte 1 integrale e parti 2+3 modicamente tagliate, con un solo intervallo) è diventata uno standard de-factu. (Nell’ormai lontano 2010 avevo proposto un bigino dell’opera, consultabile qui, dove sono anche indicate le parti omesse da Jais - con piccole differenze rispetto a oggi - circa 25’ sui 150’ complessivi.)

A parte Jais, la continuità con recenti presentazioni dell’opera è garantita dalla presenza del tenore Cyril Auvity (fin dal 2010) e del baritono Renato Dolcini. Il soprano Amanda Forsythe e il contralto controtenore Alex Potter completano il quartetto (SATB) delle voci.

Voci tutte all’altezza: la Forsythe per il suo timbro penetrante, Potter e Auvity per la nobiltà espressiva e Dolcini per la voce calda e la precisione nei passaggi più virtuosistici, culminata nel trascinante The trumpet shall sound, accompagnata dall’obbligato della tromba barocca di Simone Amelli, portatosi appositamente al proscenio per la circostanza. Coro (anzi... cori, 8 femmine e 8 maschi, posti come sempre ai lati della scena) in gran spolvero.

Auditorium (precauzionalmente ancora non al massimo della capienza nominale) assai affollato e pubblico prodigo di applausi per tutti. Non è ovviamente mancato l’ormai tradizionale (in omaggio alla patria del tradizionalismo...) bis dell’Hallelujah!

06 novembre, 2021

Una Calisto astronomica alla Scala

L’aggettivo potrebbe benissimo riferirsi al livello complessivo dello spettacolo messo in scena dalla coppia McVicar-Rousset... in realtà dipinge efficacemente il taglio dell’allestimento del regista albionico de La Calisto di Francesco Cavalli, arrivata ier sera alla terza delle cinque recite in cartellone, in un teatro con parecchi vuoti, ma meno di quanti me ne aspettassi (buon segno, in fin dei conti, data la non entusiastica propensione nostrana per il barocco).

È ovviamente il libretto di Giovanni Faustini (a sua volta tributario di Ovidio e della mitologia greca) ad aver dato l’idea a McVicar: e non solo perchè la conclusione del dramma è ambientata nell’empireo e ci notifica la nascita di una nuova costellazione celeste - l’Orsa Maggiore - in cui la protagonista è trasformata per volontà del (quasi) onnipotente Giove. Ma - e forse soprattutto - perchè uno dei deuteragonisti dell’opera è definito come astronomo! 

Ecco, questa è un’invenzione bella e buona del librettista Faustini che - evidentemente in omaggio al suo contemporaneo Galileo Galilei - trasforma in scienziato della volta celeste il personaggio di Endimione, in realtà un mite ed efebico pastorello che passava ore e ore (apertura dell’Atto II, sul monte Liceo) a contemplare il cielo e particolarmente la Luna (delle luci adorate, ... contemplator segreto) da qui il suo innamoramento (ricambiato!) della casta-diva Diana. La quale lo dipinge così: tu, che della mia sfera i volubili moti dotto investigatore osservi, e noti. E Mercurio così ne parla: con lodevoli studi vuol che l'ingegno sudi in specolar del ciel gl'astri lucenti. Silvano infine, così invita Pan a lasciare Diana con Endimione, per poi screditarla pubblicamente: Partiamo, e col suo astronomo quest'orgogliosa lascisi.

Ecco quindi spiegata l’idea di McVicar di portarci nel planetario, anzi nell’osservatorio astronomico sul monte Liceo (un Monte Palomar in sedicesimo) dove Endimione esplora la volta celeste con una gigantesca copia del cannocchiale di Galileo, sotto il quale poi si addormenta sognando la sua Diana. Idea che peraltro aveva avuto anche tale Guercino che - sempre ai tempi di Galileo e di... Faustini - aveva così rappresentato il pastorello-astronomo, sognante lunatico munito di telescopio:

Quindi, una regìa che - scenograficamente, grazie a Charles Edwards - prende una parte per il tutto, ma senza farci perdere nulla delle altre parti. I costumi di Doey Liithi sono dell’epoca della composizione, alcuni - specie nel prologo e nell’epilogo - paiono usciti da quadri di Rembrandt. Efficacissime le luci di Adam Silverman, a caratterizzare - insieme ai video di Rob Vale, che discretamente animano l’ambiente esterno alla specola - le diverse e continuamente cangianti atmosfere che popolano la tumultuosa successione delle scene. Jo Meredith ha curato le coreografie, assai sobrie e contenute, in particolare il finale dell’atto secondo, sottolineato dalla colonna sonora dell’Ouverture dell’Orione.

McVicar ha poi curato da par suo la caratterizzazione dei personaggi, mettendo in risalto di tutti le qualità, i difetti, i tic e le... ambiguità. E a proposito di ambiguità (Diana, che Pan ci assicura di aver portato a letto, mentre con Endimione pare avere rapporti esclusivamente... platonici) è strabiliante il trattamento che il regista fa del duplice ruolo della dea (quella autentica e la sua imitazione da parte di Giove) impersonata da Olga Bezsmertna. La quale, oltre che sfoderare la sua voce ben impostata e penetrante, riesce a compiere un autentico miracolo, quello di una femmina che interpreta (oltre che il suo proprio) anche il ruolo di un maschio travestito da femmina che mostra atteggiamenti mascolini! Ciò è culminato nella spassosissima scena farsesca (second’atto) della commedia degli equivoci (la falsa Diana insidiata da Endimione e poi da Pan) scena che da sola si merita il prezzo del biglietto.

Ecco, questo è un altro aspetto rimarchevole della regìa: saper rendere in modo efficace tutte le diverse facce del drama, quelle leggere, pruriginose, quasi da avanspettacolo (second’atto, come detto) e quelle tremendamente serie (soprattutto nel primo atto) dove non è assolutamente facile mantenere desto l’interesse dello spettatore a fronte di interminabili minuti di puro declamato (il recitar-cantando) quasi in assenza di suoni provenienti dalla buca.

E a proposito di buca, da elogiare tutta la compagine mista (14 strumentisti di Les Talens Lyrique rinforzata da 9 - 8 archi e un cembalo - barocchisti della Scala) guidata dall’eccellente Christophe Rousset (cimentatosi anche al cembalo) che ha saputo produrre suoni compatibili con la vastità del Piermarini ma senza per questo sconfinare in eccessi... ottocenteschi.   

Le voci hanno poi determinato il successo dello spettacolo: tutte, con sfumature diverse, ovviamente, all’altezza del difficile compito. Detto già della Diana della Bezsmertna, pieni voti per la protagonista Chen Reiss, che ha saputo rendere al meglio ogni diversa sfumatura della ninfa: ora casta sognatrice, ora inebriata dall’esperienza sessuale (saffica + ...qualcosina) poi delusa dai rimproveri di Diana e di Giunone, infine onorata (ma con retrogusto amarognolo) dell’onorificenza garantitale da Giove.  

Eccellente Christophe Dumaux in Endimione, voce sottile ma penetrante, perfettamente tagliata per le caratteristiche dell’efebico personaggio: ingenuo sognatore alla mercè dell’instabile e ambiguo carattere di Diana e della gelosia di Pan&satiri.

E fra i satiri, ecco l’impertinente Satirino di Damiana Mizzi, splendida presenza scenica, cui mancano (alla voce) alcuni decibel per essere perfetta!     

Markus Werba è l’interprete ideale di Mercurio: per la voce, di baritono perfettamente a suo agio con una tessitura alta, e per la presenza scenica da consumato viveur...  

Il personaggio musicalmente più controverso, Linfea, è affidato qui ad una vera femmina (sì, poi ci sono anche maschi, maschi e femmine travestiti, ed altro ancora nel variegato mondo LGBT): Chiara Amarù ne è interprete squisita e... determinata a godere di tutte le sue prerogative di femmina! Davvero una scelta azzeccata di regista e direttore.        

Centrata anche l’interpretazione di Giunone da parte di Veronique Gens, che ha messo la sua bella voce di soprano lirico al servizio di questo personaggio che i tradimenti dell’illustre marito hanno reso arcigno e intollerante.

Ed appunto Giove, il fedifrago, capace però non solo di impulsi di bassa animalità, ma anche (nel finale) di nobili sentimenti, è apprezzabilmente reso da Luca Tittoto, voce corposa e gran portamento.    

Un altro basso, Luigi De Donato, è un apprezzabile interprete di Silvano, parte secondaria ma non proprio trascurabile. Così come il Pan (Pane nel testo) di John Tessler, che veste anche i... panni del concettuale personaggio Natura. Completano questo cast di alto livello le due Furie Federica Guida (anche Eternità) e l’omonima (ma non parente, a quanto pare) della più celebre Krassimira, Svetlina Stoyanova (anche Destino).

Inutile dire dell’autentico trionfo finale tributato a tutti indistintamente, per uno spettacolo che merita di essere immortalato (beh, si parla di... divinità) su supporti audiovisivi per i posteri. Per il momento, chi appena può permetterselo non perda le restanti due recite programmate nei prossimi giorni.

05 novembre, 2021

laVerdi 21-22. Concerto 6

Il rampante Robert Trevino (yankee trapiantato in Europa, come altri suoi colleghi) torna dopo 30 mesi in Auditorium per dirigere un concerto che appaia il giovane scapigliato Shostakovich al romantico Mendelssohn.

Del russo ascoltiamo (e non è la prima volta qui) quel singolare pezzo (l’Op.35) che vede protagonista il pianoforte del 33enne sollevantino Nobuyuki Tsujii con impertinenti interventi della tromba del redivivo Alex Caruana, tornato per una rimpatriata con i vecchi colleghi dalla sua natìa Torino, dove ha trovato impiego nientemeno che alla prestigiosa OSN-RAI.

Tsujii è la dimostrazione vivente dell’inutilità del senso della vista: pensate come sarebbe migliore (!) il mondo se all’essere umano mancasse questa prerogativa...  

Caruana è ormai uno specialista di questo pezzo, che suona qui in Auditorium per la quarta volta (l’ultima fu nel giugno 2016; la prima, da me commentata in dettaglio, nel 2011) e gli schiamazzi (in senso buono, ovviamente!) del suo strumento hanno ben caratterizzato lo spirito leggero del brano. Peccato che sia stato messo in ombra dall’accoglienza trionfale per Tsujii: per lui, che ha suonato seduto in mezzo all’orchestra, nemmeno un richiamo del Direttore, piccolo neo in una grande serata.

Come detto, tutto il trionfo è stato per Tsujii, che entrava e usciva di scena a... rimorchio di Trevino, che non ha mancato di descrivergli le ovazioni del pubblico e di invitarlo non ad uno, ma a due strepitosi bis: dapprima la parafrasi del Rigoletto di Liszt e poi questo incantevole Chopin.   
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Ecco poi la Scozzese di Mendelssohn, che Trevino ha già interpretato con l’Orchestra dei Paesi Baschi, di cui è stato Direttore Musicale per qualche anno, prima di trasferirsi a Malmoe.  

Devo dire che la sua mi è parsa un’interpretazione quasi perfetta. Soprattutto nel creare un suono proprio mendelssohniano, trasparente e sobrio negli archi, davvero gestiti con grande maestria (complimenti a Dellingshausen e soci, naturalmente); corposo ma mai sbracato nei fiati, corni in specie (guidati da Ceccarelli) perfetti nel conclusivo Allegro maestoso assai. A tutto ciò va aggiunta la signorilità e compostezza del gesto, sempre essenziale e mai inutilmente enfatico o plateale. Un piccolo dettaglio poi testimonia della grande cura e meticolosità con le quali Trevino affronta ogni aspetto della direzione: nel concerto solistico, dove lui si trova (a causa del pianoforte) le prime parti di violini I e viole (al proscenio) fuori sguardo, che fa?: scambia le sedie del primo violino e della prima viola con quelle dei rispettivi secondi, in modo da averli al proprio fianco...    

Insomma, una conferma delle grandi qualità del Direttore americano, cui il folto pubblico dell’Auditorium ha tributato lunghe e meritate ovazioni.