Ieri sera si è chiuso, nello smagrito
Teatro Rossini, il 41° ROF, che passerà alla storia come l’edizione pandemica...
Pesaro - all’apparenza almeno - sembrava
quella di tante altre chiusure di Festival, a parte qualche individuo... mascherato:
biciclette sfreccianti; la fontana con la sfera sventrata di Pomodoro circondata
da frotte di selfie-isti; lungomare piacevolmente
affollato; fungaia di ombrelloni ancora aperti alle 7:30 di sera; qualcuno che sguazza
a godersi l’ultimo bagno della giornata; tavolini dei bar occupati senza troppa
attenzione al distanziamento; ristoranti dove si preparano i coperti per la
cena... Insomma, almeno da queste parti non pare proprio che ci si stia
attrezzando alacremente in vista della tanto paventata apocalisse d’autunno, ecco (o stiamo tutti proverbialmente ballando sul Titanic?)
Nel teatro le cose cambiano vistosamente
rispetto alla normalità: mascherine obbligatorie, disinfettanti per le mani e
regole di distanziamento almeno teoricamente rispettate. Fa impressione davvero
l’interno della sala: un pavimento posticcio è stato installato ben al di sopra
del livello della platea, arrivando a meno di mezzo metro dal piano del primo
ordine di palchi; chi - come me - stava proprio lì aveva l’orchestra, che
occupava più di metà di quello spazio, proprio davanti al naso. Insomma, qualcosa
di troppo insolito, e non tanto per la vista, quanto per l’udito. Poichè nonostante
gli sforzi dei cantanti e l’attenzione di Dmitry
Korchak (una creatura tenorile del Festival, quest’anno esordiente qui come
Direttore) a moderare i decibel dell’orchestra, ciò che arrivava alle orecchie
non era precisamente quell’amalgama gradevole di suoni cui si è abituati.
E Marianna
Pizzolato, ormai veterana del ROF, ne ha fatto un po’ le spese, aprendo la
serata con la versione orchestrata da Sciarrino
della Giovanna D’Arco, cantata composta a Parigi nel 1832 (ma ormai è
certo che quella data vada incrementata di una ventina d’anni) per voce e
pianoforte. Qui la stessa Pizzolato nella recita inaugurale
dello scorso 8 agosto, trasmessa in streaming.
Dal vivo la sua voce faticava davvero ad attraversare adeguatamente la barriera
sonora orchestrale (forse meglio sarebbe stato eseguire la versione originale).
Pubblico forzosamente scarso (c'erano però posti vuoti oltre il necessario) ma assai caloroso nell'accogliere questo antipasto della serata.
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Senza intervallo si procede subito con La
Cambiale di Matrimonio, alla sua quarta apparizione al ROF,
dopo l’esordio del 1991 e i ritorni del 1995 e 2006. Questa nuova produzione è
realizzata in collaborazione con la ROH
di Muscat (Oman). Qui la recita dell’apertura.
Oltre al tenore-direttore, abbiamo qui anche
il tenore-regista, chè Laurence Dale,
il quale ha messo in piedi uno spettacolo piacevole, nel rispetto delle regole
di distanziamento, e soprattutto senza stravolgere l’essenza del soggetto
originale (cosa peraltro ardua, data la natura leggera dell’opera).
Gary McCann è il responsabile dell’intelligente scenografia (la facciata
della residenza di Mill che si apre lasciando apparire gli interni, e pure un
parco) e dei brillanti costumi. Ralph
Kopp ha curato sapientemente le luci.
Carlo Lepore (la cui prima apparizoone pesarese risale al 1996!) è stato il
trascinatore degli altri cinque interpreti e il trionfatore della serata: un Mill
di gran presenza scenica, voce sempre robusta e ben impostata, nobiltà di portamento.
Iurii Samoilov fu già un più che discreto Omar nel Siège del 2017 e direi che in questi tre anni sia ulteriormente
migliorato, restituendoci un convincente Slook, assai composto rispetto a
quanto si vede (e si sente) spesso in giro; e la sua età gli darà certamente
modo di migliorare ancora. Anche Martiniana
Antonie si è già esibita come Elmira (Ricciardo&Zoraide
del 2018) e poi come Azema (Semiramide,
2019): qui ha meritoriamente interpretato il ruolo della servetta Clarina,
applaudita nella sua aria.
Gli altri tre interpreti erano tutti al primo approccio con il
cartellone principale del Festival, ma sono altrettanti prodotti dell’Accademia, che in anni recenti si son
fatti le ossa rossiniane prevalentemente con quella fucina che è Il viaggio a Reims (che anche quest’anno
ha avuto le due recite canoniche).
Su tutti Giuliana Gianfaldoni,
che ha impersonato la proto-femminista Fannì con garbo e spigliatezza, ma
soprattutto mettendo in luce la sua bella voce, sempre ben controllata e senza
smagliature.
Ma più che bene anche l’Edoardo di Davide Giusti, tenorino di belle speranze (ma ha già una discreta
carriera alle spalle); e il domestico-intrigante Pablo Gàlvez (Norton) che ha fatto piacevolmente coppia con Clarina.
Korchak ha concertato tutti con diligenza, ben coadiuvato dalla valida
Sinfonica Rossini
di Pesaro: per il momento lo giudicherei promettente... il futuro ci dirà se sia
meglio come direttore che come tenore.
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All’uscita-artisti c’è a salutare tutti un baldo giovane che qui
fa un po’ il padrone di casa: Michele Mariotti.
Ecco, anche questa edizione nata davvero sotto cattiva stella corona va in archivio, e tutto sommato
con pieno merito: non deve essere stato semplice nè facile allestire comunque
un programma dignitoso, evitando un lockdown
totale che sarebbe stato davvero difficile da digerire. E adesso... largo ai
vaccini! Per poter arrivare senza problemi al prossimo appuntamento, con Moïse (Sagripanti-Pizzi), Bruschino (Spotti-Barbe&Doucet), Elisabetta (Pidò-Livermore) e Stabat (Bignamini).