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da stellantis a stallantis

28 luglio, 2016

A Bayreuth non è mai troppo tardi

 

Esordire a Bayreuth a 73 anni (quanti ne ha Haenchen, chiamato al penultimo momento a sostituire nel nuovo Parsifal il – forse troppo? – rampante Nelsons) è stato un record assai effimero, poichè battuto già dopo un giorno dal 77enne Janowski, chiamato a sostituire nel Ring oleoso (con un filino di preavviso in più) il decisamente troppo rampante Petrenko (reo di aver soffiato il posto - presso tali Berliner Philharmoniker - all’attuale fac-totum musicale del festival). Insomma, nell’era dei ggiovani a tutti i costi, è come se l’Inter, a sostituire il suscettibile Mancini, avesse chiamato ahò... Mazzone!

Però devo dire che, almeno all’ascolto radio, i due arzilli diversamente-giovani (che alcuni liquideranno sbrigativamente come dei batti-solfa) hanno tenuto bellamente a galla una barca che rischiava altrimenti di colare a picco. Questo per dire che, anche qui da noi, se per caso si dovesse rottamare – via referendum – il rampante Renzi, si potrebbe utilmente ripescare al suo posto, che so... Castagnetti (stra-smile!)

La RAI quest’anno ha deciso di tagliare (invece dei mega-stipendi ai dirigenti) il Ring del 50% e le prime di Bayreuth del 57%: si vede da lontano l’impronta inconfondibile del ggiovane rampante Campo dall’Orto, uno che ha capito al volo come va il mondo.  

Chi non vuol perdersi le restanti 4 prime può affidarsi ai simpatici amici di Radio Clasica, che per ora si sta eroicamente difendendo (pur con perdite... olandesi) dagli attacchi dei locali Campo de l’Huerto: quindi appuntamento il 29 per Siegfried, il 31 per Crepuscolo e il 1° per Tristan (sempre alle 16). Quanto all’Olandese del 30, sarà irradiato dai locali bavaresi.  

Alles was ist, endet.

25 luglio, 2016

Bayreuth dei poareti

 

Bayreuth ha aperto il suo annuale caravanserraglio con un nuovo Parsifal francamente modesto (almeno all’ascolto radiofonico, ma i testimoni oculari pare estendano l’attributo anche all’allestimento). Insomma: la montagna collina verde ha partorito il classico topolino (come non fossero bastati quelli di Neuenfels!)

Quasi avessero previsto il misero parto, anche i grandi di Germania (e colonie) non si sono fatti vivi, naturalmente con la scusa che l’Isis gli potesse fare qualche scherzetto, ad esempio convertendo in kamikaze qualche insospettabile fanciulla-fiore (pare in effetti che il regista ci abbia pensato, strasmile!)

Salvo la Pankratova, che ha sfoggiato le sue notevoli doti come Kundry, e il navigato Haenchen - che è il classico vecchio marpione a cui puoi chiedere di fiondarsi a Bayreuth per debuttarvi a 70 anni con 3 settimane di preavviso, e lui ti garantisce di evitare un fastidioso forfait, oltretutto tenendo tempi che pare fossero proprio quelli di Wagner-1882! – il resto del cast mi è parso proprio scombinato: a partire dal Parsifal Nemorino di Vogt, che le note le canta tutte e bene, ma come le canterebbe Bocelli, ecco. Per non parlare di Gurnemanz e Amfortas che si debbono essere per errore scambiati le parti: così il primo è stato cantato da un baritono e l’altro da un basso...

Certo, orchestra e coro sono inossidabili e su loro nulla da dire, ma insomma mi pare abbia fatto bene l’Angelona ad evitare i rischi.  
    

12 luglio, 2016

Kent Nagano in visita a Ravenna


Ieri al Ravenna Festival è ritornato uno dei Direttori più preparati in circolazione, il nippo-statunitense Kent Nagano, alla guida degli Hamburger (non si mangiano!) Philharmoniker, di cui è da poco il Direttore Musicale.

Con lui il 34enne pianista berlinese Martin Helmchen che si cimenta subito nel Quarto di Beethoven. Già anni fa, giovane di belle speranze, in una apparizione con laVERDI all’Auditorium (in Mozart) aveva destato una positiva impressione. E in questi anni dev’essere ulteriormente maturato, a giudicare dall’autorevolezza con la quale ha domato questo che è probabilmente il più ostico dei 5 concerti del genio di Bonn.

Affascinante il lirismo sfoggiato nell’iniziale Allegro moderato, ma grande anche la tecnica virtuosistica, culminata nella lunghissima e massacrante prima cadenza. L’Andante con moto è purtroppo risuonato in un ambiente sonoro funestato dal ronzio dei (pur necessari, dato il caldo infernale che incombe anche qui) condizionatori; poi il Rondo finale ha rimesso le cose a posto, e solista e orchestra hanno dialogato in modo oserei dire perfetto. Strameritati quindi gli applausi che il pubblico (abbastanza folto, anche se non tanto da riempire del tutto il PalaDeAndrè) ha tributato a tutti, e che Helmchen ha ricambiato con un bis.
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Intervallo all’aperto, girovagando dentro le cento colonne del labirintico Danteum che fronteggia l’ingresso del gran palazzone o passeggiando sotto le dieci poderose costole (di vascello) del Grande ferro R di Alberto Burri, poi si rientra per ascoltare l’enigmatica Sesta di Bruckner: rimasta a lungo (e non è che oggi ne sia totalmente uscita) in una specie di limbo, come schiacciata dalle sei (3-5 e 7-9) che la intrappolano a sandwich. È un Bruckner forse meno austero (costruttore di cattedrali barocche) e più sbarazzino (lui stesso apostrofò di birichina questa sua opera) che sembra voler andare dritto al punto, senza pedanteschi preamboli, nè ponderose pause. È in LA maggiore, come la celeberrima Settima del venerato Beethoven, l’apoteosi della danza, stando all’idolatrato Wagner che in quella tonalità aveva concepito il Lohengrin.

Qualche nota sulla Sinfonia, seguendola in un’esecuzione proprio di Nagano con i sinfonici berlinesi.
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Il tema principale del lavoro è costituito da una cellula di due battute in 4/4: nella prima troviamo due minime, nella seconda due terzine (3 su 2) di semiminime, di cui la prima inizia con una pausa. Questa cellula torna svariate volte nel corso dell’opera, ma in particolare assume tre peculiari forme, come evidenziato dalla figura sottostante:


Nella prima forma, esposta subito all’inizio (6”) dagli archi bassi, scende dalla dominante MI alla tonica LA, quindi percorre un ondeggiamento attorno alla tonica, che ha come estremi la settima e la sopratonica abbassate (SOL naturale e SIb): si crea così un tipico effetto napoletano, o da scala modale.

La seconda forma compare nella Coda del Majestoso iniziale. Qui (16’16”) le minime della prima battuta scendono dalla tonica LA alla dominante MI, dopodichè l’ondeggiamento avviene attorno alla dominante, fra la sottodominante (RE) e la sesta abbassata (FA naturale): anche qui un effetto napoletano, che nelle ultime battute del movimento (16’29”) sfuma attraverso la mutazione del FA naturale in FA# (sesta giusta) ristabilendo la piena tonalità di impianto.

La terza forma della cellula motivica compare precisamente (e ciclicamente) alla fine della sinfonia (56’13”) dove le minime della prima battuta tornano a scendere da dominante MI a tonica LA, ma poi l’ondeggiamento avviene attorno alla dominante (estremi la mediante DO# e la sesta FA#) quindi tutto in piena tonalità di LA maggiore.

Uno stupefacente impiego di questa cellula è quello che troviamo nella citata Coda del movimento iniziale (60 battute, da 309 a 369, da 14’02” a 16’36”): vi sono contenute non meno di 39 mutazioni di sfondo armonico, che attraversano tutte le 12 triadi della scala cromatica (una specie di super-serie dodecafonica!)

A proposito di temi ricorrenti, è il caso di segnalare quello con il quale l’oboe apre l’Adagio (17’16”). Questo motivo ricomparirà nel Finale, dapprima timidamente (46’36”) poi assai corposamente (da 47’01” a 47’53” e ancora fino a 48’54”) per infine condurre (da 53’58” a 55’17”) verso la coda conclusiva della Sinfonia. Se non nella melodia, di sicuro nel ritmo, la cellula di base è parente stretta del tema del Finale della Quarta di Schumann:

L’Adagio si segnala anche per la presenza di un tema di grande nobiltà (compare per la prima volta a 19’08”) che si sviluppa fino ad un bellissimo culmine (20’07”):

Lo Scherzo (in LA minore) è a sua volta impregnato dal ritmo del tema iniziale della Sinfonia, in particolare da quello della seconda battuta della cellula fondamentale (due terzine di cui la prima acefala). Ritmo che marca la chiusa della sezione principale, dapprima in MI maggiore (come sotto esemplificato, a 34’51”) e quindi in LA maggiore:


Non poteva mancare poi un omaggio a colui che Bruckner considerava poco meno che un dio: Richard Wagner. Ecco qui una citazione (dal Finale) tanto esplicita quanto impegnativa e... pericolosa (gli attirò strali e sbeffeggi da ogni parte, chissà come avrebbe reagito il web di oggi, con i suoi twit video virali!):

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É una Sinfonia che ha subito assai poche revisioni o ripensamenti (anche perchè Bruckner non la potè mai ascoltare per intero) ed è anche stata, come dire, lasciata in pace dai diversi allievi, sodali, reggiborse ed affini del compositore, che hanno invece lasciato le loro tracce (quasi sempre nefaste) sulle partiture delle sorelle maggiori. Quindi non mi sentirei di dire che questo sia un segno di debolezza, ecco. È invece curioso che Bruckner abbia composto questa sinfonia così serena, vitale, ottimistica, in un periodo assai triste e travagliato della sua esistenza: esattamente l’opposto di quanto accadrà a Mahler, che comporrà la sua tragica sesta nel periodo più felice della sua vita.

Nagano (che ha schierato le viole al proscenio) ha modo di mettere in mostra le eccellenti qualità della sua nuova Orchestra: poderosi gli archi bassi (contrabbassi tutti rigorosamente a 5 corde) nell’incipit della sinfonia e smaglianti gli ottoni che Bruckner impegna sempre allo spasimo. Ma perfetta anche la resa delle parti più leggere della sinfonia, dove l’Orchestra sfrutta al meglio la sua lunghissima esperienza nel repertorio cameristico.

Insomma, una bella serata di grande musica.

08 luglio, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°25


Per la prima volta nella sua ultraventennale storia, laVERDI ha eseguito quindi di Hector Berlioz gli Episodi della vita di un artista, vale a dire il dittico formato dalla Sinfonia fantastica e da Lélio.

Organico al completo (anche il coro di Erina Gambarini) sotto la direzione di Claus Peter Flor. A recitare la parte di Lélio Marco Foschi, mentre Bernard Berchtold (tenore) e Thomas Tatzl (baritono) hanno cantato nei tre brani del melologo che prevedono parti di voci soliste. Carlotta Lusa e Vittorio Rabagliati erano impegnati al pianoforte.

Sala purtroppo semideserta: chissà, dei due match franco-tedeschi forse molti hanno preferito quello Deschamps-Löw in TV a quello Berlioz-Flor in Auditorium... E devo dire che anche qui mi pare abbia prevalso nettamente il francese!

La Fantastica è stata aggredita da Flor quasi con protervia, con dinamiche esagerate: cosa non è diventato il walzerino, nella seconda sezione! Timpani fracassa-timpani alla fine della scena campestre, dove in partitura ci sono solo dei pianissimo e qualche piano e sforzato per evocare lontani rumori di tuono. Le campane del finale, che devono suonare sì forte, ma stare fuori scena, quindi udirsi in lontananza, qui sono piazzate proprio al proscenio! Insomma, un’esecuzione che calcisticamente definirei... gioco pesante, ecco.

Meglio, per fortuna, il Lélio. Orchestra visibile (per ragioni comprensibili) ma che ha suonato a luci quasi spente (con le lampadine sui leggii) e con gli orchestrali in blusa nera al posto del frac per meglio... scomparire. Pianoforte e tenore nascosti da un paravento. Il baritono arriva, in frac, al proscenio, il che è invece incomprensibile.

Lodevole, come sempre in questi casi, la proiezione sui due schermi dei testi francese e italiano. Toschi recita nella nostra lingua (traduzione di Valentina Romani, stando al programma di sala) e forse per questo il testo dei monologhi di Lélio non viene proiettato: errore, poichè molte delle parole dell’attore purtroppo sfuggono, causa l’amplificazione non proprio adeguata.

I sei brani musicali sono eseguiti e cantati in modo più che degno e riscattano gli eccessi della Sinfonia. E alla fine ci sono applausi e ovazioni per tutti. Anche per Flor, che così ha modo di digerire lo 0-2 di Marsiglia! 

(Adesso la stagione principale va in pausa – non laVERDI – e si riprende alla Scala in settembre).

06 luglio, 2016

Parsifal ritrova un tutore


A Bayreuth hanno reclutato in fretta e furia il sostituto di Andris Nelsons per il prossimo Parsifal: si tratta di Hartmut Haenchen, debuttante nella torrida cantina della Festspielhaus. 

Forse per dare importanza alla nomina, il sito del Festival pubblica un suo curriculum kilometrico. Sarà, personalmente l’ho udito dal vivo una sola volta, alla Scala: fu un Holländer francamente mediocre. 
Il 25 c.m. (sia pure per radio) potremo giudicare.

05 luglio, 2016

laVERDI 2016 – arriva Lélio


Claus Peter Flor si appresta a tornare sul podio dell’Auditorium per dirigervi l’ultimo concerto della stagione principale prima della pausa estiva (si riprenderà il 15 settembre, 4 giorni dopo la consueta visita alla Scala; ma laVERDI, lo sappiamo, non va mai in vacanza, nemmeno in agosto e così chi resta in città ha a disposizione la stagione estiva per non sentirsi solo).

In programma una vera e propria primizia: il dittico berlioz-iano esattamente come lo immaginò (in due tempi...) il compositore: alla ormai inflazionata (e lasciata sempre più sola) Symphonie Fantastique seguirà il melologo-monodramma Lélio, ou Le retour à la vie, che nelle intenzioni dell’autore doveva rimettere un po’ le cose a posto dopo gli incubi esistenziali, freudiani e romanticoidi delle forche e dei sabba.

Si sa che la Fantastique era stata in qualche modo ispirata dall’infatuazione di Berlioz per l’attrice Harriet Smithson (da lui vista recitare Shakespeare in teatro nel 1827): l’oppio, che pare Berlioz non si facesse mancare, aveva fatto il resto, scatenando, accanto alla celebre Idée fixe, le visioni apocalittiche degli ultimi due movimenti della sinfonia, completata nel 1830 ed eseguita domenica 5 dicembre di quell’anno. Ancora il Lélio era ben di là da venire, e con lui l’idea stessa di creare un postludio da appendere all’esecuzione della sinfonia.

Ignorato dall’attrice irlandese e applicando la vecchia regola del chiodo-scaccia-chiodo il nostro si fidanzò con tale Marie-Félicité Denise Moke, pianista belga che però, mentre lui era nella città eterna (1832, avendo finalmente vinto il Prix de Rome) pensò bene di sposare Camille Pleyel (rampollo del famoso Ignace). Preso da raptus omicida, Berlioz ripartì in fretta e furia da Roma verso la Francia, non prima di essersi procurato abiti femminili, due pistole e fiale di stricnina: per farci che? Introdursi con l’inganno in casa Moke e semplicemente farci secchi la ex-fidanzata e i di lei genitori, prima di spararsi o (a scelta) avvelenarsi a sua volta.

Per sua (e nostra?) fortuna, arrivato a Nizza già aveva cambiato idea e fatto una conversione a U, tornando a Roma e componendovi, appunto, il Retour. Ritorno alla vita, tramite la musica (più Goethe e Shakespeare, tanto per gradire...) ma anche ritorno all’inafferrabile Harriet, che domenica 9 dicembre 1832 assisteva alla prima del dittico e meno di un anno dopo (giovedi 3 ottobre 1833) diventava sua moglie (e mal gliene incolse!) Cosa abbia spinto Berlioz alla decisione di fare del Lélio un’appendice, una chiosa della Fantastique, da eseguirsi inderogabilmente in coda alla sinfonia lo saprà solo lui, noi sappiamo che abbastanza presto questa prassi venne abbandonata, e non senza ragione.   

Intanto: la struttura del melologo e le risorse impiegate sono piuttosto velleitarie; allora, ci troviamo: la voce recitante che sta (quasi) sempre al proscenio; grande orchestra, coro e cantanti che stanno dietro un sipario, quindi udibili ma invisibili, fino al pezzo forte (la Tempesta); un tenore (meglio due!) e un baritono solisti; un pianista, che viene raddoppiato per la Tempesta (dove si suona a-quattro-mani). Insomma, un oggetto ibrido e multiforme accompagnato da ampia prodigalità di mezzi, che d’altronde era caratteristica della grandeur parigina dell’epoca (nel 1846 la Symphonie funèbre et triomphale fu suonata all’Hippodrome da non meno di 1800 esecutori!)

L’impianto dell’opera prevede un susseguirsi abbastanza regolare di (7) interventi parlati (del recitante) intercalati ad altrettanti brani musicali di diversa fattura. In sostanza Lèlio(-Hector) introduce argomenti e concetti che poi la musica si incarica di commentare e/o sviscerare. Qui una mia modesta edizione del testo originale con traduzione italiana (del Taverna).

La musica, salvo riempitivi e aggiustamenti, altro non è che una riproposizione di brani (piuttosto eterogenei, va detto) presi da opere composte da Berlioz nei 5 anni precedenti, come si desume dal sottostante specchietto:

Lélio
derivazione
1. Le pêcheur (da Goethe)
    (+ Idée fixe)
Le pêcheur (da Goethe, 1827)
(dalla Symphonie Fantastique, 1830)
2. Chœur des ombres

Cléopâtre (1829)
   5. Grands Pharaons, nobles lagides
3. Chanson de brigands
Chanson des pirates (? 1829)
4. Chant de bonheur
La mort d’Orphée (1827)
   Ô seul bien qui me reste
5. La harpe éolienne, souvenirs
  
La mort d’Orphée (1827)
   Finale 
6. Fantaisie sur la Tempête de Shakespeare
Ouverture de la Tempête (1830)
(7. Idée fixe)
(dalla Symphonie Fantastique, 1830)

In pratica il concetto che si vuol esprimere è che il ritorno alla vita si giustifica con la volontà di non disperdere un patrimonio già acquisito ed anzi di arricchirlo in futuro con opere ancor più impegnative: è proprio ciò che Lélio prefigura nel suo secondo intervento, e infine nel settimo, commentando l’esecuzione della Tempesta.

Per carità, i brani che Berlioz copia-e-incolla nel Lélio sono musica apprezzabile, ma tutt’altro che capolavori: e averli impacchettati insieme a sproloqui di carattere filosofico-esistenziale non ne innalza di certo il livello artistico-estetico. E i due sporadici ritorni dell’Idée fixe (all’inizio e alla fine del melologo) non bastano di certo a creare una qualsivoglia continuità con la Sinfonia, anzi finiscono per cambiarle (a posteriori!) i connotati, trasformandola in un lungo prologo ad un epilogo autobiografico, propriamente extramusicale, roba da chiodi! Ecco perchè – giustamente, a mio modesto avviso – il tempo ha reso giustizia alla Sinfonia (grande musica!) e messo in soffitta il Lélio (mediocre patchwork).  
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Fra i Direttori che più si sono interessati al dittico è Riccardo Muti, che ha eseguito numerose volte e con diverse formazioni il Lélio, sempre però con Gerard Depardieu. Sfidando i fulmini della RMMusic ripropongo qui la registrazione del 2008 a Ravenna con l’Orchestra Cherubini (rinforzata dall’Orchestra Giovanile Italiana) il coro dell’Opera di Vienna, il tenore Mario Zeffiri, il baritono Franck Ferrari, i pianisti Polo Restani, Laura Pasqualetti e Gioia Giusti, pubblicata a suo tempo da Repubblica all’interno di una collana di otto lezioni del maeschtro, trasmessa da RAI5 pochi mesi fa.

Il monologo introduttivo ci presenta un Lélio che si stupisce di essere ancora vivo, dopo le sbornie di oppio e le tentazioni suicide che hanno accompagnato le vicende più recenti della sua esistenza. Il primo ricordo è per una ballata (Il Pescatore) che il suo amico Horatio aveva mutuato da Goethe e che lui aveva musicato 5 anni addietro per pianoforte. E così Horatio la canta, accompagnato da quel solo strumento e Lélio commenta ciascuna delle quattro strofe della ballata; al termine della seconda, ecco che nei primi violini fa capolino, fugacemente, l’Idée fixe, questa specie di sirena che continuamente lo perseguita, ma che forse (siamo al secondo intervento della voce) lo sta invitando a vivere, per la musica e l’amicizia...

E altri agenti lo spingono a vivere: Shakespeare, che con l’Hamlet lo ha soggiogato; e Thomas Moore, che ha completato con le sue musiche l’opera del genio di Stratford. E così nella mente di Lélio riaffiora un’altra musica, con un lugubre e minaccioso coro di morte: è la ripresa dell’invocazione di Cleopatra ai Faraoni, così come musicata da Berlioz nel 1829.     

Qui abbiamo il terzo intervento di Lélio che, prendendo spunto dalle critiche e denigrazioni cui era stato fatto oggetto Shakespeare, se la prende con l’establishment musicale del suo tempo (pare... Wagner ante-litteram!) e con i pedanti parrucconi che ignorano l’innovazione o che addirittura si permettono di correggere grandi capolavori in nome di un sedicente gusto estetico. (Qui è abbastanza scoperto il riferimento a tale François-Joseph Fétis, il musicista e critico belga che pure aveva sostenuto il giovane Berlioz, ma che si era anche permesso – anatema! – di ritoccare partiture di Beethoven.) Così Lélio vorrebbe lasciare questo ambiente di furfanti mascherati per aggiungersi ai briganti veri e autentici del napoletano o della Calabria! E qui Lélio esce momentaneamente di scena e vi ritorna subito con cappello da brigante, carabina, pistole e cartuccera... mentre l’orchestra, il baritono e il coro intonano la Chanson des brigands, presa da un’analoga e perduta Chanson des pirates del 1829. Truce e orripilante, il testo parla di gentaglia che brinderà – con le donne conquistate - nei teschi dei loro uomini ammazzati!

A questo punto sopraggiunge in Lélio un senso di serenità e di speranza: getta le armi e si abbandona ad ascoltare... se stesso (il tenore) che canta un inno di felicità, mutuato da La mort d’Orphée del 1827. Cui segue però l’immagine di lui che vaga in cerca dell’amata e sogna di addormentarsi fra le sue braccia, cullato dal suono dell’arpa, e così di morire. E segue quindi un brano breve ma straordinario (sempre da La mort d’Orphée, là in LAb, qui in LA naturale) protagonisti arpa e clarinetto, sul rabbrividente tremolo degli archi.

Ma no, bisogna vivere! E allora Lélio ripensa alla musica, e ad un soggetto che da sempre lo ha affascinato: la Tempesta. Esce di scena e il sipario si alza su orchestra (con pianoforte a 4 mani) e coro. Lélio rientra e dà gli ultimi consigli a orchestrali e coro, che quindi attaccano il lungo brano preso di peso dalla composizione del 1830. Al termine Lélio si complimenta con i suoi musicisti: ora potranno anche suonare cose più serie di questa bazzecola!

L’orchestra e il coro cominciano ad andarsene, il sipario si abbassa e Lélio resta solo al proscenio. Si ode da dietro un violino che accenna ancora all’Idée fixe. Lélio, come colpito al cuore, mormora: Ancora, ancora... e per sempre.
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Berlioz operò una revisione dell’opera nel 1855, allorquando essa venne diretta a Weimar da Liszt e pubblicata da Breitkopf: oltre al titolo (Lélio, nome abbastanza desueto, probabilmente mutuato dal teatro settecentesco: Lélio était petit et grêle; sa beauté ne consistait pas dans les traits, mais dans la noblesse du front, dans la grâce irrésistible des attitudes, dans l'abandon de la démarche, dans l'expression fière et mélancolique de la physionomie - George Sand, La Marquise) e all’attibuto monodramma (invece di melologo) vi aggiunse anche una dedica al figlio avuto da Harriet. Con l’occasione ritarò anche i risvolti autobiografici delle due componenti dell’opera (Idée fixe inclusa) concentrandoli esclusivamente e gratuitamente sulla medesima Harriet, ormai defunta e quindi impossibilitata a smentirlo: anche questo è un segnale di estrema debolezza di tutta l’idea portante del dittico.
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Vedremo come laVERDI, Flor e compagnia sapranno farci digerire la pillola.

04 luglio, 2016

Mirandolina abbandonata in Laguna


Ieri pomeriggio la Fenice - teatro ahinoi vergognosamente semideserto - ha ospitato la seconda recita della Mirandolina di Bohuslav Martinů. Che non sarà popolare come Traviata o Bohème o Carmen, ma che meriterebbe più... considerazione, ecco.

Oltretutto lo spettacolo è quanto di più gradevole e godibile si possa offrire, grazie alla spumeggiante musica del ceco, che John Axelrod valorizza al meglio - sfruttando al massimo la gran forma dell’Orchestra veneziana - e alla scanzonata messinscena di Gianmaria Aliverta, che attualizza simpaticamente la commedia goldoniana, trasferendola ai nostri giorni.  

Ecco quindi che la locanda di Mirandolina diventa una spa, dove necessariamente si sta più nudi che vestiti. Così c’è modo di ammirare i vellosi petti dei nobili che popolano saune e bagni e le curve delle due zoccole sedicenti nobili che prorompono da (peraltro castigati) bikini. Anche la tavola della suite del Cavaliere si trasforma quindi in una jacuzzi colma di schiuma, dalla quale emerge magicamente, alla fine della terza scena dell’atto secondo, il Marchese per sorprendere il tête-à-tête fra locandiera e Ripafratta.

Questi sono solo due degli aspetti frizzanti della regìa, che si avvale di semplicissime scene di Massimo Checchetto (la solita pedana girevole che ci presenta alternativamente un paio di scarni ambienti: vestibolo di piscina-sauna, camera del cavaliere o lavanderia-stireria di Mirandolina) e degli improbabili costumi – quando non sono semplicemente accappatoi e salviettoni - di Carlos Tieppo. Completa il tutto l’efficace impianto di luci di Fabio Barettin.

Silvia Frigato è una frizzante Mirandolina: la parte non è impervia, ma richiede sensibilità interpretativa che il soprano (specialista di barocco, quindi appropriata per un’opera che si rifà al classicismo) ha mostrato di possedere in dosi abbondanti, caratterizzando di volta in volta l’impertinenza, la maliziosità e la fredda determinazione che animano il personaggio della locandiera.

Omar Montanari è un ottimo Ripafratta, voce penetrante e mai sguaiata, convincente nel ricreare il percorso... evolutivo della personalità del nemico delle donne che finisce per diventarne schiavo. I due altri nobili (qui trasformati in una coppia di tamarri e sfigati) sono Marcello Nardis (Albafiorita) e Bruno Taddia (Forlimpopoli): il tenore fa sfoggio di voce squillante e grande (e... grossa!) presenza scenica; il basso sfoggia felice aderenza al personaggio di nobile decaduto quanto presuntuoso.

Completano la parte maschile del cast il bravissimo Leonardo Cortellazzi (Fabrizio) e Christian Collia (che fa onestamente il suo dovere nella parte oggettivamente limitata del Servitore del Ripafratta). Da ultimo le due comiche, Giulia Della Peruta (Ortensia) e Laura Verrecchia (Dejanira): scelta azzeccatissima di chi ha messo insieme il cast. Per le voci? Forse, ma di sicuro per... le curve (!)

I rari nantes che (s)popolavano la sala si son comunque fatti sentire con prolungati applausi e ripetute chiamate per tutti i protagonisti.
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P.S. Prima dell'inizio dello spettacolo è stato osservato un doveroso minuto di raccoglimento, in memoria delle vittime di Dacca.

02 luglio, 2016

Parsifal torna orfano


La novità di Bayreuth-2016 (edizione 105 del Festival wagneriano, la prima della nuova gestione Kathi-faso-tuto-mi) è la nuova (10ma nella storia) produzione di Parsifal, che aprirà la kermesse il 25 p.v. Questa la locandina come appare ancor oggi sul sito del Festival:


Come si vede, manca il Kapellmeister (Musikalische Leitung, in gergo) !!! 

Povero Parsifal, un orfanello abbandonato anche dal suo ultimo tutore (Andris Nelsons).