Ieri al Ravenna
Festival è ritornato uno dei Direttori più
preparati in circolazione, il nippo-statunitense Kent Nagano, alla guida degli Hamburger
(non si mangiano!) Philharmoniker, di
cui è da poco il Direttore Musicale.
Con lui il 34enne pianista berlinese Martin Helmchen che si cimenta subito nel Quarto di Beethoven. Già anni fa, giovane di belle speranze, in una
apparizione con laVERDI all’Auditorium (in Mozart) aveva destato una positiva
impressione. E in questi anni dev’essere ulteriormente maturato, a giudicare
dall’autorevolezza con la quale ha domato questo che è probabilmente il più
ostico dei 5 concerti del genio di Bonn.
Affascinante il lirismo sfoggiato nell’iniziale Allegro moderato, ma grande anche la tecnica virtuosistica,
culminata nella lunghissima e massacrante prima cadenza. L’Andante con moto è
purtroppo risuonato in un ambiente sonoro funestato dal ronzio dei (pur
necessari, dato il caldo infernale che incombe anche qui) condizionatori; poi il
Rondo finale ha rimesso le cose a
posto, e solista e orchestra hanno dialogato in modo oserei dire perfetto. Strameritati
quindi gli applausi che il pubblico (abbastanza folto, anche se non tanto da
riempire del tutto il PalaDeAndrè) ha tributato a tutti, e che Helmchen ha ricambiato
con un bis.
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Intervallo all’aperto, girovagando dentro le cento colonne del labirintico
Danteum che fronteggia l’ingresso del
gran palazzone o passeggiando sotto le dieci poderose costole (di vascello) del Grande
ferro R di Alberto Burri, poi si
rientra per ascoltare l’enigmatica Sesta
di Bruckner: rimasta a lungo (e non è
che oggi ne sia totalmente uscita) in una specie di limbo, come schiacciata
dalle sei (3-5 e 7-9) che la intrappolano a sandwich. È un Bruckner forse meno austero (costruttore di cattedrali barocche) e più sbarazzino (lui stesso apostrofò di birichina questa sua opera) che sembra voler andare dritto al
punto, senza pedanteschi preamboli, nè ponderose pause. È in LA maggiore, come
la celeberrima Settima del venerato
Beethoven, l’apoteosi della danza,
stando all’idolatrato Wagner che in quella tonalità aveva concepito il Lohengrin.
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Il tema principale del lavoro è costituito da una
cellula di due battute in 4/4: nella prima troviamo due minime, nella seconda
due terzine (3 su 2) di semiminime, di cui la prima inizia con una pausa. Questa
cellula torna svariate volte nel corso dell’opera, ma in particolare assume tre
peculiari forme, come evidenziato dalla figura sottostante:
Nella prima forma, esposta subito all’inizio (6”) dagli archi bassi, scende dalla
dominante MI alla tonica LA, quindi percorre un ondeggiamento attorno alla
tonica, che ha come estremi la settima e la sopratonica abbassate (SOL naturale e SIb): si crea così un tipico effetto napoletano, o da scala modale.
La seconda forma compare nella Coda del Majestoso
iniziale. Qui (16’16”) le
minime della prima battuta scendono dalla tonica LA alla dominante MI,
dopodichè l’ondeggiamento avviene attorno alla dominante, fra la sottodominante
(RE) e la sesta abbassata (FA naturale):
anche qui un effetto napoletano, che
nelle ultime battute del movimento (16’29”)
sfuma attraverso la mutazione del FA naturale in FA# (sesta giusta)
ristabilendo la piena tonalità di impianto.
La terza forma della cellula motivica compare
precisamente (e ciclicamente) alla
fine della sinfonia (56’13”)
dove le minime della prima battuta tornano a scendere da dominante MI a tonica
LA, ma poi l’ondeggiamento avviene attorno alla dominante (estremi la mediante DO#
e la sesta FA#) quindi tutto in piena tonalità di LA maggiore.
Uno stupefacente impiego di questa cellula è quello
che troviamo nella citata Coda del
movimento iniziale (60 battute, da 309 a 369, da 14’02” a 16’36”):
vi sono contenute non meno di 39 mutazioni
di sfondo armonico, che attraversano tutte le 12 triadi della scala
cromatica (una specie di super-serie dodecafonica!)
A proposito di temi ricorrenti, è il caso di
segnalare quello con il quale l’oboe apre l’Adagio
(17’16”). Questo motivo ricomparirà
nel Finale, dapprima timidamente (46’36”) poi assai corposamente (da 47’01” a 47’53” e ancora fino a 48’54”)
per infine condurre (da 53’58”
a 55’17”) verso la coda
conclusiva della Sinfonia. Se non nella melodia, di sicuro nel ritmo, la
cellula di base è parente stretta del tema del Finale della Quarta di Schumann:
L’Adagio si segnala anche per la presenza di un tema
di grande nobiltà (compare per la prima volta a 19’08”) che si sviluppa fino ad un bellissimo culmine (20’07”):
Lo Scherzo
(in LA minore) è a sua volta impregnato dal ritmo del tema iniziale della
Sinfonia, in particolare da quello della seconda battuta della cellula fondamentale
(due terzine di cui la prima acefala). Ritmo che marca la chiusa della sezione principale,
dapprima in MI maggiore (come sotto esemplificato, a 34’51”) e quindi in LA maggiore:
Non poteva mancare poi un omaggio a colui che Bruckner considerava poco meno che un dio: Richard Wagner. Ecco qui una citazione (dal Finale) tanto esplicita quanto impegnativa e... pericolosa (gli attirò strali e sbeffeggi da ogni parte, chissà come avrebbe reagito il web di oggi, con i suoi twit e video virali!):
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É una Sinfonia che ha subito assai poche revisioni o ripensamenti (anche
perchè Bruckner non la potè mai ascoltare per intero) ed è anche stata, come
dire, lasciata in pace dai diversi allievi, sodali, reggiborse ed affini del
compositore, che hanno invece lasciato le loro tracce (quasi sempre nefaste)
sulle partiture delle sorelle maggiori. Quindi non mi sentirei di dire che
questo sia un segno di debolezza, ecco. È invece curioso che Bruckner abbia
composto questa sinfonia così serena, vitale, ottimistica, in un periodo assai
triste e travagliato della sua esistenza: esattamente l’opposto di quanto
accadrà a Mahler, che comporrà la sua tragica
sesta nel periodo più felice della sua vita.
Nagano (che ha schierato le viole al proscenio) ha modo di mettere in
mostra le eccellenti qualità della sua nuova Orchestra: poderosi gli archi
bassi (contrabbassi tutti rigorosamente a 5 corde) nell’incipit della sinfonia
e smaglianti gli ottoni che Bruckner impegna sempre allo spasimo. Ma perfetta
anche la resa delle parti più leggere
della sinfonia, dove l’Orchestra sfrutta al meglio la sua lunghissima esperienza
nel repertorio cameristico.
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