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consulta e zecche rosse

27 aprile, 2014

Troiani ancora in trionfo alla Scala

 

Ieri la penultima recita di Les Troyens ha riscosso, come le precedenti del resto, un grande successo di pubblico (certo, un pubblico scarsino già di per sé, forse causa ponte, e ulteriormente scarseggiatosi ad ognuno dei tre intervalli).


Tutto si può dire di quest’opera tranne che non sia grande musica, però una grande musica è condizione necessaria, ma certo non sufficiente a fare una grande opera di teatro musicale. E a Les Troyens mancano appunto alcuni degli ingredienti necessari alla bisogna. Uno per tutti, non c’è un plot degno di questo nome: il tutto si riduce a scene liberamente tratte dall’Eneide, e a due storie – del tutto disgiunte – di crisi esistenziali di donne diversamente tradite dai maschi.

Quattro ore di musica eccellente non bastano a conferire all’opera quel che di attraente e di coinvolgente che solo un adeguato disegno drammatico potrebbe garantire. Insomma, assistere a Les Troyens è come (mutatis mutandis) ascoltare un concerto che abbia in programma la Fantastique, la Dramatique, la Grande symphonie funèbre et triomphale e, come intermezzi, l’Harold e Le carnival romain. Se ne esce francamente sazi (stra-smile!)

Detto ciò va dato atto ad Antonio Pappano di non aver impiegato ipocritamente l’arma del taglio (che sarebbe controproducente) per ovviare ad inconvenienti che risalgono alla natura stessa dell’opera. Le sue pochissime - e tutto sommato innocue – sforbiciatine hanno riguardato:

Primo atto, Danza dei lottatori (N°5): il da-capo;

- Terzo atto Coro generale (N°23): la prima parte del coro e il da-capo;

- Quarto atto, Pas des Almées (N°33): secondo da-capo;
- Quarto atto, Danse des Esclaves (N°33): fine prima sezione; seconda sezione; parte della terza sezione; penultimo da-capo.

In effetti si tratta soltanto di modesti interventi su ripetizioni o varianti di temi di scene di balletto o di coro: nessun motivo scritto da Berlioz in origine è andato perduto.

E Pappano è stato di sicuro l’artefice del successo di questa produzione, che per il resto si è mantenuta (a mio modestissimo parere) su un livello di assoluta dignità.

Parlando di voci darei la priorità al Coro di Mario Casoni, che in quest’opera la fa davvero da protagonista e che merita un elogio incondizionato.

Le due protagoniste hanno dato il meglio di sé forse più sul lato attoriale (merito anche del regista, certo) che su quello canoro, dove non sono mancate le mende (l’ottava bassa dell’Antonacci e quella alta della Barcellona). Con loro è spiccato Kunde per straordinaria presenza scenica e dignitosissima prestazione vocale (mi è parso meglio che alla prima, udita peraltro per radio).

Capitanucci (Corebo) sufficiente, ma non più, come il Panthée di Duhamel; meglio di loro Mukeria come Iabas; non male l’Hylas di Fanale (appollaiato su un trespolo a mezz’aria); ordinaria la prestazione di Prestia come Narbal e decisamente insoddisfacente l’Anna della Radner. Poco sopra la Gardina (en-travesti) come Ascanio. Tutti gli altri come da specifiche tecniche… con una menzione alla carriera per la Zilio (Ecuba) che ancora ha un vocione che sfida gli spazi siderali del Piermarini (!) 
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Sulla regìa di McVicar poco da… condannare: come suo solito lui non inventa Konzept cervellotici (che so, la Regina Elisabetta che si innamora di Osama bin Laden) o simili ri-ambientazioni lunatiche. Direi proprio che il suo sia un approccio didascalico: propinare al pubblico la storia di Virgilio come vista dalle lenti deformanti di Berlioz. Tutt’al più con pochi tocchi della serie famola strana, tipo:  

- Astianatte vestito di nero e non di bianco come la madre;
- il cavallone che sembra piuttosto il drago di Alberich o addirittura Fafner in persona (e pensare che Berlioz nemmeno voleva si vedesse in scena, l’enorme equino di legno, figuriamoci);
- Enea che arriva, si ferma, saluta e ossequia con tanto di inchino Andromaca e pargolo che escono di scena e poi, allo scoppio orchestrale, parte a razzo come un centometrista per raggiungere il proscenio e dare, tutto esagitato, la tremenda notizia della fine di Laocoonte (scottish humor?)
- tutto il coro che alla fine del primo atto, invece di rimanere sullo sfondo, invade il proscenio, col che priva Cassandra dello spazio vitale per mettere in risalto la sua ossessione (che questo sia l’obiettivo dell’Autore è fuor di dubbio);
- Didone issata in orizzontale dai fedeli cartaginesi come un allenatore dai suoi calciatori dopo la vittoria in una coppa;
- saltimbanchi che prendono il posto dei rappresentanti delle corporazioni;
- Enea e Didone che amoreggiano en plein air (anziché ingrottarsi sotto l’uragano) con ninfe e fauni che gli tengono bordone;
- nessuna differenziazione fra i soggetti dei balletti (Almee, Schiave e Schiave nubiane);
- Ascanio, che Berlioz aveva tanto faticato a sostituire a Cupido (vedi Virgilio) che invece McVicar rimette nei panni (anzi nelle… ali) del putto dell’amore, che poi l’anello di Didone (dono di Sicheo) se lo frega proprio…
  
Ma insomma, l’importante è che, nella buona sostanza, l’originale sia stato dignitosamente rappresentato, perfino negli aspetti più banalotti, come il fuoco che durante la tempesta  incendia l’albero, i cui rami fiammeggianti vengono portati in giro con sprezzo dei divieti dei VV.FF. (smile!)   
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Lo considero il punto più alto della presente stagione scaligera.

26 aprile, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°31

 

Gaetano D’Espinosa, uno dei tre Direttori Principali Ospiti, propone per il suo ritorno sul podio de laVerdi un abbinamento assai interessante: Beethoven e Bartók.

Del genio di Bonn va in scena il Primo dei cinque Concerti per pianoforte (di cui sentiremo l’integrale in questo fine-stagione) interpretato dal 35enne reggino Giuseppe Albanese.

Come anche il secondo (in realtà sappiamo che i primi due concerti furono numerati… a ritroso) questo fu poco considerato dall’Autore medesimo, che invece era convinto di far breccia con il suo Terzo: effettivamente fra quest’ultimo e i primi due, pur essendo tutti abbastanza vicini come data di composizione, c’è quasi un abisso, proprio il passaggio dal ‘700 all’800.

Però che ‘700! Quello dei migliori Haydn e Mozart, di cui Beethoven aveva letteralmente divorato la tecnica formale, sulla quale innestava la sua già spiccata ispirazione. In particolare da Mozart troviamo nell’iniziale Allegro con brio un uso ardito della forma-sonata, con l’esposizione orchestrale che presenta il maschio tema principale in DO maggiore che ingloba il secondo in MIb maggiore, poi modulante a FA e SOL minore, quindi a FA maggiore e MIb, prima di tornare al DO; mentre quella successiva del solista vede il primo tema assai addolcito e divenuto quasi spiritoso ed il secondo, canonicamente, esposto in SOL maggiore. Come non sentire poi nel Largo riflessi e atmosfere del K467… 

Albanese ci regala un’interpretazione paradigmatica della natura di questo concerto: leziosità proprio settecentesche alternate a squarci eroico-romantici, tipo il FA in ottava che precede la scala discendente in chiusura dello sviluppo, dove la meccanica del pianoforte deve aver corso qualche serio rischio (smile!)

Beethoven scrisse, una buona decina d’anni dopo il concerto, ben tre (mah dai, facciamo due e mezza…) cadenze per il primo movimento: di queste la terza è senza ombra di dubbio la più impegnativa, anche per la sua lunghezza invero spropositata. Ecco, Albanese non ha voluto essere da meno dei grandi interpreti di ieri e oggi e ha scelto di proporci proprio questa, con un piglio a dir poco travolgente! 

Accoglienza calorosissima (il pubblico non era proprio da pienone, ma secondo me era comunque oceanico, stante il… ponte) e non poteva quindi mancare un bis che, tanto per ribadire il concetto, ci ha mostrato un Albanese scatenato nel Moto perpetuo dalla Prima sonata di C.M. von Weber!

Ma Albanese ha sfoggiato anche qualcosa di davvero glamour:


Ohibò! (anche i pedali hanno diritto ad un trattamento particolare…)

A completamento del programma ecco il Concerto per Orchestra del compositore ungherese. Il quale ebbe vita assai grama negli USA e scomparve proprio alla fine della guerra (di cui resta un tragicomico ricordo nell’Intermezzo-interrotto, col richiamo alla Leningrado di Shostakovich). Un suo compatriota, che invece dopo i guai della guerra se l’è spassata mica male, diventando addirittura sir, qui rende omaggio al grande Béla proprio interpretandone questa che fu una delle sue ultime composizioni, di cui contribuì anche a mettere a punto l’edizione critica.

Come dice il titolo, qui l’orchestra è trattata non come un reggimento di soldatini, bensì come un cenacolo di solisti, e tutti hanno la loro brava parte di evidenza, dalle arpe ai timpani (per citare solo due strumenti spesso impiegati a far da riempitivo). laVerdi ha ormai questo pezzo nel suo repertorio, proprio a dimostrazione di come l’orchestra sia formata da notevoli individualità, che poi suonano meravigliosamente insieme. E così – merito anche del Direttore, ovviamente - è stato anche ieri sera.

16 aprile, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°30

 

Nella settimana pasquale è ormai tradizione de laVerdi proporre una delle Passioni bachiane: ad anni alterni la monumentale Matthäeus e la primigenia Johannes, che è di turno quest’anno. Sul podio, come sempre, Ruben Jais, con 30 strumentisti, 31 coristi di Erina Gambarini (tre dei quali – Daniele Caputo, Francesco Frasca e Livia Fumagalli – interpretano anche parti solistiche) e 6 solisti di canto.

Come sempre, grande successo per tutti, a conferma della levatura dei complessi de laVerdi, anche fuori dal loro tradizionale repertorio otto-novecentesco. E non a caso, oltre alle due serate del programma ufficiale dell’Orchestra, questa sera (mercoledi 16) la Johannes-Passion verrà replicata in Cattedrale, alle ore 20:30, con ingresso libero, nell’ambito dei Dialoghi di Quaresima 2014.   

E proprio l’Arciprete del Duomo di Milano, Gianantonio Borgonovo, ci fa notare, sul programma di sala, la stretta corrispondenza riscontrabile fra la struttura narrativa del racconto giovanneo e quella del testo dell’opera di Bach.




12 aprile, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°29

 

Sappiamo che Zhang Xian è venuta su (musicalmente parlando) in casa di Lorin Maazel (a NewYork) e che dal Maestro e mentore ha mutuato approccio e stile direttoriale. Così deve aver deciso di festeggiare le sue (di lui!) recenti 84 primavere per metterne in programma il pastiche sul Ring

Solitamente questa trovata del simpatico Lorin viene condannata senza appello per i reati di vilipendio e scempio di capolavoro. Raro invece che gli stessi reati vengano imputati a registi che impiegano il Ring (o altri consimili capolavori) per farsi i cazzi loro i loro belli affari a buon mercato e a spese di tutti: opera, autore e pubblico. Amen.

Detto ciò bisognerà pur riconoscere a Maazel almeno l’onestà intellettuale di non pretendere di spiegarci in 75 minuti di soli suoni ciò che Wagner racconta in 15 ore di musica, canto, testi e didascalie (gli ultimi due sostantivi sono per i registi di cui sopra). Lui ha semplicemente messo insieme una suite del Ring pescando i brani di musica che più riteneva appropriati. E sulle sue scelte si può ovviamente discutere e dissentire, salvo il proporre di… vietarle!

Insomma, nessuna pretesa di surrogare l’originale, ma solo l’opportunità offerta al pubblico di ascoltare della musica che è grande di per se stessa e – perchè no! e per chi il Ring lo conosce almeno un filino – di vivere un piacevole amarcord, riandando mentalmente alle emozioni che si provano quando si ascolta un Ring vero. Immagino (potrei sbagliare) che proprio pensando a quest’ultima fascia di ascoltatori Maazel abbia voluto rispettare rigorosamente, nella sua antologia, la sequenza drammaturgica originale: considerandomi appartenente a quella fascia, gliene sono sommamente grato.

E allora vediamo cosa ha scelto per noi il maestro della Xian (lo specchietto sottostante riassume in modo sintetico le componenti principali del lavoro, con riferimento sonoro ad un’incisione dello stesso Maazel con i Wiener, ascoltabile sul tubo):



Intanto, un’occhiata alla distribuzione dei tempi (per quanto possa valere, intendiamoci): dei 75 minuti totali, Rheingold ne occupa meno di 12; Walküre meno di 17; Siegfried circa 7 e Götterdämmerung i restanti 40 minuti. Che dire? Che Maazel ha sfacciatamente privilegiato il Crepuscolo a scapito degli altri drammi, e soprattutto di Siegfried?  

Possiamo intanto notare come l’inizio e la fine dell’universo wagneriano vengano presentati praticamente nella loro completezza; così come il Rheinfahrt e la Trauermarsch, che sono classici pezzi da antologia.

Dal punto di vista strettamente musicale, Maazel ha cercato di cucire i pezzi nel modo più… indolore possibile: qua e là peraltro emergono inevitabilmente delle soluzioni di continuità, avvertibili anche da un non-esperto-wagneriano.

In definitiva, un lavoro che non ha pretese stratosferiche e che va – secondo me – apprezzato per quel che è e non disprezzato per ciò che non è e non avrebbe mai potuto essere.
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In questa occasione, chissà, forse per non… esagerare, Xian ha pensato bene di proporre un bigino-del-bigino! Rispetto ai contenuti elencati più sopra, ha cassato tutta la parte del primo atto della Walküre e le ultime battute (tema del Patto) dopo l’addio di Wotan. Poi ha anche eliminato tutta la parte derivata dall’Atto I del Siegfried. Infine, del terz’atto di Götterdämmerung, niente Rheintöchter e niente ultimo accorato saluto di Siegfried a Brünnhilde, si è in pratica partiti dalla Trauermarsch. Il tutto è quindi durato meno di un’ora. 

Quanto ai ragazzi, loro si sono impegnati al massimo e il risultato è stato più che dignitoso… date le circostanze. Del resto il gene wagneriano non è qualcosa che si possa acquisire dall’oggi al domani: una interessante esperienza per loro e una serata tutto sommato rilassante per noi che li siamo stati ad ascoltare.

09 aprile, 2014

Il Berlioz di Pappano da Radio3

 

Dunque ieri la coppia Pappano-McVicar ha debuttato alla Scala importandovi (da Londra) Les Troyens. Radio3 ha diffuso in diretta questa prima, consentendoci almeno di prendere dimestichezza con l’interpretazione musicale dell’ipertrofico dramma di Berlioz (quanto allo spettacolo per gli occhi… vedremo più avanti).


A mio modesto parere il trionfatore della serata è stato Antonio Pappano, che ha guidato le sterminate masse orchestrali e vocali con una chiarezza assoluta; nulla gli è sfuggito (e ci ha fatto sfuggire) dei segreti di questa partitura: dalle macro-strutture ai minimi dettagli, dalle enfatiche scene corali alle sfumature dei passaggi più intimistici. Insomma, ha compiuto il miracolo di valorizzare al meglio un’opera che è facilissima da banalizzare se non la si padroneggia come si deve. E a parte un paio di ritornelli nei balletti dell’Atto quarto, non ha tagliato una sola battuta di musica.

Col beneficio del dubbio (legato alla ripresa audio) la Antonacci e la Barcellona mi pare abbiano ben figurato nei due ruoli principali: non giudico per ora l’aspetto strettamente vocale (la tecnologia fa sempre brutti scherzi…) ma la grande cura della dizione e dell’espressione che entrambe hanno mostrato, ciascuna nel proprio ruolo (e sono due ruoli abissalmente diversi). Forse mi aspettavo di più da Kunde, dico la verità: ho avuto l’impressione che sia arrivato in-riserva alla grande (e obiettivamente micidiale) aria del quinto atto.

A giudicare da ciò che si è udito per radio, pareva di essere al MET: tifo letteralmente da stadio, cosa assolutamente inconsueta per la Scala e per una prima in particolare! Meglio così.

08 aprile, 2014

Les Troyens sont arrivés… sous la Madonine!

 

Questo pomeriggio la Scala ospiterà – diffusa in etere da Radio3, 17:30 - la prima di quel gran polpettone (smile!) di Hector Berlioz noto con il titolo Les Troyens. Si tratta di una acclamata produzione albionica del 2012 (già disponibile in DVD) alfieri Pappano e McVicar, che ne sono responsabili anche qui da noi.


Segnalo al proposito la presentazione, corredata da interessanti ascolti, del venetiofobo (strasmile!) Amfortas.
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Dei 12 libri del poema di Virgilio, che spaziano dal naufragio che spinge la flotta troiana verso Cartagine fino al definitivo insediamento di Enea nei luoghi dove sorgerà Roma - e in più contengono una serie di flash-back sugli eventi trascorsi, a partire dalla truffaldina presa di Troia da parte di Ulisse&C - Berlioz di fatto ne utilizzò in modo sostanziale soltanto due (II e IV) e in più prese pochi spunti da pochi altri (I, III, V e XII). Ristrutturò poi il tutto in quella che divenne quasi forzatamente – date le dimensioni - una dilogia (La prise de Troie e Les Troyens à Carthage, opere separatamente citate ancora nel suo testamento!) che si fatica a rappresentare in un unico corpo di 5 atti (due per la prima parte e tre per la seconda) avendo una durata netta di circa 4 ore (tipo Parsifal, per intenderci…)

Nelle intenzioni di Berlioz doveva essere un grand-opéra, dove infatti troviamo pletoriche masse orchestrali e ancor più affollate masse vocali, frequenti interludi con balletti, sfilate civili o militari, spettacolari fenomeni naturali, apparizioni di creature dall’oltretomba e/o dall’Olimpo… Peccato però che proprio il Teatro per il quale era stato immaginato – l’Opéra, che di quel genere di spettacolo era la sede unica ed ideale - mai lo produsse, dando all’Autore una delle più cocenti delusioni della sua carriera. Ai suoi tempi lo stesso Berlioz riuscì a fatica a farne rappresentare (1863) solo la seconda parte, e per di più barbaramente mutilata a fronte delle richieste del patron del Théâtre Lyrique, Léon Carvalho.
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Come si vede dalla mappa, ai tempi del Re Sole il povero Enea, già arrivato a Trapani e da lì dirottato a sud dalla tempesta scatenata dalla perfida Giunone, prima di trovar rifugio presso Didone doveva scendere sotto Malta e arrivare quasi alla Sirte, per poi risalire verso Cartagine. (A proposito di Didone, in Francia circola uno scioglilingua che recita Didon dîna, dit-on, du dos dodu d’un dodu dindon. In italiano ovviamente si perde buona parte dell’effetto dell’allitterazione: Didone desinò, si dice, col dorso grassottello d’un tacchino paffutello).

Evidentemente ad Enea non era bastato il già interminabile viaggio da Troia verso la meta laziale, che solo l’ostinazione ad andar per mare gli aveva fatto mancare in un primo tempo! Dico, dopo aver girato in lungo e in largo tutto l’Egeo e lo Ionio era arrivato dalle parti di Taranto: gli bastava vendere le sue precarie bagnarole e acquistare solidi carri e cavalli e la foce del Tevere sarebbe stata a (soli) 600Km di distanza. Invece lui ne dovette fare – via mare e rischiando continuamente di rimetterci le penne – almeno altri 3000 prima di arrivare a destinazione.

E meno male che a Giunone, o chi per lei, non venne l’idea di costringerlo a bordeggiare in senso orario anche tutto il Mediterraneo, passando per Algeri, Gibilterra, Valencia, un giretto attorno alle Baleari, Barcellona, Marsiglia, Genova, poi un otto fra Corsica e Sardegna prima di risalire verso il Lazio: sarebbe morto di sicuro molto prima di arrivare alla meta… noi non saremmo discendenti suoi, ma di qualche rutulo da strapazzo, Virgilio avrebbe avuto un altro nome e invece dell’Eneide in latino avrebbe scritto la Turneide in etrusco e Berlioz si sarebbe così risparmiato fatica e delusioni con i suoi Troyens!

Che invece siamo qui a goderci, almeno se così ci pare.
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La prise de Troie presenta in tempo reale – mentre in Virgilio è un flash-back - le vicende della finta ritirata greca, del cavallone lasciato in dono ai Troiani e da essi – incuranti delle profezie di sventura di Cassandra e convinti dall’orribile morte di Laocoonte - portato dentro le mura (Atto I). Poi mostra (Atto II) la disperata difesa di Enea dopo l’assalto dei greci, usciti dal cavallo, alla città, e infine il sacrificio di Cassandra e delle donne troiane, mentre Enea fugge verso la promessa Italia.

In pratica queste vicende fanno parte, nel poema di Virgilio, del Libro II, dove il poeta mantovano fa raccontare a Didone le ultime ore di Troia da Enea, già ospite della Regina dopo il naufragio provocato dalla sbifida Giunone. Qui però Berlioz aggiunge di suo pugno tutta la dettagliata scena del sacrificio di Cassandra al punto che è quest’ultima – cui nel poema sono riservati pochissimi versi – ad assurgere a protagonista assoluta della prima parte del gigantesco affresco musicale.

In più, Berlioz mette subito in risalto la missione ineluttabile che gli dèi hanno affidato ad Enea: raggiungere l’Italia (che secondo un’idea piuttosto bizzarra di Virgilio era la patria d’origine di tale Dardanus, fondatore di Troia) per edificare un nuovo e immortale impero. Ciò si materializza nell’apparizione ad Enea (inizio Atto II) dell’ombra di Ettore, che lo sollecita a fuggire verso l’Italia (nel poema - Libro III, racconto di Enea a Didone - sono i Penati ad apparire in sogno ad Enea a Creta, dove già aveva fondato, come nulla fosse, Pergamo-2, incitandolo a proseguire il viaggio) e infine nel grido (Italia!) delle donne troiane che si sacrificano alla fine della prima parte dell’opera. E questa specie di forza del destino condizionerà continuamente Enea anche nella seconda parte, fino a costringerlo ad abbandonare l’amata Didone per riprendere il suo viaggio verso l’Italia.     

I personaggi della prima parte sono: Cassandra, Corebo (suo fidanzato), Enea, Panteo (sacerdote troiano), Ascanio, Priamo, Un capo greco, L'ombra di Ettore, Eleno (sacerdote troiano, figlio di Priamo), Ecuba e i cori. Di essi ritroveremo nella seconda parte solo Enea, Ascanio e Panteo, più gli spettri di Priamo, Corebo, Cassandra ed Ettore.   

Les Troyens à Carthage ci riporta all’inizio del poema di Virgilio (Libro I) al momento in cui i Troiani chiedono asilo ed ospitalità a Didone. Qui Berlioz, avendo già utilizzato il racconto di Enea del Libro II per costruire la prima parte della sua dilogia, ne approfitta per presentarci la figura e la personalità di Didone: dapprima il risvolto pubblico, con l’omaggio trionfale dei suoi concittadini; poi quello privato (tramite il colloquio con la sorella Anna) dove scopriamo una Didone che sembra faticare a mantenersi fedele alla memoria del defunto marito Sicheo (questo è un punto assai cruciale nello svolgersi del dramma di Berlioz, come vedremo presto).

Adesso il compositore ci presenta l’arrivo di Enea travestito da umile marinaio (in Virgilio è avvolto nella sua nube magica che lo rende invisibile!) e dopo che Enea si è rivelato, l’alleanza militare – altra variante al poema di Virgilio - del capo troiano con Didone in vista della comune difesa contro le popolazioni barbariche africane, guidate da Iarba, che minacciano Cartagine. È proprio su questa chiamata alle armi che si chiude l’Atto III. Ma a proposito di Iarba (che Didone aveva poco prima accusato di ferocia) va sottolineato che è Berlioz a farne un cattivone incivile, proprio per supportare il successivo intervento di Enea al fianco dei cartaginesi: in Virgilio Iarba è persona tutto sommato abbastanza mite, è a capo delle popolazioni per nulla incivili che abitavano da sempre quei luoghi e addirittura ha fornito a Didone i terreni su cui fondare Cartagine; semplicemente non comprende perché la Regina abbia rifiutato lui e invece accolga ora a braccia aperte Enea!

Il resto dell’opera prende lo spunto dal Libro IV del poema virgiliano: l’Atto IV tratta dell’innamoramento di Enea e Didone e l’Atto V della partenza di Enea e del sacrificio della Regina.

In questa seconda parte del colossale dramma, troviamo altre significative novità introdotte da Berlioz rispetto al contenuto del poema. In Virgilio abbiamo il seguente succedersi di fatti: poco dopo l’arrivo di Enea a Cartagine (Libro I) Venere (sua madre!) prepara il terreno per il futuro innamoramento di Didone per il figlio inviando Cupido, travestito da Ascanio, presso la Regina, con il compito di farle dimenticare innanzitutto il defunto marito Sicheo, cui lei aveva giurato fedeltà. (E qui siamo nel campo della pura mitologia, che già il pubblico di metà ‘800 faticava ormai a digerire.) Poi Virgilio fa seguire il racconto dell’incredibile e avventurosa storia della fine di Troia e delle peregrinazioni di Enea (Libro II e Libro III) il che fa definitivamente innamorare Didone dell’ospite troiano (Libro IV).

Ecco, Berlioz deve aver pensato – come dargli torto! – che questo plot fosse piuttosto deboluccio, e quindi decise di alzarne il livello drammatico con alcune sue personali intuizioni-invenzioni.

Abbiamo visto già come ci abbia da subito presentato  - inizio Atto III, colloquio con Anna - una Didone ormai psicologicamente propensa ad un nuovo legame affettivo, prima ancora di incontrare Enea e senza ridicoli interventi di entità… metafisiche. Poi l’aiuto materiale che l’eroe troiano le offre - determinante per sconfiggere gli assalitori barbari (invenzione di Berlioz) - fa evidentemente e plausibilmente aumentare la sua stima e considerazione nei confronti dell’ospite. Infine, la goccia che fa traboccare il vaso: Berlioz colloca nell’Atto IV, dopo la scena galeotta della caverna e del temporale e durante la festa nei giardini della Regina, il racconto (altrettanto galeotto) di Enea riguardo le vicende della povera Andromaca, vedova di Ettore e poi andata sposa (secondo Berlioz, non Virgilio, e per amore, non per forza) a Pirro, uccisore di suo padre Priamo e figlio dell’uccisore di suo marito! Della serie: ecco un esempio da seguire… (non so se mi spiego!)

Infine Berlioz aggiunge di sua invenzione anche un particolare frivolo, ma davvero geniale: fa sfilare da Ascanio (quello vero…) l’anello di Sicheo dal dito di Didone, anello che la Regina non degnerà più della minima attenzione! Idea venutagli sicuramente dal quadro di Guérin:


Beh, davvero tanto di cappello al Berlioz drammaturgo, oltre che al sommo musicista!

I personaggi della seconda parte sono: Enea, Panteo, Ascanio, Narbal (ministro di Didone), Iopa (poeta alla corte di Didone), Didone, Anna, Ila (marinaio frigio), Gli Spettri di Corebo, Cassandra, Priamo, Ettore, Il dio Mercurio, Un sacerdote di Plutone, Prima sentinella, Seconda sentinella e i cori.
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Dal punto di vista musicale Les Troyens presenta la classica suddivisione in numeri chiusi, caratterizzati dai consueti titoli: recitativo, aria, duetto, coro, marcia, pantomima, finale, ecc. Si noti che i recitativi sono sempre accompagnati (di fatto sono degli ariosi) tanto che i numeri strutturati come Recitativo e Aria, essendo di norma l’Aria a sua volta bipartita, si potrebbero vagamente ricondurre alla solita forma (come la chiamava Verdi) cioè Tempo d’attacco – Tempo di mezzo - Cabaletta. Berlioz in effetti alla forma ci teneva molto e criticava anche aspramente Wagner (di cui però si interessava assai e del quale si procurava le partiture) per aver rotto proprio le forme tradizionali del melodramma. Dopodichè però smussava un filino gli… spigoli, chiudendo spesso e volentieri (non sempre) il numero con transizioni soft, invece che con i classici accordi ribattuti o cadenze o enfatici crescendo e schianto finale: insomma, anche lui dava il suo piccolo contributo all’innovazione. 

Quanto alla macro-struttura, abbiamo una suddivisione in cinque atti e nove quadri (1-2-1-2-3) ma quando l’Autore si rassegnò all’idea di due opere da rappresentarsi anche separatamente modificò la struttura di entrambe le parti: così La Prise de Troie fu distribuita su tre atti (di quasi uniforme durata – 30’) e quattro quadri (1-1-2) e Les Troyens à Carthage su quattro atti e cinque quadri (1-1-1-2) più un Preludio aggiunto appositamente. Oggi questa versione non è più impiegata, essendo divenuto usuale rappresentare l’opera in un'unica serata, tuttavia alcune tracce musicali di essa vengono a volte ripescate.

In assenza di una vera e propria Ouverture, La Prise de Troie presenta una breve introduzione strumentale e il coro di apertura sostenuti (salvo pochi pizzicati di archi) dai soli fiati: gli strumentini a creare l’animazione di fondo con le loro sestine ribattute; fagotti e cornette, poi i corni a scandire la brillante melodia. Ciò per dare proprio l’idea dello scenario en plein air che si apre agli occhi dello spettatore: il popolo troiano che finalmente può uscire dalle mura in cui era rinchiuso da 10 anni! Scenario completato dalla presenza, sulla tomba di Achille, di tre flauti doppi antichi (oppure tre oboi) che si fanno udire per la prima volta, soli, alla battuta 13. Si noti che dopo le prime 30 battute puramente strumentali le sezioni del coro entrano con semplici esclamazioni (Ah! anticipate poco prima e sostenute ora dall’inciso dei tre flauti doppi) per altre 11 battute, mentre il popolo comincia a danzare. Tutto ciò a sipario ancora chiuso (si dovrebbe alzare a battuta 42 sulle prime parole - Quel bonheur… - del coro femminile).

L’intero primo atto è un susseguirsi e un alternarsi fra grandi scene di massa e di esultanza generale e drammatici squarci di allarme o di cupa disperazione, dei quali sono protagonisti Cassandra (in primissimo luogo) Corebo ed Enea

Alla prima sezione del coro (N°1, Coro del popolo troiano, in 6/8) che è una specie di saltarello, proprio di gente che dà libero sfogo alla gioia per la riconquistata libertà, ne segue una seconda (in 2/4) dal piglio canzonatorio verso i Greci (Quels poltrons que ces Greques) durante la quale la cornetta a pistoni in LA, riprendendo il motivo esposto inizialmente dai legni, sembra proprio voler irridere i nemici, con impertinenti sberleffi:



Dopo che si è sparsa la voce del cavallone lasciato dai greci sulla riva dello Scamandro, e mentre tutti i curiosi là si dirigono, sull’accordo acuto di SOL maggiore che chiude il coro entra (N°2, Recitativo e Aria) la protagonista assoluta della prima parte dell’opera, Cassandra, con un recitativo accompagnato (Les Grecs ont disparu!) che apre in DO minore e ha l’austerità, la nobiltà e la profondità di Gluck o di Händel; perfettamente appropriato ad esprimere l’agitazione che pervade il suo animo. Già l’introduzione – che coincide con la prima comparsa piena degli archi - è di una drammaticità impressionante:



In particolare il successivo martellante accompagnamento delle viole fa pensare all’apertura del second’atto di Fidelio, mentre Cassandra manifesta i suoi timori: ha visto l’ombra di Ettore aggirarsi sui bastioni scrutando il mare quasi a sondarvi la persistente presenza del nemico, ora vede il suo popolo che si dà alla pazza gioia, addirittura guidato stoltamente dal suo stesso Re. Il recitativo si chiude con la ripresa variata dell’agitatissima introduzione.

L’aria che segue (Malhereux Roi) è davvero strabiliante, in forma tripartita: dapprima (MIb minore) Cassandra impreca contro Re Priamo, suo padre, che non le dà ascolto. Poi (SIb e MIb maggiore) ricorda l’amato Corebo, che pure la crede impazzita. Infine riprende il Malhereux Roi, adesso in maggiore. Alla fine dell’aria, sull’invocazione a Corebo, ecco un inciso per terze dei flauti, nel silenzio generale, che viene da molto lontano (scena lirica La Mort de Cléopâtre, 1829) compresa la tonalità:


Ora abbiamo il duo Cassandra-Corebo (N°3, Duetto) che in realtà è assai complesso ed articolato, comprendendo recitativi, cavatine e ariosi: in tutto dura più di un quarto d’ora… non siamo proprio al second’atto di Tristan, ma poco ci manca! Certo però non è il classico duetto d’amore, ma un drammatico confronto fra due individui che hanno proprio visioni diverse della realtà: tornando a Wagner, ricorda piuttosto le scene fra la disperata Sieglinde e l’ottimista Siegmund del second’atto di Walküre.

Dapprima abbiamo un recitativo, introdotto da un ritornello nei violini che ricompare successivamente, in cui Corebo sembra rimproverare a Cassandra la sua testardaggine nel non voler partecipare alla gioia per la vittoria (sei avvinta inestricabilmente alle tue convinzioni, le dice, proprio come un’amadriade si attacca simbioticamente al suo albero) e dove la donna lo implora di abbandonarlo, poiché sta arrivando l’ora della morte, non dell’amore. E qui Corebo canta un’accorata cavatina (Reviens à toi) in MI maggiore, tempo Larghetto in 3/4, che riprenderà dopo il recitativo di Cassandra (Tout est menace) dove la profetessa – al riapparire di incisi che aprivano e chiudevano il suo grande recitativo d’esordio - esterna tutte le sue tragiche visioni: i nemici ritornare, fiumi di sangue scorrere nella città e una spada greca trafiggere il fianco di Corebo. Una scena di straordinaria drammaticità, tutta costellata da brevi esclamazioni della donna intervallate da pesanti interventi dell’orchestra.

Alla fine della ripresa della cavatina di Corebo (che Cassandra ora contrappunta con le sue angoscianti visioni di morte) i violini chiosano con un inciso che sa molto di… Fantastique!


Ancora un dialogo in recitativo (Si tu m’aimes, va-t’en!) con la reiterazione dell’invito di Cassandra a Corebo di fuggire e la risposta dell’uomo che mai e poi mai potrebbe abbandonarla. Qui Corebo canta un arioso in FA maggiore (Mais le ciel et la terre) in cui esprime tutto il suo ottimismo e la speranza nel futuro di pace (una visione del futuro quasi panica, la sua).

Dopo che Cassandra ha ancora ribattuto, in recitativo, le sue mortali profezie (Signes trompeurs!) ecco il vero e proprio duo (Quitte-nous dès ce soir!) in SI maggiore, basato su questo motivo:



Cassandra e Corebo cantano una strofa ciascuno (lei implorando lui a fuggire, lui ribadendo di voler restare al suo fianco) come soggetto e controsoggetto; poi cantano insieme, per terze, i rispettivi versi, chiusi dal ritornello iniziale, cui segue un ennesimo dialogo in recitativo (Si de ton noble amour) dove ascoltiamo un ultimo batti-e-ribatti fra i due; quindi il motivo principale, ancora insieme, conduce al definitivo dialogo, l’estremo conflitto parti-resto, dopodiché Cassandra abbraccia Corebo (Eh bien! Voilà ma main) consapevole della fine imminente, e chiude il numero con un SI acuto sul demain.

Nella versione in tre atti, qui termina il primo, con pesanti accordi di SI maggiore; il secondo inizia a sua volta con 9 battute puramente orchestrali che introducono, anticipandone il tema, la marcia cantata dal coro. Invece nella versione standard le 3 battute di chiusura del duetto sono rimpiazzate da 7 battute, 5 che reiterano il ritornello iniziale e 2 che, in diminuendo, preparano la transizione da SI maggiore al DO maggiore successivo, dove la marcia attacca subito con il coro. Talvolta il Direttore decide, anche nelle esecuzioni complete, di impiegare la componente strumentale della versione in tre atti, la cui soluzione di continuità alla fine del duo magari consente al pubblico di applaudirne i protagonisti, prima che si passi oltre…

Siamo infatti arrivati (N°4, Marcia e inno) ad un’altra scena di popolo (Dieux protecteurs de la ville éternelle): una cerimonia di ringraziamento agli dèi - dove sfilano Ascanio e i fanciulli, Ecuba e le principesse (qui sembra di sentire il… Walhall!) Enea e i guerrieri, Priamo e i sacerdoti - che si presenta con i caratteri di una marcia solenne (Allegro moderato e pomposo prescrive Berlioz). La tonalità è ondivaga, passa dal DO maggiore al minore e poi, tramite la sesta napoletana, al LAb maggiore e FA minore; il tutto conferisce alla marcia un sapore arcano, quasi che il corteo dei troiani voglia manifestare allo stesso tempo l’orgoglio per la vittoria nella guerra e il lutto per i caduti che tale vittoria ha reclamato, oltre che un vago presagio dell’imminente catastrofe:



Curiosa la meticolosità con cui Berlioz prescrive il trattamento delle percussioni dove, oltre a timpani, tamburo, tamburo rullante e gran cassa, sono richiesti, al momento dell’entrata di Enea: una vera e propria batteria di triangoli, che devono emettere suoni di altezza diversa (precisamente SOL-FA-DO-SI-LA-FA#-RE) e dei sistri antichi, per dare un suono metallico e conferire ulteriore pesantezza alla marcia dei soldati. Sul piano letterario, da notare il termine Ville éternelle che Berlioz impiega per descrivere Troia, ma con un chiaro riferimento a… Roma!

Alla marcia segue (N°5, Pugilato e passo dei lottatori) un siparietto proprio del grand-opéra: una scena di pugilato e danza di lottatori. È un classico passo di balletto, in 3/8 con un inserto in 5/8 e diverse possibilità di da-capo (corti-lunghi) che consentono di allungare o restringere il brodo a discrezione di direttore e regista.

Ma ora arriviamo ad un altro dei momenti topici di questo primo atto (N°6, Pantomime) che ha come protagonisti (muti) Andromaca e il figlioletto Astianatte, con il coro a descrivere mestamente questi momenti pieni di umano dolore. In tonalità di FA# minore, è il clarinetto solo ad accompagnare stupendamente l’intera scena, supportato sommessamente dagli archi: l’arrivo di Andromaca, col figlioletto che depone fiori ai piedi dell’altare, la preghiera dei due, poi il bimbo portato dinanzi ai regnanti che lo benedicono (solo qui gli ottoni entrano brevemente, in presenza della figura di Priamo, con cadenze che ancora ricordano vagamente il Walhall). Poi il fanciullo torna a rifugiarsi fra le braccia della madre, mentre le lacrime scendono sui volti delle donne troiane che si stringono ai loro uomini. La Pantomime si conclude con una nuova cupa profezia di Cassandra per Andromaca (morte per il figlio e cattura per la madre): sono i violoncelli soli, suonando la quinta vuota (FA#-DO#) e poi la terza minore (FA#-LA) ad accompagnare le ultime meste esalazioni (RE-DO#) del clarinetto e l’ultimo Ah! del coro.

A questo punto Berlioz aveva originariamente inserito la scena di Sinon (il finto traditore greco che, secondo Virgilio, convince i troiani a portare il cavallone dentro la città). Il testo, derivato dal Libro II dell’Eneide, mette in bocca a Cassandra la famosa frase (di Laocoonte) Timeo Danaos et dona ferentis, e mette più in risalto la figura di Priamo, nell’interrogatorio del greco. Nel 1861 il passaggio fu espunto dalla partitura (e addirittura distrutto o messo chissà dove) da Berlioz, che evidentemente ne aveva una considerazione assai scarsa, e da lui mai più recuperato in seguito. Ne è stata trovata traccia solo in uno spartito per voce-pianoforte, dal quale nel 1986 il musicologo Hugh Macdonald ha ricostruito la partitura, che talvolta viene quindi reinserita (piuttosto surrettiziamente, per la verità) nel corpo dell’opera.

Che invece prosegue con una nuova irruzione drammatica (N°7, Recitativo): è Enea che arriva trafelato, cantando un recitativo accompagnato (Du peuple et des soldats) in cui narra l’orribile fine di Laocoonte, stritolato e incenerito dai due serpenti marini dopo che aveva scagliato la sua lancia contro il cavallone, incitando la folla a dargli fuoco. La tonalità è FA# minore, che poi vira alla relativa LA maggiore per la chiusura. Da notare le ondulanti semiminime con cui fiati e contrabbassi accompagnano il tentennare della folla prima e l’irrompere poi dei due rettili (qualcosa di simile al wagneriano motivo del drago). Pare che Berlioz avesse intenzione di comporre anche una barcarola (!) per dipingere l’arrivo dei serpenti…

Segue ora il N°8 (ottetto e doppio coro) Châtiment effroyable!: a cantarlo sono Cassandra, Corebo ed Enea (che già avevamo ascoltato) più altri cinque personaggi che finora erano soltanto apparsi in scena, ma senza cantare: Priamo, Panteo, Eleno, Ascanio ed Ecuba. Più il coro che alla ripresa, sull’imprecazione di Cassandra (Ô peuple déplorable!) si sdoppia in due (soprani I e tenori a destra; soprani II, contralti e bassi a sinistra). L’atmosfera è come sospesa, la tensione si taglia davvero col coltello, enorme è l’impressione che quell’evento straordinario ha lasciato in tutti: basti pensare che le parole Mystérieuse horreur sono cantate su un inciso che vira dal FA# d’impianto al DO (lo sbifido tritono!)

Il N°9 (Recitativo e coro) è un nuovo recitativo di Enea (Que la déesse nous protège) seguito dal coro (nella versione originaria, con la scena di Sinon, il protagonista qui era Priamo, mentre Enea era assente): Enea invoca la protezione di Pallade e invita il popolo a trascinare il cavallone dentro le mura. Cassandra non manca di avvertire il pericolo, mentre entra il coro che, insieme a sei dei protagonisti del precedente ottetto (mancano la stessa Cassandra ed Ascanio) chiede enfaticamente perdono alla dea.

Ora abbiamo una nuova aria di Cassandra (N°10 Non, je ne verrai pas la déplorable fête): in gran parte pervasa da un autentico tumulto che invade il suo animo, magistralmente evocato dagli incisi degli archi e dagli interventi in sincope dei tromboni:


Subito prima delle parole Ô cruel souvenir il clarinetto intona un dolcissimo tema ascendente, che supporta il rimpianto di Cassandra per la possibile felicità (con l’amato Corebo) e per la gloria patria ormai compromessa. L’invocazione ai due uomini della sua vita (l’amante e il padre) Ô Chorèbe, Ô Priam è supportata dal succedersi di intervalli di un tono intero (RE-DO) che successivamente degradano al semitono, fino al REb-DO che sottolinea le lacrime che inondano il suo viso, mentre il tremolo degli archi accompagna le meste terze dei clarinetti. 

Sulle quali si apre il Finale con la Marcia troiana (N°11). Qui Berlioz ha davvero cercato degli effetti speciali, proprio da grand-opéra, piazzando ben tre gruppi orchestrali e due corali dietro la scena, mentre Cassandra sta al proscenio, quindi vicino all’orchestra in buca. Per sincronizzare al meglio i diversi gruppi di esecutori, Berlioz suggerisce in partitura che il Direttore faccia uso di un metronomo elettrico a tre fili, uno strumento inventato proprio in quegli anni dal belga Joannes Verbrugghe che trasmette istantaneamente ai diversi gruppi di esecutori remoti il tempo battuto dal Direttore (oggi che disponiamo di telecamere e monitor a volontà, queste diavolerie ci fanno sorridere!)  

Un’altra caratteristica peculiare di questo finale riguarda la natura degli strumenti e in particolare l’impiego della famiglia dei saxhorn (da Adolphe Sax, loro inventore, peraltro contestato…) Si tratta in sostanza di flicorni di diversa dimensione ed estensione. (Anche questa è una trovata che fa il paio con quella dell’adozione delle tubette da parte di Wagner.)

Dietro la scena e assai lontano è piazzato il primo gruppo di strumenti, composto da un saxhorn sovracuto, due trombe semplici, due cornette a pistoni, tre tromboni e un oficleide; insieme a loro i soprani I e i bassi. Sempre dietro la scena, ma meno lontano dal pubblico si trova il secondo gruppo di strumenti: otto saxhorn (due soprani, due contralti, due tenori e due contrabbassi) più i piatti. Dietro le quinte, quindi ancor più vicino, il terzo gruppo: tre flauti e sei-otto arpe (!) più soprani II, contralti e tenori. Come si vede, un armamentario incredibile, rispetto al quale impallidiscono anche certe esagerazioni wagneriane, tipo l’entrata di drappelli militari nel terz’atto del Lohengrin o le sette arpe prescritte nel Ring.

Va però sottolineato come – a differenza della citata scena del Lohengrin, dove il fracasso imperversa sovrano – qui l’obiettivo di Berlioz è quello di mostrarci e farci udire in lontananza i cortei che accompagnano il trasporto del cavallone (attenzione: che non si vede mai) in città e in primo piano le angosciate esternazioni di Cassandra, sostenute dall’orchestra in buca, contro la stoltezza del suo popolo. (Qualcosa del genere farà Bizet nel finale di Carmen: l’orchestra in buca a sottolineare la tragedia che si svolge in primo piano, e gli strumenti in scena, lontano, a celebrare il trionfo di Escamillo.) Insomma, noi spettatori abbiamo la stessa prospettiva (occhi e orecchie) di Cassandra. Non per nulla questo intero finale è stato giustamente definito come un match Cassandra-contro-tutti!

Dopo alcuni squilli introduttivi, ecco il primo gruppo di strumenti fuori scena intonare quella che prende il nome di marcia troiana, che poi risentiremo negli atti cartaginesi e proprio alla fine dell’opera:


Pare che la musica provenga da una composizione del 1853, la Marche pour la musique des Guides (che si sarebbe dovuta eseguire – ma non lo fu - in Notre-Dame in onore delle nozze di Napoleone III). Opera di cui si è perduta ogni traccia, ma che prevedeva l’impiego quasi esclusivo dei saxhorn, e questo alimenta la supposizione che Berlioz l’abbia in qualche modo ripescata facendone il sigillo dei suoi Troyens.

Sono le cornette a pistoni e il saxhorn sovracuto ad esporre per primi il tema in SIb maggiore, che presenta però, come già quello della marcia del N°4, delle alterazioni tonali, volte evidentemente a togliergli la possibile monotonia. Quanto al testo, nell’intero finale si riconoscono un ritornello e tre strofe cantati dai cori, poi – dopo l’improvviso silenzio e la suspense legata ai rumori che provengono dalla pancia del cavallone – la strofa finale dei cori. Cassandra interviene con le sue angosciate esternazioni e infine chiude da sola l’atto con il disperato prefigurare la fine della città e la propria morte.  

L’intera scena si può schematicamente suddividere così:
- Il coro associato al primo gruppo di strumenti espone dapprima il ritornello (Du roi des dieux) mentre Cassandra trasalisce (De mes sens éperdus);
- sempre il primo coro espone la prima strofa (À nos destins) e Cassandra interviene esternando la sua sorpresa all’avvicinarsi del corteo (Quoi, déjà le cortège!);
- ora, insieme al primo gruppo di strumenti si comincia ad udire anche il secondo e subito dopo gli oboi del terzo, mentre il primo coro espone il ritornello;
- entra il secondo coro ad esporre la seconda strofa (Entends nos voix) e Cassandra interviene ancora (L’éclat des chants augmente!) sempre più preoccupata, poi si odono più chiaramente gli oboi e le arpe del terzo gruppo di strumenti e ancora Cassandra che percepisce sempre più vicino il corteo che trascina  e accompagna il cavallone;
- i cori entrano in scena, a destra e sinistra, sul fondo, con i saxhorn del secondo gruppo, e insieme intonano il ritornello;
- quindi i soprani I iniziano a cantare la terza strofa (Souriante guirlande) raggiunti poi da tutti gli altri coristi;
- adesso sono il secondo e terzo gruppo di strumenti ad esporre il tema della marcia, mentre i cori ripetono la seconda parte della terza strofa (Semez sur la ramée);
- a questo punto, nell’improvviso silenzio generale, si ode il suono di parecchie coppie di piatti (sono parte del secondo gruppo di strumenti dietro la scena): mentre i bassi si domandano Qu’est ce donc? Cassandra percepisce l’agitazione della folla e diverse donne dei cori si muovono verso le quinte, come per accertarsi di cosa stia succedendo;
- tornano quasi subito e con tutto il coro (bassi esclusi!) avvertono che un sordo rumore d’armi esce dalla pancia del cavallone!
- tutti sembrano inquieti e Cassandra si domanda se per caso non si stia sospendendo la processione;
- ma i bassi (ironia: sono proprio i senatori a cadere nel tranello di Ulisse!) rincuorano tutti (Présage heureux!) e così l’intero popolo inneggia alla gloria di Troia (Fiers sommets de Pergame);
- adesso il corteo si allontana, i suoni sfumano, si odono ancora soltanto quelli del primo gruppo strumentale, e rimane in primo piano solo Cassandra.

Il finale d’atto è occupato dall’estrema esternazione della profetessa (Arrêtez! arrêtez!) che non può che constatare la propria impotenza, e l’ineluttabilità della tragedia. È un accordo di SIb minore a suggellare l’inizio della fine di Troia.

Sullo stesso accordo si apre il secondo atto, che è suddiviso in due quadri. Nel primo Quadro troviamo (N°12, Scena e recitativo) Enea addormentato nel suo letto, mentre si odono lontani suoni di battaglia. La prima parte dell’introduzione orchestrale consta di un episodio (di 10 battute) ripetuto due volte e da una chiusa di 5 battute. La tonalità è continuamente cangiante (in chiave nessun accidente…): dal SIb minore, dove archi bassi e fagotti reiterano un rapido motivo ascendente, caricando l’atmosfera di tregenda, alla quarta battuta si raggiunge il REb maggiore; alla quinta si sale al MI, dominante di LA maggiore, di cui è scandita seccamente la triade discendente, quasi ad evocare scontri e crolli; altra mutazione, su una sinistra settima diminuita, e poi tre battute delle trombe (dietro le quinte) che ritmano i loro squilli guerreschi: RE, poi SOL#.

Siamo ora in SI minore e le 10 battute si ripetono quasi identiche, solo un semitono più in alto (evidentemente la tensione là fuori sta salendo). Perciò dal SI si sale al RE, la triade è quella di SIb e gli squilli di tromba adesso scendono dal MIb al LAb. Le restanti 5 battute, mentre si alza il sipario, scendono pesantemente dal SOLb per un’ottava, sfociando in una sesta napoletana di MIb, il cui DOb prepara, per enarmonia, la tonalità di SI dell’entrata del giovanetto Ascanio, che è ben desto e accorre dal padre, forse per avvertirlo del pericolo: le rapide semicrome ondeggianti di flauti e clarinetti sembrano evocare i passetti veloci del fanciullo, che però poi si ferma e rinuncia a svegliare Enea, tornando sui suoi passi.

E qui ecco l’apparizione dell’ombra di Ettore: sono 15 battute in SIb minore, davvero rabbrividenti, col pizzicato degli archi e il tremolo delle viole  contrappuntati in sincope dai suoni chiusi dei corni e dai sordi rintocchi di timpano, che accompagnano la figura dell’eroe troiano, morto in battaglia per mano di Achille, che ora avanza con passi lenti verso il letto di Enea, dove resta un attimo a contemplarlo in silenzio, con un sospiro.

Un tremendo accordo di tutta l’orchestra, rappresentante secondo Berlioz un ennesimo e più forte crollo di mura, sveglia Enea che si trova di fronte la figura di Ettore. Che lui accoglie esternandogli grandi lodi per i suoi meriti verso Troia e chiedendogli cosa lo spinga lì. Il suo recitativo è accompagnato dal tremolo degli archi e si chiude con una potente figura di semicrome ascendenti e discendenti in archi bassi e fagotti, sul ritmo sostenuto da corni e trombe.

Il recitativo di Ettore, prescrive Berlioz, deve procedere in continuo diminuendo (del volume del suono) e la sua voce deve come sparire a poco a poco. Inoltre i versi sono cantati su una serie di note ribattute e sempre cromaticamente decrescenti, per un’ottava esatta: SIb-LA-SOL#-SOL-FA#-FA-MI-MIb-RE-REb-DO-SI-SIb (qui sotto, dove il colore cambia, la voce cala di un semitono):

Ah!... fuis, fils de Vénus! l’ennemi tient nos murs!
De son falte élevé Troie entière s’écroule!
Un ouragan de flammes roule
Des temples aux palais ses tourbillons impurs...
Nous eussions fait assez pour sauver la patrie
Sans l’arrêt du destin. Pergame te confie
Ses enfants et ses dieux. Va, cherche l’Italie...
Où pour ton peuple renaissant,
Après avoir longtemps erré sur l’onde
Tu dois fonder un empire puissant,
Dans l’avenir, dominateur du monde,
Où la mort des héros t’attend.

L’accompagnamento è mesto e solenne, poche note chiuse dei corni, pizzicato e tremolo degli archi. L’ombra di Ettore se ne va così com’era comparsa, accompagnata per 7 battute dalle stesse cupe figure del suo arrivo.

Chi arriva invece ora (N°13, Recitativo e coro) è Panteo, ferito e annunciante la terribile realtà: il cavallone ha partorito il commando che ha sopraffatto le guardie ed ha aperto le porte di Troia alle legioni nemiche! Ascanio aggiunge altre brutte notizie, poi arriva anche Corebo che invita Enea a difendere la cittadella assediata, che per ora resiste. Si aggiunge anche il coro (tenori e bassi) e tutti si mettono in marcia per l’estremo combattimento. Le folate degli archi e dei legni evocano le fiamme che ormai stanno avvolgendo la città, mentre gli ottoni esplodono suoni di scontri e battaglie. Enea chiude il suo appello su un SIb maggiore acuto, ma poi la scena si chiude ancora in SIb minore, con pesanti accordi cui segue immediatamente il tremolo degli archi che introduce direttamente il secondo Quadro dell’atto.           

Ci siamo trasferiti nel palazzo reale, nei pressi di un altare di Vesta, dove stazionano in preghiera Polissena e le donne troiane (N°14, Coro e preghiera). Interessante notare la melodia del coro:


Intanto la salita dal SOL al REb, che configura – sul SOL tenuto degli strumentini e del tremolo degli archi - un tritono e veste quindi la scena di cattivi presagi; poi la scala ascendente ipofrigia di LAb (SOL-LAb-SIb-DO-REb-MIb-FA-SOL) che conferisce al coro un tono  implorante quanto rassegnato. Qua e là gli archi emettono folate che richiamano lontani echi di incendi e distruzioni; verso la fine del coro anche le trombe si fanno udire, ricordando che è in corso una battaglia.

E proprio sull’eco dell’ultimo squillo ecco arrivare Cassandra (N°15, Recitativo e coro) preceduta dal motivo che già ne aveva sottolineato la drammatica entrata nel primo atto. Annuncia alle donne che non tutto è perduto, almeno la cittadella è stata liberata e il tesoro di Priamo è in mano di Enea (queste imprese eroiche sono invenzioni di Berlioz, Virglilio la racconta diversamente). I loro uomini sono ormai fuori della portata del nemico e l’Italia è la loro meta: qui c’è un temporaneo trionfalismo, in DOb maggiore, che però scema subito (al minore) allorquando Cassandra piange – con i clarinetti! - la morte di Corebo e annuncia la propria, ormai imminente.

Ma adesso Cassandra vuole da tutte l’estremo sacrificio (Mais vous, colombes effarées) e quasi rimprovera le meno convinte di volersi disonorare, soggiacendo al nemico. Lo fa sostenuta da una variante del motivo che la caratterizza, mentre gli strumentini incalzano con note ribattute in terzine. È una scena davvero drammatica, un vero e proprio confronto fra la sacerdotessa inflessibile e alcune delle donne che evidentemente sono meno coraggiose di lei (e tengono alla propria pelle…) Ma la maggioranza pare sia con lei, pronta a morire.

Così inizia il Finale (N°16) dove le donne convinte al sacrificio (Complices de sa gloire) imbracciano le lire (e due arpe entrano subito in azione) inneggiando (in LAb maggiore) a Cassandra, pronte a seguirla. Ma la profetessa interroga ancora le poche indecise, sbeffeggiandole, invitandole a correre dai nuovi padroni greci e infine scacciandole con ignominia.

Siamo passati in LA maggiore (un semitono sopra la precedente esternazione!) e il coro riprende, con Cassandra, il ritornello Complices de sa gloire. Arrivano anche dei soldati greci, che rimangono sbigottiti dall’atteggiamento delle donne, poi reclamano il tesoro. Per tutta risposta, siamo ora in tonalità di FA, Cassandra per prima si ferisce, poi invita le altre a fare lo stesso.

Ai greci costernati alla constatazione che Enea e i suoi sono ormai lontani con il tesoro, Cassandra e le donne, morenti, cantano in faccia un trionfale Italie! Italie! Poi Cassandra cade morta, le donne si suicidano a loro volta e tutto precipita (sembra quasi il finale dell’Harold) dal FA in un colossale DO minore dell’intera orchestra.

Ecco, oltre che per motivi strettamente drammaturgici (la totale distanza di tempi, luoghi e - per massima parte – personaggi rispetto a Les Troyens à Carthage) anche da quello musicale ed estetico l’idea di considerare e rappresentare La Prise de Troie  come un’opera autosufficiente non è proprio balzana, anzi non sarebbe male farne un atto unico (una specie di Elektra, per intenderci) il che le conferirebbe ulteriore potenza drammatica.
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Les Troyens à Carthage si aprirebbe, se eseguita da sola, con un Preludio di 70 battute in FA maggiore che Berlioz compose proprio per la prima rappresentazione, qualcosa che assomiglia ad una marcia funebre (evidentemente in memoria della caduta di Troia) e che presenta, allargato assai, il tema del duo fra Cassandra e Corebo all’inizio della prima parte. Dopo questo preludio Berlioz fece anche comparire al proscenio un rapsodo per riassumere i fatti trascorsi, ed eseguire dietro la scena parte della Marcia troiana… In compenso tagliò il coro iniziale.

È invece con questo Coro (N°17, De Carthage les cieux) che si apre il terzo atto dell’opera normale, nei giardini di Didone. La tonalità di MIb è appropriata all’evento di festa che si apre ai nostri occhi, in una giornata splendida, dopo una di grandi tempeste e mareggiate (ne sanno qualcosa Enea e i suoi!) ed è però anche la tonalità relativa del truce DO minore con cui si era chiusa La Prise de Troie. Il tempo è 12/8 (simile a quello del coro iniziale dei troiani, 6/8) e la melodia vagamente rimanda alla stessa Marcia troiana:



Si noti l’accompagnamento dei timpani, che sembrerebbe più adatto ad una tonalità di SIb (dominante di quella d’impianto): ma ciò contribuisce (come sempre, in Berlioz) a togliere effetti banali a questo genere di brani.

Il coro fa da introduzione al N°18, Inno nazionale. È il Canto nazionale cartaginese (Gloire à Didon) introdotto da un’ardita modulazione a SOL maggiore e cantato su tempo Maestoso, non troppo lento, 3/2. Potrà sembrare anche pacchiano e dozzinale (oltretutto con il da-capo degli ultimi 3 dei 4 versi) e la cadenza di chiusura è invero… esagerata, ma è proprio Didone a spiegare le ragioni di tutta questa pompa magna, con il N°19 (Recitativo e Aria) dove ricorda, nel recitativo Nous avons vu finir sept ans à peine come siano trascorsi appena sette anni da quando lei e i suoi seguaci fuggirono da Tiro e dal fratello (Pigmalione) usurpatore e assassino di suo marito per fondare la città che oggi si erge in tutto il suo splendore, materiale e spirituale.

Adesso Didone intona la sua bellissima aria (Chers Tyriens) in MIb minore (Ciajkovski impiegherà le stesse quattro prime note per farci il secondo tema del movimento iniziale della sua Polacca):

 
Aria che ha una struttura abbastanza complessa, poiché vi interviene anche il coro del popolo cartaginese. La prima esposizione si chiude con una classica cadenza operistica, suonata da legni e archi su un motivo tutto puntato. Didone invita il suo popolo, che ha compiuto mirabili opere di pace, a prepararsi ad essere eroico anche in guerra. E il popolo risponde deciso, riprendendo le parole della Regina, la quale ricorda (a noi, soprattutto) come il feroce Iarba (un barbaro di quei luoghi) le abbia proposto un matrimonio vergognoso, il che merita una risposta adeguata.

Il coro la accontenta subito, reiterando il Canto nazionale, su un nuovo testo di sfida per l’insolenza di Iarba, e questa volta con grande foga e cipiglio (Allegro assai, con fuoco, 4/4 alla breve, velocità più che doppia rispetto all’esposizione originaria!) e salendo dal SOL al SIb, proprio come si addice a qualcuno che è pronto all’azione!

E Didone adesso riprende la sua aria, un chiaro debito di Berlioz al melodramma classico, ma ne vale proprio la pena, data la sublimità della musica! Qui però è contrappuntata dal coro. Al termine, dopo la cadenza, la Regina torna al recitativo (Cette belle journée) e passa alla cerimonia di premiazione di tre diverse corporazioni (Meistersinger ante-litteram?): costruttori, marinai e contadini.

Il N°20, Entrata dei costruttori, è un gaio Allegretto moderato in 3/4, fatto di continue puntature su motivi ascendenti, in LA maggiore con breve squarcio sulla dominante MI. Didone gratifica le maestranze con una squadra d’argento e un’ascia.

Ecco il N°21, Entrata dei marinai; qui l’accompagnamento è affidato a fagotti, viole e celli, in DO: è una melodia largamente ondulante, impreziosita da veloci incisi degli ottavini; le subentra una sezione centrale, ripetuta, modulante a FA; mentre Didone premia i marinai con un timone e un remo, riprende la melodia iniziale in DO, chiusa da altri svolazzi degli ottavini.

Chiude il N°22, Entrata dei contadini. Assai appropriatamente, è un tema bucolico (6/8, Andantino) in SI minore - affidato agli strumenti tradizionalmente campestri, oboe e corno inglese, proprio come nella Scène aux champs - ad accompagnare la loro processione. La melopea più che allegra è triste (quanto è duro e faticoso il lavoro in campagna…) e un breve squarcio in SI maggiore si dissolve quasi subito.

Nel successivo Recitativo e coro (N°23) Didone fa delle lodi speciali ai contadini (premiandoli con un falcetto d’oro) e il coro si unisce a lei. Dopo che la Regina ha ringraziato Cerere, compiacendosi per l’avvenire ormai sicuro della città, ecco che i cori tornano ad inneggiarla (Gloire à Didon) con lo stesso portamento del N°18 (Maestoso, non troppo lento, 3/2, SOL maggiore). Ma qui davvero Berlioz porta enfasi e retorica al massimo grado, prescrivendo:

- l’esposizione dei 4 versi del coro: il primo come nell’originale N°18, il secondo come nel coro N°19 e due versi nuovi che inneggiano alla futura potenza della città;
– l’esposizione piena del coro N°18, cantata da due cori distinti; 
- il da-capo (!) a partire dal secondo verso del primo coro;
- una coda dove si ripete tre volte il verso Gloire à Didon.

Beh, se qualche direttore (e/o regista) qui fa dei tagli è… giustificato. (Del resto lo stesso Autore tagliò il da-capo per la prima del 1863.)

Chiusa in modo a dir poco esagerato la presentazione della sfera pubblica di Didone, ecco ora una scena che ci mostra, della Regina, la sfera squisitamente privata. Si tratta del Duetto N°24 fra Didone e la sorella Anna, una delle pagine più ispirate dell’intera opera. Subito i violini ne introducono il ritornello (qui in SI minore) che riapparirà più volte nel seguito (dell’incipit Strauss ne farà il love-theme del suo Don Juan e Mahler lo impiegherà nella sua Quarta):


La struttura del numero è anche qui assai articolata, iniziando con un recitativo di Didone (Les chants joyeux) che vaga dal SI minore al RE maggiore, poi al FA e infine al MI maggiore, dove la Regina afferma di avere riacquistato, grazie alla festa, calma e serenità per il suo cuore agitato… agitazione che sarà oggetto del duo vero e proprio. Nel quale si possono distinguere due parti: nella prima le sorelle dialogano sull’argomento del malessere di Didone; nella seconda esternano in privato (ma cantando anche insieme) le rispettive emozioni in proposito. La prima parte è a sua volta costituita da tre sezioni di botta-e-risposta:

- la prima è introdotta dal ritornello nei violini in MI maggiore e Anna vi canta una dolce e ammiccante melodia (Reine d’un jeune empire) per informarsi sulle (apparentemente) inspiegabili pene della sorella; a metà della frase ricompare il ritornello, che poi torna, adesso in DO, per introdurre la risposta (Une étrange tristesse) di Didone che non sa fornire in proposito una spiegazione precisa. Ma intanto abbiamo cominciato a scoprire la personalità della donna: una Regina adorata dal suo popolo, ma che in realtà non è compiutamente felice, come dimostra inequivocabilmente la musica che esce dalle sue labbra, con parecchio cromatismo e tonalità minori; e persino il ritornello fa capolino, nei bassi, con tono abbrunato;    

- ritornello che ci riporta al MI della seconda sezione, dove Anna propone lei la spiegazione del mistero: Didone ha bisogno di amare (Vous aimerez, ma soeur) e canta quel verso praticamente sulle note del ritornello! La Regina quasi si offende: lei ha promesso fedeltà imperitura alla memoria del marito Sicheo; ma Anna, dopo l’ennesima comparsa del ritornello, ribatte il concetto altre due volte, e ai dinieghi di Didone oppone anche una ragione politica: Cartagine ha bisogno di un Re;

- nella terza sezione troviamo il solenne giuramento di Didone (Puissent mon peuple et les dieux): mai abbandonerà l’anello nuziale; e Anna sorride, affermando (Un tel serment) che Venere mai e poi mai potrebbe accettarlo, un simile giuramento. Quest’ultima parte del dialogo, pur ancora in 4/4 Moderato, ha però incominciato ad introdurre frequenti terzine, anticipando così il tempo di 6/8 Andantino che caratterizza la seconda parte del duo.

La quale è a sua volta suddivisa in due sezioni, dove le sorelle cantano i rispettivi stati d’animo, prima separatamente e poi anche insieme:

- nella prima, introdotta da quattro dolcissimi incisi anapestici per terze dei corni, che scendono dalla sottodominante alla tonica MI, c’è la comune constatazione che le parole di Anna stiano facendo breccia nell’anima di Didone (Sa/ma voix fait naître); è lei a cantare la prima strofa, modulando alla dominante SI, dove attacca Anna; dopo i suoi primi due versi, rientra in contrappunto Didone e, tornati a MI, è Anna a chiudere questa prima sezione;

- nella seconda le due sorelle esternano le rispettive preoccupazioni e quasi i rispettivi rimorsi (Sichée! Ô mon époux, pardonne / Didon, ma tendre soeur, pardonne): Didone di non riuscire a resistere ad un nuovo amore; Anna che si sente in colpa per il turbamento provocato nella psiche della Regina. Le due voci ora si alternano e ora si congiungono per terze, in un mirabile equilibrio formale, mentre l’inciso iniziale del ritornello fa continuamente capolino; Berlioz giustamente non resiste alla tentazione di ripetere interamente quest’ultima, invero celestiale, sezione del duo, chiusa ancora da una cadenza del ritornello esposta all’unisono da flauto e clarinetto.

Bene, finita la lunga presentazione della personalità della Regina, ecco arrivare l’evento che determinerà tutto il seguito della vicenda: i troiani sono sbarcati a Cartagine (spintivi dalle tempeste scatenate da Giunone) e chiedono asilo. Il 25, Recitativo e Aria, si apre con l’annuncio di Iopa, sulla relativa REb minore che chiude poi sul LA. Didone risponde, ancora in recitativo, che le porte di Cartagine sono sempre aperte ai profughi.

E qui ecco l’aria in FA maggiore (Errante sur les mers) in cui la Regina (Didone significa appunto vagante, il suo nome originario in patria era Elissa) ricorda la sua propria vicenda di profuga da Tiro e le sue peregrinazioni prima di trovare sistemazione a Cartagine. E proprio in nome delle sue stesse passate vicissitudini è ora pronta a dare ospitalità a questi sfortunati (e per ora sconosciuti) naviganti.

Interessante notare come l’incipit dell’aria (salita per gradi contigui da dominante a tonica e ricaduta sulla dominante) ricalchi il motivo del ritornello del precedente duo (che a sua volta era associabile all’inconscio desiderio d’amare della Regina): quello che sta per arrivare potrebbe essere proprio l’amore tanto atteso?

E chi sta per arrivare ce lo dice ora esplicitamente il N°26, con squilli di tromba che introducono la Marcia troiana. Ma qui non ha più quel piglio trionfale con cui l’avevamo udita verso la fine del primo atto: è sempre in SIb, ma in modo minore, anzi Berlioz in partitura sottotitola esplicitamente Dans le Mode Triste. Vi mancano le tre coppie di terzine che ne caratterizzavano il procedere, qui sostituite da una più mesta cellula puntata. Tuttavia non è per nulla una marcia funebre, anzi: ci si sentono sempre l’orgoglio e la determinazione di questo popolo che si crede investito di una missione… divina. 

Il tema principale viene ripetuto due volte, ma sulla seconda entra anche la voce di Didone, accompagnata da un sinistro tremolo di viole, che supporta appropriatamente il disagio della Regina, che è ansiosa ma allo stesso tempo preoccupata di fare la conoscenza di questi nuovi arrivati. Segue il secondo soggetto della marcia, nella dominante FA minore, quindi il primo tema (in SIb) ritorna, proprio mentre Enea (che per ora non si fa riconoscere) e compagni entrano al cospetto della sovrana: ma è un ritorno quasi smozzicato, con il tema che si spegne cadendo a brandelli, fino ad afflosciarsi nei corni e morire su un’ultima cadenza di violoncelli e contrabbassi.

Il successivo Recitativo N°27 ci fa assistere alla presentazione dei troiani a Didone, che viene informata da Ascanio della loro origine e del nome del loro capo, suo padre Enea. A Panteo tocca spiegare alla Regina qual è la missione che i troiani debbono compiere (raggiungere l’Italia) al che Didone comunica la sua totale disponibilità ad ospitarli a Cartagine.

Il recitativo è introdotto, in MIb, da un solenne corale di cornette a pistoni e di tromboni, che impiega significativamente le prime note dell’inno Gloire à Didon, chè Ascanio si appresta ad omaggiare la Regina (Auguste reine). È costellato da numerose modulazioni di tonalità: l’omaggio di Ascanio parte appunto in MIb, poi ha una fugacissima impennata al DO (toh, sul riferimento a Giove!) per cadere subito sul SIb minore. Alla successiva domanda di Didone (De ce chèf, bel enfant) Ascanio dapprima risponde in SOLb (Ô reine) poi vira a LA maggiore (Ce sceptre d’Ilione) poi a RE e infine, sulla dichiarazione Notre chef est Énée, ecco apparire uno splendente DO maggiore! Al quale fa però da contrappeso, sul verso Étrange destinée!di Didone, una drammatica quinta vuota (LAb-MIb) di violoncelli e viole, che sembra più far presagire il destino della Regina, che non la sua partecipazione emotiva a quello dei troiani…
 
Torna il MIb sulle parole di Panteo (Obéissant au souverain des dieux) e poi si passa a SI maggiore sull’ultima esternazione di Didone (Qui n’admire ce prince) che poi modula ancora a RE maggiore, quindi a SOL per la chiusura, dove si collega direttamente, tramite una sesta napoletana, al MIb del Finale N°28.

Qui si passerà dal dramma all’euforia. 17 battute di Allegro assai e agitato accompagnano l’ingresso del trafelato Narbal, che reca notizia (J’ose à peine annoncer la terrible nouvelle!) dell’attacco che i vandali di Iarba si apprestano a sferrare alla città. Il suo annuncio, contrappuntato da domande imbarazzate di Didone, si muove dal MIb al SIb, al DO, per chiudere in LAb, mentre da lontano i cartaginesi chiedono armi.

A questo punto, su un’ennesima sesta napoletana, il LAb muta repentinamente in MI e in questa tonalità Enea, toltasi la… cerata da marinaio, si presenta in tutta la sua autorità (Reine, je suis Énée!) Si offre, il capo troiano, di combattere a fianco dei cartaginesi, e lo fa con una repentina salita di un’ottava, dal FA# grave a quello acuto e da lì al LA, prima di tornare al MI. Didone accetta l’offerta (e intanto sussurra alla sorella apprezzamenti per il troiano!) modulando a SI maggiore, tonalità dove 15 voci (Enea, Panteo, Narbal, Iopa, Ascanio, Didone, Anna e gli 8 capi troiani) anticipano il coro finale, inneggiando allo sterminio dei barbari.

Ora però, prima della chiusura dell’atto, c’è un siparietto patetico, il cui soggetto Berlioz prese dall’ultimo libro di Virgilio, laddove Enea abbraccia Ascanio prima di affrontare nell’estremo scontro il nemico Turno. Qui Enea dapprima affida il figlio a Didone (la tonalità è virata a DO minore) che promette di aver buona cura di lui, come fosse sua madre; poi – in un continuo modulare fra DO, MIb, RE, SOL, poi ancora MIb - abbraccia il figlio ricordandogli il valore di Enea e di Ettore, e chiude sul MIb dopo un passaggio sulla dominante acuta SIb.

Da qui entra il coro che riprende – con i solisti e riportandosi a SI maggiore - versi già cantati poco prima da Enea (Sur cette horde immonde) e conclude in modo retorico con il reiterato appello a sterminare gli invasori. La chiusura però non è proprio enfatica al massimo, dato che Berlioz ne stempera i toni ritardando assai i due accordi finali, sesta minore e triade maggiore di SI.

Eccoci ora all’atto quarto. Che si configura come un vero e proprio emporio di forme musicali, una sorta di opera-nell’opera. Berlioz, che compose Les Troyens in vista della sua rappresentazione (poi mancata, lui vivente) all’Opéra, non poteva esimersi (ma la cosa gli dovette fare un gran piacere, come… sinfonista) dall’inserirvi – in ottemperanza al capitolato tecnico di quel teatro – un atto infarcito di componenti coreografiche. Ecco quindi subito un primo Quadro, occupato interamente da una Pantomima, in realtà una vera e propria sinfonia pastorale (quasi 10 minuti di durata) con tanto di richiami bucolici, seguiti da scene di caccia e da un tremendo temporale (qui i riferimenti alla sesta beethoveniana e al rossiniano Tell sono scoperti, così come è indubbio che l’ispirazione sia venuta a Berlioz anche dalla scena della gola del lupo del Freischütz); poi un secondo Quadro che include: un duetto, quindi marce e balletti in quantità; ancora un’arietta per il secondo tenore; poi un quintetto, che si amplia a settimino; infine il più classico dei duetti d’amore! Ma andiamo con ordine.

Il N°29 (Caccia regale e tempesta. Pantomima) si apre in un’atmosfera idilliaca e sognante, musicalmente caratterizzata da spiccato cromatismo, tipica di un pigro mattino che risveglia la foresta africana, fra stormir di fronde e cinguettii di uccelli. Ma allo stesso tempo prepara il terreno per evocare altri movimenti: quelli che fra poco esploderanno – insieme allo scatenarsi delle forze naturali - nell’animo dei due protagonisti.

Il primo flauto espone una dolce melodia, il cui incipit ricorda da vicino, e forse non a caso, quello del movimento centrale della beethoveniana Patetica:


La didascalia ci avverte di due naiadi che nuotano in uno stagno e fuggono all’udire i richiami dei corni da caccia, che provengono da saxhorn posti dietro le quinte:


Beh, la melodia non è propriamente quella che solitamente accompagna cani e cavalli in una battuta di caccia: in particolare quella seconda minore (LA-SIb) a cavallo fra la terza e la quarta misura le dona un’inflessione decadente, pienamente in linea con l’atmosfera di questa prima parte della scena; e anche il tempo (6/8) e il ritmo concorrono a renderla piuttosto leziosa e fin troppo ricercata. Un secondo saxhorn si aggiunge a sviluppare, dialogando con il primo, la melodia: il che produce nelle naiadi una certa agitazione, che raggiunge il massimo allorquando gli archi, con veloci scale ascendenti, annunciano il passaggio di cacciatori e cani.

Adesso è alle viste un uragano e i tromboni emettono un segnale perentorio, quasi una chiamata a raccolta, o l’avvertimento di un pericolo imminente: passa un cacciatore che si rifugia sotto un albero, poi, al nuovo richiamo del saxhorn corre via in quella direzione. ora esplode la tempesta, in mezzo alla quale si vede Ascanio passare a cavallo di gran carriera(!) seguito da altri cacciatori a cavallo, poi altri ancora che si disperdono a piedi in diverse direzioni.

Finalmente ecco Enea e Didone che per difendersi dalla tempesta si… ingrottano (e possiamo ben immaginare a quali occupazioni si dedicheranno per far passare il tempo durante il temporale!) mentre si è fatto quasi buio e un ruscello si è trasformato in torrente in piena, le naiadi corrono qua e là impaurite e i fauni invece si mettono a danzare.

Al fracasso della tempesta si aggiunge quello di cascate d’acqua che piombano dalle rocce circostanti (dato che la Pantomime, composta nel 1857, venne rivista e riorchestrata nel 1863, chissà che Berlioz nella circostanza non si sia ricordato del wagneriano baccanale del Tannhäuser parigino del 1861, alla cui fallimentare prima lui aveva assistito: le atmosfere sono assai vicine…) Ora i mitici abitanti della foresta intonano vocalizzi primordiali inframmezzati dalla perentoria (e per gli amanti, minacciosa) invocazione Italie! Italie! In tutta questa parte della Pantomime Berlioz non si è certo risparmiato, inventandosi una geniale poliritmia per evocare lo scatenarsi dei fenomeni naturali ma anche le umane passioni dei protagonisti:


All’interno dell’impianto tipicamente stereofonico (4 saxhorn, 3 tromboni e timpani sulla scena, a dialogare con il resto dell’orchestra) si noti come (su un generale tempo di 4/4) le due coppie di saxhorn suonino in 6/8 e 3/4, i tromboni in 4, mentre gli altri fiati espongono in sincope un motivo che in tutta l’opera è segno di emozione, e gli archi suonano in 2/2 ad esclusione dei bassi (più i fagotti) che (su Italie!) passano ad una scansione ternaria!

Altre danze di fauni e satiri, poi un fulmine colpisce un albero e lo incendia(!) facendo cadere sulla scena tizzoni ardenti, che gli stessi fauni e satiri raccolgono agitandoli mentre continuano le loro danze. Poi tutti scompaiono in direzioni diverse.

Ora la scena viene invasa da nuvole che la nascondono completamente e il flauto ripete la sua dolce melodia iniziale, contrappuntato dal corno, che riprende poi – al placarsi della tempesta - il richiamo dei saxhorn e ne reitera l’incipit, a mo’ di cadenza conclusiva della sinfonia. Essa ci ha in sostanza accompagnato dal primo mattino fino al tramonto, dove si svolge la scena successiva, che dà inizio al secondo Quadro.
    
Siamo nei giardini della reggia di Didone, dove assistiamo al dialogo fra Narbal, Ministro della Regina e la di lei sorella Anna. La struttura della scena è quadripartita: dapprima (N°30) un Recitativo poi (N°31) un’aria di Narbal quindi una cavatina di Anna ed infine un Duetto che riprende i temi dell’aria e della cavatina.

L’introduzione orchestrale in MIb maggiore anticipa il tema della successiva aria di Narbal (che è in SOL):

  
Come si può notare, l’introduzione ha un carattere austero e un piglio marziale (l’accompagnamento dei bassi è in controtempo) pur essendo in Allegro, poiché l’oggetto della discussione fra i due sarà nientemeno che il destino di Cartagine! Invece l’aria di Narbal è in tempo comodo e ternario, poiché il Ministro della Regina vi esternerà tutto il suo pessimismo sul futuro della città. Nel recitativo che la precede si confrontano le due diverse visioni di tale futuro: quella nera di Narbal, sinceramente preoccupato della piega che hanno preso gli eventi, con Didone che passa il tempo in attività ludiche insieme all’ospite troiano e mortifica l’operosità dei suoi sudditi, e Anna che invece si dice sicura che il nuovo amore che la sorella prova per Enea non potrà che giovare a Cartagine.

L’aria e la cavatina non fanno che ribadire queste due opposte convinzioni: accorata, come detto, quella di Narbal (Larghetto misterioso in 9/8, con un paio di passaggi previsti da Berlioz all’ottava superiore, per voci di basso poco grave) accompagnata dal suono oscuro degli accordi di ottoni e archi bassi; piena di vitalità e ottimismo quella di Anna (Allegro vivo in 3/8) sostenuta da impertinenti pizzicati degli archi e svolazzi degli strumentini. Chiude la scena il duetto, invero geniale: Narbal ripercorre completamente la sua aria, poi ripete gli ultimi due versi e su questi si sovrappone Anna, che riprende a sua volta la cavatina, creando così un mirabile effetto di poliritmia (ad una battuta di Narbal ne corrispondono tre di Anna).

Arriviamo così al N°32, Marcia per l’entrata della Regina. Sono 27 battute che ci ripropongono in forma puramente strumentale il motivo del Chant national (N° 18, Gloire à Didon). Il tempo è Un poco maestoso, non troppo lento, 3/2 e l’orchestrazione crea un’atmosfera davvero celestiale: è la Didone innamorata!

Nelle prime 4 battute l’incipit del tema viene proposto dai soli legni, dapprima in SOL maggiore, poi in SI minore. Poi i violini primi (con sordina) attaccano, in SI maggiore, una figurazione di accompagnamento che ondeggia per gradi contigui e si protrae fino alla fine del numero. Dopo 3 battute, mentre entrano in scena Didone, Enea, Panteo, Iopa e Ascanio, il tema viene esposto dai soli strumentini (flauti, poi ottavino, oboi e clarinetti) accompagnati da tre arpe, che suonano delle minime in armonico e – per sfruttare appieno la sonorità dello strumento, sono notate in DOb anziché in SI. Le ultime 5 battute, mentre Didone e  gli altri si mettono a sedere, restano occupate a mo’ di cadenza dalla sola figurazione dei violini primi, cui si aggiungono i secondi, viole e celli, tutti con sordina, per la chiusa.

Ora è il momento dei Balletti, ingrediente irrinunciabile in un grand-opéra. Il N°33 è suddiviso in tre diverse danze, con una serie di da-capo che consentono di restringere o allungare il brodo a discrezione di direttore e regista, e magari in funzione delle… attitudini del pubblico. Di norma occupa poco più o meno di 10 minuti.

Si comincia con il Passo delle Almee. Costoro erano danzatrici-cantanti-musiciste assai colte, la cui professione era nata nell’Egitto arabo (IX secolo dopo Cristo) e quindi la loro presenza a Cartagine ai tempi di Didone è un’invenzione bella e buona di Berlioz, che in realtà voleva rifarsi a danze di Bajadere da lui viste anni prima a Parigi.  

Sul tempo di 6/8 lo schema è, vagamente, A-B(ripetuto)-C-A-D(ripetuto): A (Lento, quasi adagio, SOL maggiore) presenta una dolce melodia negli archi, che sfocia in tre successive impennate con interventi dei fiati; B (Un peu animè, DO maggiore) vede protagonisti i legni, con archi e ottoni ad accompagnare; C è ancora in modo animato, in MI minore e vede protagonisti tutti i fiati; dopo il ritorno di A (SOL) arriva la parte conclusiva D, sempre in SOL e con andamento più languido, dove la melodia è affidata agli archi e i fiati accompagnano con veloci semicrome.

Segue la Danza delle schiave (o degli schiavi) anch’essa in 6/8, di struttura vagamente simmetrica rispetto alla prima: qui abbiamo prevalenza di ritmo serrato e poi una specie di trio più lento. La struttura è abbastanza complessa, a dispetto dell’apparente ripetitività dei suoni. Un motivo principale di 6 battute la percorre fin dall’inizio. La prima sezione è occupata dalla doppia esposizione del tema, seguita da una sua ripetizione (ridotta a 4 battute) variata sulla sottodominante DO e sfociante su un RE, mediante del SI minore su cui il motivo (sempre di 4 battute) viene ripetuto due volte. Torna il tema completo in SOL maggiore, ancora esposto in doppio. Adesso si passa alla dominante RE, che reitera il motivo (4 battute) e modula verso il SIb, su cui il tema (sempre di 4 battute) viene ripetuto due volte. Ecco ora un ponte modulante, dove l’incipit del tema passa dal FA e dal DO per poi tornare al SOL, dove abbiamo la terza riesposizione completa (doppia) del motivo conduttore. Ecco ora, dopo due battute preparatorie, la sezione centrale (quasi un trio) dove nella tonalità principale viene esposto due volte dagli archi un tema più dolce e cullante, a mo’ di barcarola: dapprima sfociando in SI minore, poi in MI minore. Qui torna il motivo principale in SOL, questa volta non ripetuto, ma seguito da un’altra sua variante (di 4 battute) in SI minore, questa sì ripetuta. Ancora il motivo del trio, una sola volta, a chiudere sul MI minore. Un’altra transizione basata su spezzoni del tema del trio ci porta verso la sezione conclusiva del balletto (da ripetersi): qui il motivo del trio e le terzine di semicrome del tema principale si contrappuntano fino a sfociare in una specie di stretta, che dopo la ripetizione porta a 4 battute (ripetute) di cadenza, sul ritmo del motivo principale, cui ne seguono altrettante, su frammenti del tema del trio, per chiudere.    

La terza danza (Passo delle schiave nubiane) abbastanza breve, è in tempo binario (2/4) in LA minore. L’atmosfera è proprio orientaleggiante ed esotica, caratterizzata dal ritmo incessante delle crome degli archi (in pizzicato) e del tamburino e dai colpi di due tamburelli antichi (che suonano in MI e FA). Sono i legni (flauto, ottavino e corno inglese) su tre diverse ottave ad esporre la melodia, mentre quattro contralti l’accompagnano emettendo dei suoni di tipo grammelot, precisamente: Ha! Ha! Amaloué Midonaé Fai caraimé Dei beraimbé Ha! Ha!

Il N°34 (Scena e Canto di Iopa) è un’aria scritta per la tessitura di un tenore di grazia. Berlioz stesso si vide costretto a sopprimerla alla prima del 1863 per l’indisponibilità di siffatti tenori sul mercato, inflazionato ormai dai di-pettisti, che andavano allora di moda!

È Didone a richiedere a Iopa questa prestazione, con un breve recitativo, dopo essersi adagiata, con Anna, su un canapè. Assai curato il trattamento della scena, dove i due spezzoni di recitativo di Didone (l’invito ad Anna a licenziare i danzatori e la richiesta a Iopa) sono inframmezzati da due diverse melodie: la prima, in Allegro non troppo, di 11 battute in modo minore (MI e LA) che accompagna l’uscita dei danzatori e la seconda in Andante (il doppio più lento, prescrive Berlioz) in LA minore, che pare dipingere lo stato d’animo della Regina, un misto di malinconia e languore. Dopo che Iopa ha risposto all’ordine e prima che attacchi la sua aria, i due motivi del recitativo ritornano trasfigurati: il primo (accorciato a 9 battute) in DO maggiore e il secondo (ancora di 6 battute) che modula da DO a LA minore e da qui a FA maggiore, preparando la tonalità dell’aria.  

La quale – un omaggio a Cerere, dea dell’abbondanza - è modellata sulla struttura del rondò barocco: A-B-A’-C-A”, dove i ritorni di A vengono opportunamente variati con abbellimenti diversi. Il tempo è andante 6/8 e l’accompagnamento è assegnato all’arpa (egizia, secondo la didascalia). Il motivo del ritornello A, introdotto dal clarinetto che ne caratterizza subito la natura dolce e malinconica, richiama, per via dell’incipit che sale da dominante a tonica, quello del ritornello del N°24. Le strofe centrali (B e C) sono nella relativa RE minore e in MI minore. Nella seconda esposizione di A si tocca il SIb acuto, nell’ultima la dominante (DO acuto).

Ma adesso ci avviamo - con gli ultimi tre numeri - a vivere lo straordinario finale d’atto: dapprima (N°35, Recitativo e quintetto) assistiamo ad una specie di chiacchierata salottiera, incentrata sui ricordi di Enea; poi (N°36, Recitativo e settimino) tutti i protagonisti si alzano per godere della brezza serotina; infine (N°37, Duetto) Didone ed Enea rimangono soli a godere l’estasi d’amore, nell’idilliaco scenario della notte africana. L’atto si chiuderà peraltro con un protervo… richiamo alla realtà. Interessante la progressione tonale dei tre numeri: dal REb si sale al FA e da qui al SOLb. Curiosa anche la sequenza di composizione dei tre numeri: precisamente a ritroso! Berlioz infatti aveva musicato il duetto - che evidentemente gli urgeva in modo particolare - prima ancora di completare l’intero testo dell’opera! Poi, dopo aver terminato di comporre l’Atto I, passò direttamente a musicare la conclusione dell’Atto IV, aggiungendo al duetto il settimino e quindi il quintetto. 

Il N°35 inizia con un recitativo che tratta della storia (post-Troia) di Andromaca. Come già accennato, il racconto di Enea relativo alle nozze della vedova di Ettore con Pirro è un’invenzione di Berlioz (Virgilio la fa sposare con Eleno, un troiano figlio di Priamo, comparso nella prima parte dell’opera che, da schiavo di Pirro, ne divenne successore) che serve a rimuovere le ultime remore di Didone riguardo la rottura della promessa di fedeltà al defunto marito Sicheo. Ed il quintetto si apre precisamente con la liberatrice conclusione di Didone: Tout conspire à vaincre mes remords. Siamo in REb maggiore e i bassi (qui la parte dei violoncelli) accompagnano questa reiterata esternazione della Regina, sottolineandone lo stato di agitazione:


Enea ripete le sue parole (Andromaca ama il suo vincitore) chiudendo nella relativa SIb minore. Didone reitera la giustificazione del suo amore per Enea su un’ampia melodia, che ben esprime la sua serenità, avendo lei trovato la ragione per scacciare qualunque rimorso:


Questo è il momento in cui Ascanio, seduto accanto a lei, le sfila l’anello di Sicheo (come da dipinto di Guérin); anello che la Regina recupera solo per abbandonarlo immediatamente e poi disinteressarsene del tutto.

Anna coglie al volo l’attimo fuggente e ne fa segno a Narbal. Come? Con un motivo che richiama (a proposito di raffinatezze espressive e di sottili interrelazioni tematiche) proprio quello intonato da Narbal medesimo nel loro precedente duetto! Iopa imita la sorella della Regina e ripropone l’osservazione a Narbal. I tre ripetono i riferimenti all’anello venerato – e ora snobbato - da Didone, mentre questa ricorda l’illustre sposo (di Andromaca) assassinato: evidente il riferimento quasi freudiano al defunto marito Sicheo, proprio mentre la Regina si è convinta a tradirne la memoria (oddio, tradimento spirituale, poiché quello carnale era già stato consumato da qualche ora – come minimo – in quella grotta, provvidenziale rifugio dalla tempesta).

E infatti Didone riprende la sua ampia frase musicale (della giustificazione) ora accompagnata dalle altre quattro voci: quella di Anna un’ottava sotto, le altre in contrappunto. Il quintetto si chiude con la parola absous (assolto, il cuore di Didone) cantata sulla triade maggiore di REb, ma con la dominante LAb in evidenza.

Qui Enea attacca il recitativo del N°36 (modulando prima a RE maggiore, poi verso il FA) mentre invita Didone a godere della brezza notturna, dimenticando i tristi ricordi. Il settimino con coro che segue (a quelle dei personaggi del precedente quintetto si aggiungono ora anche le voci di Ascanio, Panteo e del coro) è un Andantino in FA maggiore, 6/8: una cullante barcarola. Possiamo immaginare benissimo lo scenario che Berlioz ha in mente: notte serena e stellata, soffi di vento tiepido che smuovono le palme, il mare che bacia dolcemente la riva con la sua sommessa risacca, riflettendo sulle increspature il chiarore lunare (il quale sarà esplicitamente indicato dalla didascalia del successivo duetto). Insomma, un’atmosfera idilliaca (magari fin troppo da… cartolina) che il nostro illustra da par suo, con 58 battute di musica davvero inebriante.

Sono gli strumentini a creare lo scenario nel quale le voci si inseriscono con discrezione. Flauti e ottavino (questo tace solo nelle ultime 3 battute) reiterano in continuazione terzine di crome sulla dominante DO, che di tanto in tanto abbandonano solo per alternarla con il REb: stupefacente evocazione della quiete notturna, appena rotta da impercettibili sussulti. Gli archi in parte arricchiscono l’atmosfera con il loro tremolo e in parte accompagnano le voci. Di tanto in tanto, sordi colpi di grancassa rendono proprio l’idea dell’immenso spazio che si apre davanti ai nostri occhi. La melodia intonata dalle voci è quanto di più diatonico si possa immaginare, tutta incentrata sull’alternarsi di dominante e tonica. I valori sono tutti di semiminima (a volte puntata) e di croma, ma Didone l’arricchisce mirabilmente con alcune interiezioni in semicroma, come queste ultime:



Su un ennesimo ondeggiamento fra DO e REb, mentre Didone ed Enea vengono lasciati soli, il settimino lascia spazio al conclusivo duetto N°37: il REb diviene dominante del SOLb su cui si svolgerà l’ultimo (per quanto possiamo arguire) incontro amoroso fra i due (poi sarà solo scontro). In effetti è un duetto d’amore ben strano, giacchè i due non si scambiano effusioni verbali (o carnali…) ma rievocano altri incontri amorosi, di personaggi famosi o a loro vicini (l’ispirazione venne a Berlioz dallo shakespeariano Mercante). Il duetto è strutturato, ancora una volta, sulla forma del rondò, quindi A-B-A’-C-A”. Il ritornello A è cantato insieme dai due protagonisti, che invocano su di loro la protezione di Febe e ritorna sempre variato, coerentemente con la tradizione:



Si noti, nell’accompagnamento (qui i violini primi) quella sesta abbassata che dà un’increspatura crepuscolare alla melodia. Le due strofe interne sono quasi simmetriche e composte da interventi separati dei due: in B è Didone, solo sfiorando il REb per tornare al SOLb, a ricordare la notte magica in cui Venere si incontrò con Anchise nei boschi dell’Ida (e da lì nacque… Enea!); il quale le risponde, modulando a MIb minore, citando l’incontro di Troilo che nottetempo sgattaiolò fuori dalle mura di Troia per amoreggiare con la greca Cressida (figlia di Calcante). A’ presenta una falsa ripresa, virando verso il SIb minore, da cui riprende poi il SOLb; Didone la abbellisce nel verso finale. In C comincia invece Enea, che modula progressivamente verso il FA maggiore, rievocando la notte in cui la casta Diana lasciò cadere il suo velo dinanzi ad un… arrapato Endimione. A questo punto Didone, invece di citare ancora altri casi analoghi, viene proprio al sodo, rimproverando, con una sottile perifrasi, Enea per la sua freddezza nei confronti della Regina! Sul suo SIb minore rimane Enea (qui si rompe la simmetria delle strofe) per ribattere immediatamente che la Regina verrà teneramente perdonata dei suoi ingiusti dubbi. L’ultimo ritorno di A” presenta ancora due false riprese, poiché parte in REb maggiore, poi in minore e quindi degrada al SOLb. In quest’ultima esposizione il tenore, sul verso grands astres, arriva a toccare il DOb, poi i due chiudono con una cadenza in cui ripetono per quattro volte souriez à l’amour, prima che i legni suggellino delicatamente, per terze, il duetto. Il cui motivo principale rifarà ancora capolino, ma in circostanze tutt’affatto diverse.

Ma proprio mentre i due si allontanano abbracciati, ecco il finale colpo di teatro: brusche scale ascendenti degli archi conducono, per due volte, ad un unisono sul RE, seguito da bruschi accordi di RE maggiore. Quindi ecco un SOL nei fiati: siamo un semitono più in alto rispetto alla tonalità del duetto, perché qui è la Storia che irrompe a reclamare i suoi diritti, che passano sopra a quelli degli individui! E il portavoce della Storia è Mercurio, che dopo aver battuto due volte (altrettanti colpi di tam-tam) sullo scudo che Enea ha lasciato appeso ad una colonna, esplode in SI i suoi tre richiami: Italie! Il dio in quel momento non si sta rivolgendo ai due innamorati, ormai lontani, ma evidentemente a noi del pubblico, per anticiparci l’ammonimento che ad Enea verrà impartito nel quinto atto, dalle voci dei quattro spiriti troiani (in origine essi dovevano apparire proprio qui). Infine è la tonalità di MI minore – relativa del SOL - ad imporsi per gli ultimi tre accordi, sull’ultimo dei quali i violoncelli, spalleggiati dai contrabbassi, percorrono nove ondeggiamenti di biscrome (su tre semiminime) che ci fanno scendere lungo la schiena un autentico brivido freddo.

Eccoci finalmente all’atto quinto, dove si compiono gli opposti destini dei due protagonisti. Inutile dire che il cuore dell’atto è rappresentato dall’aria di Enea e poi dalla grande scena con monologo di Didone, in cui i due esternano i rispettivi sentimenti (e… risentimenti): lui dilaniato fra la necessità di perseguire il suo obiettivo superiore e la disperazione di dover abbandonare la donna che gli aveva offerto ospitalità e aperto il suo cuore (e pure il suo… corpo, se è per questo!); lei incapace di comprendere le ragioni di ordine soprannaturale che impongono ad Enea di partire per l’Italia. E proprio con l’aria di Enea avrebbe dovuto principiare l’atto, nell’originaria immaginazione di Berlioz.

In realtà, strada facendo, il compositore decise di arricchire l’esordio dell’atto con altri tre numeri, anche questi redatti a ritroso: il siparietto semi-comico delle due sentinelle, preceduto dal coro dei fedelissimi e ideologizzati troiani e, come apertura, dal canto solitario di un giovane marinaio dalla coffa di una nave troiana. Un ulteriore numero che Berlioz introdusse parecchio tempo dopo la stesura originale riguarda il duetto fra Enea e Didone: il troiano avrebbe dovuto squagliarsela senza incontrare la Regina, il che avrebbe ulteriormente acuito la di lei angoscia e disperazione. Poi invece Berlioz decise di farli incontrare in un drammatico faccia-a-faccia. Anche il finale, come vedremo, subì dei rimaneggiamenti non da poco. Strutturalmente l’atto è suddiviso in tre quadri, il primo dei quali – che si svolge durante un’intera notte - comprende i numeri dal 38 al 44, concludendosi con l’incontro di Enea e Didone.

Ecco quindi, al levarsi del sipario, mentre è scesa la notte, la Canzone di Ila (N°38): è un giovane frigio che canta gli struggenti ricordi della lontana terra natìa. Qui si potrebbe tirare in ballo Wagner, poiché il Tristan sappiamo aprirsi proprio con una scena del genere (Westwärts schweift der Blick…) Difficile dire se e quanto Berlioz abbia preso spunto da lì per ideare questo primo numero dell’atto finale: negli anni in cui componeva Les Troyens, Berlioz non poteva certo possedere la partitura del Tristan che era ancora di là da venire (partitura di cui Wagner gli farà omaggio più tardi, nel 1860); però i due si erano incontrati a Parigi all’inizio del 1858, proprio quando Berlioz (che non era certo tenero con Wagner riguardo le di lui scelte estetiche, ma che non si faceva mancare una sola pagina del Maestro di Lipsia) cominciava a lavorare sull’Atto V della sua opera, di cui in quell’occasione aveva letto l’intero libretto a Wagner (che ne era rimasto negativamente impressionato). Non è escluso che nella stessa occasione i due abbiano anche parlato del Tristan (cui Wagner stava dedicando anima e corpo in quei mesi) e chissà che l’idea della canzone di Ila sia balenata nella testa di Berlioz proprio a seguito di quell’incontro… Così come è possibile che sia stato Wagner a prendere spunti dall’opera di Berlioz, come dimostrano alcuni apparenti punti di contatto fra Troyens e Tristan che emergeranno anche più avanti.

La canzone è in 2/4, in forma tripartita strofa-ritornello: S-R-S-R-S-R’. L’orchestra peraltro, per introdurre (con violoncelli e clarinetti) l’atmosfera languidamente ondeggiante, propone proprio l’incipit del ritornello, il che, prescindendo dalla voce, comporterebbe la ridefinizione del brano come rondò. Le riprese delle singole sezioni avvengono senza alcuna variazione nel canto e con modesti cambiamenti nell’accompagnamento, come l’agitarsi di violini e viole al termine del secondo ritornello, quasi ad evocare un’improvvisa ventata che scuote la nave. L’ultima strofa è contrappuntata da un paio di commenti delle due sentinelle (che verranno in primo piano poco dopo, con il loro duetto) mentre l’ultimo ritornello di Ila è troncato per il sopraggiungere di… Morfeo: lo chiudono sommessamente i clarinetti. L’impianto tonale è pure assai semplice: le strofe sono in SIb maggiore, con fugaci modulazioni a RE maggiore e SIb minore; il ritornello è suddiviso a sua volta in due sezioni: la prima nella sottodominante MIb maggiore, la seconda (che passa momentaneamente a 6/8) in SOL minore, relativa del SIb d’impianto:

 
È ora la volta del N°39, Recitativo e Coro: sono i capi troiani, con il sacerdote Panteo in testa, che smaniano per riprendere il viaggio verso l’Italia. Vedono inequivocabili segni divini nei fenomeni naturali e odono le voci dei morti troiani che li incalzano con il grido: Italie! Poco dopo Enea ci darà conferma di questi fenomeni, allorquando esclamerà Encore ces voix! al cospetto dei quattro spettri che lo richiamano al dovere. L’introduzione strumentale (Allegro) evoca l’atmosfera di impazienza che circonda i troiani, efficacemente sottolineata in particolare da un triplice inciso (sesta/sesta-abbassata/dominante, LA-SOLb-SOL) nei legni in acuto. Dopo il recitativo di Panteo, l’Allegro torna con un succedersi di battute in contrappunto fra il sacerdote e i capi (coro maschile) attorno alla tonalità di DO (dove risentiamo l’inciso di tre note) tonalità che poi vira verso il SOL sul quale si odono i tre lugubri richiami degli spettri (il resto del coro, soprani esclusi) intercalati ancora dall’inciso precedente (qui MI-MIb-RE). I troiani si danno appuntamento il mattino successivo per la partenza. Il numero si chiude con gli archi che percorrono su e giù la triade di SOL minore.

Quasi a volerci chiarire che anche fra i troiani non c’è propriamente unanimità di vedute, ecco arrivare ora, senza soluzione di continuità, il successivo N°40, un duetto fra due sentinelle (due baritoni) che prendono letteralmente per matti i capi troiani con le loro visioni e manìe di grandezza. I due rappresentano i classici stereotipi dell’impiegato statale che si arrangia, trova un suo soddisfacente tran-tran quotidiano e ci si adagia sperando di non essere disturbato da doveri ed impegni troppo gravosi. Tutto ciò ci dice la musica di Berlioz, Allegro moderato con il pizzicato di violoncelli e contrabbassi che contemporaneamente sottolinea l’annoiato passo di marcia (proprio una marcia di… marionette) dei due e la loro tendenza, diciamo così… all’ignavia. I contenuti delle chiacchiere dei due sono quanto di più prosaico e meno… eroico si possa immaginare: la vita comoda, mangiare e bere e, manco a dirlo, le compagnie femminili. Così il primo si compiace che il rapporto con una cartaginese gli abbia consentito di imparare il fenicio, mentre l’altro – uno che va per le spicce – si è limitato a sottomettere la partner, che gli obbedisce come una cagnolina! Tutta questa parte delle esternazioni si trascina sulla tonalità prevalente di SOL minore, poi i due passano un tono più sotto (FA) coerentemente con le maledizioni che mandano a chi li vorrebbe far tornare alla dura e rischiosa vita di mare.

E questo qualcuno si sta proprio avvicinando: ecco il grande capo! È Enea che arriva in piena agitazione per cantarci la prima delle scene topiche di questo atto finale: il N°41, Recitativo (a tempo) e Aria. Anche questo si collega direttamente al numero precedente, mantenendo la tonalità di FA minore, ma accelerando il tempo ad Allegro. L’interprete è invitato (dall’aggettivo mesuré indicato nel titolo) ad attenersi strettamente al tempo prescritto, senza prendersi troppe libertà. La caratteristica prevalente di questo numero risiede nell’impiego frequente dell’eco: alcuni versi cantati da Enea vengono ripresi dagli strumenti, che altre volte invece anticipano motivi che compariranno subito nel canto. È come se Enea non fosse sicuro di sé e dovesse continuamente essere sostenuto nelle sue determinazioni: lui – come i suoi camerati – è conscio di dover riprendere il viaggio, ma sa che Didone non accetta in alcun modo il distacco dall’uomo di cui si è perdutamente innamorata e sente lui stesso di esserne sempre irresistibilmente attratto.

L’impianto tonale è abbastanza semplice, anche se ricco di modulazioni, ancora a sottolineare l’instabilità psichica del protagonista: il recitativo (4/4) dal FA minore vira a DO maggiore (il le faut!), quindi LA minore (je ne puis oublier), MIb maggiore (Invoquer la grandeur) e SOLb maggiore (La triomphale mort), ancora DO minore (Rien n’a pu la toucher) prima del ritorno al FA (la terrible eloquence); l’aria (Andante, 6/8) principia in FA maggiore, poi (lutter contre moi-même) modula a LAb maggiore (relativa del FA minore originario); su questa tonalità attacca l’Allegro agitato che modula presto a MIb maggiore (si je quittais Carthage) ancora con l’effetto-eco dell’orchestra; altro passaggio a DOb maggiore (reine adorée) e infine ritorno a LAb maggiore (Âme sublime): su questa tonalità si va verso la conclusione, con un altro passaggio in eco (Bienfaitrice des miens) dove il tenore tocca il DO acuto e infine chiude sul LAb raggiunto passando per il SIb sovrastante. Il numero è sigillato da una eroica cadenza orchestrale.

Ora un RE dei fagotti, doppiato all’ottava profonda da corni e contrabbassi (questi devono appositamente accordarvi la corda grave) scende dal precedente LAb di un tritono (andiamo all’inferno?!) per introdurre la Scena del N°42 (Andante un poco lento): sono i quattro spiriti troiani che tornano a farsi sentire (ma qui anche vedere) da Enea per reclamarne l’immediata partenza. La didascalia pare descriverci un rito del Ku-Klux-Klan: i quattro spettri (Priamo, Corebo, Cassandra, Ettore) sono incappucciati e le loro teste sono incoronate da flebili fiammelle, che poi si spengono via via, dopo che i quattro hanno tolto i cappucci ed esternato i rispettivi ammonimenti al malcapitato Enea. Il minaccioso richiamo iniziale gli arriva da un coro (invisibile) di 10 bassi, seguito da un accordo rabbrividente nei legni (flauti, oboi, corno inglese, clarinetti e clarinetto basso): SI-LAb-FA, cui poi si aggiunge il RE di fagotti e corni. Settime diminuite abbondano, così come i tritoni, che costellano le frasi smozzicate di Enea in risposta agli stringenti inviti dei quattro, che non gli danno nemmeno un’ora di tempo per partire. Le voci cantano sempre sul RE, il pedale che percorre l’intera scena e che sfocia, sull’ultimo ammonimento di Cassandra-Ettore (Il faut vaincre et fonder!) in un perfetto accordo di SOL maggiore!

Enea non può che cedere e obbedire, rinunciando persino all’addio a Didone: il ritmo si fa più serrato (Allegro) e l’ultimo tritono di Enea (LA-MIb, sulle parole Didon, en…) chiude la scena per aprire immediatamente la successiva (N°43, Scena e Coro) su un improvviso ed incalzante SIb maggiore in Allegro assai: è Enea che passa davanti alle tende dei troiani per svegliarli e sollecitarli all’imbarco alla volta dell’Italia. La concitazione è espressa in particolare dal ritmo puntato delle figurazioni nei violini, che sembrano richiamare la Marcia troiana, ma che ondeggiano raggiungendo alternativamente la mediante minore e maggiore (REb e RE): e qui non può non tornare alla mente il Wagner del Tristan, nella scena in cui si prefigura l’arrivo di Isolde (poi anche quello di Marke) a Kareol:


Dopodichè ciascuno può trarre le conclusioni che preferisce: pura casualità, o fu Wagner ad avere… reminiscenze? In un crescendo turbinoso Enea e il coro si palleggiano gli incitamenti, la tonalità svaria dal SIb al FA, al REb, al SOLb, poi al LAb, dove Enea grida Italie!; infine a SIb e alla dominante FA, dove tutto il coro invoca la terra promessa, accompagnato da un insistito martellamento dell’intera orchestra.

Ora Enea, partendo da quel FA e tornando alla tonalità di SIb, rivolge da lontano il suo accorato saluto a Didone (À toi mon âme! Adieu!) Il destino lo chiama, e lui le deve essere infedele, per conquistarsi la morte degli eroi: e sulla parola mort un colossale accordo di sesta napoletana porta momentaneamente la tonalità a SOLb maggiore, dove il destino viene certificato dal protervo incipit della Marcia troiana nelle trombe e nei legni! Sul ritorno a SIb e sull’ultima sillaba di infidèle si passa repentinamente al modo minore: è Didone che sta proprio ora sopraggiungendo tutta trafelata!

In effetti originariamente, dopo il saluto a Didone, questa scena doveva chiudere il Primo quadro con la partenza di Enea e dei suoi al suono della Marcia troiana e delle invocazioni Italie! Come detto, Berlioz si convinse in un secondo tempo ad inserirvi, subito prima, l’arrivo della Regina e lo scontro con Enea. Ecco perché il N° 44, Duetto e Coro, si innesta senza soluzione di continuità sul N°43, venendo a costituirne quasi un intermezzo.

Prima di proseguire sarà però bene fare una considerazione sulla scarsa plausibilità di ciò che avverrà qui di seguito: un problema creato precisamente dalla decisione di Berlioz di inserire l’incontro Didone-Enea in questo primo quadro (ma anche qualcos’altro nel successivo). Consideriamo per un attimo come procede il dramma nella stesura definitiva: N° 43, Enea, convinto dai suoi (uomini e… spettri) si prepara in tutta fretta a salpare per l’Italia; N° 44, Didone arriva e lo affronta, dandogli in sostanza del traditore, accusa che Enea respinge confermandole di amarla ma di essere chiamato dagli dèi a compiti superiori; Didone se ne va, maledicendo lui e i suoi dèi. Nel quadro successivo ascoltiamo (N° 45) Didone implorare Anna (e Narbal) di cercare di convincere Enea a restare almeno per un po’ (e già qui siamo al paradossale: ma come, se non ci è riuscita nemmeno lei poco prima, a fermare Enea, come potrebbero farlo la sorella e il suo ministro?) Poco dopo (N° 46) arrivano i cartaginesi trafelati annunciando la partenza dei troiani, e Didone… casca dalle nuvole? Ma come, se poco prima lei stessa, giù al porto con Enea, era stata testimone dei concitati preparativi per la partenza? Insomma, qui davvero la plausibilità degli avvenimenti scricchiola, e parecchio! Ecco invece quale ferrea coerenza drammatica avrebbe avuto tutta la vicenda (come probabilmente era nella prima stesura) senza la presenza dei numeri 44 e 45: N° 43, Enea è convinto a partire e si affretta a farlo; N° 46, Didone apprende che i troiani sono partiti di sorpresa e dà in escandescenze, con tutto ciò che segue. Semplicemente perfetto! Ma torniamo… imperfettamente a bomba.

La didascalia ci dice che si scorgono in lontananza bagliori temporaleschi (non sembrerebbe davvero un buon momento per prendere il mare…) ma evidentemente il temporale è quello che scoppia fra Didone ed Enea, come ci testimonia il tempo (musicale) che muta subitaneamente ad Allegro agitato.

Notiamo che fino a questo momento fra Enea e Didone si era sempre usato il voi, come si addice ad una Regina e ad un ospite di illustre lignaggio. Adesso invece, mentre Enea mantiene una certa calma (anche… musicalmente) e continua con il voi, Didone, di cui la musica sottolinea la tremenda agitazione e la collera verso Enea, è passata bruscamente al tu. Anche questo è un piccolo dettaglio che ci riporta a Wagner: all’inizio della scena finale del primo atto, quando Isolde finalmente riceve la visita di Tristan, lei gli si rivolge sempre con il tu (lui in fondo è solo un militare, lei una principessa) mentre Tristan la tratta rispettosamente con il voi. Però, dopo che Isolde ha ricordato Morold e il suo desiderio di vendetta, Tristan improvvisamente passa al tu!

Dunque, una scena in cui contrastano apertamente le frasi concitate e piene di risentimento di Didone (che persino parla di Enea in terza persona, come rivolgendosi al pubblico) e le risposte smozzicate e imbarazzate del capo troiano, che cerca di motivare la schizofrenia del suo comportamento: deve abbandonare Didone pur amandola  sopra ogni cosa! Da notare anche una sottile ricercatezza di Berlioz, che mette in bocca a Didone un’accusa precisa: tua madre non fu Venere, sbotta, ma tu fosti allattato da una lupa selvaggia. Romolo?

Il dialogo fra i due si muove su diverse tonalità; dall’iniziale SIb minore di Didone (Errante sur tes pas) si passa alla prima risposta di Enea (En ma douleur profonde) sulla sottodominante MIb minore; si torna a SIb minore con Didone (Tu pars?) che poi passa dalla relativa REb maggiore, su cui Enea innesta la sua risposta (J’ai trop tardé) scendendo ancora alla sottodominante SOLb maggiore. Didone (Il part) sembra dire a noi che Enea la sta abbandonando, dando ascolto alla voce del destino e non alla sua; poi, dopo un affannato crescendo, ecco la superba salita da SIb a MIb maggiore a sottolineare l’esclamazione et ma beuté de reine. Poco dopo (Tu pars?) si torna al SIb minore e da qui alla relativa REb maggiore, su cui Enea ricorda il suo innamoramento (Ô Reine, quand à vous se dévoua mon âme). Didone adesso reagisce bruscamente (Tais-toi!) e lo fa con una subitanea virata a LA maggiore; ma sullo straziante rimpianto per non avere avuto da Enea nemmeno il dono di un figlio (Encore, si de ta foi j’avais un tendre gage) la musica si acqueta in un dolce FA maggiore. Enea sembra voler rigirare il coltello nella piaga (Je vous aime, Didon) e lo fa modulando a SIb maggiore, dove si odono da lontano le note della Marcia troiana: sono i suoi uomini che ormai stanno per partire. Un ultimo scambio di battute fra i due, sulla tonalità di SOLb, poi Didone sfoga tutto il suo astio (je maudis et tes dieux et toi-même!) tornando al SIb minore. Un lungo accordo tenuto dall’intera orchestra l’accompagna mentre si allontana verso la reggia.

A questo punto ci si riallaccia al N°43 e riascoltiamo, in SIb maggiore, la Marcia troiana per intero e il grido Italie! scandito da Enea e dai suoi, che si avviano all’imbarco per salpare verso l’Italia, ed escono anche… dall’opera!

Il Quadro secondo ci porta negli appartamenti reali, mentre sta facendosi ormai giorno. Il N°45, Scena, ci mostra Didone ed Anna a colloquio: in realtà si tratta di due esternazioni di Didone intercalate da una risposta della sorella. La tonalità è LA minore, con brevi passaggi a tonalità vicine. In tempo 4/4 i violini attaccano un mesto accompagnamento, caratterizzato da tre semicrome discendenti (DO-SI-LA) seguite da tre crome, tutte in sincope, proprio ad evocare lo stato d’animo della Regina, che pare singhiozzare e trascinare a fatica i suoi passi. I violoncelli entrano con una melodia dal sapore napoletano (caduta dalla sesta minore sulla seconda minore) su cui Didone innesta il suo canto disperato, chiedendo ad Anna di fare un ultimo tentativo per cercar di trattenere Enea. Vaghe sfumature di DO maggiore nell’accompagnamento sembrano indicare che qualche estrema speranza ancora cova nell’animo della Regina.

La risposta di Anna scivola appunto verso la relativa DO maggiore, ondeggiando fra essa e il LA minore: la sorella si dice responsabile della situazione per aver favorito l’amore fra Didone ed Enea, che un implacabile destino allontana da Cartagine, pur se in lui quell’amore continua ad ardere.

Didone risponde salendo a RE minore: no, Enea ha un cuore di ghiaccio, solo io conosco l’amore, per il quale sfiderei anche gli anatemi di Giove! I violini qui hanno ripetuto il loro accompagnamento virando a RE maggiore, poi la tonalità è tornata a LA minore. Che ora muta in LA maggiore: la Regina chiede alla sorella (e a Narbal, che evidentemente è lì nei pressi) di far di tutto per convincere Enea a rimanere anche solo per pochi giorni (il tempo necessario per concepire con lui un figlio? chissà…) Ma lei stessa per prima non sembra convinta della riuscita di un simile tentativo (che infatti non ha alcun fondamento logico, stante gli avvenimenti di poco prima…) e la sua esternazione si chiude con un ritorno del LA minore, sospeso sulla dominante MI.

E qui la speranza cade del tutto! Attacca infatti subito il N°46 (Scena) con il MI di Didone che si fa sensibile e sfuma in un concitato FA maggiore, incardinato sulla dominante DO e su un ritmo dattilico di marcia (semiminima-croma-croma) che poi, grazie all’appoggio sulla sesta minore, modula a REb maggiore: sono i cartaginesi che annunciano di aver visto la flotta di navi troiane allontanarsi. Come detto, qui la costernazione e la rabbia di Didone sarebbero credibilissime, se non ci fosse stato poco prima il suo incontro con un Enea proprio sul punto di salpare, che invece ce le fa apparire piuttosto esagerate, non dico ipocrite.

Insieme ai due successivi numeri (47 e 48) il 46 contribuisce a comporre un quadro completo dell’atteggiamento di Didone di fronte alla situazione creatasi. In questo numero si ripete (per quattro volte) un inciso che simbolizza la sua collera e agitazione: sono 4 crome più una semiminima, che alla prima apparizione (subito dopo Les Troyens sont partis!) suonano come SOLb-FA-FA-SOLb/SOLb. Poco dopo (fra Dieux immortels! e Il part!) come MIb-RE-RE-MIb/RE. Inizia ora un grandioso recitativo, dove la furia della Regina si mescola al suo senso di impotenza, poi ai suoi rimorsi, quindi alla sua sete di vendetta e infine alla decisione di distruggere ogni reliquia del suo amore (ma già sta maturando, come accadrà fra non molto, anche il proposito di togliersi la vita). Ecco infatti esplodere subito la collera di Didone: mentre i fiati proseguono con il ritmo dattilico dell’ingresso dei cartaginesi, gli archi intercalano le esclamazioni della Regina – che incita i suoi a distruggere i troiani, incendiando le loro navi - con veloci scale ascendenti, che toccano successivamente SIb, SI e MIb. Poi (Courbez vous sur les rames) fiati e archi continuano ad interporsi alle esclamazioni di Didone con violenti accordi, fino alle parole Que la ville entière, dove troviamo una prima interruzione della sua violenta tirata. Che lascia spazio (Que dis-je) alla constatazione dell’impotenza che la invade, e all’abbandono (momentaneo) al dolore e alla disperazione. Qui torna però, per la terza volta e in forma dilatata, l’inciso della sua collera, ed ecco che Didone riprende il piglio aggressivo – sempre intercalata dagli accordi strappati dell’orchestra - pentendosi di non aver distrutto i troiani già al loro arrivo, e di non aver servito ad Enea, in un raccapricciante banchetto, il corpo del figlio Astianatte! Ora arrivano i propositi di rivalsa: preceduta da un perentoria scalata dell’orchestra (DO-MI-SOL-DO-MIb-SOL) che chiude su un solenne accordo di MIb maggiore dei fiati, Didone, percorrendo dall’alto in basso un’ottava (MIb-SIb-SOL-FA-MIb) invoca gli dèi degli Inferi contro Enea. E subito dopo udiamo, per la quarta volta, l’inciso della sua collera, che introduce l’appello al sacerdote di Plutone e l’invito a preparare una pira su cui verrà bruciata qualunque traccia materiale di Enea e dei troiani. La tonalità sfuma verso il FA# minore, mentre il suo canto ora si è fatto grave e dolente, come l’accompagnamento dell’orchestra, lasciato ai soli legni in unisono, con una chiusura in pianissimo su un accordo di settima diminuita (LA nel corno inglese, DO nei clarinetti e MIb-FA# nei flauti). Infine, quasi senza alcun accompagnamento, Didone licenzia Anna e Narbal, rimanendo sola per il successivo Monologo.

Che è il N°47, aperto da agitati accordi di LA minore, che accompagnano la Regina che si muove come una belva in gabbia, strappandosi i capelli (Berlioz puntigliosamente annota in calce il verso virgiliano: Flaventesque abscissa comas)! Sono 20 battute suonate dalla sola orchestra, cui la voce si sovrappone nelle ultime 5, con due urla strazianti (FA-RE). Poi Didone si ferma improvvisamente e nelle restanti 35 battute, in MIb minore, esterna il suo stato d’animo, ormai irreparabilmente rassegnato alla morte: e qui non a caso il tempo cambia ben 12 volte, addirittura 5 volte nelle prime 6 battute! La Regina non spera più nemmeno nella vendetta, ma solo che Enea conservi ancora nel suo animo qualcosa di umano, che gli permetta un giorno di piangerla. E qui abbiamo il culmine di questa esternazione (Esclave, elle l’emporte en l’eternelle nuit) con una salita al FA seguita da una discesa fino al MI della sottostante ottava. Neanche Venere ormai può restituirle l’amato, e lei non attende che la morte, plus rien: e pronuncia queste due parole con un drammatico salto di nona discendente (FA-MIb) sul quale gli archi chiudono con un dolcissimo MIb maggiore.

Qui c’è una corona puntata, prima che inizi l’aria N°48 (Con solennità, recita l’agogica di Berlioz, per un Adagio in 6/8) che scende alla sottodominante LAb maggiore per concludere questa scena tutta impregnata del dolore di Didone. Un dolore acuito dai ricordi di un’intera vita dedicata all’edificazione della sua città, da quelli dell’amata sorella e delle rive africane che l’accolsero; ma soprattutto i ricordi di quelle notti d’estasi e d’amore, che mai più potranno ritornare.

Il primo addio (alla fiera città) percorre la triade maggiore di LAb, scendendo da dominante a dominante: flauti e oboe ne ripetono l’incipit; invece le viole anticipano il secondo verso, che risale da dominante a mediante; poi ancora le viole si allineano al canto, una terza sotto, alla conclusione del terzo verso:


Un controsoggetto accompagna poi il ricordo della sorella, chiudendo a somiglianza del primo motivo. Il secondo addio è per il popolo e per l’ospitale terra d’Africa: questo parte dalla dominante e scende fermandosi alla sesta, per poi risalire alla sopratonica (quindi è una variante meno estesa in altezza della prima apparizione del motivo). Anche il controsoggetto varia sottilmente la prima apparizione. Il terzo addio è per il bel cielo d’Africa, che parte dalla sottodominante e scende alla sesta, ripetuto due volte.

A questo punto - mirabilmente! – ecco innestarsi il tema dell’estasi infinita, che aveva chiuso (un tono più sotto, SOLb maggiore) il quarto atto. Ne ascoltiamo solo il primo verso, poi un inciso di fiati e viole culminante sulla sesta minore lo interrompe; ma Didone riprende quell’inciso (Je ne vous verrai plus) salendo alla sesta maggiore (!) prima che legni e viole lo ribadiscano sulla settima minore, poiché… ma carrière est finie! La voce resta sospesa sulla dominante MIb, ripresa dagli archi (con i tromboni a cadenzare quasi… a morto) che degradano lentamente fino alla tonica LAb, seguendo i passi di Didone che esce lentamente di scena.

Siamo ormai al Quadro terzo (ed ultimo) che principia con il N°49, Marcia funebre, protagonisti il coro, Anna e Narbal. Il tempo è proprio da mortorio (Moderato, un poco sostenuto, in 4/4) e la tonalità è DO# minore (quella con cui Mahler aprirà in modo funebre la sua Quinta). Si può macroscopicamente suddividere in tre parti: dapprima il coro dei Sacerdoti di Plutone che invocano le divinità dagli inferi perché ridiano pace al cuore esacerbato della Regina; poi un intervento di Anna e Narbal a maledire Enea, augurandogli il fallimento della sua impresa; infine il ritorno del coro.

L’orchestra introduce il tema principale, che scende da tonica a dominante, poi sale alla mediante da dove, dopo un breve scarto cromatico, scende ancora per gradi congiunti alla dominante. È esposto dalla cornetta a pistoni e dal primo trombone, mentre i contrabbassi in pizzicato segnano il tempo con crome martellanti sulla sequenza DO#-SOL#-DO#-DO# che verrà ripetuta fin quasi alla fine del primo intervento del coro; i timpani invece battono solo il DO#, ma su un metro dattilico (semiminima/croma-croma) quasi ad intaccare la regolarità della marcia:


Il coro maschile espone il primo verso (invocazione alle divinità) dove il tema è lasciato alle sole voci basse, quasi in sottofondo, e chiude virando al modo maggiore, sul LA#; qui cornetta e trombone riprendono il tema, salendo al SI (la dominante della relativa del DO# di impianto) e il coro espone il secondo verso (preghiera di ridare pace al cuore di Didone) che chiude significativamente in MI maggiore, con un giro attorno alla mediante, cui fanno eco gli strumentini. Ora l’invocazione alle divinità viene ripetuta, chiudendo gravemente, dopo un rabbrividente accordo sul richiamo al Chaos, sul DO#.

Ora intervengono Anna e Narbal, che riprendono all’unisono il tema salendo alla mediante dalla tonica dell’ottava sottostante (percorrendo la triade di DO# minore) poi scendendo fino alla sottodominante: augurano ad Enea, ammesso che arrivi in Italia, di fare una brutta fine! Chiudono il verso sul RE, che sale al MIb sul quale udiamo possenti accordi dell’orchestra. Adesso i due ripetono il tema un semitono più in basso (DO minore) augurandosi che gli umbri (Turno!) si alleino ai latini per fermare Enea.

L’ultima strofa è un vero e proprio anatema: che Enea venga trafitto in battaglia e resti abbandonato sul campo, preda degli avvoltoi; e si conclude con l’ennesima invocazione alle divinità, ora sostenuta anche dal coro, e che sembra proprio un ordine perentorio! Il coro ripete adesso, ma assieme ad Anna e Narbal (tornati al DO# minore) la prima strofa. Ancora una volta Berlioz non si accontenta di riproporcela tal quale, ma vi introduce un mirabile effetto nell’accompagnamento dei violini: i quali scaricano delle semiminime, in tremolo, ad intervalli di 3 (anziché 2 o 4) disarticolando in tal modo la regolarità del mortorio!  

Sulla pausa dell’ultima battuta della marcia Didone attacca il N°50, la Scena del suo supremo sacrificio. Scena che si presenta musicalmente sotto forma di recitativo accompagnato, con dettagliate didascalie che descrivono i movimenti della Regina, sottolineati dagli interventi dell’orchestra. Dapprima, nel silenzio generale rotto solamente da lunghe note tenute di viole e celli, con i contrabbassi in pizzicato a ritmare il tempo (in modo anche qui irregolare) Didone sembra volersi dar coraggio, ritrovando la calma interiore: lo fa con una frase, quasi sillabata a stento, che muove dal DO# e scende cromaticamente fino al RE# sottostante. L’ultimo verso (Je sens rentrer le calme… dans mon coeur) chiude significativamente sul DO# maggiore.

Adesso quattro sacerdoti si muovono a coppie recando i due altari e Didone li segue verso la pira. Questa parte della scena è accompagnata dal ritorno in orchestra (flauti e clarinetto, più le viole in tremolo e cornette e tromboni a scandire il ritmo affrettato) del tema della precedente marcia, sempre in DO# minore e sfociante in modo maggiore, mentre Didone ha raggiunto la sommità della pira. Il clarinetto solo, nel generale silenzio, introduce una seconda frase della Regina (D’un malheureux amour) che ha gettato sulla pira la toga di Enea e il suo velo, tutta cantata sull’unica nota di DO#.

Una figurazione discendente in biscrome degli archi sottolinea lo sguardo che Didone riserva alle armi di Enea, ed anticipa il suo lamento (un lungo Ah!) che sale per gradi dal DO# (divenuto dominante) al FA#, tornando al DO#, sul quale ancora i violini esplodono un inciso dal piglio eroico che introduce, in celli e contrabbassi, una fiera riesposizione in FA# minore del tema della marcia. Didone si è gettata sul letto posto in cima alla pira, poi si risolleva impugnando la spada di Enea. Dopo un tremolo fortissimo degli archi, ecco i fiati scalare un’ottava, sulla triade di SI minore, dando la stura alla violenta esternazione di Didone: spalleggiata da interventi feroci di archi e legni (mentre la tonalità, per enarmonia, vira dal FA# al SOLb) la Regina prefigura (un poco come Cassandra) i fasti che il suo popolo raggiungerà nella Storia, fino a quando sulla terra d’Africa nascerà un glorioso vendicatore: Annibale! Annibale! Ora si può scendere agli inferi, conclude Didone, modulando al REb, di cui percorre la scala discendente, dal FA al REb un’ottava sotto. Ma ecco ora la scena-madre: la Regina estrae dal fodero la spada di Enea e con quella si trafigge, mentre l’orchestra esplode due crome in fortissimo.

Immediatamente è il Coro maschile, con Anna e Narbal, ad attaccare il N°51: tutti cercano di soccorrere Didone, Anna in particolare, mentre Narbal va a chiamare il resto del popolo. Ecco infatti anche il coro femminile entrare in scena manifestando con gli altri il proprio orrore alla vista della Regina morente in un lago di sangue. L’orchestra interpreta l’agitazione e lo sconforto dei presenti con continui cambi di ritmo (crome, semiminime, terzine di crome) fino a raggiungere il culmine sull’imprecazione generale (Jour d’horreur!) chiusa da una terzina+semiminima di strumentini e cornette. Ora si fa quasi silenzio e, precisamente come descritto da Virgilio, Didone, invano confortata dalla sorella, per tre volte si rialza reggendosi su un gomito, e per tre volte stramazza, emettendo lamenti… sull’ultimo dei quali predice la fine di Cartagine, con una triplice imprecazione, scandita su intervalli di semitono discendente partenti da altezze crescenti di un tono intero: LAb-SOL (Des destins ennemis) SIb-LA (Implacable fureur) e DO-SI (Carthage périra!)

La chiusura dell’opera prende il titolo di Maledizione (N°52). Ma prima che i cartaginesi la esternino, è ancora Didone, con le sue ultime forze, a cantare Roma… Roma… immortale! mentre una banda in lontananza attacca con ritmo marziale. L’ultima parola della Regina è esposta sulla triade di SIb maggiore, la tonalità della marcia troiana che infatti, dopo quattro folate delle arpe, si presenta in tutta la sua prosopopea, mentre il popolo cartaginese già prefigura le guerre puniche e le umiliazioni che Annibale&C infliggeranno ai romani. Ma è proprio Roma che lo spettatore vede, lontana, sullo sfondo, nel tripudio dei trionfi imperiali, mentre cala il sipario.
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C’è poi la storia dei due finali. In origine Berlioz, al finale che si rappresenta oggi (Nos derniers descendants, contre eux toujours armés, De leur massacre, un jour, épouvantent le monde!) aveva aggiunto un Épilogue (166 battute musicali, in tempo lento ed enfatico) chiudendo la partitura con la scritta in calce: Qudquid erit, superanda omnis fortuna ferendo est (Virgile) – 12 avril 1858. In questo epilogo, sulla musica della marcia troiana divenuta inno romano, si vedeva Roma con Clio, la Musa della Storia, che presentava grandi personaggi della storia romana, Virgilio incluso: 

Scipioni Africano Gloria!
Julio Caesari Gloria!
Imperatori Augusto et Divo Virgilio Gloria! Gloria!
Fuit Troja, Stat Roma!
Un soprano e un tenore ribadivano: Stat Roma! Stat Roma!

Berlioz nel gennaio 1860 decise di cassare questo epilogo, forse ritenendolo inadeguato a rappresentare – da solo – il resto dell’Eneide (per questo ci sarebbe voluta almeno una terza opera!) Peraltro la chiusura definitiva ci manda con mirabile concisione un duplice messaggio: la maledizione cantata dai cartaginesi, contrappuntata dalla musica della marcia troiana, sullo sfondo del Campidoglio!

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Allego uno studio su Berlioz pubblicato nel febbraio 1990 su Musica&Dossier a firma di Olga Visentini, che ha recentemente tenuto l’introduzione all’opera nell’ambito del programma Prima della prima al Ridotto Toscanini.