Quanto alla macro-struttura, abbiamo
una suddivisione in cinque atti e nove quadri (1-2-1-2-3) ma quando
l’Autore si rassegnò all’idea di due opere da rappresentarsi anche
separatamente modificò la struttura di entrambe le parti: così La Prise de Troie fu distribuita su tre
atti (di quasi uniforme durata – 30’) e quattro quadri (1-1-2) e Les Troyens à Carthage su quattro atti e
cinque quadri (1-1-1-2) più un Preludio
aggiunto appositamente. Oggi questa versione non è più impiegata, essendo
divenuto usuale rappresentare l’opera in un'unica serata, tuttavia alcune
tracce musicali di essa vengono a volte ripescate.
In
assenza di una vera e propria Ouverture,
La Prise de Troie presenta una breve introduzione
strumentale e il coro di apertura sostenuti (salvo pochi pizzicati di archi) dai soli fiati: gli strumentini a creare
l’animazione di fondo con le loro sestine ribattute; fagotti e cornette, poi i
corni a scandire la brillante melodia. Ciò per dare proprio l’idea dello
scenario en plein air che si apre
agli occhi dello spettatore: il popolo troiano che finalmente può uscire dalle
mura in cui era rinchiuso da 10 anni! Scenario completato dalla presenza, sulla
tomba di Achille, di tre flauti doppi
antichi (oppure tre oboi) che si fanno udire per la prima volta, soli, alla
battuta 13. Si noti che dopo le prime 30 battute puramente strumentali le
sezioni del coro entrano con semplici esclamazioni (Ah! anticipate
poco prima e sostenute ora dall’inciso dei tre flauti doppi) per altre 11
battute, mentre il popolo comincia a danzare. Tutto ciò a sipario ancora chiuso
(si dovrebbe alzare a battuta 42 sulle prime parole - Quel bonheur… - del coro femminile).
L’intero primo atto è un
susseguirsi e un alternarsi fra grandi scene di massa e di esultanza generale e
drammatici squarci di allarme o di cupa disperazione, dei quali sono
protagonisti Cassandra (in primissimo
luogo) Corebo ed Enea.
Alla prima sezione del coro (N°1,
Coro del popolo troiano, in 6/8) che
è una specie di saltarello, proprio
di gente che dà libero sfogo alla gioia per la riconquistata libertà, ne segue
una seconda (in 2/4) dal piglio canzonatorio verso i Greci (Quels poltrons que
ces Greques) durante la quale la cornetta a pistoni in LA,
riprendendo il motivo esposto inizialmente dai legni, sembra proprio voler
irridere i nemici, con impertinenti sberleffi:
Dopo che si è sparsa la voce del
cavallone lasciato dai greci sulla riva dello Scamandro, e mentre tutti i
curiosi là si dirigono, sull’accordo acuto di SOL maggiore che chiude il coro entra
(N°2,
Recitativo e Aria) la protagonista
assoluta della prima parte dell’opera, Cassandra, con un recitativo accompagnato (Les Grecs ont disparu!) che apre in DO minore e
ha l’austerità, la nobiltà e la profondità di Gluck o di Händel; perfettamente
appropriato ad esprimere l’agitazione che pervade il suo animo. Già
l’introduzione – che coincide con la prima comparsa piena degli archi - è di
una drammaticità impressionante:
In particolare il successivo martellante
accompagnamento delle viole fa pensare all’apertura del second’atto di Fidelio,
mentre Cassandra manifesta i suoi timori: ha visto l’ombra di Ettore aggirarsi
sui bastioni scrutando il mare quasi a sondarvi la persistente presenza del
nemico, ora vede il suo popolo che si dà alla pazza gioia, addirittura guidato
stoltamente dal suo stesso Re. Il recitativo si chiude con la ripresa variata dell’agitatissima
introduzione.
L’aria
che segue (Malhereux
Roi) è davvero strabiliante, in forma tripartita: dapprima (MIb
minore) Cassandra impreca contro Re Priamo,
suo padre, che non le dà ascolto. Poi (SIb e MIb maggiore) ricorda l’amato Corebo,
che pure la crede impazzita. Infine riprende il Malhereux Roi, adesso in maggiore. Alla fine dell’aria,
sull’invocazione a Corebo, ecco un inciso per
terze dei flauti, nel silenzio generale, che viene da molto lontano (scena
lirica La Mort de Cléopâtre, 1829) compresa la tonalità:
Ora abbiamo
il duo Cassandra-Corebo (N°3,
Duetto) che in realtà è assai
complesso ed articolato, comprendendo recitativi, cavatine e ariosi: in tutto
dura più di un quarto d’ora… non siamo proprio al second’atto di Tristan, ma poco
ci manca! Certo però non è il classico duetto d’amore, ma un drammatico
confronto fra due individui che hanno proprio visioni diverse della realtà: tornando a Wagner, ricorda piuttosto le
scene fra la disperata Sieglinde e l’ottimista Siegmund del second’atto di Walküre.
Dapprima
abbiamo un recitativo, introdotto da un ritornello nei violini che ricompare
successivamente, in cui Corebo sembra rimproverare a Cassandra la sua
testardaggine nel non voler partecipare alla gioia per la vittoria (sei avvinta
inestricabilmente alle tue convinzioni, le dice, proprio come un’amadriade si attacca simbioticamente al
suo albero) e dove la donna lo implora di abbandonarlo, poiché sta arrivando
l’ora della morte, non dell’amore. E qui Corebo canta un’accorata cavatina (Reviens à toi) in MI maggiore,
tempo Larghetto in 3/4, che
riprenderà dopo il recitativo di Cassandra (Tout est menace) dove la profetessa – al
riapparire di incisi che aprivano e chiudevano il suo grande recitativo
d’esordio - esterna tutte le sue tragiche visioni: i nemici ritornare, fiumi di
sangue scorrere nella città e una spada greca trafiggere il fianco di Corebo.
Una scena di straordinaria drammaticità, tutta costellata da brevi esclamazioni
della donna intervallate da pesanti interventi dell’orchestra.
Alla fine
della ripresa della cavatina di Corebo (che Cassandra ora contrappunta con le
sue angoscianti visioni di morte) i violini chiosano con un inciso che sa molto
di… Fantastique!
Ancora un
dialogo in recitativo (Si tu m’aimes, va-t’en!) con la reiterazione
dell’invito di Cassandra a Corebo di fuggire e la risposta dell’uomo che mai e
poi mai potrebbe abbandonarla. Qui Corebo canta un arioso in FA maggiore (Mais le ciel et la terre) in cui esprime tutto il
suo ottimismo e la speranza nel futuro di pace (una visione del futuro quasi panica, la sua).
Dopo che Cassandra
ha ancora ribattuto, in recitativo, le sue mortali profezie (Signes trompeurs!)
ecco il vero e proprio duo (Quitte-nous dès ce
soir!) in SI maggiore, basato su questo motivo:
Cassandra e Corebo
cantano una strofa ciascuno (lei implorando lui a fuggire, lui ribadendo di
voler restare al suo fianco) come soggetto e controsoggetto; poi cantano
insieme, per terze, i rispettivi
versi, chiusi dal ritornello iniziale, cui segue un ennesimo dialogo in recitativo
(Si de ton noble
amour) dove ascoltiamo un ultimo batti-e-ribatti fra i due; quindi
il motivo principale, ancora insieme, conduce al definitivo dialogo, l’estremo
conflitto parti-resto, dopodiché Cassandra
abbraccia Corebo (Eh bien! Voilà ma main) consapevole della fine imminente, e
chiude il numero con un SI acuto sul demain.
Nella
versione in tre atti, qui termina il primo, con pesanti accordi di SI maggiore;
il secondo inizia a sua volta con 9 battute puramente orchestrali che
introducono, anticipandone il tema, la marcia
cantata dal coro. Invece nella versione standard le 3 battute di chiusura del
duetto sono rimpiazzate da 7 battute, 5 che reiterano il ritornello iniziale e 2
che, in diminuendo, preparano la
transizione da SI maggiore al DO maggiore successivo, dove la marcia attacca
subito con il coro. Talvolta il Direttore decide, anche nelle esecuzioni
complete, di impiegare la componente strumentale della versione in tre atti, la
cui soluzione di continuità alla fine del duo magari consente al pubblico di
applaudirne i protagonisti, prima che si passi oltre…
Siamo infatti
arrivati (N°4, Marcia e inno) ad
un’altra scena di popolo (Dieux protecteurs de la ville éternelle): una
cerimonia di ringraziamento agli dèi - dove sfilano Ascanio e i fanciulli, Ecuba
e le principesse (qui sembra di sentire il… Walhall!) Enea e i
guerrieri, Priamo e i sacerdoti - che si presenta con i caratteri di una marcia
solenne (Allegro moderato e pomposo
prescrive Berlioz). La tonalità è ondivaga, passa dal DO maggiore al minore e
poi, tramite la sesta napoletana, al
LAb maggiore e FA minore; il tutto conferisce alla marcia un sapore arcano,
quasi che il corteo dei troiani voglia manifestare allo stesso tempo l’orgoglio
per la vittoria nella guerra e il lutto per i caduti che tale vittoria ha
reclamato, oltre che un vago presagio dell’imminente catastrofe:
Curiosa la
meticolosità con cui Berlioz prescrive il trattamento delle percussioni dove,
oltre a timpani, tamburo, tamburo rullante e gran cassa, sono richiesti, al
momento dell’entrata di Enea:
una vera e propria batteria di triangoli,
che devono emettere suoni di altezza diversa (precisamente
SOL-FA-DO-SI-LA-FA#-RE) e dei sistri
antichi, per dare un suono metallico e conferire ulteriore pesantezza alla
marcia dei soldati. Sul piano letterario, da notare il termine Ville éternelle che Berlioz impiega per
descrivere Troia, ma con un chiaro riferimento a… Roma!
Alla marcia
segue (N°5, Pugilato e passo dei
lottatori) un siparietto proprio del grand-opéra:
una scena di pugilato e danza di lottatori. È un classico passo di balletto, in
3/8 con un inserto in 5/8 e diverse possibilità di da-capo (corti-lunghi) che
consentono di allungare o restringere il brodo a discrezione di direttore e
regista.
Ma ora
arriviamo ad un altro dei momenti topici di questo primo atto (N°6,
Pantomime) che ha come protagonisti
(muti) Andromaca e il figlioletto Astianatte, con il coro a descrivere mestamente
questi momenti pieni di umano dolore. In tonalità di FA# minore, è il
clarinetto solo ad accompagnare stupendamente l’intera scena, supportato
sommessamente dagli archi: l’arrivo di Andromaca, col figlioletto che depone
fiori ai piedi dell’altare, la preghiera dei due, poi il bimbo portato dinanzi
ai regnanti che lo benedicono (solo qui gli ottoni entrano brevemente, in
presenza della figura di Priamo, con cadenze che ancora ricordano vagamente il
Walhall). Poi il fanciullo torna a rifugiarsi fra le braccia della madre,
mentre le lacrime scendono sui volti delle donne troiane che si stringono ai
loro uomini. La Pantomime si conclude con una nuova cupa profezia di Cassandra
per Andromaca (morte per il figlio e cattura per la madre): sono i violoncelli
soli, suonando la quinta vuota (FA#-DO#) e poi la terza minore (FA#-LA) ad
accompagnare le ultime meste esalazioni (RE-DO#) del clarinetto e l’ultimo Ah! del
coro.
A questo
punto Berlioz aveva originariamente inserito la scena di Sinon (il finto traditore greco che, secondo Virgilio, convince i
troiani a portare il cavallone dentro la città). Il testo, derivato dal Libro II dell’Eneide, mette in bocca a Cassandra
la famosa frase (di Laocoonte) Timeo
Danaos et dona ferentis, e mette più in risalto la figura di Priamo,
nell’interrogatorio del greco. Nel 1861 il passaggio fu espunto dalla partitura
(e addirittura distrutto o messo chissà dove) da Berlioz, che evidentemente ne
aveva una considerazione assai scarsa, e da lui mai più recuperato in seguito.
Ne è stata trovata traccia solo in uno spartito per voce-pianoforte, dal quale
nel 1986 il musicologo Hugh Macdonald
ha ricostruito la partitura, che talvolta viene quindi reinserita (piuttosto
surrettiziamente, per la verità) nel corpo dell’opera.
Che invece
prosegue con una nuova irruzione drammatica (N°7, Recitativo): è Enea che arriva trafelato, cantando un recitativo accompagnato (Du
peuple et des soldats) in cui narra l’orribile fine di Laocoonte,
stritolato e incenerito dai due serpenti marini dopo che aveva scagliato la sua
lancia contro il cavallone, incitando la folla a dargli fuoco. La tonalità è
FA# minore, che poi vira alla relativa LA maggiore per la chiusura. Da notare
le ondulanti semiminime con cui fiati
e contrabbassi accompagnano il tentennare della folla prima e l’irrompere poi
dei due rettili (qualcosa di simile al wagneriano motivo del drago). Pare che
Berlioz avesse intenzione di comporre anche una barcarola (!) per dipingere l’arrivo dei serpenti…
Segue ora il N°8
(ottetto e doppio coro) Châtiment
effroyable!: a cantarlo sono
Cassandra, Corebo ed Enea (che già avevamo ascoltato) più altri cinque
personaggi che finora erano soltanto apparsi in scena, ma senza cantare: Priamo,
Panteo, Eleno, Ascanio ed Ecuba. Più il coro che alla ripresa,
sull’imprecazione di Cassandra (Ô peuple déplorable!) si sdoppia in due (soprani I e
tenori a destra; soprani II, contralti e bassi a sinistra). L’atmosfera è come
sospesa, la tensione si taglia davvero col coltello, enorme è l’impressione che
quell’evento straordinario ha lasciato in tutti: basti pensare che le parole Mystérieuse horreur
sono cantate su un inciso che vira dal FA# d’impianto al DO (lo sbifido tritono!)
Il N°9
(Recitativo e coro) è un nuovo
recitativo di Enea (Que la déesse nous protège) seguito dal coro
(nella versione originaria, con la scena di Sinon, il protagonista qui era Priamo,
mentre Enea era assente): Enea invoca la protezione di Pallade e invita il
popolo a trascinare il cavallone dentro le mura. Cassandra non manca di
avvertire il pericolo, mentre entra il coro che, insieme a sei dei protagonisti
del precedente ottetto (mancano la stessa Cassandra ed Ascanio) chiede enfaticamente
perdono alla dea.
Ora abbiamo una nuova aria di Cassandra (N°10
Non, je ne verrai pas la déplorable fête): in gran parte pervasa da un
autentico tumulto che invade il suo animo, magistralmente evocato dagli incisi
degli archi e dagli interventi in sincope dei tromboni:
Subito prima delle parole Ô
cruel souvenir il clarinetto
intona un dolcissimo tema ascendente, che supporta il rimpianto di Cassandra
per la possibile felicità (con l’amato Corebo) e per la gloria patria ormai
compromessa. L’invocazione ai due uomini della sua vita (l’amante e il padre) Ô Chorèbe,
Ô Priam è supportata dal
succedersi di intervalli di un tono
intero (RE-DO) che successivamente degradano al semitono, fino al REb-DO che sottolinea le lacrime che inondano il
suo viso, mentre il tremolo degli archi accompagna le meste terze dei clarinetti.
Sulle quali si apre il Finale con la Marcia troiana
(N°11). Qui Berlioz ha davvero
cercato degli effetti speciali, proprio da grand-opéra,
piazzando ben tre gruppi orchestrali e due corali dietro la scena, mentre
Cassandra sta al proscenio, quindi vicino all’orchestra in buca. Per
sincronizzare al meglio i diversi gruppi di esecutori, Berlioz suggerisce in
partitura che il Direttore faccia uso di un metronomo
elettrico a tre fili, uno strumento inventato proprio in quegli anni dal
belga Joannes Verbrugghe che
trasmette istantaneamente ai diversi gruppi di esecutori remoti il tempo battuto dal Direttore (oggi che disponiamo di
telecamere e monitor a volontà, queste diavolerie ci fanno sorridere!)
Un’altra caratteristica peculiare di questo finale
riguarda la natura degli strumenti e in particolare l’impiego della famiglia
dei saxhorn (da Adolphe Sax, loro inventore, peraltro contestato…) Si tratta in
sostanza di flicorni di diversa
dimensione ed estensione. (Anche questa è una trovata che fa il paio con quella
dell’adozione delle tubette da parte
di Wagner.)
Dietro la scena e assai lontano è piazzato il primo
gruppo di strumenti, composto da un saxhorn sovracuto, due trombe semplici, due
cornette a pistoni, tre tromboni e un oficleide; insieme a loro i soprani I e i
bassi. Sempre dietro la scena, ma meno lontano dal pubblico si trova il secondo
gruppo di strumenti: otto saxhorn (due soprani, due contralti, due tenori e due
contrabbassi) più i piatti. Dietro le quinte, quindi ancor più vicino, il terzo
gruppo: tre flauti e sei-otto arpe (!) più soprani II, contralti e tenori. Come
si vede, un armamentario incredibile, rispetto al quale impallidiscono anche
certe esagerazioni wagneriane, tipo l’entrata di drappelli militari nel
terz’atto del Lohengrin o le sette arpe prescritte nel Ring.
Va però sottolineato come – a differenza della
citata scena del Lohengrin, dove il fracasso imperversa sovrano – qui
l’obiettivo di Berlioz è quello di mostrarci e farci udire in lontananza i cortei che accompagnano il trasporto del cavallone
(attenzione: che non si vede mai) in
città e in primo piano le angosciate
esternazioni di Cassandra, sostenute dall’orchestra in buca, contro la
stoltezza del suo popolo. (Qualcosa del genere farà Bizet nel finale di Carmen: l’orchestra in buca a
sottolineare la tragedia che si svolge in primo piano, e gli strumenti in
scena, lontano, a celebrare il trionfo di Escamillo.) Insomma, noi spettatori
abbiamo la stessa prospettiva (occhi e orecchie) di Cassandra. Non per nulla questo
intero finale è stato giustamente definito come un match Cassandra-contro-tutti!
Dopo alcuni squilli introduttivi, ecco il primo
gruppo di strumenti fuori scena intonare quella che prende il nome di marcia troiana, che poi risentiremo
negli atti cartaginesi e proprio alla fine dell’opera:
Pare che la musica provenga da una composizione del
1853, la Marche pour la musique des Guides (che si sarebbe dovuta eseguire – ma
non lo fu - in Notre-Dame in onore delle nozze di Napoleone III). Opera di cui
si è perduta ogni traccia, ma che prevedeva l’impiego quasi esclusivo dei
saxhorn, e questo alimenta la supposizione che Berlioz l’abbia in qualche modo
ripescata facendone il sigillo dei suoi Troyens.
Sono le cornette a pistoni e il saxhorn sovracuto ad
esporre per primi il tema in SIb maggiore, che presenta però, come già quello
della marcia del N°4, delle alterazioni tonali, volte evidentemente a
togliergli la possibile monotonia. Quanto al testo, nell’intero finale si
riconoscono un ritornello e tre strofe cantati dai cori, poi – dopo
l’improvviso silenzio e la suspense
legata ai rumori che provengono dalla pancia del cavallone – la strofa finale
dei cori. Cassandra interviene con le sue angosciate esternazioni e infine
chiude da sola l’atto con il disperato prefigurare la fine della città e la
propria morte.
L’intera scena si può schematicamente suddividere
così:
- Il coro associato al primo gruppo di strumenti
espone dapprima il ritornello (Du roi des dieux) mentre Cassandra trasalisce (De mes sens éperdus);
- sempre il primo coro espone la prima strofa (À
nos destins) e Cassandra interviene esternando la sua
sorpresa all’avvicinarsi del corteo (Quoi,
déjà le cortège!);
- ora, insieme al primo gruppo di strumenti si comincia ad
udire anche il secondo e subito dopo gli oboi del terzo, mentre il primo coro
espone il ritornello;
- entra il secondo coro ad esporre la seconda strofa (Entends nos voix)
e Cassandra interviene ancora (L’éclat des chants augmente!) sempre più
preoccupata, poi si odono più chiaramente gli oboi e le arpe del terzo gruppo
di strumenti e ancora Cassandra che percepisce sempre più vicino il corteo che
trascina e accompagna il cavallone;
- i cori entrano in scena, a destra e sinistra, sul fondo, con
i saxhorn del secondo gruppo, e insieme intonano il ritornello;
- quindi i soprani I iniziano a cantare la terza strofa (Souriante guirlande)
raggiunti poi da tutti gli altri coristi;
- adesso sono il secondo e terzo gruppo di strumenti ad esporre
il tema della marcia, mentre i cori ripetono la seconda parte della terza
strofa (Semez
sur la ramée);
- a questo punto, nell’improvviso silenzio generale, si ode il
suono di parecchie coppie di piatti (sono parte del secondo gruppo di strumenti
dietro la scena): mentre i bassi si domandano Qu’est ce donc? Cassandra
percepisce l’agitazione della folla e diverse donne dei cori si muovono verso
le quinte, come per accertarsi di cosa stia succedendo;
- tornano quasi subito e con tutto il coro (bassi esclusi!)
avvertono che un sordo rumore d’armi esce dalla pancia del cavallone!
- tutti sembrano inquieti e Cassandra si domanda se per caso
non si stia sospendendo la processione;
- ma i bassi (ironia: sono proprio i senatori a cadere nel tranello di Ulisse!) rincuorano tutti (Présage heureux!)
e così l’intero popolo inneggia alla gloria di Troia (Fiers sommets de Pergame);
- adesso il corteo si allontana, i suoni sfumano, si odono
ancora soltanto quelli del primo gruppo strumentale, e rimane in primo piano solo
Cassandra.
Il finale d’atto è occupato dall’estrema esternazione della profetessa (Arrêtez! arrêtez!) che non può che constatare
la propria impotenza, e l’ineluttabilità della tragedia. È un accordo di SIb
minore a suggellare l’inizio della fine di Troia.
Sullo stesso accordo si apre il secondo atto, che è suddiviso in
due quadri. Nel primo Quadro troviamo (N°12, Scena e recitativo)
Enea addormentato nel suo letto, mentre si odono lontani suoni di battaglia. La
prima parte dell’introduzione orchestrale consta di un episodio (di 10 battute)
ripetuto due volte e da una chiusa di 5 battute. La tonalità è continuamente
cangiante (in chiave nessun accidente…):
dal SIb minore, dove archi bassi e fagotti reiterano un rapido motivo
ascendente, caricando l’atmosfera di tregenda, alla quarta battuta si raggiunge
il REb maggiore; alla quinta si sale al MI, dominante di LA maggiore, di cui è
scandita seccamente la triade discendente, quasi ad evocare scontri e crolli;
altra mutazione, su una sinistra settima diminuita, e poi tre battute delle
trombe (dietro le quinte) che ritmano i loro squilli guerreschi: RE, poi SOL#.
Siamo ora in SI minore e le 10 battute si ripetono
quasi identiche, solo un semitono più in alto (evidentemente la tensione là
fuori sta salendo). Perciò dal SI si sale al RE, la triade è quella di SIb e gli
squilli di tromba adesso scendono dal MIb al LAb. Le restanti 5 battute, mentre
si alza il sipario, scendono pesantemente dal SOLb per un’ottava, sfociando in
una sesta napoletana di MIb, il cui
DOb prepara, per enarmonia, la tonalità di SI dell’entrata del giovanetto
Ascanio, che è ben desto e accorre dal padre, forse per avvertirlo del pericolo:
le rapide semicrome ondeggianti di flauti e clarinetti sembrano evocare i
passetti veloci del fanciullo, che però poi si ferma e rinuncia a svegliare
Enea, tornando sui suoi passi.
E qui ecco l’apparizione dell’ombra di Ettore: sono
15 battute in SIb minore, davvero rabbrividenti, col pizzicato degli archi e il
tremolo delle viole contrappuntati in
sincope dai suoni chiusi dei corni e dai sordi rintocchi di timpano, che
accompagnano la figura dell’eroe troiano, morto in battaglia per mano di
Achille, che ora avanza con passi lenti verso il letto di Enea, dove resta un
attimo a contemplarlo in silenzio, con un sospiro.
Un tremendo accordo di tutta l’orchestra,
rappresentante secondo Berlioz un ennesimo e più forte crollo di mura, sveglia
Enea che si trova di fronte la figura di Ettore. Che lui accoglie esternandogli
grandi lodi per i suoi meriti verso Troia e chiedendogli cosa lo spinga lì. Il
suo recitativo è accompagnato dal tremolo degli archi e si chiude con una
potente figura di semicrome ascendenti e discendenti in archi bassi e fagotti,
sul ritmo sostenuto da corni e trombe.
Il recitativo di Ettore, prescrive Berlioz, deve procedere
in continuo diminuendo (del volume
del suono) e la sua voce deve come sparire a poco a poco. Inoltre i versi sono
cantati su una serie di note ribattute e sempre cromaticamente decrescenti, per
un’ottava esatta: SIb-LA-SOL#-SOL-FA#-FA-MI-MIb-RE-REb-DO-SI-SIb (qui sotto, dove
il colore cambia, la voce cala di un semitono):
Ah!...
fuis, fils de Vénus! l’ennemi tient nos murs!
De
son falte élevé Troie entière s’écroule!
Un
ouragan de flammes roule
Des
temples aux palais ses tourbillons impurs...
Nous eussions fait assez pour
sauver la patrie
Sans
l’arrêt du destin. Pergame te confie
Ses
enfants et ses dieux. Va, cherche l’Italie...
Où pour
ton peuple renaissant,
Après
avoir longtemps erré sur l’onde
Tu dois
fonder un empire puissant,
Dans
l’avenir, dominateur du monde,
Où la mort des héros
t’attend.
L’accompagnamento è mesto e solenne, poche note
chiuse dei corni, pizzicato e tremolo degli archi. L’ombra di Ettore se ne va
così com’era comparsa, accompagnata per 7 battute dalle stesse cupe figure del
suo arrivo.
Chi arriva invece ora (N°13, Recitativo e coro)
è Panteo, ferito e annunciante la terribile realtà: il cavallone ha partorito il
commando che ha sopraffatto le
guardie ed ha aperto le porte di Troia alle legioni nemiche! Ascanio aggiunge
altre brutte notizie, poi arriva anche Corebo che invita Enea a difendere la
cittadella assediata, che per ora resiste. Si aggiunge anche il coro (tenori e
bassi) e tutti si mettono in marcia per l’estremo combattimento. Le folate
degli archi e dei legni evocano le fiamme che ormai stanno avvolgendo la città,
mentre gli ottoni esplodono suoni di scontri e battaglie. Enea chiude il suo
appello su un SIb maggiore acuto, ma poi la scena si chiude ancora in SIb
minore, con pesanti accordi cui segue immediatamente il tremolo degli archi che
introduce direttamente il secondo Quadro dell’atto.
Ci siamo trasferiti nel palazzo reale, nei pressi di
un altare di Vesta, dove stazionano in preghiera Polissena e le donne troiane (N°14, Coro e preghiera).
Interessante notare la melodia del coro:
Intanto la salita dal SOL al REb, che configura –
sul SOL tenuto degli strumentini e del tremolo degli archi - un tritono e veste quindi la scena di
cattivi presagi; poi la scala ascendente ipofrigia
di LAb (SOL-LAb-SIb-DO-REb-MIb-FA-SOL) che conferisce al coro un tono implorante quanto rassegnato. Qua e là gli
archi emettono folate che richiamano lontani echi di incendi e distruzioni;
verso la fine del coro anche le trombe si fanno udire, ricordando che è in
corso una battaglia.
E proprio sull’eco dell’ultimo squillo ecco arrivare
Cassandra (N°15, Recitativo e coro) preceduta dal motivo
che già ne aveva sottolineato la drammatica entrata nel primo atto. Annuncia
alle donne che non tutto è perduto, almeno la cittadella è stata liberata e il
tesoro di Priamo è in mano di Enea (queste imprese eroiche sono invenzioni di
Berlioz, Virglilio la racconta diversamente). I loro uomini sono ormai fuori
della portata del nemico e l’Italia è la loro meta: qui c’è un temporaneo
trionfalismo, in DOb maggiore, che però scema subito (al minore) allorquando
Cassandra piange – con i clarinetti! - la morte di Corebo e annuncia la
propria, ormai imminente.
Ma adesso Cassandra vuole da tutte l’estremo
sacrificio (Mais
vous, colombes effarées) e quasi rimprovera le meno convinte di
volersi disonorare, soggiacendo al nemico. Lo fa sostenuta da una variante del
motivo che la caratterizza, mentre gli strumentini incalzano con note ribattute
in terzine. È una scena davvero drammatica, un vero e proprio confronto fra la
sacerdotessa inflessibile e alcune delle donne che evidentemente sono meno
coraggiose di lei (e tengono alla propria pelle…) Ma la maggioranza pare sia
con lei, pronta a morire.
Così inizia il Finale
(N°16) dove le donne convinte
al sacrificio (Complices
de sa gloire) imbracciano le lire (e due arpe entrano subito in
azione) inneggiando (in LAb maggiore) a Cassandra, pronte a seguirla. Ma la
profetessa interroga ancora le poche indecise, sbeffeggiandole, invitandole a
correre dai nuovi padroni greci e infine scacciandole con ignominia.
Siamo passati in LA maggiore (un semitono sopra la
precedente esternazione!) e il coro riprende, con Cassandra, il ritornello Complices de sa
gloire. Arrivano anche dei soldati greci, che rimangono sbigottiti
dall’atteggiamento delle donne, poi reclamano il tesoro. Per tutta risposta, siamo
ora in tonalità di FA, Cassandra per prima si ferisce, poi invita le altre a
fare lo stesso.
Ai greci costernati alla constatazione che Enea e i
suoi sono ormai lontani con il tesoro, Cassandra e le donne, morenti, cantano
in faccia un trionfale Italie! Italie! Poi Cassandra cade morta, le
donne si suicidano a loro volta e tutto precipita (sembra quasi il finale dell’Harold) dal FA in un colossale DO minore
dell’intera orchestra.
Ecco, oltre che per motivi strettamente drammaturgici
(la totale distanza di tempi, luoghi e - per massima parte – personaggi
rispetto a Les Troyens à Carthage) anche
da quello musicale ed estetico l’idea di considerare e rappresentare La Prise de Troie come un’opera autosufficiente non è proprio
balzana, anzi non sarebbe male farne un atto unico (una specie di Elektra, per intenderci) il che le
conferirebbe ulteriore potenza drammatica.
___
Les Troyens à Carthage si aprirebbe, se eseguita da sola,
con un Preludio di 70 battute in FA
maggiore che Berlioz compose proprio per la prima rappresentazione, qualcosa
che assomiglia ad una marcia funebre (evidentemente in memoria della caduta di
Troia) e che presenta, allargato assai, il tema del duo fra Cassandra e Corebo all’inizio della prima parte. Dopo
questo preludio Berlioz fece anche comparire al proscenio un rapsodo per riassumere i fatti
trascorsi, ed eseguire dietro la scena parte della Marcia troiana… In compenso tagliò
il coro iniziale.
È invece con questo Coro (N°17, De Carthage les cieux) che si apre il terzo atto dell’opera normale,
nei giardini di Didone. La tonalità di MIb è appropriata all’evento di festa
che si apre ai nostri occhi, in una giornata splendida, dopo una di grandi tempeste
e mareggiate (ne sanno qualcosa Enea e i suoi!) ed è però anche la tonalità relativa del truce DO minore con cui si
era chiusa La Prise de Troie. Il
tempo è 12/8 (simile a quello del coro iniziale dei troiani, 6/8) e la melodia
vagamente rimanda alla stessa Marcia troiana:
Si noti l’accompagnamento dei timpani, che
sembrerebbe più adatto ad una tonalità di SIb (dominante di quella d’impianto):
ma ciò contribuisce (come sempre, in Berlioz) a togliere effetti banali a
questo genere di brani.
Il coro fa da introduzione al N°18, Inno nazionale. È il Canto
nazionale cartaginese (Gloire à Didon) introdotto da un’ardita
modulazione a SOL maggiore e cantato su tempo Maestoso, non troppo lento, 3/2. Potrà sembrare anche pacchiano e
dozzinale (oltretutto con il da-capo degli ultimi 3 dei 4 versi) e la cadenza
di chiusura è invero… esagerata, ma è proprio Didone a spiegare le ragioni di
tutta questa pompa magna, con il N°19
(Recitativo e Aria) dove ricorda, nel
recitativo Nous
avons vu finir sept ans à peine come siano trascorsi appena sette
anni da quando lei e i suoi seguaci fuggirono da Tiro e dal fratello
(Pigmalione) usurpatore e assassino di suo marito per fondare la città che oggi
si erge in tutto il suo splendore, materiale e spirituale.
Adesso Didone intona la sua bellissima aria (Chers Tyriens) in MIb minore (Ciajkovski impiegherà le stesse quattro
prime note per farci il secondo tema del movimento iniziale della sua Polacca):
Aria che ha una struttura abbastanza complessa,
poiché vi interviene anche il coro del popolo cartaginese. La prima esposizione
si chiude con una classica cadenza operistica, suonata da legni e archi su un
motivo tutto puntato. Didone invita il suo popolo, che ha compiuto mirabili
opere di pace, a prepararsi ad essere eroico anche in guerra. E il popolo
risponde deciso, riprendendo le parole della Regina, la quale ricorda (a noi,
soprattutto) come il feroce Iarba (un
barbaro di quei luoghi) le abbia proposto un matrimonio vergognoso, il che
merita una risposta adeguata.
Il coro la accontenta subito, reiterando il Canto nazionale, su un nuovo testo di
sfida per l’insolenza di Iarba, e questa volta con grande foga e cipiglio (Allegro assai, con fuoco, 4/4 alla
breve, velocità più che doppia rispetto all’esposizione originaria!) e salendo
dal SOL al SIb, proprio come si addice a qualcuno che è pronto all’azione!
E Didone adesso riprende la sua aria, un chiaro debito di Berlioz al melodramma classico, ma ne
vale proprio la pena, data la sublimità della musica! Qui però è contrappuntata
dal coro. Al termine, dopo la cadenza, la Regina torna al recitativo (Cette belle journée)
e passa alla cerimonia di premiazione di tre diverse corporazioni (Meistersinger ante-litteram?):
costruttori, marinai e contadini.
Il N°20,
Entrata dei costruttori, è un gaio Allegretto moderato in 3/4, fatto di
continue puntature su motivi ascendenti, in LA maggiore con breve squarcio
sulla dominante MI. Didone gratifica le maestranze con una squadra d’argento e
un’ascia.
Ecco il N°21,
Entrata dei marinai; qui l’accompagnamento
è affidato a fagotti, viole e celli, in DO: è una melodia largamente ondulante,
impreziosita da veloci incisi degli ottavini; le subentra una sezione centrale,
ripetuta, modulante a FA; mentre Didone premia i marinai con un timone e un
remo, riprende la melodia iniziale in DO, chiusa da altri svolazzi degli
ottavini.
Chiude il N°22,
Entrata dei contadini. Assai
appropriatamente, è un tema bucolico
(6/8, Andantino) in SI minore -
affidato agli strumenti tradizionalmente campestri, oboe e corno inglese, proprio
come nella Scène aux champs - ad
accompagnare la loro processione. La melopea più che allegra è triste (quanto è
duro e faticoso il lavoro in campagna…) e un breve squarcio in SI maggiore si
dissolve quasi subito.
Nel successivo Recitativo
e coro (N°23) Didone fa
delle lodi speciali ai contadini (premiandoli con un falcetto d’oro) e il coro
si unisce a lei. Dopo che la Regina ha ringraziato Cerere, compiacendosi per
l’avvenire ormai sicuro della città, ecco che i cori tornano ad inneggiarla (Gloire à Didon)
con lo stesso portamento del N°18 (Maestoso, non troppo lento, 3/2, SOL
maggiore). Ma qui davvero Berlioz porta enfasi e retorica al massimo grado,
prescrivendo:
- l’esposizione dei 4 versi del coro: il primo come
nell’originale N°18, il secondo come
nel coro N°19 e due versi nuovi che
inneggiano alla futura potenza della città;
– l’esposizione piena del coro N°18, cantata da due cori distinti;
- il da-capo
(!) a partire dal secondo verso del primo coro;
- una coda
dove si ripete tre volte il verso Gloire à Didon.
Beh, se qualche direttore (e/o regista) qui fa dei
tagli è… giustificato. (Del resto lo stesso Autore tagliò il da-capo per la prima del 1863.)
Chiusa in modo a dir poco esagerato la presentazione
della sfera pubblica di Didone, ecco
ora una scena che ci mostra, della Regina, la sfera squisitamente privata. Si tratta del Duetto N°24 fra Didone e la
sorella Anna, una delle pagine più ispirate dell’intera opera. Subito i violini
ne introducono il ritornello (qui in SI minore) che riapparirà più volte nel
seguito (dell’incipit Strauss ne farà
il love-theme del suo Don Juan e Mahler lo impiegherà nella sua Quarta):
La struttura del numero
è anche qui assai articolata, iniziando con un recitativo di Didone (Les chants joyeux)
che vaga dal SI minore al RE maggiore, poi al FA e infine al MI maggiore, dove
la Regina afferma di avere riacquistato, grazie alla festa, calma e serenità
per il suo cuore agitato… agitazione che sarà oggetto del duo vero e proprio. Nel quale si possono distinguere due parti:
nella prima le sorelle dialogano sull’argomento del malessere di Didone; nella
seconda esternano in privato (ma cantando anche insieme) le rispettive emozioni
in proposito. La prima parte è a sua volta costituita da tre sezioni di
botta-e-risposta:
- la prima è introdotta dal ritornello nei violini
in MI maggiore e Anna vi canta una dolce e ammiccante melodia (Reine d’un jeune
empire) per informarsi sulle (apparentemente) inspiegabili pene
della sorella; a metà della frase ricompare il ritornello, che poi torna,
adesso in DO, per introdurre la risposta (Une étrange tristesse) di Didone che non sa
fornire in proposito una spiegazione precisa. Ma intanto abbiamo cominciato a
scoprire la personalità della donna: una Regina adorata dal suo popolo, ma che
in realtà non è compiutamente felice, come dimostra inequivocabilmente la
musica che esce dalle sue labbra, con parecchio cromatismo e tonalità minori; e
persino il ritornello fa capolino, nei bassi, con tono abbrunato;
- ritornello che ci riporta al MI della seconda sezione,
dove Anna propone lei la spiegazione del mistero: Didone ha bisogno di amare (Vous aimerez, ma
soeur) e canta quel verso praticamente sulle note del ritornello! La
Regina quasi si offende: lei ha promesso fedeltà imperitura alla memoria del
marito Sicheo; ma Anna, dopo l’ennesima comparsa del ritornello, ribatte il
concetto altre due volte, e ai dinieghi di Didone oppone anche una ragione politica: Cartagine ha bisogno di un Re;
- nella terza sezione troviamo il solenne giuramento
di Didone (Puissent
mon peuple et les dieux): mai abbandonerà l’anello nuziale; e Anna
sorride, affermando (Un tel serment) che Venere mai e poi mai potrebbe
accettarlo, un simile giuramento. Quest’ultima parte del dialogo, pur ancora in
4/4 Moderato, ha però incominciato ad
introdurre frequenti terzine,
anticipando così il tempo di 6/8 Andantino
che caratterizza la seconda parte del duo.
La quale è a sua volta suddivisa in due sezioni,
dove le sorelle cantano i rispettivi stati d’animo, prima separatamente e poi anche
insieme:
- nella prima, introdotta da quattro dolcissimi
incisi anapestici per terze dei
corni, che scendono dalla sottodominante alla tonica MI, c’è la comune
constatazione che le parole di Anna stiano facendo breccia nell’anima di Didone
(Sa/ma voix fait
naître); è lei a cantare la prima strofa, modulando alla
dominante SI, dove attacca Anna; dopo i suoi primi due versi, rientra in
contrappunto Didone e, tornati a MI, è Anna a chiudere questa prima sezione;
- nella seconda le due sorelle esternano le
rispettive preoccupazioni e quasi i rispettivi rimorsi (Sichée!
Ô mon époux, pardonne / Didon, ma tendre soeur, pardonne): Didone di non
riuscire a resistere ad un nuovo amore; Anna che si sente in colpa per il
turbamento provocato nella psiche della Regina. Le due voci ora si alternano e
ora si congiungono per terze, in un
mirabile equilibrio formale, mentre l’inciso iniziale del ritornello fa
continuamente capolino; Berlioz giustamente non resiste alla tentazione di
ripetere interamente quest’ultima, invero celestiale, sezione del duo, chiusa ancora da una cadenza del
ritornello esposta all’unisono da flauto e clarinetto.
Bene, finita la lunga presentazione della
personalità della Regina, ecco arrivare l’evento che determinerà tutto il
seguito della vicenda: i troiani sono sbarcati a Cartagine (spintivi dalle
tempeste scatenate da Giunone) e chiedono asilo. Il N°25, Recitativo e Aria,
si apre con l’annuncio di Iopa, sulla
relativa REb minore che chiude poi sul LA. Didone risponde, ancora in
recitativo, che le porte di Cartagine sono sempre aperte ai profughi.
E qui ecco l’aria
in FA maggiore (Errante
sur les mers) in cui la Regina (Didone significa appunto vagante, il suo nome originario in
patria era Elissa) ricorda la sua
propria vicenda di profuga da Tiro e le sue peregrinazioni prima di trovare
sistemazione a Cartagine. E proprio in nome delle sue stesse passate
vicissitudini è ora pronta a dare ospitalità a questi sfortunati (e per ora
sconosciuti) naviganti.
Interessante notare come l’incipit dell’aria (salita
per gradi contigui da dominante a tonica e ricaduta sulla dominante) ricalchi
il motivo del ritornello del precedente duo
(che a sua volta era associabile all’inconscio desiderio d’amare della Regina):
quello che sta per arrivare potrebbe essere proprio l’amore tanto atteso?
E chi sta per arrivare ce lo dice ora esplicitamente
il N°26, con squilli di tromba
che introducono la Marcia troiana. Ma
qui non ha più quel piglio trionfale con cui l’avevamo udita verso la fine del
primo atto: è sempre in SIb, ma in modo minore, anzi Berlioz in partitura
sottotitola esplicitamente Dans le Mode
Triste. Vi mancano le tre coppie di terzine che ne caratterizzavano il
procedere, qui sostituite da una più mesta cellula puntata. Tuttavia non è per
nulla una marcia funebre, anzi: ci si sentono sempre l’orgoglio e la
determinazione di questo popolo che si crede investito di una missione…
divina.
Il tema principale viene ripetuto due volte, ma
sulla seconda entra anche la voce di Didone, accompagnata da un sinistro
tremolo di viole, che supporta appropriatamente il disagio della Regina, che è ansiosa
ma allo stesso tempo preoccupata di fare la conoscenza di questi nuovi
arrivati. Segue il secondo soggetto della marcia, nella dominante FA minore,
quindi il primo tema (in SIb) ritorna, proprio mentre Enea (che per ora non si
fa riconoscere) e compagni entrano al cospetto della sovrana: ma è un ritorno
quasi smozzicato, con il tema che si spegne cadendo a brandelli, fino ad afflosciarsi
nei corni e morire su un’ultima cadenza di violoncelli e contrabbassi.
Il successivo Recitativo
N°27 ci fa assistere alla
presentazione dei troiani a Didone, che viene informata da Ascanio della loro
origine e del nome del loro capo, suo padre Enea. A Panteo tocca spiegare alla Regina
qual è la missione che i troiani debbono compiere (raggiungere l’Italia) al che
Didone comunica la sua totale disponibilità ad ospitarli a Cartagine.
Il recitativo è introdotto, in MIb, da un solenne
corale di cornette a pistoni e di tromboni, che impiega significativamente le
prime note dell’inno Gloire à Didon,
chè Ascanio si appresta ad omaggiare la Regina (Auguste reine). È costellato da
numerose modulazioni di tonalità: l’omaggio di Ascanio parte appunto in MIb,
poi ha una fugacissima impennata al DO (toh, sul riferimento a Giove!) per
cadere subito sul SIb minore. Alla successiva domanda di Didone (De ce chèf, bel
enfant) Ascanio dapprima risponde in SOLb (Ô reine)
poi vira a LA maggiore (Ce sceptre d’Ilione) poi a RE e infine, sulla dichiarazione Notre chef est Énée, ecco apparire uno splendente DO maggiore! Al quale
fa però da contrappeso, sul verso Étrange destinée!di Didone, una drammatica quinta vuota (LAb-MIb) di
violoncelli e viole, che sembra più far presagire il destino della Regina, che
non la sua partecipazione emotiva a quello dei troiani…
Torna il MIb sulle parole di Panteo (Obéissant au
souverain des dieux) e poi si passa a SI maggiore sull’ultima
esternazione di Didone (Qui n’admire ce prince) che poi modula ancora a
RE maggiore, quindi a SOL per la chiusura, dove si collega direttamente,
tramite una sesta napoletana, al MIb
del Finale N°28.
Qui si passerà dal dramma all’euforia. 17 battute di
Allegro assai e agitato accompagnano
l’ingresso del trafelato Narbal, che reca notizia (J’ose à peine annoncer la
terrible nouvelle!) dell’attacco che i vandali di Iarba si apprestano a
sferrare alla città. Il suo annuncio, contrappuntato da domande imbarazzate di
Didone, si muove dal MIb al SIb, al DO, per chiudere in LAb, mentre da lontano
i cartaginesi chiedono armi.
A questo punto, su un’ennesima sesta napoletana, il LAb muta repentinamente in MI e in questa
tonalità Enea, toltasi la… cerata da marinaio, si presenta in tutta la sua autorità
(Reine, je suis Énée!) Si offre, il capo troiano, di combattere a fianco
dei cartaginesi, e lo fa con una repentina salita di un’ottava, dal FA# grave a
quello acuto e da lì al LA, prima di tornare al MI. Didone accetta l’offerta (e
intanto sussurra alla sorella apprezzamenti per il troiano!) modulando a SI
maggiore, tonalità dove 15 voci (Enea, Panteo, Narbal, Iopa, Ascanio, Didone,
Anna e gli 8 capi troiani) anticipano il coro finale, inneggiando allo
sterminio dei barbari.
Ora però, prima della chiusura dell’atto, c’è un
siparietto patetico, il cui soggetto Berlioz prese dall’ultimo libro di
Virgilio, laddove Enea abbraccia Ascanio prima di affrontare nell’estremo
scontro il nemico Turno. Qui Enea dapprima affida il figlio a Didone (la
tonalità è virata a DO minore) che promette di aver buona cura di lui, come
fosse sua madre; poi – in un continuo modulare fra DO, MIb, RE, SOL, poi ancora
MIb - abbraccia il figlio ricordandogli il valore di Enea e di Ettore, e chiude
sul MIb dopo un passaggio sulla dominante acuta SIb.
Da qui entra il coro che riprende – con i solisti e riportandosi
a SI maggiore - versi già cantati poco prima da Enea (Sur cette horde immonde) e conclude
in modo retorico con il reiterato appello a sterminare gli invasori. La
chiusura però non è proprio enfatica al massimo, dato che Berlioz ne stempera i
toni ritardando assai i due accordi finali, sesta minore e triade maggiore di
SI.
Eccoci ora all’atto quarto. Che si configura come un vero e proprio emporio di
forme musicali, una sorta di opera-nell’opera. Berlioz, che compose Les Troyens in vista della sua
rappresentazione (poi mancata, lui vivente) all’Opéra, non poteva esimersi (ma la cosa gli dovette fare un gran
piacere, come… sinfonista) dall’inserirvi – in ottemperanza al capitolato tecnico di quel teatro – un
atto infarcito di componenti coreografiche.
Ecco quindi subito un primo Quadro, occupato interamente da una Pantomima, in realtà una vera e propria sinfonia pastorale (quasi 10 minuti di
durata) con tanto di richiami bucolici, seguiti da scene di caccia e da un
tremendo temporale (qui i riferimenti alla sesta
beethoveniana e al rossiniano Tell
sono scoperti, così come è indubbio che l’ispirazione sia venuta a Berlioz
anche dalla scena della gola del lupo del Freischütz);
poi un secondo Quadro che include: un duetto, quindi marce e balletti
in quantità; ancora un’arietta per il
secondo tenore; poi un quintetto, che
si amplia a settimino; infine il più
classico dei duetti d’amore! Ma
andiamo con ordine.
Il N°29 (Caccia regale e tempesta. Pantomima) si
apre in un’atmosfera idilliaca e sognante, musicalmente caratterizzata da
spiccato cromatismo, tipica di un pigro mattino che risveglia la foresta
africana, fra stormir di fronde e cinguettii di uccelli. Ma allo stesso tempo
prepara il terreno per evocare altri movimenti: quelli che fra poco
esploderanno – insieme allo scatenarsi delle forze naturali - nell’animo dei
due protagonisti.
Il primo flauto espone una dolce melodia, il cui
incipit ricorda da vicino, e forse non a caso, quello del movimento centrale
della beethoveniana Patetica:
La didascalia ci avverte di due naiadi che nuotano
in uno stagno e fuggono all’udire i richiami dei corni da caccia, che
provengono da saxhorn posti dietro le
quinte:
Beh, la melodia non è propriamente quella che solitamente
accompagna cani e cavalli in una battuta di caccia: in particolare quella
seconda minore (LA-SIb) a cavallo fra la terza e la quarta misura le dona
un’inflessione decadente, pienamente in linea con l’atmosfera di questa prima
parte della scena; e anche il tempo (6/8) e il ritmo concorrono a renderla
piuttosto leziosa e fin troppo ricercata. Un
secondo saxhorn si aggiunge a sviluppare, dialogando con il primo, la melodia:
il che produce nelle naiadi una certa agitazione, che raggiunge il massimo
allorquando gli archi, con veloci scale ascendenti, annunciano il passaggio di
cacciatori e cani.
Adesso è alle viste un uragano e i
tromboni emettono un segnale perentorio, quasi una chiamata a raccolta, o
l’avvertimento di un pericolo imminente: passa un cacciatore che si rifugia
sotto un albero, poi, al nuovo richiamo del saxhorn corre via in quella
direzione. ora esplode la tempesta, in mezzo alla quale si vede Ascanio passare
a cavallo di gran carriera(!) seguito da altri cacciatori a cavallo, poi altri
ancora che si disperdono a piedi in diverse direzioni.
Finalmente ecco Enea e Didone che
per difendersi dalla tempesta si… ingrottano (e possiamo ben immaginare a quali
occupazioni si dedicheranno per far passare il tempo durante il temporale!)
mentre si è fatto quasi buio e un ruscello si è trasformato in torrente in
piena, le naiadi corrono qua e là impaurite e i fauni invece si mettono a
danzare.
Al fracasso della tempesta si
aggiunge quello di cascate d’acqua che piombano dalle rocce circostanti (dato
che la Pantomime, composta nel 1857, venne rivista e riorchestrata nel 1863,
chissà che Berlioz nella circostanza non si sia ricordato del wagneriano baccanale del Tannhäuser parigino del
1861, alla cui fallimentare prima lui
aveva assistito: le atmosfere sono assai vicine…) Ora i mitici abitanti della
foresta intonano vocalizzi primordiali inframmezzati dalla perentoria (e per
gli amanti, minacciosa) invocazione Italie!
Italie! In tutta questa parte della Pantomime
Berlioz non si è certo risparmiato, inventandosi una geniale poliritmia per
evocare lo scatenarsi dei fenomeni naturali ma anche le umane passioni dei
protagonisti:
All’interno dell’impianto
tipicamente stereofonico (4 saxhorn, 3 tromboni e timpani sulla scena, a
dialogare con il resto dell’orchestra) si noti come (su un generale tempo di
4/4) le due coppie di saxhorn suonino in 6/8 e 3/4, i tromboni in 4, mentre gli
altri fiati espongono in sincope un motivo che in tutta l’opera è segno di
emozione, e gli archi suonano in 2/2 ad esclusione dei bassi (più i fagotti)
che (su Italie!) passano ad una
scansione ternaria!
Altre danze di fauni e satiri, poi
un fulmine colpisce un albero e lo incendia(!) facendo cadere sulla scena
tizzoni ardenti, che gli stessi fauni e satiri raccolgono agitandoli mentre
continuano le loro danze. Poi tutti scompaiono in direzioni diverse.
Ora la scena viene invasa da nuvole
che la nascondono completamente e il flauto ripete la sua dolce melodia
iniziale, contrappuntato dal corno, che riprende poi – al placarsi della
tempesta - il richiamo dei saxhorn e ne reitera l’incipit, a mo’ di cadenza
conclusiva della sinfonia. Essa ci ha in sostanza accompagnato dal primo mattino fino al tramonto,
dove si svolge la scena successiva, che dà inizio al secondo Quadro.
Siamo nei giardini della reggia di Didone, dove
assistiamo al dialogo fra Narbal, Ministro della Regina e la di lei sorella
Anna. La struttura della scena è quadripartita: dapprima (N°30) un Recitativo poi (N°31)
un’aria di Narbal quindi una cavatina di Anna ed infine un Duetto che riprende i temi dell’aria e
della cavatina.
L’introduzione orchestrale in MIb maggiore anticipa
il tema della successiva aria di Narbal (che è in SOL):
Come si può notare, l’introduzione ha un carattere
austero e un piglio marziale (l’accompagnamento dei bassi è in controtempo) pur
essendo in Allegro, poiché l’oggetto
della discussione fra i due sarà nientemeno che il destino di Cartagine! Invece
l’aria di Narbal è in tempo comodo e ternario, poiché il Ministro della Regina
vi esternerà tutto il suo pessimismo sul futuro della città. Nel recitativo che
la precede si confrontano le due diverse visioni di tale futuro: quella nera di
Narbal, sinceramente preoccupato della piega che hanno preso gli eventi, con
Didone che passa il tempo in attività ludiche insieme all’ospite troiano e
mortifica l’operosità dei suoi sudditi, e Anna che invece si dice sicura che il
nuovo amore che la sorella prova per Enea non potrà che giovare a Cartagine.
L’aria e la cavatina non fanno che ribadire queste
due opposte convinzioni: accorata, come detto, quella di Narbal (Larghetto misterioso in 9/8, con un paio
di passaggi previsti da Berlioz all’ottava superiore, per voci di basso poco grave) accompagnata dal suono
oscuro degli accordi di ottoni e archi bassi; piena di vitalità e ottimismo
quella di Anna (Allegro vivo in 3/8)
sostenuta da impertinenti pizzicati degli archi e svolazzi degli strumentini. Chiude
la scena il duetto, invero geniale:
Narbal ripercorre completamente la sua aria, poi ripete gli ultimi due versi e
su questi si sovrappone Anna, che riprende a sua volta la cavatina, creando così
un mirabile effetto di poliritmia (ad una battuta di Narbal ne corrispondono
tre di Anna).
Arriviamo così al N°32, Marcia per
l’entrata della Regina. Sono 27 battute che ci ripropongono in forma
puramente strumentale il motivo del Chant national (N° 18, Gloire à Didon). Il tempo è Un poco maestoso, non troppo lento, 3/2 e l’orchestrazione crea
un’atmosfera davvero celestiale: è la Didone innamorata!
Nelle prime 4 battute l’incipit del tema viene
proposto dai soli legni, dapprima in SOL maggiore, poi in SI minore. Poi i
violini primi (con sordina) attaccano, in SI maggiore, una figurazione di
accompagnamento che ondeggia per gradi contigui e si protrae fino alla fine del
numero. Dopo 3 battute, mentre entrano in scena Didone, Enea, Panteo, Iopa e
Ascanio, il tema viene esposto dai soli strumentini (flauti, poi ottavino, oboi
e clarinetti) accompagnati da tre arpe, che suonano delle minime in armonico e –
per sfruttare appieno la sonorità dello strumento, sono notate in DOb anziché
in SI. Le ultime 5 battute, mentre Didone e
gli altri si mettono a sedere, restano occupate a mo’ di cadenza dalla
sola figurazione dei violini primi, cui si aggiungono i secondi, viole e celli,
tutti con sordina, per la chiusa.
Ora è il momento dei Balletti, ingrediente irrinunciabile in un grand-opéra. Il N°33 è suddiviso in tre diverse
danze, con una serie di da-capo che
consentono di restringere o allungare il brodo a discrezione di direttore e
regista, e magari in funzione delle… attitudini del pubblico. Di norma occupa poco
più o meno di 10 minuti.
Si comincia con il Passo delle Almee. Costoro erano danzatrici-cantanti-musiciste
assai colte, la cui professione era nata nell’Egitto arabo (IX secolo dopo
Cristo) e quindi la loro presenza a Cartagine ai tempi di Didone è
un’invenzione bella e buona di Berlioz, che in realtà voleva rifarsi a danze di
Bajadere da lui viste anni prima a Parigi.
Sul tempo di 6/8 lo schema è, vagamente,
A-B(ripetuto)-C-A-D(ripetuto): A (Lento,
quasi adagio, SOL maggiore) presenta una dolce melodia negli archi, che
sfocia in tre successive impennate con interventi dei fiati; B (Un peu animè, DO maggiore) vede
protagonisti i legni, con archi e ottoni ad accompagnare; C è ancora in modo
animato, in MI minore e vede protagonisti tutti i fiati; dopo il ritorno di A
(SOL) arriva la parte conclusiva D, sempre in SOL e con andamento più languido,
dove la melodia è affidata agli archi e i fiati accompagnano con veloci
semicrome.
Segue la Danza
delle schiave (o degli schiavi) anch’essa
in 6/8, di struttura vagamente simmetrica rispetto alla prima: qui abbiamo
prevalenza di ritmo serrato e poi una specie di trio più lento. La struttura è abbastanza complessa, a dispetto
dell’apparente ripetitività dei suoni. Un motivo principale di 6 battute la
percorre fin dall’inizio. La prima sezione è occupata dalla doppia esposizione
del tema, seguita da una sua ripetizione (ridotta a 4 battute) variata sulla
sottodominante DO e sfociante su un RE, mediante del SI minore su cui il motivo
(sempre di 4 battute) viene ripetuto due volte. Torna il tema completo in SOL
maggiore, ancora esposto in doppio. Adesso si passa alla dominante RE, che
reitera il motivo (4 battute) e modula verso il SIb, su cui il tema (sempre di 4
battute) viene ripetuto due volte. Ecco ora un ponte modulante, dove l’incipit
del tema passa dal FA e dal DO per poi tornare al SOL, dove abbiamo la terza
riesposizione completa (doppia) del motivo conduttore. Ecco ora, dopo due
battute preparatorie, la sezione centrale (quasi un trio) dove nella tonalità principale viene esposto due volte dagli
archi un tema più dolce e cullante, a mo’ di barcarola: dapprima sfociando in
SI minore, poi in MI minore. Qui torna il motivo principale in SOL, questa
volta non ripetuto, ma seguito da un’altra sua variante (di 4 battute) in SI
minore, questa sì ripetuta. Ancora il motivo del trio, una sola volta, a
chiudere sul MI minore. Un’altra transizione basata su spezzoni del tema del
trio ci porta verso la sezione conclusiva del balletto (da ripetersi): qui il
motivo del trio e le terzine di semicrome del tema principale si contrappuntano
fino a sfociare in una specie di stretta,
che dopo la ripetizione porta a 4 battute (ripetute) di cadenza, sul ritmo del
motivo principale, cui ne seguono altrettante, su frammenti del tema del trio,
per chiudere.
La terza danza (Passo
delle schiave nubiane) abbastanza breve, è in tempo binario (2/4) in LA
minore. L’atmosfera è proprio orientaleggiante ed esotica, caratterizzata dal
ritmo incessante delle crome degli archi (in pizzicato) e del tamburino e dai
colpi di due tamburelli antichi (che suonano in MI e FA). Sono i legni (flauto,
ottavino e corno inglese) su tre diverse ottave ad esporre la melodia, mentre quattro
contralti l’accompagnano emettendo dei suoni di tipo grammelot, precisamente: Ha! Ha! Amaloué Midonaé Fai caraimé Dei beraimbé Ha! Ha!
Il N°34
(Scena e Canto di Iopa) è un’aria scritta per la tessitura di un
tenore di grazia. Berlioz stesso si vide costretto a sopprimerla alla prima del 1863 per l’indisponibilità di
siffatti tenori sul mercato, inflazionato ormai dai di-pettisti, che andavano allora di moda!
È Didone a richiedere a Iopa questa prestazione, con
un breve recitativo, dopo essersi adagiata, con Anna, su un canapè. Assai
curato il trattamento della scena,
dove i due spezzoni di recitativo di Didone (l’invito ad Anna a licenziare i
danzatori e la richiesta a Iopa) sono inframmezzati da due diverse melodie: la
prima, in Allegro non troppo, di 11
battute in modo minore (MI e LA) che accompagna l’uscita dei danzatori e la
seconda in Andante (il doppio più lento, prescrive Berlioz)
in LA minore, che pare dipingere lo stato d’animo della Regina, un misto di malinconia
e languore. Dopo che Iopa ha risposto all’ordine e prima che attacchi la sua
aria, i due motivi del recitativo ritornano trasfigurati: il primo (accorciato
a 9 battute) in DO maggiore e il secondo (ancora di 6 battute) che modula da DO
a LA minore e da qui a FA maggiore, preparando la tonalità dell’aria.
La quale – un omaggio a Cerere, dea dell’abbondanza - è modellata sulla struttura del rondò barocco: A-B-A’-C-A”, dove i
ritorni di A vengono opportunamente variati con abbellimenti diversi. Il tempo
è andante 6/8 e l’accompagnamento è assegnato all’arpa (egizia, secondo la
didascalia). Il motivo del ritornello A, introdotto dal clarinetto che ne
caratterizza subito la natura dolce e malinconica, richiama, per via dell’incipit
che sale da dominante a tonica, quello del ritornello del N°24. Le strofe
centrali (B e C) sono nella relativa RE minore e in MI minore. Nella seconda
esposizione di A si tocca il SIb acuto, nell’ultima la dominante (DO acuto).
Ma adesso ci avviamo - con gli ultimi tre numeri - a vivere lo straordinario finale d’atto: dapprima (N°35, Recitativo e quintetto)
assistiamo ad una specie di chiacchierata salottiera, incentrata sui ricordi di
Enea; poi (N°36, Recitativo e settimino) tutti i protagonisti si alzano per godere
della brezza serotina; infine (N°37, Duetto) Didone ed Enea rimangono soli a
godere l’estasi d’amore, nell’idilliaco scenario della notte africana. L’atto
si chiuderà peraltro con un protervo… richiamo alla realtà. Interessante la
progressione tonale dei tre numeri:
dal REb si sale al FA e da qui al SOLb. Curiosa anche la sequenza di
composizione dei tre numeri: precisamente a ritroso! Berlioz infatti aveva
musicato il duetto - che evidentemente gli urgeva in modo particolare - prima
ancora di completare l’intero testo dell’opera! Poi, dopo aver terminato di
comporre l’Atto I, passò direttamente a musicare la conclusione dell’Atto IV,
aggiungendo al duetto il settimino e quindi il quintetto.
Il N°35
inizia con un recitativo che tratta della storia (post-Troia) di Andromaca.
Come già accennato, il racconto di Enea relativo alle nozze della vedova di
Ettore con Pirro è un’invenzione di Berlioz (Virgilio la fa sposare con Eleno,
un troiano figlio di Priamo, comparso nella prima parte dell’opera che, da
schiavo di Pirro, ne divenne successore) che serve a rimuovere le ultime remore
di Didone riguardo la rottura della promessa di fedeltà al defunto marito
Sicheo. Ed il quintetto si apre precisamente con la liberatrice conclusione di
Didone: Tout
conspire à vaincre mes remords. Siamo in REb maggiore e i bassi (qui
la parte dei violoncelli) accompagnano questa reiterata esternazione della Regina,
sottolineandone lo stato di agitazione:
Enea ripete le sue parole (Andromaca ama il suo vincitore)
chiudendo nella relativa SIb minore. Didone reitera la giustificazione del suo
amore per Enea su un’ampia melodia, che ben esprime la sua serenità, avendo lei
trovato la ragione per scacciare qualunque rimorso:
Questo è il momento in cui Ascanio, seduto accanto a
lei, le sfila l’anello di Sicheo (come da dipinto di Guérin); anello che la Regina recupera solo per
abbandonarlo immediatamente e poi disinteressarsene del tutto.
Anna coglie al volo l’attimo fuggente e ne fa segno
a Narbal. Come? Con un motivo che richiama (a proposito di raffinatezze
espressive e di sottili interrelazioni tematiche) proprio quello intonato da
Narbal medesimo nel loro precedente duetto! Iopa imita la sorella della Regina
e ripropone l’osservazione a Narbal. I tre ripetono i riferimenti all’anello
venerato – e ora snobbato - da Didone, mentre questa ricorda l’illustre sposo
(di Andromaca) assassinato: evidente il riferimento quasi freudiano al defunto
marito Sicheo, proprio mentre la Regina si è convinta a tradirne la memoria
(oddio, tradimento spirituale, poiché quello carnale era già stato consumato da
qualche ora – come minimo – in quella grotta, provvidenziale rifugio dalla
tempesta).
E infatti Didone riprende la sua ampia frase musicale
(della giustificazione) ora accompagnata dalle altre quattro voci: quella di
Anna un’ottava sotto, le altre in contrappunto. Il quintetto si chiude con la
parola absous (assolto, il cuore di
Didone) cantata sulla triade maggiore di REb, ma con la dominante LAb in
evidenza.
Qui Enea attacca il recitativo del N°36 (modulando prima a RE maggiore,
poi verso il FA) mentre invita Didone a godere della brezza notturna,
dimenticando i tristi ricordi. Il settimino
con coro che segue (a quelle dei personaggi del precedente quintetto si
aggiungono ora anche le voci di Ascanio, Panteo e del coro) è un Andantino in FA maggiore, 6/8: una cullante
barcarola. Possiamo immaginare benissimo lo scenario che Berlioz ha in mente:
notte serena e stellata, soffi di vento tiepido che smuovono le palme, il mare
che bacia dolcemente la riva con la sua sommessa risacca, riflettendo sulle
increspature il chiarore lunare (il quale sarà esplicitamente indicato dalla
didascalia del successivo duetto).
Insomma, un’atmosfera idilliaca (magari fin troppo da… cartolina) che il nostro
illustra da par suo, con 58 battute di musica davvero inebriante.
Sono gli strumentini a creare lo scenario nel quale
le voci si inseriscono con discrezione. Flauti e ottavino (questo tace solo
nelle ultime 3 battute) reiterano in continuazione terzine di crome sulla
dominante DO, che di tanto in tanto abbandonano solo per alternarla con il REb:
stupefacente evocazione della quiete notturna, appena rotta da impercettibili
sussulti. Gli archi in parte arricchiscono l’atmosfera con il loro tremolo e in parte accompagnano le voci.
Di tanto in tanto, sordi colpi di grancassa rendono proprio l’idea dell’immenso
spazio che si apre davanti ai nostri occhi. La melodia intonata dalle voci è
quanto di più diatonico si possa immaginare, tutta incentrata sull’alternarsi
di dominante e tonica. I valori sono tutti di semiminima (a volte puntata) e di
croma, ma Didone l’arricchisce mirabilmente con alcune interiezioni in
semicroma, come queste ultime:
Su un ennesimo ondeggiamento fra DO e REb, mentre
Didone ed Enea vengono lasciati soli, il settimino
lascia spazio al conclusivo duetto N°37:
il REb diviene dominante del SOLb su cui si svolgerà l’ultimo (per quanto
possiamo arguire) incontro amoroso fra i due (poi sarà solo scontro). In
effetti è un duetto d’amore ben strano, giacchè i due non si scambiano
effusioni verbali (o carnali…) ma rievocano altri incontri amorosi, di
personaggi famosi o a loro vicini (l’ispirazione venne a Berlioz dallo
shakespeariano Mercante). Il duetto è
strutturato, ancora una volta, sulla forma del rondò, quindi A-B-A’-C-A”. Il ritornello A è cantato insieme dai
due protagonisti, che invocano su di loro la protezione di Febe e ritorna
sempre variato, coerentemente con la tradizione:
Si noti, nell’accompagnamento (qui i violini primi)
quella sesta abbassata che dà un’increspatura
crepuscolare alla melodia. Le due strofe interne sono quasi simmetriche e
composte da interventi separati dei due: in B è Didone, solo sfiorando il REb
per tornare al SOLb, a ricordare la notte magica in cui Venere si incontrò con
Anchise nei boschi dell’Ida (e da lì nacque… Enea!); il quale le risponde,
modulando a MIb minore, citando l’incontro di Troilo che nottetempo sgattaiolò
fuori dalle mura di Troia per amoreggiare con la greca Cressida (figlia di
Calcante). A’ presenta una falsa ripresa, virando verso il SIb minore, da cui
riprende poi il SOLb; Didone la abbellisce nel verso finale. In C comincia
invece Enea, che modula progressivamente verso il FA maggiore, rievocando la
notte in cui la casta Diana lasciò cadere il suo velo dinanzi ad un… arrapato
Endimione. A questo punto Didone, invece di citare ancora altri casi analoghi,
viene proprio al sodo, rimproverando, con una sottile perifrasi, Enea per la
sua freddezza nei confronti della Regina! Sul suo SIb minore rimane Enea (qui
si rompe la simmetria delle strofe) per ribattere immediatamente che la Regina
verrà teneramente perdonata dei suoi ingiusti dubbi. L’ultimo ritorno di A”
presenta ancora due false riprese, poiché parte in REb maggiore, poi in minore
e quindi degrada al SOLb. In quest’ultima esposizione il tenore, sul verso grands astres,
arriva a toccare il DOb, poi i due chiudono con una cadenza in cui ripetono per
quattro volte souriez
à l’amour, prima che i legni suggellino delicatamente, per terze, il duetto. Il cui motivo
principale rifarà ancora capolino, ma in circostanze tutt’affatto diverse.
Ma proprio mentre i due si allontanano abbracciati,
ecco il finale colpo di teatro: brusche scale ascendenti degli archi conducono,
per due volte, ad un unisono sul RE, seguito da bruschi accordi di RE maggiore.
Quindi ecco un SOL nei fiati: siamo un semitono più in alto rispetto alla
tonalità del duetto, perché qui è la Storia che irrompe a reclamare i suoi
diritti, che passano sopra a quelli degli individui! E il portavoce della
Storia è Mercurio, che dopo aver battuto due volte (altrettanti colpi di
tam-tam) sullo scudo che Enea ha lasciato appeso ad una colonna, esplode in SI
i suoi tre richiami: Italie! Il dio in quel momento non si sta
rivolgendo ai due innamorati, ormai lontani, ma evidentemente a noi del
pubblico, per anticiparci l’ammonimento che ad Enea verrà impartito nel quinto
atto, dalle voci dei quattro spiriti troiani (in origine essi dovevano apparire
proprio qui). Infine è la tonalità di MI minore – relativa del SOL - ad imporsi
per gli ultimi tre accordi, sull’ultimo dei quali i violoncelli, spalleggiati
dai contrabbassi, percorrono nove ondeggiamenti di biscrome (su tre semiminime)
che ci fanno scendere lungo la schiena un autentico brivido freddo.
Eccoci finalmente all’atto quinto, dove si compiono gli opposti destini dei due
protagonisti. Inutile dire che il cuore dell’atto è rappresentato dall’aria di Enea e poi dalla grande scena con monologo di Didone, in cui i
due esternano i rispettivi sentimenti (e… risentimenti): lui dilaniato fra la
necessità di perseguire il suo obiettivo superiore e la disperazione di dover
abbandonare la donna che gli aveva offerto ospitalità e aperto il suo cuore (e
pure il suo… corpo, se è per questo!); lei incapace di comprendere le ragioni
di ordine soprannaturale che impongono ad Enea di partire per l’Italia. E
proprio con l’aria di Enea avrebbe dovuto principiare l’atto, nell’originaria
immaginazione di Berlioz.
In realtà, strada facendo, il compositore decise di
arricchire l’esordio dell’atto con altri tre numeri, anche questi redatti a
ritroso: il siparietto semi-comico delle due sentinelle, preceduto dal coro dei
fedelissimi e ideologizzati troiani e, come apertura, dal canto solitario di un
giovane marinaio dalla coffa di una nave troiana. Un ulteriore numero che
Berlioz introdusse parecchio tempo dopo la stesura originale riguarda il duetto
fra Enea e Didone: il troiano avrebbe dovuto squagliarsela senza incontrare la Regina,
il che avrebbe ulteriormente acuito la di lei angoscia e disperazione. Poi
invece Berlioz decise di farli incontrare in un drammatico faccia-a-faccia.
Anche il finale, come vedremo, subì dei rimaneggiamenti non da poco. Strutturalmente
l’atto è suddiviso in tre quadri, il
primo dei quali – che si svolge durante un’intera notte - comprende i numeri
dal 38 al 44, concludendosi con l’incontro di Enea e Didone.
Ecco quindi, al levarsi del sipario, mentre è scesa
la notte, la Canzone di Ila (N°38): è un giovane frigio che canta
gli struggenti ricordi della lontana terra natìa. Qui si potrebbe tirare in
ballo Wagner, poiché il Tristan sappiamo
aprirsi proprio con una scena del genere (Westwärts schweift der Blick…) Difficile dire se
e quanto Berlioz abbia preso spunto da lì per ideare questo primo numero
dell’atto finale: negli anni in cui componeva Les Troyens, Berlioz non poteva
certo possedere la partitura del Tristan che era ancora di là da venire
(partitura di cui Wagner gli farà omaggio più tardi, nel 1860); però i due si
erano incontrati a Parigi all’inizio del 1858, proprio quando Berlioz (che non
era certo tenero con Wagner riguardo le di lui scelte estetiche, ma che non si
faceva mancare una sola pagina del Maestro di Lipsia) cominciava a lavorare
sull’Atto V della sua opera, di cui in quell’occasione aveva letto l’intero
libretto a Wagner (che ne era rimasto negativamente impressionato). Non è
escluso che nella stessa occasione i due abbiano anche parlato del Tristan (cui
Wagner stava dedicando anima e corpo in quei mesi) e chissà che l’idea della
canzone di Ila sia balenata nella testa di Berlioz proprio a seguito di quell’incontro…
Così come è possibile che sia stato Wagner a prendere spunti dall’opera di
Berlioz, come dimostrano alcuni apparenti punti di contatto fra Troyens e
Tristan che emergeranno anche più avanti.
La canzone è in 2/4, in forma tripartita strofa-ritornello: S-R-S-R-S-R’.
L’orchestra peraltro, per introdurre (con violoncelli e clarinetti) l’atmosfera
languidamente ondeggiante, propone
proprio l’incipit del ritornello, il che, prescindendo dalla voce,
comporterebbe la ridefinizione del brano come rondò. Le riprese delle singole sezioni avvengono senza alcuna
variazione nel canto e con modesti cambiamenti nell’accompagnamento, come
l’agitarsi di violini e viole al termine del secondo ritornello, quasi ad
evocare un’improvvisa ventata che scuote la nave. L’ultima strofa è
contrappuntata da un paio di commenti delle due sentinelle (che verranno in
primo piano poco dopo, con il loro duetto) mentre l’ultimo ritornello di Ila è
troncato per il sopraggiungere di… Morfeo: lo chiudono sommessamente i
clarinetti. L’impianto tonale è pure assai semplice: le strofe sono in SIb
maggiore, con fugaci modulazioni a RE maggiore e SIb minore; il ritornello è
suddiviso a sua volta in due sezioni: la prima nella sottodominante MIb
maggiore, la seconda (che passa momentaneamente a 6/8) in SOL minore, relativa
del SIb d’impianto:
È ora la volta del N°39, Recitativo e Coro:
sono i capi troiani, con il sacerdote Panteo in testa, che smaniano per
riprendere il viaggio verso l’Italia. Vedono inequivocabili segni divini nei
fenomeni naturali e odono le voci dei morti troiani che li incalzano con il
grido: Italie! Poco dopo Enea ci darà
conferma di questi fenomeni, allorquando esclamerà Encore ces voix! al cospetto dei
quattro spettri che lo richiamano al dovere. L’introduzione strumentale (Allegro) evoca l’atmosfera di impazienza
che circonda i troiani, efficacemente sottolineata in particolare da un
triplice inciso (sesta/sesta-abbassata/dominante, LA-SOLb-SOL) nei legni in
acuto. Dopo il recitativo di Panteo, l’Allegro torna con un succedersi di battute
in contrappunto fra il sacerdote e i capi (coro maschile) attorno alla tonalità
di DO (dove risentiamo l’inciso di tre note) tonalità che poi vira verso il SOL
sul quale si odono i tre lugubri richiami degli spettri (il resto del coro,
soprani esclusi) intercalati ancora dall’inciso precedente (qui MI-MIb-RE). I
troiani si danno appuntamento il mattino successivo per la partenza. Il numero
si chiude con gli archi che percorrono su e giù la triade di SOL minore.
Quasi a volerci chiarire che anche fra i troiani non
c’è propriamente unanimità di vedute, ecco arrivare ora, senza soluzione di
continuità, il successivo N°40,
un duetto fra due sentinelle (due
baritoni) che prendono letteralmente per matti i capi troiani con le loro
visioni e manìe di grandezza. I due rappresentano i classici stereotipi
dell’impiegato statale che si arrangia,
trova un suo soddisfacente tran-tran
quotidiano e ci si adagia sperando di non essere disturbato da doveri ed
impegni troppo gravosi. Tutto ciò ci dice la musica di Berlioz, Allegro moderato con il pizzicato di violoncelli e contrabbassi
che contemporaneamente sottolinea l’annoiato passo di marcia (proprio una
marcia di… marionette) dei due e la loro tendenza, diciamo così… all’ignavia. I
contenuti delle chiacchiere dei due sono quanto di più prosaico e meno… eroico
si possa immaginare: la vita comoda, mangiare e bere e, manco a dirlo, le
compagnie femminili. Così il primo si compiace che il rapporto con una
cartaginese gli abbia consentito di imparare il fenicio, mentre l’altro – uno
che va per le spicce – si è limitato a sottomettere la partner, che gli
obbedisce come una cagnolina! Tutta questa parte delle esternazioni si trascina
sulla tonalità prevalente di SOL minore, poi i due passano un tono più sotto
(FA) coerentemente con le maledizioni che mandano a chi li vorrebbe far tornare
alla dura e rischiosa vita di mare.
E questo qualcuno si sta proprio avvicinando: ecco il
grande capo! È Enea che arriva in piena agitazione per cantarci la prima delle
scene topiche di questo atto finale: il N°41,
Recitativo (a tempo) e Aria. Anche
questo si collega direttamente al numero precedente, mantenendo la tonalità di
FA minore, ma accelerando il tempo ad Allegro.
L’interprete è invitato (dall’aggettivo mesuré
indicato nel titolo) ad attenersi strettamente al tempo prescritto, senza
prendersi troppe libertà. La caratteristica prevalente di questo numero risiede
nell’impiego frequente dell’eco:
alcuni versi cantati da Enea vengono ripresi dagli strumenti, che altre volte
invece anticipano motivi che compariranno subito nel canto. È come se Enea non
fosse sicuro di sé e dovesse continuamente essere sostenuto nelle sue determinazioni:
lui – come i suoi camerati – è conscio di dover riprendere il viaggio, ma sa
che Didone non accetta in alcun modo il distacco dall’uomo di cui si è
perdutamente innamorata e sente lui stesso di esserne sempre irresistibilmente attratto.
L’impianto tonale è abbastanza semplice, anche se
ricco di modulazioni, ancora a sottolineare l’instabilità psichica del
protagonista: il recitativo (4/4) dal FA minore vira a DO maggiore (il le faut!),
quindi LA minore (je ne puis oublier), MIb maggiore (Invoquer la grandeur) e SOLb
maggiore (La
triomphale mort), ancora DO minore (Rien n’a pu la toucher) prima del
ritorno al FA (la
terrible eloquence); l’aria (Andante,
6/8) principia in FA maggiore, poi (lutter contre moi-même) modula a LAb maggiore (relativa del
FA minore originario); su questa tonalità attacca l’Allegro agitato che modula presto a MIb maggiore (si je quittais
Carthage) ancora con l’effetto-eco dell’orchestra; altro passaggio a
DOb maggiore (reine
adorée) e infine ritorno a LAb maggiore (Âme sublime): su questa
tonalità si va verso la conclusione, con un altro passaggio in eco (Bienfaitrice des
miens) dove il tenore tocca il DO acuto e infine chiude sul LAb
raggiunto passando per il SIb sovrastante. Il numero è sigillato da una eroica
cadenza orchestrale.
Ora un RE dei fagotti, doppiato all’ottava profonda
da corni e contrabbassi (questi devono appositamente accordarvi la corda grave)
scende dal precedente LAb di un tritono
(andiamo all’inferno?!) per introdurre la Scena
del N°42 (Andante un poco lento): sono i quattro spiriti troiani che tornano
a farsi sentire (ma qui anche vedere) da Enea per reclamarne l’immediata
partenza. La didascalia pare descriverci un rito del Ku-Klux-Klan: i quattro spettri (Priamo, Corebo, Cassandra, Ettore)
sono incappucciati e le loro teste sono incoronate da flebili fiammelle, che
poi si spengono via via, dopo che i quattro hanno tolto i cappucci ed esternato
i rispettivi ammonimenti al malcapitato Enea. Il minaccioso richiamo iniziale gli
arriva da un coro (invisibile) di 10 bassi, seguito da un accordo rabbrividente
nei legni (flauti, oboi, corno inglese, clarinetti e clarinetto basso):
SI-LAb-FA, cui poi si aggiunge il RE di fagotti e corni. Settime diminuite
abbondano, così come i tritoni, che costellano le frasi smozzicate di Enea in
risposta agli stringenti inviti dei quattro, che non gli danno nemmeno un’ora
di tempo per partire. Le voci cantano sempre sul RE, il pedale che percorre
l’intera scena e che sfocia, sull’ultimo ammonimento di Cassandra-Ettore (Il faut vaincre et
fonder!) in un perfetto accordo di SOL maggiore!
Enea non può che cedere e obbedire, rinunciando
persino all’addio a Didone: il ritmo si fa più serrato (Allegro) e l’ultimo tritono di Enea (LA-MIb, sulle parole Didon, en…)
chiude la scena per aprire immediatamente la successiva (N°43, Scena e Coro) su un improvviso ed incalzante SIb maggiore in Allegro assai: è Enea che passa davanti
alle tende dei troiani per svegliarli e sollecitarli all’imbarco alla volta
dell’Italia. La concitazione è espressa in particolare dal ritmo puntato delle
figurazioni nei violini, che sembrano richiamare la Marcia troiana, ma che ondeggiano raggiungendo alternativamente la
mediante minore e maggiore (REb e RE): e qui non può non tornare alla mente il
Wagner del Tristan, nella scena in cui si prefigura l’arrivo di Isolde (poi anche
quello di Marke) a Kareol:
Dopodichè ciascuno può trarre le conclusioni che
preferisce: pura casualità, o fu Wagner ad avere… reminiscenze? In un crescendo
turbinoso Enea e il coro si palleggiano gli incitamenti, la tonalità svaria dal
SIb al FA, al REb, al SOLb, poi al LAb, dove Enea grida Italie!; infine a SIb e alla
dominante FA, dove tutto il coro invoca la terra promessa, accompagnato da un
insistito martellamento dell’intera orchestra.
Ora Enea, partendo da quel FA e tornando alla
tonalità di SIb, rivolge da lontano il suo accorato saluto a Didone (À
toi mon âme! Adieu!) Il destino lo chiama, e lui le deve essere
infedele, per conquistarsi la morte degli eroi: e sulla parola mort un colossale
accordo di sesta napoletana porta
momentaneamente la tonalità a SOLb maggiore, dove il destino viene certificato
dal protervo incipit della Marcia troiana
nelle trombe e nei legni! Sul ritorno a SIb e sull’ultima sillaba di infidèle
si passa repentinamente al modo minore: è Didone che sta proprio ora
sopraggiungendo tutta trafelata!
In effetti originariamente, dopo il saluto a Didone,
questa scena doveva chiudere il Primo quadro con la partenza di Enea e
dei suoi al suono della Marcia troiana
e delle invocazioni Italie! Come detto, Berlioz si convinse in un
secondo tempo ad inserirvi, subito prima, l’arrivo della Regina e lo scontro
con Enea. Ecco perché il N° 44,
Duetto e Coro, si innesta senza
soluzione di continuità sul N°43,
venendo a costituirne quasi un intermezzo.
Prima di proseguire sarà però bene fare una
considerazione sulla scarsa plausibilità di ciò che avverrà qui di seguito: un
problema creato precisamente dalla decisione di Berlioz di inserire l’incontro
Didone-Enea in questo primo quadro (ma anche qualcos’altro nel successivo).
Consideriamo per un attimo come procede il dramma nella stesura definitiva: N°
43, Enea, convinto dai suoi (uomini e… spettri) si prepara in tutta fretta a
salpare per l’Italia; N° 44, Didone arriva e lo affronta, dandogli in sostanza
del traditore, accusa che Enea respinge confermandole di amarla ma di essere
chiamato dagli dèi a compiti superiori; Didone se ne va, maledicendo lui e i
suoi dèi. Nel quadro successivo ascoltiamo (N° 45) Didone implorare Anna (e
Narbal) di cercare di convincere Enea a restare almeno per un po’ (e già qui
siamo al paradossale: ma come, se non ci è riuscita nemmeno lei poco prima, a fermare Enea, come
potrebbero farlo la sorella e il suo ministro?) Poco dopo (N° 46) arrivano i
cartaginesi trafelati annunciando la partenza dei troiani, e Didone… casca
dalle nuvole? Ma come, se poco prima lei stessa, giù al porto con Enea, era
stata testimone dei concitati preparativi per la partenza? Insomma, qui davvero
la plausibilità degli avvenimenti scricchiola, e parecchio! Ecco invece quale ferrea
coerenza drammatica avrebbe avuto tutta la vicenda (come probabilmente era
nella prima stesura) senza la presenza dei numeri 44 e 45: N° 43, Enea è
convinto a partire e si affretta a farlo; N° 46, Didone apprende che i troiani
sono partiti di sorpresa e dà in escandescenze, con tutto ciò che segue.
Semplicemente perfetto! Ma torniamo… imperfettamente a bomba.
La didascalia ci dice che si scorgono in lontananza
bagliori temporaleschi (non sembrerebbe davvero un buon momento per prendere il
mare…) ma evidentemente il temporale è quello che scoppia fra Didone ed Enea,
come ci testimonia il tempo (musicale) che muta subitaneamente ad Allegro agitato.
Notiamo che fino a questo momento fra Enea e Didone
si era sempre usato il voi, come si
addice ad una Regina e ad un ospite di illustre lignaggio. Adesso invece, mentre
Enea mantiene una certa calma (anche… musicalmente) e continua con il voi, Didone, di cui la musica sottolinea
la tremenda agitazione e la collera verso Enea, è passata bruscamente al tu. Anche questo è un piccolo dettaglio
che ci riporta a Wagner: all’inizio della scena finale del primo atto, quando
Isolde finalmente riceve la visita di Tristan, lei gli si rivolge sempre con il
tu (lui in fondo è solo un militare,
lei una principessa) mentre Tristan la tratta rispettosamente con il voi. Però, dopo che Isolde ha ricordato
Morold e il suo desiderio di vendetta, Tristan improvvisamente passa al tu!
Dunque, una scena in cui contrastano apertamente le
frasi concitate e piene di risentimento di Didone (che persino parla di Enea in
terza persona, come rivolgendosi al pubblico) e le risposte smozzicate e
imbarazzate del capo troiano, che cerca di motivare la schizofrenia del suo
comportamento: deve abbandonare Didone pur amandola sopra ogni cosa! Da notare anche una sottile
ricercatezza di Berlioz, che mette in bocca a Didone un’accusa precisa: tua
madre non fu Venere, sbotta, ma tu fosti allattato da una lupa selvaggia. Romolo?
Il dialogo fra i due si muove su
diverse tonalità; dall’iniziale SIb minore di Didone (Errante sur tes pas) si passa alla prima
risposta di Enea (En ma douleur profonde) sulla sottodominante MIb minore; si
torna a SIb minore con Didone (Tu pars?) che poi passa dalla relativa REb
maggiore, su cui Enea innesta la sua risposta (J’ai trop tardé) scendendo ancora
alla sottodominante SOLb maggiore. Didone (Il part) sembra dire a noi che Enea la sta
abbandonando, dando ascolto alla voce del destino e non alla sua; poi, dopo un
affannato crescendo, ecco la superba salita da SIb a MIb maggiore a
sottolineare l’esclamazione et ma beuté de reine. Poco dopo (Tu pars?)
si torna al SIb minore e da qui alla relativa REb maggiore, su cui Enea ricorda
il suo innamoramento (Ô Reine, quand à vous se dévoua mon âme). Didone adesso reagisce bruscamente (Tais-toi!) e lo fa con una
subitanea virata a LA maggiore; ma sullo straziante rimpianto per non avere
avuto da Enea nemmeno il dono di un figlio (Encore, si de ta foi j’avais un tendre gage) la
musica si acqueta in un dolce FA maggiore. Enea sembra voler rigirare il
coltello nella piaga (Je vous aime, Didon) e lo fa modulando a SIb
maggiore, dove si odono da lontano le note della Marcia troiana: sono i suoi
uomini che ormai stanno per partire. Un ultimo scambio di battute fra i due,
sulla tonalità di SOLb, poi Didone sfoga tutto il suo astio (je maudis et tes
dieux et toi-même!) tornando al SIb minore. Un lungo accordo tenuto
dall’intera orchestra l’accompagna mentre si allontana verso la reggia.
A questo punto ci si riallaccia al N°43 e riascoltiamo, in SIb maggiore, la
Marcia troiana per intero e il grido Italie!
scandito da Enea e dai suoi, che si avviano all’imbarco per salpare verso
l’Italia, ed escono anche… dall’opera!
Il Quadro secondo ci porta negli appartamenti
reali, mentre sta facendosi ormai giorno. Il N°45, Scena, ci
mostra Didone ed Anna a colloquio: in realtà si tratta di due esternazioni di
Didone intercalate da una risposta della sorella. La tonalità è LA minore, con
brevi passaggi a tonalità vicine. In tempo 4/4 i violini attaccano un mesto
accompagnamento, caratterizzato da tre semicrome discendenti (DO-SI-LA) seguite
da tre crome, tutte in sincope, proprio ad evocare lo stato d’animo della
Regina, che pare singhiozzare e trascinare a fatica i suoi passi. I violoncelli
entrano con una melodia dal sapore napoletano
(caduta dalla sesta minore sulla seconda minore) su cui Didone innesta il suo
canto disperato, chiedendo ad Anna di fare un ultimo tentativo per cercar di
trattenere Enea. Vaghe sfumature di DO maggiore nell’accompagnamento sembrano
indicare che qualche estrema speranza ancora cova nell’animo della Regina.
La risposta di Anna scivola appunto verso la
relativa DO maggiore, ondeggiando fra essa e il LA minore: la sorella si dice
responsabile della situazione per aver favorito l’amore fra Didone ed Enea, che
un implacabile destino allontana da Cartagine, pur se in lui quell’amore
continua ad ardere.
Didone risponde salendo a RE minore: no, Enea ha un
cuore di ghiaccio, solo io conosco l’amore, per il quale sfiderei anche gli
anatemi di Giove! I violini qui hanno ripetuto il loro accompagnamento virando
a RE maggiore, poi la tonalità è tornata a LA minore. Che ora muta in LA
maggiore: la Regina chiede alla sorella (e a Narbal, che evidentemente è lì nei
pressi) di far di tutto per convincere Enea a rimanere anche solo per pochi giorni (il tempo necessario per concepire con
lui un figlio? chissà…) Ma lei stessa per prima non sembra convinta della
riuscita di un simile tentativo (che infatti non ha alcun fondamento logico,
stante gli avvenimenti di poco prima…) e la sua esternazione si chiude con un
ritorno del LA minore, sospeso sulla dominante MI.
E qui la speranza cade del tutto! Attacca infatti subito
il N°46 (Scena) con il MI di Didone che si fa sensibile e sfuma in un
concitato FA maggiore, incardinato sulla dominante DO e su un ritmo dattilico
di marcia (semiminima-croma-croma) che poi, grazie all’appoggio sulla sesta
minore, modula a REb maggiore: sono i cartaginesi che annunciano di aver visto
la flotta di navi troiane allontanarsi. Come detto, qui la costernazione e la
rabbia di Didone sarebbero credibilissime, se non ci fosse stato poco prima il
suo incontro con un Enea proprio sul punto di salpare, che invece ce le fa
apparire piuttosto esagerate, non dico ipocrite.
Insieme ai due successivi numeri (47 e 48) il 46
contribuisce a comporre un quadro completo dell’atteggiamento di Didone di
fronte alla situazione creatasi. In questo numero si ripete (per quattro volte)
un inciso che simbolizza la sua collera e agitazione: sono 4 crome più una
semiminima, che alla prima apparizione (subito dopo Les Troyens sont partis!)
suonano come SOLb-FA-FA-SOLb/SOLb. Poco dopo (fra Dieux immortels! e Il part!)
come MIb-RE-RE-MIb/RE. Inizia ora un grandioso recitativo, dove la furia della Regina
si mescola al suo senso di impotenza, poi ai suoi rimorsi, quindi alla sua sete
di vendetta e infine alla decisione di distruggere ogni reliquia del suo amore
(ma già sta maturando, come accadrà fra non molto, anche il proposito di
togliersi la vita). Ecco infatti esplodere subito la collera di Didone: mentre
i fiati proseguono con il ritmo dattilico dell’ingresso dei cartaginesi, gli
archi intercalano le esclamazioni della Regina – che incita i suoi a
distruggere i troiani, incendiando le loro navi - con veloci scale ascendenti,
che toccano successivamente SIb, SI e MIb. Poi (Courbez vous sur les rames)
fiati e archi continuano ad interporsi alle esclamazioni di Didone con violenti
accordi, fino alle parole Que la ville entière, dove troviamo una prima
interruzione della sua violenta tirata. Che lascia spazio (Que dis-je) alla constatazione
dell’impotenza che la invade, e all’abbandono (momentaneo) al dolore e alla
disperazione. Qui torna però, per la terza volta e in forma dilatata, l’inciso
della sua collera, ed ecco che Didone riprende il piglio aggressivo – sempre
intercalata dagli accordi strappati dell’orchestra - pentendosi di non aver
distrutto i troiani già al loro arrivo, e di non aver servito ad Enea, in un
raccapricciante banchetto, il corpo del figlio Astianatte! Ora arrivano i
propositi di rivalsa: preceduta da un perentoria scalata dell’orchestra
(DO-MI-SOL-DO-MIb-SOL) che chiude su un solenne accordo di MIb maggiore dei
fiati, Didone, percorrendo dall’alto in basso un’ottava (MIb-SIb-SOL-FA-MIb)
invoca gli dèi degli Inferi contro Enea. E subito dopo udiamo, per la quarta
volta, l’inciso della sua collera, che introduce l’appello al sacerdote di
Plutone e l’invito a preparare una pira su cui verrà bruciata qualunque traccia
materiale di Enea e dei troiani. La tonalità sfuma verso il FA# minore, mentre
il suo canto ora si è fatto grave e dolente, come l’accompagnamento dell’orchestra,
lasciato ai soli legni in unisono, con una chiusura in pianissimo su un accordo
di settima diminuita (LA nel corno
inglese, DO nei clarinetti e MIb-FA# nei flauti). Infine, quasi senza alcun
accompagnamento, Didone licenzia Anna e Narbal, rimanendo sola per il
successivo Monologo.
Che è il N°47,
aperto da agitati accordi di LA minore, che accompagnano la Regina che si muove
come una belva in gabbia, strappandosi i capelli (Berlioz puntigliosamente annota
in calce il verso virgiliano: Flaventesque
abscissa comas)! Sono 20 battute suonate dalla sola orchestra, cui la voce
si sovrappone nelle ultime 5, con due urla strazianti (FA-RE). Poi Didone si
ferma improvvisamente e nelle restanti 35 battute, in MIb minore, esterna il
suo stato d’animo, ormai irreparabilmente rassegnato alla morte: e qui non a
caso il tempo cambia ben 12 volte, addirittura 5 volte nelle prime 6 battute!
La Regina non spera più nemmeno nella vendetta, ma solo che Enea conservi
ancora nel suo animo qualcosa di umano, che gli permetta un giorno di
piangerla. E qui abbiamo il culmine di questa esternazione (Esclave, elle
l’emporte en l’eternelle nuit) con una salita al FA seguita da una
discesa fino al MI della sottostante ottava. Neanche Venere ormai può
restituirle l’amato, e lei non attende che la morte, plus rien: e pronuncia queste due
parole con un drammatico salto di nona
discendente (FA-MIb) sul quale gli archi chiudono con un dolcissimo MIb
maggiore.
Qui c’è una corona puntata, prima che inizi l’aria N°48 (Con solennità,
recita l’agogica di Berlioz, per un Adagio
in 6/8) che scende alla sottodominante LAb maggiore per concludere questa scena
tutta impregnata del dolore di Didone. Un dolore acuito dai ricordi di un’intera
vita dedicata all’edificazione della sua città, da quelli dell’amata sorella e delle
rive africane che l’accolsero; ma soprattutto i ricordi di quelle notti
d’estasi e d’amore, che mai più potranno ritornare.
Il primo addio (alla fiera città) percorre la triade maggiore di LAb, scendendo da
dominante a dominante: flauti e oboe ne ripetono l’incipit; invece le viole
anticipano il secondo verso, che risale da dominante a mediante; poi ancora le
viole si allineano al canto, una terza
sotto, alla conclusione del terzo verso:
Un controsoggetto accompagna poi il ricordo della
sorella, chiudendo a somiglianza del primo motivo. Il secondo addio è per il popolo e per l’ospitale terra d’Africa:
questo parte dalla dominante e scende fermandosi alla sesta, per poi risalire
alla sopratonica (quindi è una variante meno estesa in altezza della prima
apparizione del motivo). Anche il controsoggetto varia sottilmente la prima
apparizione. Il terzo addio è per il bel
cielo d’Africa, che parte dalla sottodominante e scende alla sesta,
ripetuto due volte.
A questo punto - mirabilmente! – ecco innestarsi il
tema dell’estasi infinita, che aveva chiuso (un tono più sotto, SOLb maggiore)
il quarto atto. Ne ascoltiamo solo il primo verso, poi un inciso di fiati e
viole culminante sulla sesta minore lo interrompe; ma Didone riprende quell’inciso
(Je ne vous
verrai plus) salendo alla sesta maggiore (!) prima che legni e viole
lo ribadiscano sulla settima minore, poiché… ma carrière est finie! La voce
resta sospesa sulla dominante MIb, ripresa dagli archi (con i tromboni a
cadenzare quasi… a morto) che degradano lentamente fino alla tonica LAb,
seguendo i passi di Didone che esce lentamente di scena.
Siamo ormai al Quadro terzo (ed ultimo) che
principia con il N°49, Marcia funebre, protagonisti il coro,
Anna e Narbal. Il tempo è proprio da mortorio (Moderato, un poco sostenuto, in 4/4) e la tonalità è DO# minore
(quella con cui Mahler aprirà in modo funebre la sua Quinta). Si può macroscopicamente suddividere in tre parti:
dapprima il coro dei Sacerdoti di Plutone che invocano le divinità dagli inferi
perché ridiano pace al cuore esacerbato della Regina; poi un intervento di Anna
e Narbal a maledire Enea, augurandogli il fallimento della sua impresa; infine
il ritorno del coro.
L’orchestra introduce il tema principale, che scende
da tonica a dominante, poi sale alla mediante da dove, dopo un breve scarto
cromatico, scende ancora per gradi congiunti alla dominante. È esposto dalla
cornetta a pistoni e dal primo trombone, mentre i contrabbassi in pizzicato
segnano il tempo con crome martellanti sulla sequenza DO#-SOL#-DO#-DO# che
verrà ripetuta fin quasi alla fine del primo intervento del coro; i timpani
invece battono solo il DO#, ma su un metro dattilico (semiminima/croma-croma)
quasi ad intaccare la regolarità della marcia:
Il coro maschile espone il primo verso (invocazione
alle divinità) dove il tema è lasciato alle sole voci basse, quasi in
sottofondo, e chiude virando al modo maggiore, sul LA#; qui cornetta e trombone
riprendono il tema, salendo al SI (la dominante della relativa del DO# di impianto)
e il coro espone il secondo verso (preghiera di ridare pace al cuore di Didone)
che chiude significativamente in MI maggiore, con un giro attorno alla
mediante, cui fanno eco gli strumentini. Ora l’invocazione alle divinità viene
ripetuta, chiudendo gravemente, dopo un rabbrividente accordo sul richiamo al Chaos,
sul DO#.
Ora intervengono Anna e Narbal, che riprendono
all’unisono il tema salendo alla mediante dalla tonica dell’ottava sottostante
(percorrendo la triade di DO# minore) poi scendendo fino alla sottodominante:
augurano ad Enea, ammesso che arrivi in Italia, di fare una brutta fine!
Chiudono il verso sul RE, che sale al MIb sul quale udiamo possenti accordi
dell’orchestra. Adesso i due ripetono il tema un semitono più in basso (DO
minore) augurandosi che gli umbri (Turno!)
si alleino ai latini per fermare Enea.
L’ultima strofa è un vero e proprio anatema: che
Enea venga trafitto in battaglia e resti abbandonato sul campo, preda degli
avvoltoi; e si conclude con l’ennesima invocazione alle divinità, ora sostenuta
anche dal coro, e che sembra proprio un ordine perentorio! Il coro ripete
adesso, ma assieme ad Anna e Narbal (tornati al DO# minore) la prima strofa.
Ancora una volta Berlioz non si accontenta di riproporcela tal quale, ma vi
introduce un mirabile effetto nell’accompagnamento dei violini: i quali
scaricano delle semiminime, in tremolo, ad intervalli di 3 (anziché 2 o 4)
disarticolando in tal modo la regolarità del mortorio!
Sulla pausa dell’ultima battuta della marcia Didone
attacca il N°50, la Scena del suo supremo sacrificio. Scena
che si presenta musicalmente sotto forma di recitativo accompagnato, con
dettagliate didascalie che descrivono i movimenti della Regina, sottolineati
dagli interventi dell’orchestra. Dapprima, nel silenzio generale rotto
solamente da lunghe note tenute di viole e celli, con i contrabbassi in
pizzicato a ritmare il tempo (in modo anche qui irregolare) Didone sembra
volersi dar coraggio, ritrovando la calma interiore: lo fa con una frase, quasi
sillabata a stento, che muove dal DO# e scende cromaticamente fino al RE#
sottostante. L’ultimo verso (Je sens rentrer le calme… dans mon coeur) chiude
significativamente sul DO# maggiore.
Adesso quattro sacerdoti si muovono a coppie recando
i due altari e Didone li segue verso la pira. Questa parte della scena è
accompagnata dal ritorno in orchestra (flauti e clarinetto, più le viole in
tremolo e cornette e tromboni a scandire il ritmo affrettato) del tema della
precedente marcia, sempre in DO# minore e sfociante in modo maggiore, mentre
Didone ha raggiunto la sommità della pira. Il clarinetto solo, nel generale
silenzio, introduce una seconda frase della Regina (D’un malheureux amour) che ha
gettato sulla pira la toga di Enea e il suo velo, tutta cantata sull’unica nota
di DO#.
Una figurazione discendente in biscrome degli archi
sottolinea lo sguardo che Didone riserva alle armi di Enea, ed anticipa il suo
lamento (un lungo Ah!) che sale per gradi dal DO# (divenuto dominante) al
FA#, tornando al DO#, sul quale ancora i violini esplodono un inciso dal piglio
eroico che introduce, in celli e contrabbassi, una fiera riesposizione in FA# minore
del tema della marcia. Didone si è gettata sul letto posto in cima alla pira,
poi si risolleva impugnando la spada di Enea. Dopo un tremolo fortissimo degli
archi, ecco i fiati scalare un’ottava, sulla triade di SI minore, dando la
stura alla violenta esternazione di Didone: spalleggiata da interventi feroci
di archi e legni (mentre la tonalità, per enarmonia, vira dal FA# al SOLb) la
Regina prefigura (un poco come Cassandra) i fasti che il suo popolo raggiungerà
nella Storia, fino a quando sulla terra d’Africa nascerà un glorioso
vendicatore: Annibale! Annibale! Ora si può scendere agli inferi, conclude
Didone, modulando al REb, di cui percorre la scala discendente, dal FA al REb
un’ottava sotto. Ma ecco ora la scena-madre: la Regina estrae dal fodero la
spada di Enea e con quella si trafigge, mentre l’orchestra esplode due crome in
fortissimo.
Immediatamente è il Coro maschile, con Anna e Narbal, ad attaccare il N°51: tutti cercano di soccorrere
Didone, Anna in particolare, mentre Narbal va a chiamare il resto del popolo.
Ecco infatti anche il coro femminile entrare in scena manifestando con gli
altri il proprio orrore alla vista della Regina morente in un lago di sangue.
L’orchestra interpreta l’agitazione e lo sconforto dei presenti con continui
cambi di ritmo (crome, semiminime, terzine di crome) fino a raggiungere il
culmine sull’imprecazione generale (Jour d’horreur!) chiusa da una
terzina+semiminima di strumentini e cornette. Ora si fa quasi silenzio e,
precisamente come descritto da Virgilio, Didone, invano confortata dalla
sorella, per tre volte si rialza reggendosi su un gomito, e per tre volte
stramazza, emettendo lamenti… sull’ultimo dei quali predice la fine di
Cartagine, con una triplice imprecazione, scandita su intervalli di semitono
discendente partenti da altezze crescenti di un tono intero: LAb-SOL (Des destins ennemis)
SIb-LA (Implacable
fureur) e DO-SI (Carthage périra!)
La chiusura dell’opera prende il titolo di Maledizione (N°52). Ma prima che i cartaginesi la esternino, è ancora
Didone, con le sue ultime forze, a cantare Roma… Roma… immortale! mentre una banda in
lontananza attacca con ritmo marziale. L’ultima parola della Regina è esposta
sulla triade di SIb maggiore, la tonalità della marcia troiana che infatti, dopo quattro folate delle arpe, si
presenta in tutta la sua prosopopea, mentre il popolo cartaginese già prefigura
le guerre puniche e le umiliazioni che Annibale&C infliggeranno ai romani.
Ma è proprio Roma che lo spettatore vede, lontana, sullo sfondo, nel tripudio dei
trionfi imperiali, mentre cala il sipario.
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C’è poi la
storia dei due finali. In origine
Berlioz, al finale che si rappresenta oggi (Nos derniers descendants,
contre eux toujours armés, De leur massacre, un jour, épouvantent le monde!) aveva aggiunto un Épilogue (166 battute musicali, in tempo
lento ed enfatico) chiudendo la partitura con la scritta in calce: Qudquid erit,
superanda omnis fortuna ferendo est (Virgile) – 12 avril 1858. In questo epilogo, sulla musica
della marcia troiana divenuta inno romano, si vedeva Roma con Clio, la Musa della Storia, che
presentava grandi personaggi della storia romana, Virgilio incluso:
Scipioni Africano Gloria!
Julio Caesari Gloria!
Imperatori Augusto et Divo Virgilio Gloria! Gloria!
Fuit Troja, Stat Roma!
Un soprano e un tenore
ribadivano: Stat
Roma! Stat Roma!
Berlioz nel gennaio 1860 decise di
cassare questo epilogo, forse ritenendolo inadeguato a rappresentare – da solo
– il resto dell’Eneide (per questo ci sarebbe voluta almeno una terza opera!)
Peraltro la chiusura definitiva ci manda con mirabile concisione un duplice
messaggio: la maledizione cantata dai cartaginesi, contrappuntata dalla musica
della marcia troiana, sullo sfondo
del Campidoglio!