Ieri sera alla Scala settima (e
terz’ultima) recita di Luisa Miller, con il
(cosiddetto) primo cast, che però ha
visto la prevedibile (date le vicissitudini recenti) sostituzione di Marcelo Álvarez con il suo
secondo, Piero
Pretti, annunciata da una speaker poco prima dell’inizio.
Opera bellissima, pur non potendosi
definire capolavoro, nel soggetto come nella musica. Salvadore Cammarano costruì un mirabile libretto di dramma popolare
che anticipa in qualche modo, quasi condensandoli, i contenuti della trilogia: un padre altolocato che
ostacola l’amore del figlio per una diversa,
ricorrendo anche all’inganno (Traviata); un altro padre, plebeo, che teme che
la figlia venga sedotta da un potente (Rigoletto);
un giovane innamorato che disprezza l’innamorata credendola traditrice (Trovatore). Prese spunto da Schiller, del quale Kabale und Liebe impiegò peraltro solo ciò che gli serviva
(personaggi principali e canovaccio generale) ignorandone invece tutto il peso
e in particolare i contenuti socio-politico-filosofici.
E Verdi ci mise tutta la dirompente
carica – dei suoi anni di galera –
per comporre questa grande opera romantica. La cui Sinfonia, dove si condensa l’essenza del dramma, contiene chiare tracce del romanticismo
tedesco, come già a battuta 42, all’entrata del secondo motivo (o idea
secondaria) che richiama quasi alla lettera (orchestrazione e tonalità incluse) un analogo
inciso dall’Ouverture del Freischütz
di Weber:
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In analogia al modello delle
ouvertures mozartiane, la Sinfonia della Luisa, lungi dal presentarsi come un bigino dei temi delle arie principali
dei tre atti che seguono, ne rappresenta la caratterizzazione profonda, con il
suo unico tema (che non ricorre mai come specifico contenuto vocale di alcuna
aria o coro o concertato, all’interno dell’opera) subito esposto con grande
cipiglio, pur nel pianissimo, dai
primi violini, che sembrano letteralmente evocare tre sussulti di un anima inquieta (gli anapesti che caratterizzano il tema e che vengono anticipati dagli
altri archi):
Il tema, che trasuda agitazione
e oscuri presentimenti, non solo comparirà esplicitamente nel terzo atto, a
prefigurare l’epilogo tragico della vicenda, ma lo udiamo spesso e volentieri –
magari in piccoli frammenti e in forme sottilmente derivate, o in motivi che ne
presentano il ritmo inconfondibile - nei frangenti topici dell’opera, e sempre
a metterne in risalto aspetti inquietanti o a preconizzare sventure, anche
in momenti apparentemente sereni e
felici: insomma, è una specie di tema del
destino di Luisa (ma non certo un Leit-Motiv,
concetto che ancora doveva essere inventato, smile!)
Gli anapesti compaiono già nell’introduzione,
sulla seconda frase di Luisa (Né giunge ancor) a sottolineare l’agitazione
della ragazza che attende impazientemente l’amato:
E anche l’arrivo di Rodolfo sarà accompagnato da un marziale ritmo, proprio guidato da anapesti. Una variante
del tema fa capolino poi sulle parole della protagonista (Iddio le avea in ciel) quando
ricorda il suo incontro con Rodolfo e il relativo colpo di fulmine:
Invece è il ritmo del tema, con l’anapesto che lo caratterizza, a udirsi
anche nel brillante T’amo d’amor ch’esprimere, che Luisa e Rodolfo
cantano nel duetto dopo l’arrivo del giovane nella casa di lei:
E anche l’intervento di Miller
(Non so qual
voce infausta) che getta un’ombra sulla felicità dei due giovani,
contiene i sinistri anapesti di cui il tema della sinfonia è pervaso. Poco dopo
gli archi sottolineano l’entrata dello sbifido Wurm con figurazioni che, ancora
una volta, derivano direttamente dal tema.
Nel finale del primo atto,
Miller rientra sconvolto dall’aver avuto conferma della vera identità di
Rodolfo e del progettato matrimonio con la Duchessa, ed esprime la sua
disperazione con poche parole, proprio su un frammento del tema del destino:
Subito dopo Rodolfo si ripresenta
in casa di Luisa e le conferma, davanti a Miller, la sua promessa (Son io tuo sposo).
È il clarinetto ad introdurre mestamente la sua esternazione, su un
motivo che deriva dal tema principale della Sinfonia; poi appena prima del
canto, espone la prima battuta del tema: qui è in MIb maggiore e non in DO
minore, è vero, poiché la circostanza parrebbe fausta, ma il riferimento
ritmico-melodico dell’intera frase del clarinetto non lascia presagire nulla di
buono:
E
poco dopo, infatti, quando Rodolfo canta A me soltanto e al cielo
arcan tremendo è manifesto…
(alludendo al delitto con cui suo padre conquistò la sua posizione) è ancora il
clarinetto, con il fagotto, a sottolineare questa esternazione con terzine che
rimuginano l’incipit del tema:
Immediatamente dopo, all’arrivo di Walter,
un’altra forma derivata del tema – che ne contiene la cellula anapestica - ne accompagna
la proterva pretesa di ristabilire
l’ordine:
E ancora la udiamo nel successivo sfogo di
Miller, offeso dal conte nell’onore della figlia. E anche il grandioso Deh! mi salva
di Luisa altro non è se non una forma variata e dilatata della cellula del tema
principale.
Nel
secondo atto ancora udiamo negli archi la cellula anapestica del tema del
destino: dapprima quando Wurm si appresta a dettare la falsa confessione a
Luisa; poi sull’esternazione della ragazza (A brani, a brani o perfido); e quindi quando il
medesimo Wurm notifica a Walter il procedere dell’intrigo. Ed essa torna poco dopo, durante l’incontro fra Federica e
Luisa, quasi a condizionarne l’andamento, sotto la pressione delle minacce di
Walter e Wurm alla poveretta.
E allorquando Rodolfo entra in
possesso della (falsa) confessione di Luisa, è ancora una variante del tema a
sottolinearne la tremenda agitazione:
E un’altra volta si affaccia
subito dopo il mancato duello Rodolfo-Wurm, all’accorrere di armigeri e
famigliari e quindi ancora nel drammatico dialogo di Rodolfo col padre.
Il
terzo atto poi, fin dalle primissime battute, è sinistramente illuminato da
questo tema del destino, che ormai si
avvia al suo compimento:
Essendo
qui notato con valori dimezzati, rispetto alla Sinfonia, e soprattutto a causa
del metronomo (ridotto quasi ad un
quarto: 69 rispetto a 252) e nonostante l’abbreviazione del secondo dei tre sussulti (una semiminima invece di 2,
per comprimerlo nel tempo di 3/4) il tema suona assai più lento che nella sua
iniziale proposizione, con quasi il doppio di durata (matematicamente l’intera
cellula tematica qui prende 5,22 secondi, nella sinfonia 3,33).
Interessante
è proprio la manipolazione del secondo inciso, che rende la melodia, per così
dire, zoppicante, asimmetrica, conferendole un carattere ansioso e caricandola di ulteriore
tragicità; quindi pienamente adatta a sottolineare il canto di Laura e del coro
Come in un giorno solo, come ha
potuto il duolo stampar su quella fronte così funeste impronte? e il successivo invito di Laura Ah! l’infelice ignori qual rito nuzial s’appresta. Ma nel frattempo l’inciso anapestico, nel
clarinetto, aveva anche infettato l’esternazione di Luisa A questo labbro più non s’appresserà terreno
cibo! (chiaro riferimento al suo proposito suicida) e poco dopo tornerà, negli archi bassi, a
sottolineare il presentimento di Miller: Il cor mi serra non so qual rio presagio!...
Il tema del destino torna – e per l’ultima
volta, ormai - sulle drammatiche parole di Miller (che in realtà sta leggendo il
proposito suicida che la figlia ha scritto per Rodolfo) Havvi dimora, in cui né inganno può, né giuro aver
possanza alcuna...
Anche qui il tema è sottilmente variato
rispetto all’originale: ora è il terzo sussulto
ad essere compresso in una semiminima (invece di 2) quasi ad evocare
l’improvviso precipitare della situazione. Il metronomo (80) fa sì che la
durata della cellula tematica (6 semiminime) sia un poco inferiore a quella
delle battute introduttive dell’atto (4,5 secondi contro 5,22).
La successiva progressione, che vede la
cellula ripetuta sei volte, partendo da gradi sempre più alti
(LA-SIb-DOb-REb-MIb-FA) mirabilmente esprime la crescente costernazione del
padre alla lettura del messaggio della figlia a Rodolfo, costernazione che
sfocia nel tremendo LAb di tutta l’orchestra, mentre il foglio cade di
mano a Miller, che mormora Sotto al mio piè il suol vacilla!...
Poi, nel tragico duetto fra Rodolfo e
Luisa, già posseduti dal veleno, sarà ancora l’inciso anapestico a comparire
più volte. Compiutosi il destino, con lui se ne andranno anche i segni musicali
che ne hanno accompagnato il materializzarsi.
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L’ambientazione pensata da Mario
Martone è – parole sue – di stampo fiabesco-onirico.
E ciò si giustificherebbe con le pesanti modifiche ambientali che Cammarano
apportò al dramma di Schiller. Insomma, portandoci il libretto - da una città
della Germania - in una malga del Tirolo e venendo a mancare il personaggio
della madre di Luisa, ecco che la
vicenda – secondo il
regista
– perde ogni carattere di realismo e diventa un sogno. Dove però – sono sempre parole
di Martone – tutto ciò che accade sembra proprio reale… (smile!)
Altra perla del regista (ascoltata nel
video accessibile dal sito web del Teatro): l’assenza
di costumi d’epoca mette il cantante in rapporto diretto con se stesso e con lo
spettatore. Quindi abiti moderni, perché interpreti e spettatori possano
vivere meglio la vicenda, evitando di farsi quattro risate al cospetto di gente
abbigliata in modo bizzarro. Peccato però che lo strumento usato da Luisa per
scrivere la confessione dettatale da Wurm non sia – come sarebbe coerente con
la vision registica – Winword, ma una bella e lunga penna
d’oca (stra-smile!)
Il
letto è il protagonista-centrale dell’allestimento martoniano. Se leggiamo
il libretto, scopriremo che effettivamente il letto
vi compare, una volta sola. Ma è un
letto assai particolare, come ci spiega Luisa poco prima della fine: La
tomba è un letto sparso di fiori… Immagine invero poetica uscita dalla
fervida penna del buon Cammarano. Ora, innalzare questo pezzo d’arredamento a
simbolo dell’intero allestimento può spiegarsi solo in coerenza con la
visione onirica del regista, chè – di solito almeno – è proprio a letto che si
sogna. Ma ciò che invece lo spettatore capisce è che il letto, oltre ad essere
lo strumento per sognare, è anche l’obiettivo (freudiano?) dei sogni di
taluni (e talune).
Così rappresenta dapprima le aspirazioni (innocenti?) di Luisa: tutto
candido e ricoperto di fiori (quindi sarebbe la tomba?) accoglie l’incontro fra
i due innamorati. Poi quelle dello sbifido Wurm, che smania (più che sognare)
per portarvici Luisa, impeditone però da Miller, che ricopre il letto con il
lenzuolone bianco (la purezza della figlia?) per far capire al bavoso che quel
posto lui se lo deve scordare.
Letto che può venire benissimo a
proposito nel caso di Federica, la cui caratterizzazione mi è parsa convincente:
lei è una donna che ha avuto tutte le ricchezze immaginabili e desiderabili, ma
le è purtroppo sempre mancato un manico.
Ora che è tornata libera – ma evidentemente con qualche annetto in più sul
groppone sui glutei (mi riferisco al personaggio, non all’odierna
interprete, per carità) – altro non cerca che un maschio con cui finalmente usare il letto (che non per nulla viene
ricoperto di lenzuolone e cuscini rosso-scarlatto) in modo piacevole e…
sanguigno; e meglio ancora se quel maschio è uno che già eccitava le sue
fantasie fin da quando frequentavano insieme le elementari; e di fronte al
quale la bellona non esita a mettersi in desabillé
per rinfrescargli la memoria.
Un altro pezzo d’arredamento (talvolta
usato come alcova per imprese erotiche) – una poltrona, smile! - fa anche da scenario dell’odioso ricatto del vile verme Wurm (ma sì, mettiamoci pure
una Stabreim!) ai danni della povera
Luisa. Pochi dubbi che il tristo figuro abbia una voglia matta di scoparsela seduta (in poltrona) stante, ma qui pare che il regista
esageri un filino, propinandoci una motivazione proprio hard-core della giusta indignazione della pudibonda ragazza, che
sbotta: A brani, a brani, o perfido, il cor tu m’hai squarciato!
In casa Walter vengono portati in
scena anche alcuni spezzoni di un’aula
parlamentare, sui cui scranni prendono posto i rappresentanti della casta di quei tempi. La cosa sarebbe più
plausibile se si rappresentasse il dramma di Schiller, tutto intriso di
significati politici, mentre (almeno stando a Cammarano) nella Luisa dovremmo
trovarci in una malga del Tirolo dell’inizio del 1600… smile! Ma vuoi vedere che si tratta invece di un trucco come un
altro che il regista si è inventato per insinuare che i parlamenti di oggi non
sono per nulla più democratici delle corti assolute di 400 anni fa? Nel primo
atto gli scranni circondano il lettone rosso dove la provocante Federica cerca
invano di soddisfare le sue smanie con il ritroso Rodolfo. Parrebbe quindi
un’apologia, o una velata satira, dell’attuale camera dei deputati, trasformata tempo fa da un nostro ex-PM in
luogo di supporto alle sue simpatiche burlesque.
Il letto torna poi completamente
bianco nel terzo atto, allorquando Luisa vi sogna effettivamente la tomba,
sogno che non tarderà a materializzarsi.
Insomma, un’ambientazione – quella di
Martone - fra l’intelligente e il bizzarro, che non mi sentirei di censurare
totalmente, ma che vanifica almeno in buona parte gli sforzi con cui il
librettista aveva cercato di poetizzare
la vicenda.
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Leo
Nucci
è il trionfatore di questo allestimento: la sua voce non sarà più perfetta, ma
francamente il suo Miller è ancora di livello eccellente. Strepitosa,
vocalmente, la sua salita al LAb dell’onor,
anche se drammaticamente fa un poco scadere la nobile figura del vecchio padre
a vanesio personaggio da tenorino in calore…
Elena
Mosuc
– accolta da ovazioni - non mi è troppo piaciuta: la sua incarnazione del
tormentato personaggio di Luisa è convincente nel suo lato intimista, dove
ascoltiamo una bella voce e acuti in mezzo-forte benissimo eseguiti; invece
piuttosto volgarotta quando si tratta di far venir fuori la grinta: qui il canto, soprattutto in
alto, tende assai verso il bercio. Insomma, una prestazione decorosa, ma non
entusiasmante, nonostante la facilità con cui la Mosuc sale al REb sovracuto,
che arriva al termine di una parte già di per sé faticosa e costellata da DO in
abbondanza.
Conferma le sue doti Piero Pretti, che già si era fatto apprezzare
nelle recite precedenti, compresa quella in cui era stato catapultato in scena di
punto in bianco, dopo la rottura di Álvarez. Voce
chiara e piuttosto leggera, ma abbastanza appropriata a scolpire la natura di questo
personaggio pieno dei classici complessi da figlio-di-papà. Per lui consensi unanimi
del pubblico.
Lo sbifido
Wurm è benissimo impersonato da Kwangchul
Youn, che in Verdi, come in Wagner, è ormai una sicurezza. Martone lo gratifica
anche di un chiaro handicap fisico, così,
tanto per infierire.
Vitalij Kowaljow è
un più che discreto Walter, peraltro un poco, diciamo così, sbiadito, almeno per come immagino il
ruolo del conte, ricco di psicologiche contraddizioni.
Daniela Barcellona è una Federica professionalmente impeccabile, scenicamente perfetta (per
come il regista immagina questo personaggio). La sua è una parte relativamente facile,
e lei mostra di padroneggiarla assai bene, meritandosi grandi applausi.
Valeria Tornatore
(Laura) e Jihan Shin (un contadino)
si sono guadagnati, come si suol dire - e specialmente la prima, più impegnata
- la pagnotta.
In bella evidenza il coro di Mario Casoni (che il redattore delle
locandine web deve avere in uggia,
visto che lo ignora regolarmente…)
Da ultimo, Gianandrea Noseda. Si è letto
di qualche contestazione nelle precedenti recite (evidentemente anche lui
fatica a sfatare il vecchio adagio nemo
propheta in patria…) Ieri invece solo applausi, compresi i miei (che sono
di parte, essendo suo concittadino). Però, fossi in lui, qualche esagerazione nei
fracassi me la sarei risparmiata…
In definitiva, uno spettacolo dignitoso,
ma siamo sempre lì: dalla Scala non ci si dovrebbe aspettare di più?