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da stellantis a stallantis

30 maggio, 2011

Scorpacciata di Mahler alla Gewandhaus


Per celebrare il centenario della morte di Mahler, dal 18 al 29 maggio la Gewandhaus Leipzig ha ospitato una serie di concerti in cui sono state eseguite tutte le sinfonie e i principali lieder del compositore boemo. Sono state invitate per l'occasione alcune fra le orchestre più famose e Direttori di spicco.
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Tutti i concerti sono stati irradiati in streaming e sono tuttora, e per alcuni giorni ancora, visibili le registrazioni di alcuni di essi (non tutti, purtroppo): qui su MDR e ARTE.
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Tutte esecuzioni di grandissimo pregio. Personalmente metterei sul gradino più alto un terzetto: Gatti (9a, con i Wiener), Harding (4a, con la MCO) e Gilbert (5a, con la NYPO).
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Harding e la MCO in una Scala semideserta



Ieri sera la Scala ospitava un concerto benefico della Mahler Chamber Orchestra, guidata dal suo Direttore Principale, Daniel Harding. Concerto a favore del Progetto Itaca. Certo, i prezzi erano politici (cioè alti, in questo caso, data la finalità) e anche Pappano con SantaCecilia ad aprile – in occasione analoga - non era stato accolto da un teatro esaurito, ma ieri sera si è davvero toccato il fondo: l'affluenza dei milanesi al Piermarini non deve aver superato quella registrata alle 22 per il ballottaggio Moratti-Pisapia! Cioè teatro letteralmente mezzo vuoto. Che differenza, per Harding e i bravissimi della MCO, rispetto all'accoglienza trionfale di pochi giorni fa alla Gewandhaus per il festival Mahler!

A parte la finalità benefica, l'occasione era davvero ghiotta per i musicomani, con un programma di alto livello e soprattutto con interpreti sopraffini. La MCO – una delle creature di Abbado - è una signora orchestra, ed è un piacere anche solo vederla suonare, perché si capisce che è gente che lo fa per passione e non solo per professione: alla fine del concerto vedere orchestrali che si abbracciano e che si complimentano a vicenda è cosa non proprio comune da queste parti.

Brahms e ancora Brahms nelle due parti della serata: dapprima il Concerto Op.77 che ci è stato magistralmente porto da Isabelle Faust. Harding lo attacca forse con eccessiva circospezione, ma poi si slancia da par suo nell'Allegro, dove la Faust fa cantare divinamente il suo Stradivari, eseguendo alla fine la cadenza di Busoni, caratterizzata dall'insolita presenza dei timpani. Splendido l'Adagio, dove la bravissima primo oboe Mizuho Yoshii ci delizia con l'esposizione del dolce tema in FA maggiore, prima che venga ripreso dalla Faust con grande nobiltà. Faust che poi si scatena nell'Allegro giocoso che chiude degnissimamente il concerto. Diverse chiamate per lei, ma nessun bis.

Chiude la Seconda sinfonia, la cosiddetta pastorale del burbero amburghese, scritta poco prima del concerto per violino e poco dopo l'impegnativa prima. Luminoso e leggero il suono che Harding trae dai suoi (disposti alla tedesca, con i bassi a sinistra) come ben si addice a quest'opera piena di serenità e pace. Fugacemente interrotte, prima della volata finale, da un Sempre più tranquillo in cui compare un motivo per quarte discendenti di cui si ricorderà Mahler al momento di comporre la sua prima:

Poi la cavalcata conclusiva, con i fiati (trombette in testa) in grande evidenza nelle quattro battute di crome staccate che fanno mozzare il fiato:

Lo scarso pubblico si fa in quattro per decretare un meritato e grandissimo trionfo ai ragazzi e ad Harding, che per farsi perdonare (smile!) il mancato ritornello dell'iniziale Allegro non troppo, ci regala come bis il finale della sinfonia.

Peggio per chi se n'è rimasto a casa…
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27 maggio, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 36



Oleg Caetani(-Markevitch) è tornato sul podio de laVerdi con un programma tutto russo.

Che inizia con un brano di Shostakovich scritto per soli fiati: Due pezzi di Scarlatti (Domenico): Pastorale e Capriccio. Si tratta, nell'originale, di due Sonate per clavicembalo del compositore partenopeo, catalogate da Alessandro Longo sotto i codici L413 e L375.

Qui Shostakovich mostra di essere davvero un mago nel saper cavar fuori dalle sonatine scarlattiane due veri gioielli: delicatissima la siciliana della Pastorale in Re minore, dove i legni disegnano languide volute alternate a trilli gentili. Nel Capriccio in MI maggiore Shostakovich tira fuori invece tutto lo humor di cui è capace e ce ne presenta una esilarante parodia: fantastici i glissando del trombone e gli sberleffi del clarinetto!

Ancora di Shostakovich la Suite dall'Opera Il Naso. Si tratta di sette brani, di cui qui vengono eseguiti solo i quattro strumentali (altri 3 coinvolgono una voce di baritono): a differenza che nell'opera, dove l'orchestra tradizionale è ridotta ai minimi termini e vi abbondano le percussioni, oltre ai fiati, qui Caetani impegna anche l'intero organico degli archi. Peraltro disoccupati nel primo intermezzo (quello del primo atto, prima del risveglio di Kovalev) dove sono le percussioni a farla da padrone. Orchestra al completo per l'introduzione, l'intermezzo del secondo atto (ritorno a casa di Kovalev) e il frenetico il galop (uscita di casa di Kovalev) che conclude la breve selezione. Eccellente prestazione di tutti, ma dei percussionisti in particolare e in particolare ancora di Chieko Umezu, strepitosa allo xilofono.

Shostakovich mette lo zampino, come orchestratore, anche nel terzo brano, i Canti e Danze della Morte di Musorgski: come capitò per tante altre opere del grande Modest, anche questi Canti – i cui testi sono di Kutuzov e si possono trovare qui, anche con traduzioni (non quella italiana, lodevolmente presente però sul programma di sala e soprattutto proiettata sugli schermi sopra l'orchestra) - furono orchestrati da vari musicisti, come l'onnipresente Rimsky, ma anche Glazunov, e in anni recentissimi Lazkano e AhoVerrebbe da associarli a tante poesie tragico-patetiche del Knaben Wunderhorn, e in effetti raccontano di malattie, fatalità, miserie e guerre.

Ninna-nanna: una madre veglia il bimbo ammalato per tutta una notte e poi, al mattino, arriva lei e canta al piccolo l'ultima ninna-nanna.

Serenata: una giovine Violetta (per la ASL) langue in una notte profonda; ma il suo fascino ha sedotto un misterioso cavaliere, che le canta l'ultima serenata.

Trepak: un ubriaco si perde danzando in un bosco, in mezzo ad una tormenta; qualcuno lo incoraggia ad addormentarsi sotto la neve. Poi la primavera arriverà, e con lei le falci che mietono.

Feldmaresciallo: gran parata militare, alla presenza del condottiero che loda i suoi per il valore dimostrato. Ma quel condottiero è lei, e loro son tutti i morti in battaglia.

La voce che canta queste simpatiche strofe è – per così dire – ad libitum, anche se una voce maschile parrebbe da preferirsi (data l'efferatezza dello scenario!) Qui invece è la bella e calda voce del mezzosoprano Susanna Anselmi a porgerci queste liriche cariche di nero pessimismo e che paiono proprio fatte per ispirare la sconvolgente musica di Musorgski.

Si chiude con la Piccola Russia, seconda sinfonia di Ciajkovski.

Ad aprirla è il primo corno del grande Ceccarelli che intona – in DO minore – il famoso canto ukraino Giù lungo la Madre Volga:

Attorno a capodanno del 1880 – a Roma - Ciajkovski rivoluzionò il primo movimento (introduzione e coda escluse) dell'originale del 1872, introducendovi un nuovo primo tema e impiegando il vecchio primo tema per costruirci il secondo. Riorchestrò e rimaneggiò anche il secondo e terzo movimento, accorciando anche il finale di ben 146 battute. Da sempre si esegue la versione modificata, ma dalla metà del secolo scorso esiste una ricostruzione della partitura originale (incisa anni fa da Geoffrey Simon con la London Symphony) e i critici sono abbastanza concordi nel reputare quella versione superiore alla definitiva! Qui Caetani si tiene prudentemente alla tradizione.

Convincente, nel tempo e nell'agogica, anche l'Andantino marziale, dove Ciajkovski cita, come terza idea, in SOL minore, un'altra canzone popolare ukraina, Continua a filare, o mia filatrice, da lui in precedenza trascritta per pianoforte, nella stessa tonalità:
Interessante anche il secondo tema, qualcosa che sembra anticipare certo Mahler…

Lo Scherzo è affidato quasi esclusivamente ad archi e strumentini (con rare comparse di corni e trombe a far da sottofondo): una cosa leggera e saltabeccante, che vagamente richiama certe pagine mendelssohn-iane del Sogno.

Il motivo conduttore del Finale è ancora un canto ukraino, La Gru:
Il tema torna più volte, presentato con in diverse vesti e contrastato mirabilmente da un secondo tema lirico e svolazzante:
La conclusione è enfatica e fracassona quanto basta, con abbondante impiego di piatti e grancassa, oltre ai timpani della bravissima Mologni, e anticipa in qualche modo quella della quarta sinfonia. Successone per tutti, in un Auditorium peraltro non affollatissimo.

Speriamo lo sia per il penultimo concerto della stagione, dove rivedremo Xian Zhang alle prese con un autentico monumento dell'800 musicale: il Requiem brahmsiano.
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25 maggio, 2011

Cio-cio-san (per i piccoli) al Carlo Felice



Tema: Scrivete le vostre impressioni sullo spettacolo cui avete assistito ieri pomeriggio al Teatro di Genova.

Svolgimento (scolaro di 1a media):

Ero molto curioso di entrare nel teatro, perché finora ero solo andato al cinema colla mamma, oppure allo stadio col papà. Mi è piaciuto abbastanza, le poltrone sono comode, meglio di quelle di Marassi, però meno che al cinema. Purtroppo bisogna stare fermi e zitti e non si può mangiare pop-corn o patatine fritte.

All'inizio del primo tempo si è visto un giapponese vestito da donna che faceva vedere una casa vuota ad un tizio in divisa bianca, che poi si è messo a cantare sulla musica che si sente quando un americano vince la medaglia d'oro alle olimpiadi.

Poi è arrivata un sacco di gente per una specie di festa, che ho scoperto dalle scritte sul tabellone che era un matrimonio fra il tizio in divisa e una giapponesina che ha detto di avere solo 15 anni (ma a me sembrava più vecchia della mia professoressa). A me sembra anche una bella abitudine questa di sposarsi direttamente in casa, senza tutte quelle noiose cerimonie in chiesa.

Ad un certo punto della festa sono arrivati alcuni tizi vestiti di arancione e con le teste rapate, che hanno cominciato a fare un gran casino. A me il mio papà mi ha sempre detto che gli arancioni sono gente buona e non-violenta, ma forse questi erano degli infiltrati.

Quando il tizio in divisa bianca è restato solo con la giapponesina e si sono baciati c'è stato un gran casino, tutti a gridare come quando al cinema Richard Ghier si fa una bella gnocca. Ma l'orchestra ha continuato a suonare ancora per un bel po', fino alla fine del primo tempo, quando abbiamo potuto finalmente uscire per bere una coca.

Il secondo tempo è stato molto più noioso, con la giapponesina che consolava la sua schiava, e poi ha cantato una canzone che canta ogni tanto anche la mia mamma quando fa il bagno. Però a casa nostra nessuno le fa tutti quegli applausi.

Poi è arrivato un altro tizio seduto su una sedia portata da 4 schiavi, come il Papa che ho visto una volta alla televisione. Ma la giapponesina lo ha cacciato via perché voleva aspettare il tizio in divisa. A questo punto la gente ha applaudito (forse lo fanno sempre quando l'orchestra fa un gran casino) e così noi ci siamo alzati per tornare fuori ancora a bere qualcosa, ma il maestro ha ripreso subito a suonare e abbiamo dovuto stare di nuovo fermi e zitti per più di mezz'ora.

Il tizio in divisa è tornato davvero, stavolta però era vestito di nero ed era insieme a una tipa come la Canalis ma bionda, tutta il contrario della giapponesina. Però il tizio è scappato via per la vergogna, e così la giapponesina si è uccisa col coltello e ha lasciato il bambino da solo a giocare con una bandierina. Ma tutti abbiamo applaudito lo stesso.

Penso che chiederò alla mamma di portarmi ancora a vedere un'opera, però dove alla fine ci sia una lotta con sciabole spaziali, o almeno una bella sparatoria.


Ecco, speriamo proprio che questo non sia il livello medio delle reazioni degli scolaretti (di elementari e medie) che ieri pomeriggio hanno preso d'assalto, a centinaia e centinaia, il Carlo Felice, per questo specialissimo saggio di fine anno che era la quarta rappresentazione della Butterfly.

A parte le battute, non c'è che da lodare questa iniziativa di avvicinare i giovanissimi alla musica e all'opera, iniziativa che fa il paio con quella triestina, opportunamente segnalataci da Amfortas. E che va ovviamente integrata con altre, affinchè non cada nel vuoto, riducendosi ad un'allegra scampagnata fuori programma.

Che il teatro genovese sia risorto dalle ceneri è un dato di fatto, anche se all'orizzonte non mancano grossi e minacciosi nuvoloni… Tuttavia, dopo il successo di Pagliacci, anche questa Butterfly sta riscuotendo unanimi consensi e ciò lascia almeno aperta la speranza in un ritorno, diciamo così, alla normalità (quella sana però, mica quella delle ruberie e degli approfittatori).

Nel complesso una dignitosissima performance, di tutto il cast, su cui è spiccata Hui He, che ha confermato di essere un'ottima cantante, ma anche una sopraffina attrice. Max Pisapia al ballottaggio (smile!) con Mario Bolognesi; Elena Cassian e George Petean eletti direttamente. Tutti gli altri (vedi locandina) e il coro di Marletta all'altezza dei compiti.

Ranzani ha tenuto bene in pugno lo spettacolo, calamitando continuamente su di sé lo sguardo degli interpreti (cosa… interpretabile in vario modo); è comunque stato sempre attento a non coprirli, evitando pesantezze e limitando i fracassi al minimo consentito. Lodevole la decisione – forse non gradita al giovane pubblico - di non interrompere fra la prima e la seconda parte del secondo atto.

La regia, ripresa dal Montresor del '95 da Ignacio Garcia è di quelle che dimostrano come il miglior modo per far giustizia all'originale sia di… presentare l'originale, e non sue cervellotiche interpretazioni, che spesso degenerano in stravolgimenti. Ecco, ieri di dissacrante – ma qual ventata di aria fresca! – c'era solo la presenza dei ragazzini in platea.

Tirando le somme, un pomeriggio più che piacevole.
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22 maggio, 2011

È la musica in grado di descrivere alcunchè?



Un fulminante post di John Simon ripropone una questione annosa, riguardante la supposta o millantata capacità della musica di descrivere oggetti, vicende, sentimenti, stati d'animo, concetti filosofici, e via elencando.

In effetti, spesso e volentieri accade che il termine descrivere venga impiegato con faciloneria nel commentare esecuzioni di brani o temi o intere opere musicali. E gli stessi compositori – coscientemente o meno – hanno contribuito a creare questa immagine di musica descrittiva. Un esempio famosissimo ce lo fornì nientemeno che Beethoven con la sua Pastorale; dove, verso la fine della Scena presso il ruscello, il genio di Bonn ci descrive – impiegando il flauto – il canto di un usignolo, poi – coll'oboe – quello della quaglia e infine – col clarinetto – quello del cuculo. Ma i dubbi sulla comprensibilità del solo testo musicale furono tali da fargli aggiungere sulla partitura anche un testo… scritto, con quelle precise indicazioni ornitologiche! Liszt da parte sua ci rappresenta in musica le meditazioni di Lamartine e la vita di Tasso. E Strauss descrive la personalità e le vicende di DonJuan e di Macbeth. Non parliamo poi di Wagner, che ha inventato centinaia di motivi musicali per descrivere qualunque oggetto o concetto che uno si possa immaginare.

Ecco, prima di usare il termine descrivere, bisognerebbe pensarci su un attimo. Provo a fare un esempio che spero chiarisca il concetto. Siamo in una pinacoteca, o in una mostra qualunque di quadri e uno dei dipinti rappresenta un tizio allampanato, che regge una lunga lancia, ha in testa un elmo che pare un coperchio di pentola, monta un ronzino così basso che gli fa strisciare i piedi per terra ed è scortato da un altro tizio ronzinato, dall'aspetto sferoide e depresso, mentre sullo sfondo si vedono un paio di mulini a vento. Ora, soltanto un analfabeta cavernicolo sarebbe incapace di associare il contenuto del dipinto a Don Quijote: perché quel quadro, in effetti, ci descrive l'oggetto con la stessa, se non maggiore, precisione di un testo scritto o parlato. E di sicuro a nessuno verrebbe in mente di vederci invece Don Giovanni o l'Orlando furioso, o Rolando a Roncisvalle, o la tenzone canora della Wartburg. Adesso entriamo in una sala da concerto dove viene eseguito un brano sottotitolato Variazioni fantastiche su un tema di carattere cavalleresco. Immaginiamo un pubblico di 1000 persone che nulla sa di storia della musica ed ascolta il brano senza conoscerne il titolo, né il sottotitolo, né l'autore, né altro. Secondo voi, in quanti su 1000 (ma potrebbero essere anche milioni di miliardi) indovinerebbero trattarsi della straussiana messa in musica delle avventure di Don Chisciotte? Proprio nessuno, perché quella musica potrebbe altrettanto bene evocare l'Orlando furioso o Don Giovanni, o magari le Baruffe chiozzotte o Rolando a Roncisvalle; o una tenzone canora alla Wartburg, piuttosto che le bambole robotizzate del dottor Coppelius, o anche le Mille e una notte raccontate da Sheherazade. Oppure proprio nulla di nulla, poichè potrebbe trattarsi di musica pura, senza riferimenti, né precise ispirazioni.

Ma allora dobbiamo concludere che Beethoven, Liszt, Strauss, Wagner e tutti quanti fossero degli imbroglioni? Non propriamente. Perché, una volta che conosciamo a priori l'oggetto o il soggetto, o il concetto cui la musica si riferisce o dal quale è stata ispirata - e se quella musica è opera di un genio e non di un ciarlatano – ecco che allora possiamo rimanerne colpiti ed emozionati: poichè la musica, incapace a descrivere, è però in grado di evocare qualunque oggetto, soggetto o concetto.

In fondo, è ciò che regolarmente accade nell'Opera lirica, dove la musica sottolinea, accompagna, evoca per l'appunto ciò che il testo (o quanto meno il contesto) ci fa invece conoscere – sì, ci descrive – in modo inequivocabile.

A nessuno di noi, ascoltando il wagneriano tema cantato da Woglinde a metà della prima scena del Rheingold verrebbe in mente di associarlo al concetto di rinunzia… perché quel DO minore potrebbe benissimo evocare dolore, o timore, insicurezza, delusione, insoddisfazione, tristezza, malinconia, mestizia, depressione; o un qualunque altro concetto o sentimento di simili caratteristiche. Ma, una volta che il testo (Nur wer der Minne Macht versagt, nur wer der Liebe Lust verjagt) ci ha precisamente indicato ciò che quelle note per Wagner rappresentano, ecco che – di lì in poi – ogniqualvolta riudiremo quel tema avremo l'evocazione chiara, inequivocabile e drammaticamente precisa dell'incombere sullo scenario di una qualche rinunzia!

Per restare a Wagner e al Ring, nessuno potrebbe associare asetticamente il tema in DO maggiore (SOL-DO/DO-MI-SOL-DO-MI) che udiamo verso la fine del Rheingold, alla spada: quelle note potrebbero rappresentare benissimo il trionfo di Radamès o una carica di Custer o un passaggio dei Bersaglieri! Ma quando – a partire dalla Walküre – riudiamo quel tema mille volte, appiccicato all'oggetto o semplicemente al concetto della Nothung, ecco che allora ne scopriamo perfino la capacità di evocare visivamente una spada estratta dal fodero e poi brandita verso l'alto.
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Ci sono poi circostanze in cui, da sola, la musica nulla può. Ad esempio, sia in Wagner che in Verdi troviamo delle incudini. Sempre nel Rheingold, terza scena, giù a Nibelheim, Wagner vuol mostrarci in musica la fucina dove Alberich costringe i suoi schiavi a produrgli il tesoro. Ma per rappresentare adeguatamente le incudini su cui i poveracci picchiano i loro martelli, purtroppo la musica non gli basta più, ed è costretto ad impiegare proprio 18 vere incudini, di diverse grandezze (notate in FA su tre ottave) sulle quali vengono picchiati altrettanti martelli, al ritmo del tema dei Nibelunghi. Nel Trovatore, la Gitana, Verdi ha a che fare con un libretto che recita testualmente: al tempestar dei martelli cadenti sulle incudini. E anche lui se la cava prescrivendo in partitura due (o più…) incudini o aggeggi simili (che emettono suoni vicini a due DO a distanza di un'ottava) percosse alternativamente.
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Ma la bancarotta totale della musica descrittiva fu certificata da Respighi. Il quale, vivendo in tempi di avanzata tecnologia fonica, nei suoi Pini non ci si provò nemmeno ad imitare l'usignolo (come aveva fatto Beethoven, col flauto) ma prescrisse l'intervento di un …grammofono, a riprodurre il canto registrato del volatile! E siccome non c'è limite al peggio, in seguito è arrivato qualche ciarlatano a contrabbandarci come musica anche il rumore (oh yes, mr. Ross!) di elicotteri volteggianti in cielo…
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20 maggio, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 35



Il gran finale di stagione si apre con un concerto di quelli davvero classici: Mozart e Bruckner. Sul podio e prima anche alla tastiera il 61enne Christian Zacharias.

Il Concerto K595 di Mozart è una delle ultime sue composizioni (1791, anno della morte) e ha una struttura piuttosto esile, almeno dal punto di vista dell'organico: via clarinetti (e questa non è una novità) trombe e timpani. Insomma, una cosuccia apparentemente leggera, che invece contiene tutta la genialità del grande Teofilo, che ci introduce arditissime e innovative modulazioni e che si permette (non è la prima volta) anche di auto-citarsi. Così, proprio all'inizio, incastonato fra le due sezioni del tema principale, appare per due volte un inciso (che cade da tonica a mediante, passando per la dominante) che viene da lontano: circa 10 anni prima lo ritroviamo infatti nel finale della Haffner, che a sua volta lo ricordava dal Ratto:
Più vicina è invece la Jupiter, di cui sentiamo un chiaro ricordo del Finale:
Anche il tema esposto subito dal pianoforte all'inizio del Larghetto è qualcosa che Mozart ci ha già fatto sentire, precisamente nel finale della Sinfonia Linz, prima che anche Beethoven lo impiegasse in una sua minore sonatina per pianoforte:
E una sua iniziale cellula viene anche riproposta nell'Allegro conclusivo.

Zacharias impiega una sezione d'archi poco più che cameristica e ci porge questo gioiellino con grazia e leggerezza tutta settecentesca, ben supportato dall'orchestra, che mostra un invidiabile amalgama fra archi e fiati. Non mancano alla fine diverse chiamate per Zacharias, che concede un bis, ancora mozartiano.

Ecco poi la monumentale Wagners-symphonie di Anton Bruckner. Continuamente rivista, aggiustata, assestata e ripulita per quasi una vita (18 anni, mentre nel frattempo il nostro aveva già composto quasi tutte le sue restanti sinfonie, nona esclusa!) e sulla quale misero come al solito le mani i suoi discepoli (non sempre disinteressati).

Sinfonia impiantata in RE minore, come la nona beethoveniana e come altre due dell'organista di SanktFlorian: la giovanile numero zero (Bruckner era notoriamente affetto da comptomanìa, e c'è anche una meno-uno, se è per quello!) e la conclusiva ed incompiuta nona. RE minore, tradizionalmente tonalità di malinconia e tristezza, che lascia però il campo – proprio come in Beethoven – al Finale in RE maggiore, la tonalità degli Hallelujah! e dei trionfi.

Sul significato dell'impatto della tonalità (intesa come altezza del suono) sull'orecchio umano e addirittura sui concetti rappresentati dalle diverse tonalità si son scritte enciclopedie. Ad esempio Christian Schubart nel 1806 scrisse nelle sue Ideen zu einer Aesthetik der Tonkunst che il SIb minore è la tonalità del suicidio (quindi Ciajkovski, col suo giovanile concerto per piano, aveva già imboccato la strada giusta, smile!) Ma la valenza scientifica di ciò è assai labile, se si prende come base il temperamento equabile e se oltretutto si considera che il diapason standard, dai tempi di Bruckner (ma più ancora di Beethoven) è salito di svariati hertz (da 422 a 435, oggi a 440, corrispondenti ad un innalzamento di quasi un semitono). Quindi il SIb minore del suicidio di Schubart oggi sarebbe un LA minore, che secondo lui rappresenterebbe però la delicatezza di carattere

Per ottenere oggi il supposto effetto eroico che Beethoven consegnò al MIb della sua Eroica, dovremmo farla suonare in RE. E il suo quarto Concerto per piano - essendo in SOL maggiore - secondo il solito Schubart esprimerebbe piacevoli emozioni dell'animo; ma se glie lo suonassimo con il SOL di oggi, è come se Schubart lo ascoltasse nel suo LA bemolle, che per lui era indice di sepolcri, morte e putrefazione!

Insomma, vien da pensare che il tutto altro non sia che frutto di convenzioni. Diverso il discorso sui modi, ciascuno dei quali implica invece una particolare struttura melodica (e armonica) della narrativa musicale che – magari indipendentemente dalla tonalità – può produrre e produce di sicuro effetti specifici e diversi sulla cervice umana (celebre è rimasta la droga instillata nei soldati, mandati a battaglia, dall'ascolto di melodie in modo frigio).

Tornando a bomba, anzi a… tromba, il tema principale della sinfonia, che tornerà poi, ciclicamente e in modo maggiore, alla fine dell'opera, richiama vagamente Wagner, che bonariamente dichiarò a Bruckner di averlo apprezzato assai (è già molto che avesse letto la prima pagina della partitura):
E altre influenze wagneriane si intravedono in tutta la sinfonia. Qui Zacharias – che dirige senza bacchetta – è bravissimo, secondo me, nello scolpire i diversi blocchi sonori che costituiscono questa specie di cattedrale: le enormi colonne degli ottoni che reggono le nervature e le arcate di legni e archi.

Anche l'Adagio lascia intravedere atmosfere wagneriane, in certi passaggi degli archi. Emozionante poi quello – un vero Höhepunkt - che precede l'epilogo, dove le trombe in ff, e nel generale fff del resto dell'orchestra, espongono la loro maestosa perorazione, in SOLb:
Qui Caruana, Vallet e Ghidotti sono stati davvero spettacolosi.

Ecco poi lo Scherzo, che anche un asino riconoscerebbe essere di Bruckner, tanto ne è spiccato e quasi smaccato il DNA. Ancora gli ottoni strepitosi in quelle discese di due ottave (DO-DO) che chiudono la sezione principale.

Arriva infine il gigantesco Allegro, dove fa capolino anche Loge, con il suo caratteristico cromatismo… infuocato. Forse il tema più interessante di tutta la sinfonia è quello in FA# maggiore, che viene composto come risultante di due linee melodiche, affidate ai violini primi e secondi (un po' come succederà al tema del finale della Patetica ciajkovskiana):
È la batteria degli ottoni – come spesso accade in Bruckner – a dover vedere ancora i sorci verdi, con colossali passaggi in corale che mettono a dura prova la compattezza della sezione. Ma Amatulli, Rizzotto e compagni sono in stato di grazia e il trio delle trombette chiude alla grande con la riproposizione del tema iniziale della sinfonia, qui in un trionfante RE maggiore, sostenuto e ribadito dall'intera orchestra, fino all'unisono conclusivo.

Inutile aggiungere del trionfo per tutti e per Zacharias (cui Bruckner avrebbe sicuramente offerto una birra, smile!)

Prossimamente un bel viaggetto in Russia, con Oleg Caetani.
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19 maggio, 2011

Noseda trasloca da Manchester a TelAviv

 
A pochi mesi (prossimo settembre) dalla conclusione della sua collaborazione con la BBC Philharmonic, con un bilancio assolutamente positivo nel quale spicca il successo delle sue sinfonie beethoveniane, che mezzo mondo ha scaricato dal sito web della BBC, Gianandrea Noseda (da Sesto San Giovanni) è stato nominato Direttore principale ospite alla Israel Philharmonic Orchestra (di cui è Direttore Musicale Zubin Mehta).

Un altro bel riconoscimento, dopo l'analogo appointment dello scorso anno alla Pittsburgh Symphony.
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18 maggio, 2011

Barenboim con la WEDO alla Scala per i 100 anni dalla morte di Mahler


In questi tempi piuttosto disgraziati, vedere e soprattutto sentire suonare insieme islamici ed ebrei, palestinesi ed israeliani – mentre i loro rispettivi popoli e rappresentanti politici non fanno che guardarsi in cagnesco, se non di peggio - fa sempre un certo effetto, tanto che si è portati a sospettare che questa della WEDO altro non sia che una piccola oasi felice in un deserto di miserie, o una iniziativa velleitaria e di scarsa utilità pratica rispetto alla soluzione dei problemi del medioriente.

Bridging the gap titolava qualche anno fa un bel servizio del Guardian sulla Divan: ma quella frattura sembra purtroppo allargarsi, e gettare un ponte sopra di essa appare sempre più difficile, data l'enorme asimmetria che caratterizza la situazione politica palestinese. L'impressione che si deriva dal leggere le storie di questi ragazzi è che gli orchestrali ebrei-israeliani vivano la bella avventura nella Divan (perché c'è Barenboim? anzi… due: padre direttore e figlio primo violino!) come vivrebbero analoga avventura nella IPO o in qualunque altra filarmonica del pianeta, diretta da grandi firme: loro vengono comunque da un Paese libero, dove hanno le loro famiglie, le loro case e soprattutto la loro libertà. Invece per i palestinesi (anche quelli con cittadinanza israeliana) la Divan pare essere un luogo dove rifugiarsi, lontani da un mondo che li discrimina o addirittura li opprime. In fondo è una condizione non molto diversa – e probabilmente un pochino frustrante - da quella in cui ha vissuto per gran parte della sua esistenza il compianto co-fondatore della Divan, Edward Said, palestinese (cristiano) di origine, ma di fatto completamente americanizzato, e che per la sua patria ha potuto ottenere assai poco di veramente determinante, per quanti sforzi abbia dedicato alla causa.

Così come Barenboim, pur con le sue iniziative, anche clamorose (come l'esecuzione di Wagner in Israele o il concerto a Ramallah del 2005) ben poco è riuscito ad ottenere dai governi del suo paese sui fronti più scottanti del permanente conflitto fra i due popoli (insediamenti, muro, discriminazioni, embarghi); anzi, in Israele si è attirato forse più antipatie che consensi. Insomma, la Divan rischia di restare un bell'esempio di convivenza pacifica… ma guarda caso fuori dallo scenario dove di quella convivenza ci sarebbe bisogno come dell'aria. Per dire, l'Orchestra non ha sede né a Gerusalemme, né a Ramallah, né a TelAviv, ma è ospitata in Spagna e suona prevalentemente in giro per il mondo e pochissimo in medioriente. Certo, le iniziative che la fondazione Barenboim-Said promuove in Palestina (di acculturamento musicale dei giovani) sono meritorie, ma appaiono come gocce nel mare, e soprattutto si scontrano con uno status-quo che ne condiziona pesantemente lo sviluppo.

Quanto a noi, ci basta ed avanza ascoltarli suonare – e così bene – questi ragazzi, e poco ci curiamo di tutto il resto.

La Decima di Mahler (di cui Barenboim qui ha diretto solo l'Adagio) dopo la pubblicazione dei manoscritti originali, è diventata in questi ultimi anni terreno di scontro ideologico fra chi ne vorrebbe un totale rispetto (e quindi la riservatezza) e chi invece la usa come una specie di palestra per aspiranti completatori. Il più famoso dei quali fu Deryck Cooke, la cui versione viene tuttora rivista ed emendata, e non solo dai suoi discepoli/collaboratori (Goldschmidt e i fratelli Matthews). Nell'ormai lontano 1964, proprio nel periodo in cui Cooke – Alma permettendo - stava facendo eseguire la sua prima versione dell'intera sinfonia, Erwin Ratz, nella sua prefazione all'edizione Universal dell'Adagio scriveva papale-papale: Ciò che sta scritto su questi fogli (i manoscritti mahleriani, ndr) era completamente intellegibile dal solo Mahler, e nemmeno un genio sarebbe capace, da questo stadio di sviluppo del lavoro, di divinare l'approccio alla sua forma definitiva. Ma proprio mentre sparava questo grosso siluro a Cooke, anche lui pubblicava l'Adagio, dopo averlo a sua volta editato (in quanto incompleto la sua parte) in base alla considerazione che ormai quel movimento era entrato nel repertorio di tutte le orchestre, e tanto valeva dargli una veste, per così dire, ufficiale, con la benedizione della Internationale Mahler Gesellschaft di Vienna. Quindi un approccio solo quantitativamente diverso da quello del musicologo britannico e dei suoi aiutanti.

Se si confrontano le due partiture – di Ratz e Cooke – si possono rilevare differenze di varia natura: alcune sono bizzarrìe belle e buone, come notare un FA bequadro (Cooke) invece di un MI diesis (che Ratz non si accontenta di indicare in chiave, ma scrive esplicitamente davanti alle note); in altri casi troviamo indicazioni agogico-dinamiche divergenti (dove Cooke è assai più ricco ed esplicito di Ratz); infine abbiamo differenze non da poco nell'orchestrazione, dove ad esempio Cooke impiega fino a 4 flauti, 4 oboi, 4 clarinetti e 4 tromboni (mentre Ratz si limita a tre), prevede clarinetto basso e controfagotti (assenti nella versione Ratz) e a volte ispessisce il suono aggiungendo oboi e flauti sopra gli ottoni (peraltro sempre in modo distinguibile rispetto al contenuto del manoscritto). Certo, ad un ascolto superficiale son differenze magari impercettibili, che non cambiano poi di molto la sostanza, ma che testimoniano dell'incompletezza del lavoro mahleriano, che dobbiamo accontentarci di immaginare, più che di assaporare compiutamente.

E per la verità i ragazzi della Divan – guidati da quel vecchio marpione che è Barenboim – han fatto davvero di tutto per facilitare la nostra immaginazione (perdoneremo volentieri qualche attacco incerto e un'indecisione delle trombe nel grandioso tutti che precede la conclusione del movimento).

Dopo Mahler (di cui precisamente oggi cade il centenario della morte) Beethoven e l'Eroica. Qui Barenboim chiama i rinforzi non usati in Mahler (rispetto all'organico beethoveniano abbiamo un raddoppio di flauti, oboi e fagotti e un elemento in più per clarinetti e corni) e ci regala un'esecuzione più che dignitosa (la Filarmonica scaligera, per dire, credo non farebbe di meglio). Il trionfo per tutti è completato da un bis degli archi (più l'arpista, tornata sul palco) con l'Adagietto mahleriano.

La tournèe della WEDO prosegue questa sera con lo stesso programma a Roma, Parco della Musica. Venerdi 20 altra replica al Musikverein e sabato 21 alla Pleyel di Parigi. Domenica 22 alla Philharmonie di Berlino (con Berg al posto di Mahler).
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13 maggio, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 34


Per il concerto n°34 della stagione, ecco una strana coppia: Rossini&Menotti. L'omaggio al creatore del Festival dei due mondi è doveroso almeno per due motivi: il centenario della nascita ed anche il sodalizio che lega l'Orchestra a Spoleto, dove è ospite frequente.


Menotti è stato un esempio fulgido di come si potesse – e si potrebbe – anche ai giorni nostri comporre musica piacevole per l'orecchio impiegando in primo luogo la propria felice ispirazione, al cui servizio poi mettere la tecnica e la tecnologia musicale. Insomma, l'esatto contrario di ciò che – soprattutto dalla metà del secolo scorso – hanno fatto le cosiddette avanguardie, prevalentemente impegnate a trovare surrogati tecnologici o fonologici al vuoto di ispirazione. Purtroppo Menotti ha fatto la fine di tutti quegli onesti riformatori che sono stati regolarmente emarginati da più o meno mascherate dittature: forse sarebbe tempo di restituirgli ciò che si merita. Ed è quanto, nel suo piccolo, ha fatto questo programma de laVerdi.


Il Concerto per violino (1952) è scritto nella classica forma tripartita (Allegro-Adagio–Allegro) e non sfigura affatto rispetto ad altre composizioni del novecento storico (Prokofiev, Shostakovich, per dire). Qui un'esecuzione del grande Ruggiero Ricci. Ad offrircelo è il nostro Luca Santaniello, che per l'occasione ha lasciato la sua sedia di Konzertmeister a Danilo Giust (che normalmente siede alla sua sinistra): bravissimo nel mettere in risalto i passaggi virtuosistici del concerto, ma anche quelli più intimistici, in specie nell'Adagio. Gran trionfo per lui, che regala un bis insieme ai colleghi della sua sezione (più l'arpa della brava Elena Piva) eseguendo – proprio come si deve e dovrebbe! - l'Intermezzo di Cavalleria.


La Suite dal balletto Sebastian (1944) è un altro esempio della grande ispirazione che anima la musica di Menotti: qui siamo praticamente a teatro (dove il nostro ha lasciato alcune vere perle) e la Suite concentra in sette numeri le principali vicende di questa specie di favola veneziana che ha per protagonista un Sebastiano laico che fa però la stessa fine del Santo. Qui un'esecuzione a Spoleto. Da incorniciare la Barcarole (n°2) e la conclusiva Pavane.

Ad incastonare le due opere di Menotti, tre sinfonie rossiniane, che Francesco Maria Colombo ha diretto da par suo, con piglio e autorevolezza. Strepitoso il finale della Gazza Ladra dove – nelle 36 battute del Più mosso, prima dei due accordi conclusivi – ai violini è stato chiesto un forsennato sprint degno del miglior Cipollini (smile!) Ma le sinfonie del genio di Pesaro sono anche grandi palestre per autentici solisti. E così Luca Stocco ha modo di scatenarsi nelle tremende volate dell'oboe della Scala di seta; infine, nel conclusivo Guglielmo Tell, dapprima Mario Grigolato con il suo pacchetto di violoncelli e poi Antonio Palumbo con il suo corno inglese si guadagnano meritatissime lodi.

Insomma, una serata di grande musica, che prelude al prossimo ritorno ai concertoni: con Mozart e Bruckner.
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10 maggio, 2011

Gianandrea Noseda: profeta in patria?



Ieri sera al Piermarini concerto della Filarmonica della Scala (in veste di associazione autonoma e quindi ospite – pagante, per i costi della tecnica – del Teatro).

Il mio concittadino Gianandrea Noseda prosegue la sua marcia di avvicinamento a Wagner, evviva e auguri! Nella prima parte del concerto ha affrontato due fra le pagine sinfoniche più impegnative di Meistersinger e Götterdämmerung, intercalate da due monumentali monologhi di Sachs e Wotan, protagonista Matthias Goerne, che sta anche lui muovendosi a piccoli passi verso Wagner.

Si apre con il Preludio dei Meistersinger, pagina tanto nota quanto difficile (o facile a deturparsi…) dove gli ottoni, in particolare, sono chiamati a suonare con nobiltà e seriosità, ma senza scivolare nel volgare, nell'enfasi gratuita, o nel becero fracasso: impresa dura per una sezione che purtroppo si è fatta la non invidiabile reputazione di tallone d'Achille dell'orchestra. Che sia stato merito di Noseda non saprei dire (sarebbe bello per lui…) ma il risultato non ha per nulla fatto gridare vendetta: certo, orchestre che suonano l'opera per intiero un mese sì e l'altro pure forse fanno di meglio, ma dobbiamo accontentarci. (Però vien da chiedersi: ma c'è almeno uno, dico uno, dei tanti repertori o delle tante singole opere, in cui la Scala sia al top?)  

Il monologo di Hans Sachs, che chiude la terza scena del second'atto (Was dufted doch der Flieder), ha il suo culmine nello struggente ricordo del canto di Walther, che Sachs intuisce essere qualcosa che sgorga da sé, per dono di natura, proprio come accade all'uccellino che, senza studiare le regole della Tabulatur, sa cantare perché – di natura, appunto – lo deve

Lenzes Gebot,
die süße Not,
die legt' es ihm in die Brust:
nun sang er, wie er musst';
und wie er musst', so konnt' er's, -

(Un comando di primavera, un dolce affanno, glie lo ha posto nel petto: egli ha cantato come doveva; e come doveva, così potè... traduzione del sommo Manacorda).


L'accordo che sorregge la prima sillaba di quel sü-ße rivaleggia in tutto e per tutto con quello del Tristan, quanto a capacità sbudellanti:

Goerne (lo sentivo per la prima volta in Wagner) mi ha fatto una buona impressione: voce scura, proprio di basso-baritono, buon portamento, ci sono insomma gli ingredienti per farne un possibile buon ciabattino luterano (che poi sarebbe… Wagner medesimo, parliamoci chiaro).

La Siegfrieds Trauermarsch del Crepuscolo è – parole di Wagner, riportate da Cosima nel suo diario del 28 settembre 1871 – un coro, ma un coro cantato dall'orchestra. Un coro senza parole, come giustamente commentò quell'impenitente wagneriano che fu Teodoro Celli. Suonata ed ascoltata fuori dal suo naturale contesto è una pagina di grande musica, di fronte alla quale restare sempre ammirati, almeno se eseguita dignitosamente, come ieri. Ma chi ha in testa il Ring non può non rimanerne anche emozionato, poiché lì vi è distillata, come in un alambicco, tutta la straordinaria vicenda, umana ed eroica, di Siegfried. Cioè una buona parte di quell'universo che Wagner ha messo in musica nella sua divina commedia.   

L'Addio di Wotan è un altro test attitudinale per un basso-baritono che aspiri ad entrare nella cerchia degli interpreti wagneriani; ed è perciò del tutto logico che Goerne, oggi 44enne, ci si cominci ad avventurare. Con risultati, mi è parso, abbastanza incoraggianti, che testimoniano quanto meno del possesso di requisiti naturali minimi (per il ruolo) e della sensibilità richiesta all'interprete di pagine di grandezza stratosferica come questa. Orchestra abbastanza pulita (anche negli ottoni, tubette comprese) ed abbastanza efficace, pure se – giocoforza – le arpe sono solo due e non sei e l'ottavino è singolo, per cui l'incantesimo del fuoco si riduce a focherello, ma va bene così.

In estrema sintesi, mi pare che sia Noseda che Goerne abbiano superato positivamente questo piccolo esamino di pre-ingresso nel mondo del Wagner importante. Forza dunque, li aspettiamo a prove più toste! In particolare il Direttore, firmando autografi dopo il concerto, a una domanda su cosa ci dobbiamo aspettare in campo wagneriano, ha risposto sorridendo con un ottimistico: Vedremo, vedremo!

Dopo l'insalatona wagneriana, si passa al più sereno e meno impegnativo Dvorak dell'Ottava sinfonia. Una specie di pastorale del boemo, reduce dalla sua tragica (la settima).

Il primo movimento ha una specie di motto, che torna all'inizio delle diverse sezioni (e poi sarà la cellula generatrice del tema del finale) esposto inizialmente dal primo flauto, e che ricorda un canto d'uccello:


Nell'Adagio, che principia in DO minore, è sempre il flauto ad esporre – virando al DO maggiore - il delicato tema principale:



Segue poi l'Allegretto grazioso, in 3/8, che occupa il posto di uno scherzo. Bellissima la melodia del Trio, tipicamente boema, e sempre affidata al flauto:



Melodia che nello sviluppo viene contrappuntata da trombe e timpani con incisi giambici sul secondo tempo, che danno sempre l'impressione che gli strumentisti sbaglino le entrate (se suonano come si deve!)

Il finale Allegro ma non troppo è un tema con variazioni, caratterizzato da motivi rigorosamente di 8 battute, ripetuti due volte. Il principale – che mostra chiaramente il suo DNA - lo espongono inizialmente i violoncelli:



Noseda in questa sinfonia (parlo dei movimenti esterni) concede forse troppo all'enfasi e alla platealità, ma tutto sommato stiamo parlando di Dvorak (con tutto il rispetto) e non – che so – del suo mentore Brahms, quindi non c'è da scandalizzarsi più di tanto. Grande feeling con l'orchestra, si direbbe, a giudicare dai reciproci e ripetuti complimenti. 

Successo caloroso, in un teatro per la verità afflitto da parecchi vuoti.
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09 maggio, 2011

L’Aida cinese del Maggio

 


Quarta rappresentazione, ieri pomeriggio al Comunale di Firenze, dell'Aida, che il 28 scorso aveva inaugurato la stagione estiva del Maggio.

Già diffusa in audio (alla prima) e in video (alla seconda) è stata accolta da reazioni mixed, come si usa dire: fra entusiastiche (campanilistiche?) ovazioni in loco e tiepidi, quando non freddi, commenti altrove.

Come giustamente ammonisce Amfortas, "Aida è… un lavoro intimista e lirico, poetico, che contempla anche un'esteriorità spettacolare che però non deve mai essere fine a se stessa." Il difficile è, naturalmente, trovare la quadra (ma qui credo che Bossi – visto lo scempio che fa abitualmente del và, pensiero - non ci possa proprio aiutare, smile!) Insomma, come riuscire a far emergere i sentimenti e i drammi personali dei protagonisti senza contemporaneamente castrare quelle qualità spettacolari che sono a loro volta profuse a piene mani nel libretto e soprattutto nella musica?

Personalmente sono convinto che poche opere richiedano, come Aida, un'assoluta intesa – prima di tutto programmatica, e poi esecutiva, naturalmente – fra regista, direttore e cantanti. E già fin dalla prima scena, perché lì vengono presentate sia la mortale triangolazione affettiva Radamès-Aida-Amneris, che le due insopportabili contraddizioni che dilaniano le menti e i cuori dei due protagonisti. A cominciare da Radamès, la cui romanza d'esordio non è una pura e semplice dichiarazione d'amore (donna non vidi mai… con tutto il rispetto per Puccini) per Aida, ma descrive la tremenda dissociazione – ancora inconsapevole - dell'animo dell'uomo che per acquisire meriti presso l'amata è portato a desiderare imprese guerresche che all'amata recheranno soltanto lutti e dolore. E non per nulla i cieli e le brezze che Radamès – o forse il suo subconscio - si ripromette di procurare ad Aida stanno lassù, vicino al sol (cantato morendo, almeno secondo Verdi) e non certo su questa terra. E Aida è a sua volta dilaniata da opposti sentimenti: l'amore per lo straniero e l'ancestrale richiamo del sangue e della patria. Insomma, il dramma che si profilerà alla fine del secondo atto e si materializzerà nel terzo e quarto è già tutto presente qui, in questo esordio apparentemente tradizionale e routinario. In questa Aida le cose per la verità non cominciano troppo bene, con Berti che sale sicuro e potente al SIb del sol, ma lo chiude in modo stentoreo e forte, senza la più piccola espressione. Meglio di lui fanno la He e la D'Intino, meno male.

Il finale secondo poi è la quintessenza del dualismo fra spettacolarità e dramma dei sentimenti: perché il fracasso e l'apparente tripudio del concertato generale nascondono invece mille stati d'animo. Precisamente sette: intanto quelli dei tre cori (sacerdoti con Ramfis, popolo col Re, prigionieri e schiavi) che manifestano sentimenti diversi: preoccupazione per le sorti dell'Egitto, giubilo per la vittoria, e rispetto per la magnanimità del nemico che ha restituito la libertà. E poi quelli dei quattro protagonisti, a partire da Amonasro che già medita la sua vendetta; e dei tre personaggi principali, ciascuno dei quali vive quel momento in modi del tutto diversi: Aida letteralmente disperata, Amneris al settimo cielo e Radamès che si rende conto del vicolo cieco in cui si è cacciato. Qui non abbiamo un Rossini buffo, dove il concertato è tipicamente un puro quanto mirabile esercizio vocale… e certo non è semplice per nessuno – regista, direttore, interpreti - far emergere in modo efficace tutte queste specificità, ma il peggio che si possa fare – e troppo spesso si fa - è presentare un'ammucchiata di gente indistinta e un minestrone di voci che si confondono in un gigantesco quanto incomprensibile grammelot (lascio immaginare cosa si può capire da ciò che mostrano ad un ascoltatore poco preparato le due righe del display!) In questa Aida per lo meno vediamo i tre cori (col Re e Ramfis) chiaramente distinguibili dai costumi che indossano e dalla posizione separata in scena, anche se poi son tutti lì impalati e cantano privi di espressione, o meglio, con la stessa espressione; quanto ai quattro protagonisti, la faccia di Amneris sembra ancor più da funerale di quella di Aida! Insomma, qui qualcosa di meglio magari si poteva pretendere (ecco, questa mi parrebbe una efficace soluzione, MIb acuto compreso, smile!)

A proposito di regìa e allestimento, l'impostazione del tutto tradizionale di Ozpetek potrà anche sembrare poco stimolante, ma personalmente certi stimoli – tipo ambientazione in un collegio, con Aida nel ruolo di sguattera – li regalo volentieri agli amanti delle novità. La scenografia di Ferretti è – a confronto di Zeffirelli – assai sobria e però sufficientemente appropriata; ben dosate, in tutte le scene, le luci di Calvesi (che nel finale ha la meticolosità di presentarci il sole che tramonta lentamente); più o meno appropriati i costumi di Lai e abbastanza convenzionali (quindi probabilmente ridicole agli occhi degli scafati) le coreografie di Ventriglia.

Il fronte musicale ha visto – nel gran trionfo generale di un Comunale stipato all'inverosimile – l'indiscussa preminenza dell'Aida di Hui He, voce penetrante, dal timbro scuro, ma caldo e capace di emozionanti acuti in pianissimo. Cosa ignota, quest'ultima, a Marco Berti, che pure mi è parso un Radamès più in palla del suo recente Calaf scaligero. Luciana D'Intino pare ormai dare tutto – e bene – sugli acuti, mentre la sua Amneris poco si fa udire dal centro in giù. Ambrogio Maestri ha sfoderato il suo vocione, ma la cattiveria di Amonasro dovrebbe – credo io, almeno - manifestarsi con mezzi diversi dallo schiamazzo; e poi, accidenti, più cerca di incarognire la sua espressione del viso, e più ti aspetti che se ne esca con un Udite, udite, o rustici (…smile!) Tagliavini e Prestia han fatto più che dignitosamente la loro parte di Re e Gran Sacerdote, con qualche problema a non farsi coprire nelle scene dove cantano assieme al pregevole coro di Piero Monti. Saverio Fiore e Caterina Di Tonno hanno degnamente completato il cast. Quanto a Zubin Mehta, ha diretto con la sicurezza e l'aplomb di un santone indiano (smile!): approccio prevalentemente intimistico – ergo appropriato – salvo le canoniche effusioni del trionfo e gli schianti sulle sguaiate imprecazioni di Maestri… Per lui pare ormai aperta la via della beatificazione in Santa Croce.

Insomma, un piacevole pomeriggio in una Firenze tutta imbandierata di blu europeo.


07 maggio, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 33



Un'opera praticamente postuma ed una incompiuta per questo concerto all'Auditorium, che vede sul podio il 53enne nipponico Junichi Hirokami, un tizio scelto perché si adatta perfettamente al podio super-alto della Xian (smile!)

Il Concerto per Violino di Schumann in realtà è un'opera pienamente compiuta, ma che è rimasta allo stato di manoscritto per decenni, causa un ottuso ostracismo alla pubblicazione e all'esecuzione da parte del dedicatario, Joseph Joachim, che la considerava opera di un pazzo (e il bello è che convinse di ciò anche Clara…) Finalmente nel 1937 la composizione è tornata alla luce e può essere oggi eseguita, ascoltata ed apprezzata come si merita. Ricordo una delle prime esecuzioni italiane, anni '70 alla Scala, solista l'indimenticabile Pina Carmirelli.

Certo non è né un pezzo di gran virtuosismo (à la Mendelssohn) né di pura romanticheria (à la Bruch o Wieniawski) ed effettivamente può anche apparire frutto di instabilità psichica (soprattutto il Finale); tuttavia possiede una grande coerenza formale e unità tematica, come dimostra la parentela fra motivi dei due movimenti estremi:



A porcelo è Kolja Blacher, che alterna le esibizioni solistiche a quelle di Konzertmeister e anche di direttore. Tecnica impeccabile coniugata a grande sensibilità, quanto mai richiesta per mettere in risalto le qualità nascoste di questo concerto. Caloroso successo e bis con Bach.

Come è noto, la Decima di Mahler è stata oggetto di misteri, racconti romanzati, prudèrie varie, fino a quando Alma non si decise a rendere pubblico il contenuto dei faldoni che ne contenevano gli abbozzi (decisione maturata più per ragioni, diciamo, di cassetta, che per rispetto della volontà del defunto). Il mondo ha quindi potuto farsi un'idea della situazione materiale ed esistenziale in cui versava Mahler mentre scriveva quelle note. Insieme alle rivelazioni sul colloquio/seduta-psicanalitica avuto con Sigmund Freud a passeggio per le vie di Leiden, ci dipingono un Mahler afflitto da sensi di colpa (nei confronti della moglie) ma anche da presentimenti di una fine ormai incombente.

Il completamento portato a termine da Derick Cooke, con l'ostracismo prima e il pieno appoggio poi (a impresa compiuta ed eseguita) di Alma, ci permette oggi di ascoltare ciò che Mahler aveva messo su carta di tutto quello che aveva in testa: cinque movimenti, di cui uno (Adagio) orchestrato interamente, un altro sommariamente, un altro ancora in piccola parte, e il resto (altri due movimenti) solo abbozzati.

Ciò che quindi ascoltiamo grazie a Cooke è comunque qualcosa di sicuramente diverso da ciò che sarebbe stato il possibile prodotto finito. Se per la Nona e il Lied possiamo almeno avere la certezza riguardo l'impianto generale delle opere (sicuri peraltro che Mahler, avesse potuto ascoltarle, vi avrebbe apportato nei particolari chissà quali e quanti ritocchi) per la Decima, oltre a un mare di note che il compositore non fece in tempo a scrivere (e che Cooke si è dovuto - più o meno plausibilmente - immaginare) ci manca addirittura una ragionevole certezza sulla macro-struttura della sinfonia, a partire dalla disposizione stessa dei movimenti, per la quale Mahler lasciò contraddittorie indicazioni (e conoscendo le sue perenni incertezze su come posizionare i movimenti interni della Sesta, possiamo star tranquilli che l'ordine che si desume dai manoscritti è tutto fuorchè intoccabile). E mancano spessissimo indicazioni sull'agogica-dinamica, che Cooke ha dovuto ipotizzare per analogia con altre composizioni di Mahler. Per non parlare addirittura della formazione orchestrale, abbastanza difficile da configurare, in presenza di pochi righi musicali anonimi.

Qualcuno ha fatto un parallelo fra il completamento di Cooke e quello che Alfano scrisse per la pucciniana Turandot. Il paragone in realtà calza fino ad un certo punto poiché, mentre del finale di Turandot Puccini lasciò soltanto vaghi scarabocchi, ma nessun chiaro impianto (fosse pure scritto su due soli righi) nel caso di Mahler fu completata quantomeno la cosiddetta particell (2 o 3, massimo 5 righi con la presentazione dello sviluppo fondamentale di tutti i movimenti) che è un po' come un torso di una scultura; della quale poi ci mancano quasi tutti i particolari, ma il torso ci dà un'idea almeno delle fattezze generali di quel corpo, cosa che è invece del tutto assente nel caso del finale di Turandot, dove Puccini lasciò una serie di tessere (vagamente colorate) di un mosaico, ma senza la più pallida indicazione dell'oggetto che tali tessere avrebbero dovuto - una volta opportunamente collocate - raffigurare! Quindi: pollice-verso per Alfano (+ complici) e pollice… orizzontale per Cooke.

Tornando a Mahler, ecco un esempio di particell del supposto (poiché il frontespizio reca non meno di sei diverse indicazioni, via via cancellate o corrette) quarto movimento:



Qui invece una pagina della partitura completata da Cooke del quinto movimento, dove si vede, in basso, la particell schizzata da Mahler, e sopra ciò che Cooke ne ha derivato:



Come si vede, Mahler tratteggiò l'idea generale, che poi il musicologo albionico ha arricchito di particolari e/o di riempitivo, inventandoseli per similitudine con altre parti completate dall'Autore, o addirittura con altre sinfonie: un po' come un chirurgo plastico prende brandelli di pelle da una parte del corpo per trapiantarli in un'altra (magari di due persone diverse!)

Cooke ha sempre tenuto a presentare il suo lavoro non come completamento, ma come realizzazione di una versione eseguibile di ciò che Mahler ci ha lasciato. In realtà di completamento bell'e buono si tratta (a meno di non voler giocare con le parole) sia pure prevalentemente relativo alla dimensione verticale della partitura (armonia e contrappunto) più che a quella orizzontale (melodia) oltre che di aggiunta di moltissime indicazioni dinamico-agogiche.

L'Adagio di apertura – come brano a sé stante - è ormai entrato da anni e anni nel repertorio di tutte le Orchestre e nulla v'è da aggiungere a quanto si può leggere ovunque in proposito.

Lo Scherzo (secondo movimento) che richiama vagamente l'atmosfera del Rondo-burleske della Nona, è un'espressione di autentica schizofrenia tradotta in musica: basti pensare che nelle 164 battute della sezione iniziale (prima del primo Trio) ci sono non meno di 114 cambi di tempo (3/2, 2/2 , 5/4, 3/4, 2/4), mediamente più di uno per ogni battuta e mezza. Roba proprio da Freud!

Il centrale Purgatorio (ma Mahler aveva anche scritto Inferno sui suoi appunti) è uno dei movimenti più brevi – brevità francamente sospetta - di tutta la letteratura mahleriana, un Allegretto moderato che sembra fare da spartiacque fra la prima e la seconda parte della sinfonia. Che è completata da un altro Scherzo (definizione apocrifa, peraltro giustificata dalla forma, che presenta due Trii) di un carattere fosco e quasi demoniaco. È chiuso quasi dalle sole percussioni: timpani, piatti da grancassa, e infine da un solo colpo di tamburo militare, completamente coperto (quello che a Manhattan accompagnava il funerale di un pompiere, che i Mahler osservarono da una finestra del loro albergo); e poi dal lunghissimo Finale, aperto ancora dai colpi sordi del tamburo coperto, intercalati da scale ascendenti della tuba; movimento che fa da contrappeso all'Adagio iniziale, in una struttura quindi perfettamente – fin troppo! - simmetrica. Emozionante il ritorno (nei corni, almeno secondo Cooke) del bellissimo recitativo che le viole avevano esposto proprio all'esordio della sinfonia, prima che il tutto si stemperi in un Adagio sempre più adagio, finchè, dopo un estremo innalzarsi di violini e viole, che glissano (a Cooke così piacendo…) dalla sottodominante aumentata fino alla sopratonica, due ottave più in alto, si arriva alla dissoluzione nell'accordo di FA# maggiore.

Questa Decima va in ogni caso ascoltata (Adagio a parte) come un vago e lontanissimo simulacro di ciò che essa avrebbe potuto essere ma – ahinoi – non fu. Hirokami ha il merito di non aver aggiunto altra farina estranea a Mahler a quanta già ne contiene questa controversa versione. Almeno se si escludono le sue escandescenze sul podio: dopo essersi contenuto con Schumann (per rispetto del solista, spero) si è letteralmente scatenato con Mahler (o Cooke, fate voi…) impersonando alla perfezione una di quelle tipiche caricature ottocentesche del direttore d'orchestra mezzo pazzo e vanesio per intero.

Ma per ciò che si è sentito, si merita un bravo, da estendere – con la lode - a tutti gli strumentisti, ieri capitanati dal sempre più autorevole Gianfranco Ricci.

Prossimamente avremo un'accoppiata bizzarra: Rossini e Menotti! Ma prima un'altra grande serata bachiana con Jais e la Barocca.
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