intime gioje

chiuder la prigione e buttar la chiave

31 gennaio, 2011

Parsifal al Regio di Torino



 
Dopo il Boris, questo Parsifal è l'altro (per me) grande appuntamento della stagione del Regio di Torino. L'allestimento – con qualche variante - è quello presentato nel 2007 al SanCarlo: regìa di Federico Tiezzi e scene di Guido Paolini.

 
La ripresa radiofonica della prima del 26 scorso aveva lasciato davvero un'impressione sontuosa, che è stata pienamente confermata dalla rappresentazione di ieri pomeriggio.

 
Non saprei come aggettivare la prestazione di Kwangchul Youn, tale è stato il livello di assoluta nobiltà raggiunto dal basso coreano: chissà, forse sono proprio le sue origini orientali a permettergli di calarsi tanto profondamente nello spirito (ma anche nel fisico, proprio da ieratico monaco nepalese) del personaggio di Gurnemanz e dell'opera. Semplicemente grandioso!

 
Christopher Ventris ci ha portato qui Parsifal direttamente dalla sua Betlemme di Bayreuth, e dono migliore non ci poteva fare: non una smagliatura in un'interpretazione impeccabile.

 
Christine Goerke è stata una straordinaria Kundry: riuscire a cambiare letteralmente la voce – non soltanto gli abiti – per portarci le sue diverse reincarnazioni è cosa riservata solo a poche, e lei è da annoverare di diritto nel novero di quelle poche.

 
Jochen Schmeckenbecher è un Amfortas più che dignitoso, e del resto nessuno può pretendere che tutto e tutti siano perfetti. È soltanto la (quasi) perfezione dei tre protagonisti succitati che ce lo fa apparire un filino al di sotto!

 
Lo sbifido Klingsor era Mark Doss, beniamino del pubblico torinese. Valgono per lui le considerazioni fatte per Amfortas.

 
Il navigato Kurt Rydl ha interpretato da par suo la parte breve ma impegnativa del vegliardo Titurel (uno che abita direttamente in un sarcofago, così, tanto per facilitare le operazioni al suo funerale, smile!)

 
Non elencherò nei dettagli cavalieri, scudieri, fanciulle-fiore e voce dall'alto. Non per fargli uno sgarbo (la locandina è doverosamente linkata) ma perché cumulativamente li associo in un bravi! Insieme ai diversi cori guidati da Claudio Fenoglio, che ha già saldamente in pugno il testimone passatogli da Gabbiani, volato a Roma.

 
Bertrand de Billy, sconosciuto come minimo, e addirittura snobbato da taluni, ha invece fatto ai miei occhi un figurone. Intanto perché tiene tempi non esasperanti (non ha toccato le 4 ore) ma allo stesso tempo non cerca di imitare in velocità il suo connazionale Boulez (smile!) Poi perché mostra di saper padroneggiare questo behemoth – e l'orchestra che lo deve suonare - in modo sicuro e autoritario.

 
Merito ovviamente anche dei professori, che non hanno mostrato neanche una sbavatura in tutto il pomeriggio. Suono sempre pulito e discreto, che arriva proprio come da un altro mondo, mai a coprire le voci sul palco. Così come i cori di fanciulli e ragazzi, che cantano fuori scena, lasciando un effetto emozionante.

 
Un autentico trionfo, a fine degli atti, e un'apoteosi a fine opera. Pubblico a dir poco in delirio (fin troppo, forse, quanto a fretta nell'applaudire).

 
L'allestimento di Tiezzi-Paolini (coadiuvati da Giovanna Buzzi per i costumi e Luigi Saccomandi per le luci) non era una novità, ma ha confermato quanto di buono si era detto e scritto dopo l'esperienza napoletana. Nessun velleitario o fantasioso Konzept, cui adattare, magari distorcendolo, l'originale, ma una visione – per me – assolutamente laica di questo capolavoro, troppo spesso trattato alla stregua di una volgare (mi scuseranno i credenti) messa cantata.

 
Dell'intima natura del Parsifal si sono date mille diverse interpretazioni, e ciascuno di noi può legittimamente prediligere una o l'altra o l'altra ancora. Per me, Parsifal è tutto fuor che una parodia – o un'apologia, come pensò bizzarramente e perfidamente tale Nietzsche - di riti cristiani o addirittura cattolici, né un inno al pietismo e all'ingenuo volemmose-bbene; è tutto fuor che un'apologia razzista dell'antisemitismo; è tutto fuor che un libello contro l'omosessualità e la prostituzione. Io credo (e cerco di sviluppare questa tesi più compiutamente in appendice a questo post) che Parsifal ponga - in modo (per Wagner) definitivo - la questione del ruolo dell'Arte e dell'Artista all'interno dell'umana società, sempre più straniata fra una religione autoreferenziale e una scienza tracotante.

 
Ecco perché sono stato da subito piacevolmente colpito dall'ambientazione, che sembra indirizzarci verso questa prospettiva di fruizione del Parsifal: il sipario trasparente già ci introduce a geometrie e prospettive del pensiero (la curvatura dello spazio?) e poi si solleva proprio su un luogo dove convivono Arte e Scienza (statue e libri) in casa della Religione. E dove le imprese di Parsifal sono da subito e visibilmente rappresentate come opere di un artista: il cigno morente è letteralmente incorniciato, a suggerire che le azioni di Parsifal sono, appunto, intimamente di natura artistica (Al volo io colgo, ciò che vola).

 
L'agape al termine del primo atto non ci presenta vino e pane, ma… tomi e lo stesso Gral è una struttura composta da tre cornici di quadro disposte a formare un vuoto poliedro, che reca al suo interno il simbolo del tempo (una clessidra).

 
Nel secondo atto la Scienza ci viene presentata come astronomia: dapprima i pianeti che campeggiano sopra Klingsor, al momento per lui di risvegliare Kundry, alla fine come una galassia, o un pulviscolo stellare, o una supernova che prende il posto del castello, neutralizzato dalla presa di coscienza di Parsifal. Ma anche come primordiale scoperta dei quattro elementi fondamentali, rappresentati sulle quattro porte nidificate che incorniciano l'ingresso di Kundry. L'Arte compare nelle vesti e nelle aggraziate movenze delle fanciulle-fiore. E nel velo colorato con cui Kundry, la musa ispiratrice (dell'arte degenerata, che cerca di contrabbandare il meretricio come amor materno) avvolge Parsifal per attirarlo nella sua trappola.

 
Nel terzo atto, dopo la scena dell'Incantesimo (essenziale, luminosa, emozionante fino al groppo in gola) vediamo inizialmente l'Arte deturpata, dimenticata (piedistalli senza statue) o ridotta a puro segno (le colonne disegnate sullo sfondo) cui fa da contraltare la Religione decaduta ad oscurantismo: i cavalieri che si coprono gli occhi, pur in un ambiente scarsamente illuminato, e letteralmente minacciano Amfortas perché ripeta ancora la vuota liturgia. Poi, all'arrivo di Parsifal, torna anche l'Arte (colonne vere che scendono dall'alto) e anche la Scienza (libri che finalmente si riaprono). Amfortas letteralmente si auto-trafigge con la Lancia, proprio ad uccidere, e definitivamente esorcizzare, quella religione oscurantista, mentre Kundry si addormenta posando il capo sulle sue ginocchia, in un gesto emozionante di riconciliazione universale. E torna soprattutto la luce, quella della Ragione e dell'Arte, che nessuno più teme, ora che il Gral è scoperto per sempre e per tutti.

 
Così ho visto, ascoltato e vissuto io questo Parsifal. Altri l'avranno vissuto diversamente, e ciascuno per le sue ottime ragioni. Io cerco adesso di spiegare le mie.


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Appendice

 
Wagner era (soprattutto era convinto lui stesso di essere) un vero artista; nella sua concezione, l'arte, quindi l'artista, è investito di una ben precisa missione: procurare all'Uomo adeguati e nobili strumenti di contrasto contro le sue ossessioni esistenziali.

 
Ludwig Feuerbach, con la cui filosofia Wagner aveva preso dimestichezza ai tempi di Dresda e della rivoluzione, e che poi studierà a fondo – prima di imbattersi nella capitale figura di Schopenhauer - negli anni dell'esilio (durante i quali – è bene ricordarlo – getterà le fondamenta di tutta la sua futura produzione artistica, già del resto messa in cantiere a partire dal 1845) assegna all'Arte un ruolo paritetico e potenzialmente sostitutivo a quello della Religione. Secondo il filosofo, la Religione altro non è se non il prodotto dell'inventiva e della fantasia umane (a loro volta rese possibili grazie alle facoltà intellettive, prerogativa peculiare dell'animale Uomo). La capacità di razionalizzare l'esperienza ha portato l'Uomo a constatare, assieme alle proprie grandi qualità e capacità, anche i propri limiti e le proprie deficienze, prima fra tutte la propria mortalità. Allo stesso tempo l'Uomo ha preso atto che la Natura - assieme a molti lati consolanti – presenta anche aspetti negativi, dolorosi, ripugnanti e, in definitiva, insopportabili.

 
Per sfuggire a questa autentica ossessione, l'Uomo ha creato prima gli dei e poi Dio (che rappresenta la quintessenza idealizzata delle migliori qualità umane) e l'aldilà, che rappresenta l'ideale di un mondo perfetto, soprannaturale e metafisico in cui poter, anzi dover credere: tutto un insieme di valori codificati dalla Religione, che ha fatto assurgere a sistema assoluto (in cui aver fede dogmaticamente) ciò che in realtà era sbocciato dall'immaginazione e dalla fantasia umane.

 
Immaginazione e fantasia che sono, anche, i motori della produzione artistica dell'Uomo. E l'Arte altro non è se non un diverso (dalla Religione) strumento che l'Uomo si è dato per combattere le sue ossessioni e l'insopportabile constatazione della propria mortalità; in definitiva, uno strumento di evasione dalla miseria della propria condizione, e di elevazione spirituale, insomma: una religione laica.

 
Altra considerazione capitale: dato che l'intelletto consente all'Uomo di esplorare, e sempre più in profondità, la natura, la materia (organica e inorganica) che lo circonda, ma anche la propria stessa identità e la propria stessa mente, ecco nascere il pericolo mortale per la Religione: essere smentita dalle conquiste della Ragione (tramite la Scienza) e perdere ogni rilevanza, con ciò privando l'Uomo di quello strumento auto-consolatorio che si era così faticosamente costruito, e precipitandolo, in ultima analisi, in uno stato di gelida, spettrale, e in fin dei conti disperata condizione.

 
Religione ed Arte sono andate quasi sempre a braccetto: basti pensare a quanta Arte si è ispirata alla Religione e quanto la Religione si sia servita dell'Arte per edificare i suoi luoghi di culto e per nobilitare le sue liturgie. Diverso invece il rapporto che la Religione ha avuto con la Scienza, rapporto spesso, se non quasi sempre, conflittuale. Interessante è analizzare il rapporto fra Scienza ed Arte, dove si scopre, per fare un esempio perfettamente in tema, la grande affinità fra la Scienza dei Numeri e l'Arte dei suoni. Non a caso Wagner fu definito, da Thomas Mann, come l'Artista in grado di poetizzare l'intelletto! E nessun Artista più e meglio di Wagner seppe avere, e tradurre in parole e musica – i suoi drammi – intuizioni che la Scienza razionalizzerà e strutturerà molto tempo dopo: basti pensare alla psicanalisi (Freud) e alla teoria della relatività (Einstein).

 
Orbene, Wagner, interpretando Feuerbach (cui significativamente dedica, nel 1849, il suo fondamentale scritto L'Opera d'Arte dell'Avvenire) arriva a concludere che - scomparsa fatalmente la Religione sotto i colpi della Ragione - l'unico strumento di salvezza per l'Uomo non potrà essere che l'Arte. Domanda: perché l'Arte, i cui prodotti nascono pur sempre, come la Religione, da fantasia e immaginazione umane, quindi al di fuori della realtà razionalmente sperimentabile, può essere dall'Uomo accettata (come strumento auto-consolatorio) in luogo della Religione? Semplicemente perché l'Arte – a differenza della Religione - non pretende di imporre Dogmi, nè di rivelare Verità (dogmi e verità sempre meno accettabili dalla Ragione). Il prodotto artistico si presenta per ciò che è, senza maschere, né inganni: appunto, come un'invenzione della mente umana, volta a procurare all'Uomo non già speranze in una immaginaria e inesistente realtà metafisica, ma piacere estetico e spirituale, da consumarsi nella realtà della nostra mortale esistenza, e in piena armonia con la Natura immanente. Appunto, l'Arte come una religione laica.

 
Bene, ai tempi di Wagner, con la Religione che era da un lato messa alla berlina dai vari illuminismi, positivismi, comunismi, ateismi dilaganti in Europa, e dall'altro si andava sempre più trasformando nella parodia di se stessa, schiava delle sue proprie liturgìe, qual'era lo stato dell'arte della produzione artistica (particolarmente del teatro musicale) che alla Religione avrebbe dovuto sostituirsi? Per Wagner: deprimente e penoso. Che questo suo giudizio, più e oltre che da constatazioni oggettive, derivasse dalla sua personale incapacità di penetrare l'establishment di quel mondo (impersonato da Parigi) che mostrava di rifiutarlo, è questione magari secondaria. Sta di fatto che Wagner si vedeva e si sentiva investito della missione di redimere (toh, chi si vede: Parsifal!) l'Arte da quelle che per lui erano degenerazioni prodotte da maghi, stregoni e alchimisti (alla Meyerbeer, per intenderci… o alla Klingsor?) i quali, invece di regalare all'Uomo il tanto necessario ed edificante piacere estetico e spirituale, ne assecondavano le attitudini più abiette e disdicevoli, con prodotti che erano la pura e semplice mercificazione (e prostituzione, quindi) dell'Arte. Duplice compito, quindi, quello che Wagner si assegna: liberare l'Uomo dalla religione, scaduta a mera liturgia (il Gral periodicamente esposto proprio come un feticcio da adorare e usato come pseudo-balsamo per curare l'Uomo delle ferite derivanti dalle sue ossessioni esistenziali) e liberarlo anche dall'arte degradata a turpe e peccaminoso mercimonio (il castello di Klingsor).

 
Ecco, tutta la produzione artistica di Wagner (già a partire, come minimo, dall'Holländer) dapprima in forme e approcci ancora non ben codificati e spesso contraddittori (fino a Lohengrin compreso) ma successivamente in modo chiaro, programmato e strutturato, altro non è se non la rincorsa continua, instancabile – potremmo dire ossessiva (!) - alla propria auto-imposta missione. E non solo, ai drammi che compone, Wagner dà forme e contenuti di altissimo livello estetico, filosofico e spirituale (facendone appunto opere d'Arte nel senso più alto); ma gli stessi protagonisti dei suoi drammi impersonano precisamente le sue convinzioni riguardo l'Arte e la lotta che l'Artista (quello vero e puro, con la A maiuscola!) è chiamato a sostenere per svolgere la sua missione. Missione che si completa con Parsifal, guarda caso. Dove l'Artista Wagner, nell'atto di redimere Religione e Arte, redime anche se stesso (Erlösung dem Erlöser) da tutti i peccati, materiali, spirituali ed anche… artistici, che ha commesso lungo le tappe del suo missionario cammino.

 
Chi incontriamo in Parsifal?

 
Amfortas è il rappresentante, anzi il primo ministro, della Religione che, sentendosi minacciata dall'Arte, decide di combatterla. Ma l'Arte, che ai tempi di Monsalvat come di Wagner, è quella degenerata di Klingsor, lo seduce per tramite di Kundry, provocandogli una ferita insanabile: la perdita della Fede, in effetti. Ferita che la stessa Kundry – nelle sue reincarnazioni pietose (pietose, si badi bene, non compassionevoli!) – cerca invano di sanare.

 
Klingsor è un religioso mancato, per indegnità, che si trasforma in artista degenerato, e che alla purezza e spontaneità della fantasia e dell'immaginazione ha sostituito il trucco, la magìa, l'inganno, auto-castrandosi di tutte le sue potenzialità naturali. Vuole distruggere la Religione, ma non per sostituirla con la vera Arte, bensì per imporre una sua arte-religione depravata e depravante. È un caso forse che il secondo atto di Parsifal sia quasi letteralmente scopiazzato dal terzo atto di Robert le Diable? È il mondo degenerato (agli occhi di Wagner) di Meyerbeer, pieno di fasulle e profumate promesse, quello che l'Artista puro Wagner ci presenta – e con quale sublime maestrìa – per farcelo poi disprezzare e per distruggerlo sotto i nostri occhi, dopo che lui, l'Artista, ha fulmineamente messo a fuoco la verità, cioè il terribile inganno che si cela dietro i colori e i profumi di Klingsor e le dolci carezze di Kundry. (Qualcosa del genere Wagner aveva fatto nel secondo atto di Götterdämmerung, dove ci aveva mirabilmente mostrato – con sguaiati cori da grand-opéra - la degradazione della civiltà ghibicunga, meritevole così di essere travolta da incendi e inondazioni purificatrici!)

 
Kundry – nelle sue re-incarnazioni al servizio di Klingsor – rappresenta appunto la Musa ispiratrice dell'artista. Così si spiega perché lei conosca tutto di Parsifal, anche ciò che lui stesso non conosce di sè. Nei drammi di Wagner c'è sempre una figura femminile che rappresenta la Musa ispiratrice dell'Artista (Wagner) bistrattato e incompreso. Spesso e volentieri è, a differenza di Kundry, una musa nobile. Tanto per fare un esempio, Brünnhilde lo è nei confronti di Siegfried, con questo piccolo particolare aggiuntivo: la musica che Brünnhilde canta a Siegfried sulle parole Ewig war ich, ewig bin ich fu originariamente scritta da Wagner per Cosima, appena divenuta la sua musa ispiratrice, in quel di Starnberg! Ma, come esiste arte degenerata, così esistono le sue muse e Kundry è una di queste: dopo aver irriso la Religione (ridendo del Cristo sul Calvario) si è venduta a Klingsor ed ora è costretta a fare il suo gioco, adescando i nemici del suo padrone. Riesce a far cadere in trappola Amfortas e non Parsifal, poiché Amfortas è accecato dalla religione, e come tale incapace (agli occhi di Wagner) di comprendere la realtà e i suoi subdoli strumenti, mentre Parsifal è ignorante come un oco, ma – da vero naïf, quindi da autentico Artista toccato dalla grazia (come Wagner si autodipingeva, del resto) – sa cogliere l'essenza profonda delle cose e scongiurare così il pericolo di perdersi, acquisendo anzi quella conoscenza che lo mette in grado di redimere l'Umanità.

 
Parsifal è appunto l'Artista (Wagner) che, in cerca di se stesso, della sua identità e della sua missione, ha inizialmente vagato per il mondo, incontrandovi la religione degradata e l'arte corrotta e che finalmente, proprio mentre è sul punto di cadere, irretito dalle lusinghe della falsa arte, prova compassione. Compassione per chi? Ma per tutti gli uomini e le donne vittime di quella degradata religione e di quella falsa arte, fasulli ed abietti strumenti auto-consolatori, ben impersonati dalla cerimonia dell'Agape nel primo atto, che rappresenta mirabilmente la liturgia religiosa, trita, sterilizzante, magica e inafferrabile. L'ingenuo Parsifal nulla ci capisce, anzi l'unica cosa che capisce è che quello dev'essere un ambientino che nuoce gravemente alla salute, almeno a giudicare dalle esternazioni di Amfortas.

 
Questi uomini e donne possono essere redenti se il vero Artista aprirà loro gli occhi: sulla Realtà e sulla Natura (Ecco, ne rende grazie ogni creatura, quante han qui fiore e presto periranno, perché oggi la natura discolpata conquista il giorno della sua innocenza!) La cerimonia conclusiva del dramma è di fatto un funerale, quello della religione e del suo più illustre ministro (Titurel) a cui segue il trionfo della riconquistata conoscenza e dell'elevazione spirituale, prodotto dell'autentica espressione artistica. Elevazione che si potrà perpetuare se, una volta scoperto il Gral, scoperto lo si lascerà per sempre, come cantano le ultime parole di Parsifal.
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28 gennaio, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 20



Helmuth Rilling torna a dirigere laVerdi con un programma tutto romantico (anche lui evidentemente ogni tanto sente il bisogno di evadere dal severo mondo bachiano, smile!)

 
Si apre con Mendelssohn e l'Ouverture dalle musiche di scena per Athalia, opera che Rilling ha inciso nella sua interezza con la sua Gächinger Kantorei e l'Orchestra della Radio della sua Stuttgart. Il soggetto è di natura biblica, e l'Ouverture contiene sonorità, motivi e atmosfere già uditi ad esempio nella Lobgesang e nella Reformationssymphonie. Un brano austero e serioso nelle parti esterne (in Maestoso), entro le quali è incastonato il Molto Allegro, che resta comunque ancorato a grande nobiltà.

 
Dopo l'antipasto, ecco un pezzo da novanta. Essendo anno di ricorrenza mahleriana, il boemo viene infilato di traverso anche in questo concerto: suo è infatti l'adattamento per orchestra d'archi del famoso Quartetto D810 di Franz Schubert, noto col sottotitolo La Morte e la Fanciulla. Come accadde anche all'altrettanto famoso Quintetto in LA maggiore (la Trota) anche questo quartetto è lo sviluppo di un precedente Lied schubertiano.

 
Che fra le opere della civiltà musicale europea esistano vasi comunicanti e reciproche influenze è verificabile anche in questo Quartetto. A cominciare da un motivo esposto all'inizio dell'Allegro dal primo violino, che ritroveremo nella Prima sinfonia di Brahms:
Il lungo Andante con moto presenta il tema della morte, preso dall'omonimo Lied e chiaramente ispirato dall'Allegretto della Settima beethoveniana:


 
Poi, lo Scherzo è costruito su un ritmo di cui si ricorderà Wagner, al momento di scolpire la personalità dei suoi Nibelunghi:

 
Infine, fra il tema principale del Presto e la Chanson Bohème parrebbe esserci una qualche, sia pur vaga, parentela:

 
Il trasferimento del quartetto al più vasto organico dell'orchestra servirà magari a renderlo meglio udibile in una vasta sala da concerto, ma gli toglie la caratteristica intimità originaria. Già nel 1894 (anno della trascrizione) quando Mahler eseguì l'Andante all'interno di un concerto ad Amburgo, alcuni critici reagirono assai negativamente: uno dei più autorevoli, tale Josef Sittard, si indignò a tal punto da togliere il saluto al direttore-compositore!

 
Rilling fa del suo meglio per conservare la vena intimistica del quartetto e usa l'orchestra con grande parsimonia, quasi mai andando oltre il mezzo-forte. Fa tutti i ritornelli (come sua precisa consuetudine) e rimedia quindi una durata di tre quarti d'ora. È grande musica, che dà modo ai professori (Danilo Giust in testa, nell'occasione sulla sedia del Konzertmeister) di mostrare le loro qualità solistiche. Tutti accolti da applausi convinti (mah… anche alla fine dei primi due movimenti).

 
Dopo l'intervallo torna Mendelssohn a concludere il concerto con la fin troppo nota Sinfonia in LA maggiore. Anche qui Rilling evita accuratamente ogni enfasi e punta tutto sulla leggerezza e la trasparenza della partitura: ne esce quell'autentico gioiellino che l'Italiana è, quando non si pretende di farne una sinfonia tardo-romantica.

 
La prossima settimana un concerto fuori dagli schemi.
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26 gennaio, 2011

Grande Parsifal al Regio di Torino



Su Radio3 si è appena chiusa la prima del Parsifal al Regio di Torino.

Una prestazione musicale straordinaria, a mio modesto avviso. Youn, Ventris e la Goerke sugli scudi, ma tutti indistintamente eccellenti. Una serata che fa onore al Teatro e all'Italia.

(prossimamente una recensione dal vivo)
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25 gennaio, 2011

Temirkanov con la Mariella e la Filarmonica della Scala


Il venerabile Yuri Temirkanov e la beata Mariella Devia (siamo ormai a custodire come preziose reliquie simili uomini e donne di musica…) hanno deliziato gli ascoltatori di questo concerto della stagione sinfonica del teatro scaligero.

La stagione sinfonica del Teatro (5 titoli per 15 concerti nel 2010-2011) non è da confondersi con la stagione della Filarmonica della Scala (nel 2011: 12 concerti in Scala e 12 fuori-sede) anche se capita che qualche concerto delle due stagioni abbia contenuti simili (e gli stessi protagonisti). Entrambe le stagioni sono peraltro coperte dalle prestazioni dell'Associazione Filarmonica della Scala, fondata nel 1983 da un'idea di Abbado e per imitazione dei Wiener. Sarebbe interessante fare un confronto approfondito fra l'esperienza (160ennale!) dei Wiener e quella (28ennale) dei Filarmonici scaligeri: personalmente ho l'impressione che dal modello – come molte cose fatte all'italiana - siano stati copiati puntualmente i problemi, senza invece conseguirne i benefici.

Ma veniamo al concerto di ieri. Programma tutto novecentesco, ma… diatonico, toh (tanto per fare un dispetto ad Alex Ross, smile!)

Les Illuminations di Britten è del 1939. Scritta per soprano (fu dedicata a Sophie Wyss, il soprano svizzero che ne fu la prima interprete) è però entrata anche nel repertorio dei tenori (primo fra tutti ad interpretarla, il compagno di vita di Britten, Peter Pears). Si tratta di 10 numeri, i cui testi sono tratti da 8 dei 54 (o 46, 44, 43, 42, a seconda di diverse edizioni critiche) poemi intitolati Illuminations (all'inglese!) di Arthur Rimbaud. Britten ha aggiunto l'iniziale Fanfare e Interlude che comprendono un unico verso, preso da Parade. (Qui - 1. 2. 3. - un interpretazione della Aikin con Marriner e i radio-bavaresi.)

Domenica sera il concerto era stato irradiato da Radio3 e, dopo questo brano, alcune critiche erano state mosse alla pronuncia francese della Devia. Francamente mi son parse speciose, a fronte di una prestazione davvero ragguardevole. Caso mai mi sentirei – proprio a voler trovare il pelo nell'uovo – di giudicare fin troppo aggraziato e poco selvaggio l'approccio tenuto dalla brava Mariella, in particolare in Villes e in Parade. Mariella che ha comunque dimostrato – ma non ce n'era certo bisogno – come una grande professionista possa far bene anche quando si allontana – e di parecchio! – dal suo repertorio tradizionale.

Seconda parte con la Quarta di Mahler.

Temirkanov mostra un buon rispetto per la partitura, l'unico piccolo neo che mi permetto di segnalare è che lui pare tenere in poco conto le virgole (o gli apostrofi, insomma quei segni di piccola pausa di respiro che Mahler mette spesso all'interno delle sue frasi musicali). Per il resto, il maestro russo mette bene in risalto anche i minimi particolari, come questo, che ci mostra la chiara ascendenza straussiana del primo tema della sinfonia:


Il tema, nella sua forma principale, sale da dominante a tonica e scende alla mediante. Ma subito prima della cadenza conclusiva della ricapitolazione compare, come inciso, nell'oboe, una sua variante, dove dalla tonica si scende sulla dominante, esattamente come nel love-theme del Don Juan (guarda caso, anch'esso nell'oboe e nella stessa tonalità!) È anche questo un piccolo, ma importante segno della reciproca influenza fra i due maggiori protagonisti della civiltà musicale mitteleuropea dell'epoca.

In generale, il vegliardo direttore circasso trapiantato a SanPietroburgo – sempre senza bacchetta, ma con partitura sul leggìo, e attentamente seguita - ha tenuto un approccio soft, quasi sempre cameristico, come giusto che sia, mettendo bene in risalto la cantabilità dei temi (splendido in ciò il Ruhevoll). Un appunto, ma di natura logistica, che mi sento di avanzare è l'aver fatto entrare la Devia a Lied già attaccato: oltre che elemento di distrazione per il pubblico, credo non abbia giovato alla concentrazione del soprano, costretta ad arrivare al proscenio e quasi subito mettersi a cantare; cosa che peraltro ha fatto benissimo, a parte una difficoltà a farsi udire sul SI sotto il rigo del Tod, a metà della seconda strofa.

Sempre emozionante la chiusa, con la bravissima Luisa Prandina ad esalare, sul MI grave dei contrabbassi, il MI gravissimo dell'arpa. Pubblico educato, che ha rispettato qualche secondo di raccoglimento, prima di liberare il meritato applauso.

Un ultimo dettaglio organizzativo: sarebbe poi così difficile o costoso impiegare gli schermini in dotazione per presentare i testi di ciò che viene cantato, come si fa per l'opera? Evitando così agli spettatori di sfogliare il programma di sala (magari usando i telefonini come abat-jour…)?
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22 gennaio, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 19



Torna il Requiem verdiano all'Auditorium. Ormai è diventato – come la IX Sinfonia di Beethoven – uno dei caposaldi del repertorio dell'Orchestra e del Coro. Adesso è direttamente Xian Zhang a farsene carico, studiando, limando, perfezionando l'esecuzione, anche con esperimenti di natura… fonica.

La scorsa stagione era comparso l'Octobasse (il jumbo-contrabbasso) ad arricchire la sonorità di fondo degli archi; quest'anno Zhang ha studiato una nuova, particolare disposizione dell'orchestra (già sperimentata peraltro la settimana scorsa con la Prima di Brahms): tutti i contrabbassi in linea frontale, a far da muro (sonoro) divisorio fra il coro e il resto dell'orchestra, ottoni tutti raggruppati a destra, viole al proscenio, timpani e grancassa al pianterreno, estrema sinistra.

Difficile davvero giudicare i diversi risultati sonori, a distanza di 15 mesi, ma già la cosa in sé mi pare significativa di una precisa volontà e attitudine alla ricerca, in contrapposizione al vivere di rendita (che pure non sarebbe condannabile, nella fattispecie).

I solisti erano la veterana (dell'Auditorium e del Requiem) Maria José Montiel, impeccabile anche ieri (il suo Lux aeterna in particolare); Serena Daolio, per me una piacevole sorpresa, voce bella e abbastanza robusta, tecnica rimarchevole e acuti (il DO del Libera me fantastico) impeccabili. Bravo anche Luc Robert, voce forse non grande, ma timbro gradevole e ottima espressività. Un appunto (ma è un mio personale gusto) al basso Alexei Tanovitski, voce che per passare finisce per ingolarsi troppo.

Ma tutti, insieme all'irreprensibile Coro della Garbarini, hanno meritato il trionfo riservatogli alla fine da un pubblico davvero delle grandi occasioni.

Prossimamente… tutto romanticismo.
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21 gennaio, 2011

Pagliacci e Cavalleria alla Scala



Andata scioperata la prima, le sue ormai tradizionali veci sono state prontamente assunte dalla seconda (trasmessa anche in TV, ma non in web, chè siamo ancora al paleolitico di questa tecnologia… quindi pazienza) dove si sono sprecati (massimamente, ma non solo, dopo Pagliacci) fischi, buh e contestazioni nei riguardi di molti protagonisti (Direttore e Regista compresi). Tutti letteralmente dileggiati dal barcaccione Stinchelli! Con il naturale contraltare di qualcuno che invece vi ha visto l'interpretazione del millennio (come la dantesca Carmen? mah…)

Quindi, matematicamente, dall'altrettanto scontato buona la seconda siamo shiftati al buona la terza! Appunto la rappresentazione di ieri sera, accolta da applausi e ovazioni, che avrebbero sommerso (ammesso ci fossero stati) anche i fischi più acuti e i buh più incarogniti. Avevano quindi ragione i (relativamente pochi) laudanti del 18? O, come spesso accade, la verità sta in qualche punto intermedio, magari non proprio equidistante dagli estremi? Dico subito che personalmente mi colloco senza esitazione nel campo dei apprezzatori (non certo degli idolatri) di questo dittico.

Che ormai le prime (di diritto o di fatto) della Scala abbiano qualcosa di sospetto (o magari solo di sfigato) dev'essere chiaro anche ai responsabili, se è vero come è vero che quasi all'ultimo momento decisero di invertire la tradizionale, e annunciata, sequenza delle opere: mai successo, a memoria d'uomo, che Pagliacci abbia preceduto Cavalleria (quando dati insieme, smile!) L'unica seria ragione di ciò non può non risiedere nei dubbi che già in partenza devono aver assillato i responsabili dello spettacolo, portandoli alla decisione di anteporre la parte più a rischio a quella prevedibilmente meno a rischio, stanti la levatura degli interpreti e la loro preparazione. Quindi, un approccio del tipo: prendiamoci gli ortaggi subito, fuori il dente, così poi magari chiudiamo in recupero; ed è quello che più o meno è successo il 18.

Ieri, guarda caso, con il pubblico normale (o popolo-bue, secondo taluni?) l'ordine tradizionale avrebbe potuto essere tranquillamente ristabilito, a giudicare dall'accoglienza riservata ai Pagliacci di Cura e Dyka. Nonostante il primo mi sia sembrato – se possibile – persino peggiorato rispetto all'ascolto radio del 18! Io, che son di bocca buona, ho però qualche riferimento, diciamo così, estremo: fra una cariatide che canta almeno discretamente e un Lawrence Olivier che urla e stonacchia, scelgo con decisione massima la cariatide (chè il teatro musicale - fosse pure Wagner - senza la musica, nulla è per me…) Peggio ancora quando chi urla e stonacchia non è nemmeno un Olivier, ma un… pagliaccio (smile!) Cura ha in effetti gigioneggiato come fosse all'avanspettacolo (a proposito di verismo) e pare aver riservato le (poche) risorse di benzina rimastegli ai LA della Giubba e ai SIb del Pagliaccio. Per il resto, una prestazione canora che richiederebbe moltissima… cura (smile!) Quanto alla Dyka, mi sentirei di darle una risicata sufficienza. In ogni caso, se è stato applaudito a scena aperta il Cura della Giubba, allora lo andava anche la Dyka, dopo la sua ballatella ornitologica! Voto più che discreto per Maestri e sufficiente, o sufficiente- per Albelo e Cassi. Sempre all'altezza il coro di Casoni.

Harding, essendo uno che viene da fuori, per di più dal profondo nord, ha il vantaggio di non farsi condizionare più di tanto dall'ambiente, e di fidarsi solo e ciecamente della partitura. Il che può magari procurargli l'appellativo non propriamente entusiasmante di battisolfa, rispetto a direttori che vedono - e applicano – anche segni e indicazioni agogiche scritti evidentemente con inchiostro simpatico, del tipo qui mettere calore mediterraneo oppure suonare con passionalità tutta nostra (smile!) Il simpatico Stinchelli trova addirittura che il giovine Harding dirige come un 97enne!

Cavalleria più che dignitosa, con un Licitra un filino falloso, ma diciamo alla Balotelli: non sarà sempre perfetto, però spesso e volentieri segna gol decisivi, e questo conta pur qualcosa! Una domanda: dov'era collocato a cantare la sua siciliana a sipario chiuso? La voce pareva arrivare dalla stazione MM di Cordusio! La D'Intino direi bene (data l'età, smile!) una Santa all'altezza, mai urlante, sempre composta e ben immedesimata nel difficile personaggio. Sgura più che sufficiente e discrete le altre due protagoniste, Piunti e nonnina-Zilio. Anche qui un Harding asciutto, che mi sembra aver rallentato – rispetto al 18 - la velocità dell'Intermezzo (dove avrà tenuto 48 di metronomo, invece dei 54 prescritti… sempre meglio di tale Serafin, un'autentico lumacone mediterraneo, meno di 36!) ma in generale una lettura più che apprezzabile, sotto ogni punto di vista, compreso il giusto equilibrio fra strumenti e voci (ricordo solo una copertura eccessiva di Sgura - da parte del possente coro di Casoni, peraltro, non dell'orchestra - nella chiusa dell'aria di sortita). Meritato il consenso riservatogli dal pubblico (adesso qualcuno aprirà magari una petizione per chiederne l'arruolamento in pianta stabile?)

La regìa dei due spettacoli era di Mario Martone (in combutta con Sergio Tramonti per le scene) che il 18, intervistato su Radio3 (e anche in un video sul sito del teatro) aveva sottolineato i tratti caratteristici, e assai diversi, dei due allestimenti.

Pagliacci è ambientato ai giorni nostri e ci mostra impietosamente quanto sia regredita la nostra civiltà (figlia della cultura cristiano-giudaica) rispetto al lontano 1870. Anche nella ridente Montalto di Calabria è arrivata la modernità, rappresentata dalla futuristica A3, di cui vediamo una caratteristica rampa cadente. Sotto (e sopra) la quale rampa si aggirano signorine che svolgono una professione in altri tempi (lo vedremo più tardi) esercitata all'interno di apposite strutture di business. Possiamo quindi esser certi che ci troviamo dopo il 20 settembre 1958… Le vetture (camioncini della compagnia e berlina di Silvio) ci orienterebbero verso la fine anni '70.

Intelligente l'impiego di saltimbanchi, che animano la scena nei lunghi momenti in cui essa è occupata solo dal coro. Quanto ai personaggi, detto dello scarso verismo del Canio, mi è parso eccessivamente sputtanato (dal regista) il povero Silvio, trasformato in tamarro metropolitano, che arriva in BMW520 (prima serie) nel posto che probabilmente visita ogni sera (per via delle signorine di cui sopra) ad incontrare Nedda. La quale ci lascia il dubbio sulla sua intima natura: una donna sposata con un uomo possessivo e nomade, e che legittimamente aspira alla libertà e ad una stabile sistemazione, e si innamora sinceramente di un bravo giovine… oppure una sgualdrinella potenziale (o reale) attirata dagli averi, non dall'essere, di Silvio? La carta sporcata da Leoncavallo escluderebbe del tutto, mi pare, la seconda alternativa. Martone no. Insomma, una lettura interessante, ma con le sue belle distorsioni, come capita spesso a registi che si sentono in obbligo di inventare qualcosa di nuovo.

Cavalleria è presentata invece con taglio tutto cerebrale, introspettivo e socio-filosofeggiante, che subito si manifesta: bordelli! Le scene sono state costruite tempo fa, quindi mancava la targa "Villa San Martino - Arcore" per rendere l'ambientazione un filino più aderente al tema. Ecco, intanto sappiamo di trovarci prima del 20 settembre 1958, ed è già qualcosa. Poi, mostrare un casino in piena attività nella mattinata di Pasqua è una genialata di cui tutti i siciliani saranno eternamente grati al regista! Ma poco dopo scopriamo la vera intenzione di Martone: scolpire da subito la personalità di Alfio. Un tipo che, appunto, a Pasqua si alza e va direttamente al bordello; e ha tanto poco rispetto per la donna (moglie o puttana, fa lo stesso) che dopo (non prima) dello sfogo fisiologico va dal barbiere a farsi bello! Servono a qualcosa o no, i registi, vivaddio?

Non disprezzabile invece l'idea della scena inizialmente vuota, riempita via via da sedie su cui il popolo prende posto, senza più andarsene. Facendo da costante testimone dei drammi esistenziali che si svolgono lì attorno. La Santa che arriva con la sua sedia sotto braccio e fatica a sistemarsi in mezzo alle altre sedie rende efficacemente l'idea dell'espulsione della donna peccatrice da una società bigotta e piena di pregiudizi. A differenza di Nedda, Lola è – perché così ce la musica Mascagni, sul testo dei suoi librettisti – una ragazza piuttosto leggera, per così dire, una civetta piuttosto vanesia; e così ben ce la propone la regìa di Martone. Detto dell'arbitrarietà dell'impersonificazione di Alfio, bene invece anche l'esposizione di Turiddu e mamma Lucia.

In definitiva, una serata più che piacevole, grazie soprattutto a questa musica, in cui si sentono atmosfere sonore, se non proprio spunti tematici, che appariranno in quegli anni nelle sinfonie di Mahler, che fu interprete entusiasta sia di Mascagni che di Leoncavallo (a dispetto degli scontri avuti con quest'ultimo) e dalla cui musica dal taglio popolare fu sicuramente ispirato.
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14 gennaio, 2011

Mahler: buona la seconda!


Con una lodevole iniziativa, la Morgan Library & Museum di NY ha aperto i suoi archivi e sta pubblicando anche in web una montagna di materiale musicale (manoscritti fino ad oggi accessibili solo a pochi intimi.

Vi si possono scovare – o verificare in proprio – interessanti aspetti legati alla storia delle diverse composizioni.

(Quasi) a caso, sono entrato sul manoscritto originale (1903) della Quinta di Mahler. È noto a (quasi) tutti che l'Autore rimise le mani più volte sulla sinfonia, che è stata quindi oggetto di attenzioni ed edizioni critiche autorevoli.

Neanche a farlo apposta, osservando la prima pagina del famoso Adagietto, si nota subito una per nulla trascurabile differenza fra l'idea originale e la successiva revisione fatta dall'Autore. Ecco qui:


A parte la divisione delle viole, non prevista originariamente, si noterà come la seconda sezione del motivo conduttore (a cavallo fra le battute 3-4) sia stata quasi impercettibilmente, ma sostanzialmente modificata da Mahler, rispetto alla prima stesura: la penultima croma della misura 3, un originario SOL, che faceva crescere monotonamente la melodia (FA-SOL-LA) diventa alla fine un SIb, introducendo così fin da subito una increspatura espressionista, che viene subito dopo ripresa (già nell'originale) dalla riesposizione del motivo nei violoncelli. La prima forma – a velocità dimezzata (semiminime invece di crome) - resta al suo posto nella ripresa del motivo nei violini secondi (mis. 73 e successive).

Piccoli dettagli, forse, ma che ci raccontano dell'autentica sofferenza con cui un compositore come Mahler viveva le sue creature.
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Stagione dell’OrchestraVerdi - 18



Un concerto del tutto tradizionale, quello che si dà in questi giorni. Che accorpa Brahms e Haydn, mettendo in risalto alcune radici del primo che affondano, più o meno profondamente, nel secondo.

Subito da segnalare la disposizione dell'orchestra, un ibrido poco consueto fra layout alto-tedesco e moderno: contrabbassi in linea frontale, sul fondo; ottoni tutti a destra; viole al proscenio e violoncelli arretrati; e soprattutto timpani (e triangolo) all'estrema destra, sul tavolato, quasi in primo piano.

 
I legami fra Brahms e Haydn emergono a partire dal primo brano in programma, le brahmsiane Variazioni (per orchestra, poichè ne esiste una versione per due tastiere) su un tema di Haydn (o presunto tale, per la verità…) Un tema – detto Corale di Sant'Antonio - di 10 battute suddivise in due sezioni di 5:
e sottoposto ad otto variazioni, cui segue la chiusa.

 
Zhang ha rispettato scrupolosamente tutti i ritornelli, e ha dato una lettura proprio settecentesca (evitando enfasi fuori luogo) di questo lavoro che Brahms usò come ultimo test prima di decidersi al grande passo: entrare nel mondo della sinfonia (la Prima seguirà 3 anni dopo).

 
Arriva adesso Alison Balsom (una bella mammina, non c'è che dire, anche se ieri – peccato – aveva le gambe coperte da un lungo scarlatto, certo per evitare al pubblico ogni distrazione dalla musica) a cimentarsi nel celebre Concerto per tromba di Haydn. Che è in pratica l'unico pezzo classico da concerto che un(a) solista di tromba abbia a disposizione; il che dovrebbe però permettergli(le) di padroneggiarlo alla perfezione. Concerto dalla Balsom già interpretato con Zhang a Berlino tempo fa. Qui invece (1., 2-3.) una sua esibizione ai PROMS 2009, quando ancora la bella Alison non era diventata mamma.

 
Nel primo movimento c'è spazio per una cadenza, normalmente lasciata all'inventiva dell'interprete: la Balsom ne ha una sua propria (vedi youtube) e anche ieri ce l'ha riproposta. Non arriva a toccare il MIb super-acuto (come fa il negretto Wynton Marsalis, qui a 6:05) ma insomma ci accontentiamo!

 
Il tema del bellissimo Andante, in LAb maggiore, ha l'incipit che ricorda quello – poi divenuto famoso come inno nazionale – del Poco adagio cantabile del terzo Quartetto dell'Op. 76, il famoso Imperatore, composto a ridosso del concerto per tromba. E di cui si ricorderà – guarda caso - proprio Brahms al momento di aprire il suo Requiem:
Alison lo espone con grande pathos, forse la parte migliore della sua interpretazione.

 
L'ultimo tempo presenta un tema, pure famoso, nella tonalità base di MIb:
Qui purtroppo non sono mancate un paio di imprecisioni, ma le perdoneremo volentieri. Come la piccola libertà che la Balsom abitualmente si prende: quella di chiudere il concerto (le ultime 8 battute) un'ottava sopra di quanto Haydn ha scritto in partitura. Cosa che è di sicuro effetto, ma insomma…

 
Gran trionfo per lei, che ci regala come bis una sua trasposizione per tromba di Syrinx, che Debussy scrisse per il flauto.

 
Ha chiuso il concertone la decima di Beethoven, come un ammiratore (pro-tempore) di Wagner ebbe bizzarramente a definire la Prima sinfonia di Brahms.

 
Zhang ne ha dato, per me, un'interpretazione assolutamente classica, à la Giulini, come dire, calandosi perfettamente nella rigorosa severità del burbero orso amburghese. Già dallo stacco di tempo dell'introduzione, scandito dai decisi, ma mai enfatici, colpi del timpano della brava Viviana Mologni. Poi ci ha opportunamente risparmiato il ritornello dell'esposizione (che in effetti pochi oggi si ostinano ad eseguire) per condurre l'Allegro con grande pulizia e precisione di gesto.

 
Delicato e sottovoce l'Andante sostenuto, chiuso dalla mirabile cadenza in cui spiccano il corno di Giuseppe Amatulli e il violino di Luca Santaniello.

 
Il terzo movimento, Poco allegretto e grazioso, presenta un tema lungo ed effettivamente aggraziato, che pare il prodotto di una mirabile ispirazione. Poi, se lo si esamina da vicino, si scopre che si tratta di due sezioni, di 5 (ancora!) battute ciascuna, dove la seconda è ottenuta semplicemente rovesciando a specchio la prima!
Insomma, una semplice operazione meccanica che produce un risultato esteticamente brillante! E Brahms era maestro in questi – diciamo pure – trucchi (fiamminghi?) come si può constatare in altri suoi passi famosi, come l'inizio della Quarta sinfonia, una banale sequenza di terze discendenti, ma con qualche inversione di intervalli… Ed era ciò che di Brahms piaceva ad Hanslick, che vi vedeva confermate le sue teorie sulla musica principio e fine di se stessa.

 
Grandiosa l'introduzione del Finale, dove udiamo il famoso richiamo del corno, che cade da mediante a dominante, che Brahms aveva annotato parecchi anni prima, riportandolo su una cartolina postale inviata dalla Svizzera a Clara per il compleanno, il 12 settembre 1868:

Sulla cartolina si legge:

 
Also blus das Alphorn Heut:
Hoch auf'm berg, tief im thal; Grüß ich dich, viel tausend mal!

 
(Così suonò il corno alpino oggi:
dall'alto monte, dalla profonda valle; ti saluto, mille volte)

 
Peraltro il motivo è qualcosa che già si era udito nel teatro musicale:
Come si vede, le note sono proprio poche! Ma di queste ci accontentiamo, quando vengono disposte in modo geniale.

 
Tutti in trionfo alla fine, come si sono ampiamente meritati.

 
A proposito di geni: fra una settimana grande appuntamento verdiano.
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13 gennaio, 2011

Rondò 2011


Come preventivo antidoto contro la melassa diatonica (smile!) che questa sera mi verrà propinata da laVerdi (a base di Haydn e Brahms) ieri sera ho fatto una scorta di musica moderna, in buona parte contemporanea. L'occasione era fornita da Divertimento Ensemble, diretto da Sandro Gorli, che ha inaugurato la sua ottava stagione di Incontri con la Musica – dal primo '900 ad oggi, stagione che si chiuderà mercoledi 8 giugno.  

I concerti sono sempre preceduti da una presentazione, spesso con la presenza degli autori di composizioni in programma. Ieri sera, assente Luca Francesconi, erano ospiti Stefano Gervasoni e Daniele Ghisi, dei quali sono state poi eseguite tre composizioni recenti, recentissime o nuove di zecca, fra le quali è stato per l'occasione incastonato nientemeno che Prokofiev. Il loro fratello maggiore, per così dire, Alessandro Solbiati, dopo aver doverosamente stigmatizzato l'attuale andazzo di tagli e colpi d'accetta alle risorse per la cultura, li ha sollecitati a raccontarci le loro esperienze di compositori di oggi. Quanto ai brani in esecuzione, alcune note sul programma di sala orientavano in qualche modo l'ascoltatore; che, diciamolo francamente, ha sempre qualche difficoltà a districarsi con musica come questa.

Ecco infatti la musica. Ad aggiungersi all'Ensemble, in qualità di solista, il venerabile Salvatore Accardo.

Escludendo Prokofiev, che qui è ospite di riguardo, ma… non fa testo, le altre tre composizioni hanno una comune caratteristica: di avere, se non proprio un programma, almeno un'ispirazione, o connessione – aperta o criptica, o magari solo apparente - con l'esterno. Se nessuno si offende, usando categorie obsolete ed ottocentesche (?) si potrebbero definire dei poemi sinfonici del terzo millennio.

Il primo dei quali, eseguito dall'Ensemble, è Da Capo II di Francesconi, del 2007, per 8 strumenti: Flauto(+Ottavino), Clarinetto, Fagotto, Pianoforte, Percussioni (Vibrafono, Marimba, Glockenspiel), Violino, Viola e Violoncello. A prima vista, parrebbe scoperto il riferimento culturale (smile!) del titolo. In realtà Francesconi già aveva composto un primo brano con quel titolo in tempi non sospetti ('85-86). L'attuale Direttore artistico della Biennale Musica di Venezia ci propone – parole sue – un processo, un meccanismo di trasformazione, in un unico grande "arco" che deve risultare comprensibile come un gesto pittorico. Personalmente lo vedo come un gesto di pittura astratta (smile!) sulla cui immediata comprensibilità ci sarebbe da discutere. Una novità tecnica che si comincia ad apprezzare qui (ma sarà sfruttata al massimo grado nel brano di Gervasoni) consiste nel fare emettere al pianoforte suoni prodotti in modo, diciamo, non convenzionale: appoggiando le mani sulle corde, o direttamente percuotendole con una bacchetta; il che costringe l'esecutore (ieri la bravissima Maria Grazia Bellocchio) ad acrobazie ginniche, oltre che a spostare lo spartito su un improvvisato leggìo dentro la coda dello strumento. Il che ci spiega anche la vera ragione del fatto che il coperchio dello stesso venga tenuto sollevato (smile!)

Segue un classico, la lunga Sonata n°1 op.80 per violino e pianoforte di Sergei Prokofiev. Composta a cavallo della seconda guerra mondiale, di ispirazione quasi cimiteriale, come lo stesso autore ebbe a dire. Accardo è accompagnato dalla Bellocchio ed anzi si sistema quasi addosso a lei, coprendone la figura agli occhi dello spettatore; questa inconsueta e bizzarra dislocazione si spiega con la necessità, per Accardo, di sbirciare lo spartito collocato sul leggìo del pianoforte; spartito che in realtà, come una partitura, reca insieme i due righi del pianoforte sovrastati da quello del violino. Per carità, non è qui il caso di incolpare il famoso violinista di mancata mandata a memoria di una sonata tanto difficile, quanto desueta… ma forse c'era qualche altro sistema logistico per risolvere meglio il problema. Quanto all'esecuzione, Accardo è parso assai compassato, anche in quei momenti che – stando ai ricordi di testimoni auricolari – Prokofiev voleva suonati quasi con ferocia fisica. Grande successo e – siamo alle solite – gente che dopo l'intervallo (allietato da degustazioni di vino offerto dallo sponsor della serata) se ne va alla chetichella.


Tocca ancora all'Ensemble (tutti bravissimi musicisti, non c'è che dire!) eseguire, di Gervasoni, Prato prima presente. Composizione del 2009 per: Flauto, Oboe, Clarinetto, Percussioni, Pianoforte, Violino, Viola e Violoncello. La sottostante filosofia è – per intenderci – quella del Ragazzo della Via Gluck (là dove c'era l'erba – appunto, il prato prima presente - ora c'e una città) cioè di come la civiltà di oggi, per costruire quella di domani, si rapporti con (o non si curi di) quella di ieri. In effetti c'è un tappeto sonoro che può rimandare ad un prato, popolato da insetti che si aggirano nell'erba (magari anche da bambini che ci giocano); sul quale si odono brusche irruzioni di qualche palazzinaro di turno, piuttosto che armoniosi interventi à la Renzo Piano. Naturalmente è un'impressione personale, al limite della battuta; quanto all'assunto dell'opera (…il prato è come la pagina bianca per il compositore: non è mai del tutto bianca, del tutto neutra, del tutto indifferente a ciò che il compositore si permetterà di metterci sopra) è di sicuro intrigante, e lascia trasparire la coscienza – e anche il peso – dell'eredità musicale che un compositore contemporaneo si trova sulle spalle. Quanto al risultato estetico dello sforzo di Gervasoni… credo che per apprezzarlo sarebbe necessario (quanto meno per uno come me) studiare assai!

Chiude il concerto la prima assoluta di una composizione commissionata dall'Ensemble a Daniele Ghisi: De Selby Compendium, che impiega anche il Violino solista, insieme a Flauto, Oboe, Clarinetto(+basso), Fagotto, Tromba, Pianoforte, Percussioni, Violino, Viola, Violoncello e Contrabbasso. Il titolo si ispira ad un bizzarro personaggio letterario, prodotto dalla fertile fantasia di Brian O'Nolan: un misto di filosofo-demenziale, alchimista-pazzo, dottor-stranamore e una-bomber. Il giovanissimo Ghisi ci ha ricavato una specie di bigino in musica, affidando al violino (ancora Accardo, uno dei dedicatari dell'opera) il ruolo del protagonista, e al resto dell'Ensemble quello di descrivere le sue imprese e i suoi vaneggiamenti. Variazioni fantastiche su un tema di carattere cavalleresco: così qualcuno sottotitolò un poema sinfonico ispirato ad un altro bizzarro personaggio, per certi versi antesignano di De Selby... ma è acqua passata.

In ogni caso, come forse si sarà capito, le musiche eseguite qui (non parlo di Prokofiev…) appartengono ad un filone modernista che si potrebbe definire spirituale, in opposizione a quello, tutto materiale, dove il compositore si diverte (smile!) a manipolare suoni, anzi più spesso rumori (yes, mr. Ross!) nei cosiddetti studi di fonologia.

Francamente, è già qualcosa. (Adesso però, trangugiato l'antidoto, non vedo l'ora di avvelenarmi con Haydn e Brahms…)
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11 gennaio, 2011

In montagna con Harding e la Filarmonica della Scala


Come pre-riscaldamento prima di slanciarsi contro le asperità del dittico verista (la prima di domenica 16 sarà trasmessa, oltre che da Radio3, anche in video da RAI5 - chissà se pure in web…) Daniel Harding ha diretto Il primo concerto del 2011 dei Filarmonici scaligeri, con un programma che ha affiancato due autori assai lontani per concezione, approccio e ideali, pur avendo convissuto per 40 anni nello stesso secolo.

Ha aperto il concerto la Suite A dell'Ulisse di Luigi Dallapiccola. Solisti di canto Manuela Bisceglie e Lucio Gallo (ascoltato sabato 8 dal MET, nei panni di Jack Rance). Domandarsi perché un'opera come Ulisse abbia avuto – dal 1968 – rappresentazioni che si contano con le dita di una sola mano è cosa forse stucchevole… guarda caso l'altra sera i commentatori-radio della Fanciulla americana si domandavano perché l'opera più innovativa di Puccini (che oltretutto gli aveva dato la consacrazione di sommo musicista) fosse anche la meno eseguita e la meno amata dal grande pubblico! (perché non c'è quasi nulla da potersi fischiettare, o cantar sotto la doccia, era la spiegazione aleggiante colà…) Ergo, tirèm innanz.

Nella seconda parte del concerto Harding ha guidato i Trepper nell'ipertrofica Eine Alpensinfonie di Richard Strauss. La dotazione minima indicata da Strauss è un'orchestra-base di 107 professori, cui se ne dovrebbero aggiungere, per un passaggio nella scena della Vision, altri 10 (a raddoppiare alcuni strumentini); più – tanto per gradire – altri 16 ottoni posti in lontananza, nell'episodio Der Anstieg. Due arpe, possibilmente da raddoppiare, percussioni a josa, incluse macchina del vento e – per sole 3 battute di impiego, quale spreco! – macchina del tuono (in realtà un lamierone appeso ad un trespolo e percosso con mazza da tamburo). In tutto: almeno 133-135 elementi, roba da bengodi, non da Bondi... Forse ieri c'era qualche elemento in meno (gli ottoni fuori scena poi, chi poteva contarli? Di sicuro c'erano 5 corni, poi entrati in orchestra… )

Le difficoltà per gli strumentisti dei fiati sono così tremende, che Strauss medesimo si è preoccupato di aggiungere una nota in calce alla partitura, consigliando loro di usare l'aeroforo di Bernard Samuels (inventato proprio a ridosso della composizione, nel 1912) per avere adeguata dotazione d'aria alla bocca, con cui far fronte ai lunghi legati! Il marchingegno non ha avuto grande successo, a dir la verità, presentando più controindicazioni che vantaggi, come riconosciuto da qualche diretto interessato. Né risulta che alcuno abbia mai proposto di installare (dietro le quinte, o sotto il tavolato del palcoscenico) un impianto centralizzato di erogazione aria (simile a quelli impiegati in ospedale per l'ossigeno e l'azoto) con qualche decina di cannelli, sbucanti dal pavimento, a disposizione degli strumentisti bisognosi.

Che dire? Harding ha dato una lettura sobria di questo elefante, senza esagerare troppo con l'enfasi e l'affettazione e mostrando il meglio proprio nei passi più intimistici e raccolti di questa partitura. L'orchestra ha risposto bene, e particolarmente nella sezione che è solitamente definita come suo tallone d'Achille: gli ottoni, e i corni in particolare. Grandi ovazioni per tutti: un buon viatico per il Direttore, in vista dell'appuntamento con Mascagni-Leoncavallo.
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Nella sinfonia (un poema sinfonico, in realtà) si esplora un intero giorno, da notte a notte, dall'alzataccia per i preparativi dell'escursione al ritorno a casa, dopo una giornata faticosa, anche pericolosa, ma entusiasmante ed indimenticabile. I vari momenti dell'avventura musicale sono chiaramente indicati in partitura, precisamente con 22 sottotitoli, che ci guidano meticolosamente per tutto l'arco della giornata.

Quindi un'opera programmaticamente descrittiva, per quanto possa la musica descrivere cose, luoghi, animali, e atteggiamenti, movimenti e sensazioni umane. Se ad un ascoltatore, ignaro del soggetto, si fa udire il tema dell'ascesa, chiedendogli cosa ci vede, c'è una probabilità su qualche milione di miliardo che lui indovini trattarsi del passo spedito di un escursionista alle pendici delle Alpi (in ciò un Hanslick qualunque ha perfettamente ragione). Idem se gli si chiede cosa vede nel tema wagneriano della spada (se nessuno lo avverte che quel tema vuol rappresentare, appunto, una spada). Peraltro è indiscutibile che, una volta che noi sappiamo che quel tale tema vuol rappresentare il passo del camminatore (o la spada di Wotan, nel secondo caso) noi non possiamo far a meno di riconoscere che effettivamente quei temi sono assai calzanti agli oggetti o movimenti che intendono rappresentare. Il che significa che gli autori di quei temi hanno saputo idearli e metterli sul pentagramma con grande abilità e sopraffino genio musicale.

Tornando a Strauss, la musica che ci descrive quelle 22 stazioni è perfettamente attagliata a luoghi, circostanze, sensazioni, pericoli, visioni che un escursionista incontra sul suo cammino e prova al cospetto di ciò che incontra. Ovviamente, come musica potrebbe piacere (o dispiacere) anche se quei sottotitoli mancassero, oppure se ve ne fossero appiccicati di totalmente diversi (è il solito Hanslick a garantircelo).

Ed infatti – complice il medesimo Strauss, bisogna dire, con le sue sparate sull'Antichrist – ci sono i soliti scafati che vengono a spiegare (a noi poveri pirla) come e qualmente, in quest'opera, sotto l'esteriorità del programma naturalistico si celino in realtà problematiche socio-politico-filosofico-psicologico-esistenziali di abissale profondità. E che quindi i titoli delle 22 stazioni si potrebbero sostituire con altri, del tipo: l'uomo nella notte dell'ignoranza e della religione; scocca la scintilla della ragione e si fa luce; il lungo cammino verso la conoscenza; il pensiero umano si inoltra nella foresta del dubbio; le prime conquiste della scienza; errori ed eresie; finalmente la pienezza della liberazione e della purificazione morale… e così via inventando. Diciamo la verità: con simili sottotitoli la Alpensinfonie diventerebbe una stucchevole, velleitaria riproposizione dello Zarathustra o della narcisistica e megalomanìaca Heldenleben

Volendo, si potrebbero proporre anche altre, diverse e ancor meno naturalistiche, visioni dell'opera. A partire da quella autobiografica: nel 1915 Strauss, a 51 anni (l'età che aveva il suo amico-rivale Mahler al momento di morire, quattro anni prima) dopo aver composto e fatto eseguire tutti i suoi Tondichtungen e quattro cosucce come Salome, Elektra, Rosenkavalier e Ariadne, si sentiva all'apice del successo, avvertendo allo stesso tempo che gli sarebbe stato difficile rimanere in vetta per sempre e che forse stava già per cominciare anche per lui la fase di discesa (in effetti durata ben 34 anni, durante i quali continuò comunque a produrre musica tutt'altro che disprezzabile). Così come si può interpretare questo racconto come un film sulla parabola dell'arte musicale mitteleuropea ed occidentale, che – agli occhi di Strauss e a fronte di rivoluzioni in atto (Schönberg, Stravinski) – poteva sembrare avviata al tramonto, dopo i fasti wagneriani, brahmsiani e… straussiani! O anche – stante la grande guerra in pieno svolgimento – come la presa d'atto, con gran rimpianto, del tramonto di un'intera civiltà, dopo le vette toccate a cavallo del secolo.

Ecco perché, personalmente, tendo ad apprezzare quest'opera proprio guardandola - e ascoltandola, soprattutto! - con l'occhio-orecchio ingenuo dell'escursionista che passa una bella giornata in montagna! E che giornata…

1. Nacht – notte

Tempo lento e tonalità di SIb minore. Un moto discendente di archi e fagotti, che in 8 misure copre precisamente due ottave, a partire dalla tonica SIb, fa da introduzione al solenne tema della montagna ancora avvolta dalle tenebre, esposto da tromboni e basso tuba:
Poi i contrabbassi creano un movimento di ondeggianti terzine, come un sommesso, sordo stormire di fronde, mosse dalla brezza che annuncia l'albeggiare; arpeggi dei fagotti preparano ancora il tema notturno, esposto a canone largo da tuba, tromboni e corni. Ora, poco a poco più mosso, flauti, trombe, oboe e corni eseguono a turno degli squilli (una quinta ascendente) come di qualcosa che si risveglia, o forse sono gli olà degli escursionisti che si danno il richiamo per radunarsi in vista della partenza. Tutti gli archi adesso stormiscono a veloci quartine; quindi, accelerando, il tema della montagna si fa solenne (il giorno si avvicina) passando dal SIb minore al SIb maggiore, nei tromboni, trombe, corni e con archi e strumentini che ingrossano ulteriormente il suono, con velocissime biscrome. Una terzina della tromba e degli strumentini, in fortissimo, sempre in SIb maggiore, conduce, con un ardito salto di tonalità, a LA maggiore...

2. Sonnenaufgang – spunta il sole

Tempo sostenuto, moderatamente lento. Il sole che sorge è interpretato da un tema degradante per quasi due ottave, fatto a dente di sega, che ben rappresenta la luce che scende progressivamente, inondando i crinali delle montagne e rivelandocene così i profili frastagliati e – sottolineate dai piatti – le cime aguzze:
È sempre di 8 misure, suonato da archi, trombe e strumentini, poi da corni e tromboni, via via contrappuntato dagli archi e fiati. Eccolo lì, proprio davanti a noi, il maestoso teatro della nostra escursione! Dopo una transizione dei tromboni a REb maggiore, violini e poi strumentini sembrano mostrare ancora al nostro sguardo il suggestivo panorama, ancora lontano, fatto di picchi, boschi, valli, ghiacciai e burroni. Ricompare il tema della montagna, dapprima in minore, che poi sfocia in SOLb maggiore, in tromboni e trombe, che sembra spronarci con un: forza, in marcia! Accelerando, arriva una scala ascendente di tromboni, corni e fiati, poi le trombe introducono frammenti del successivo tema dell'ascesa, come se ci si stesse riscaldando prima di attaccare l'escursione...

3. Der Anstieg – l'ascesa

Tempo piuttosto vivo ed energico. Il tema dell'ascesa è esposto dagli archi bassi (prima sezione) con aggiunta delle viole (seconda sezione) poi dei violini (terza sezione):
Ci dà proprio l'idea di una camminata spedita, passo deciso, morale alto, ad affrontare le prime salite. Lo risentiamo ancora, in forma più mossa e variata (anche a canone inverso). Quindi si dà un po' di riposo (poco rallentando) ma subito riprende vigore in archi, fagotti e clarinetti (piuttosto energico) per toccare una breve sospensione, e lasciare spazio ad un nuovo tema, marcatissimo (lo scalpitare di uno stambecco che si inerpica su un costone? o i nostri rapidi balzi, di roccia in roccia, a scavalcare i primi ostacoli?) esposto da corni e tromboni, chiuso anche dalle trombe:
Qui si devono udire in lontananza (fuori scena) ben 12 corni, 2 trombe e 2 tromboni (neanche fossimo ad una battuta di caccia alla volpe della Regina d'Inghilterra!) che suonano consuete terzine, mentre continuiamo a sentire, in contrappunto, il caratteristico, ascendente scalpitìo (che siano camosci inseguiti dai cacciatori?) cui si aggiungono tre ripetizioni di una figura dei clarinetti (quasi tre respiri un po' affannati, che ci consentono di prender fiato dopo la prima parte della salita) a preparare...

4. Eintritt in den Wald – entrata nel bosco

Un poderoso accordo generale, in tonalità di DO minore ci descrive la cupa maestosità del bosco, che ci sta proprio davanti; profondi arpeggi degli archi ci rappresentano lo stormire delle fronde nel folto. Ed ora corni e tromboni intonano un tema solenne, piuttosto arcano, che ben dipinge le nostre sensazioni al momento di addentrarci in una foresta, un misto di curiosità e di inconscio timore:
Fagotti e archi bassi (un po' serrato) riprendono il tema dell'ascesa (ma in tono minore, come a sottolineare lo scenario misterioso che ci circonda) poi nei fiati alti (di nuovo lento) torna il tema del bosco, che si piega e risale, negli archi, ancora poi contrappuntato da quello dell'ascesa, nei fagotti. Una progressione ascendente di trombe e strumentini porta ad un picco sonoro in MI maggiore, da cui si ridiscende sulla tonalità di LAb maggiore (tempo un po' più vivo) sulla quale i violini intonano un nuovo motivo, dal profilo sognante:
Che sfocia, riprendendo il tempo primo, nella tonalità di LA maggiore, su cui torna il tema del bosco in clarinetto basso e controfagotti, contrappuntato da tre autentici cinguettìi del clarinetto piccolo e dal flauto che a sua volta imita un usignolo. Si ridiscende, passando da DO maggiore, e poi da MIb (di nuovo un po' stretto) dove il tema precedente viene ripetuto in minore, per lasciar posto agli ottoni che riprendono il tema del bosco (poco a poco calmando) poi in contrappunto con gli strumentini, fino al ripristino di tempo (un poco moderato) e di tonalità (LAb maggiore) su cui violini e viole ripropongono il tema dell'ascesa, anzi una sua variazione languida (forse il pendìo qui è meno impegnativo, oppure la fatica comincia a farsi sentire…) sulla quale subito violini primi e la viola sola sembrano quasi invitarci a meditare, ascoltando per qualche attimo… il silenzio del bosco, prima che il tema dell'ascesa riprenda e si espanda in lunghe peregrinazioni (evidentemente siamo in un tratto di percorso relativamente abbordabile) culminando (un poco largo) in quattro specie di saltelli che ci portano giù verso un ruscello, annunciato da fluttuanti sestine di semicrome di flauti e clarinetti...

5. Wanderung neben dem Bache – passeggiata presso il ruscello

Il tema dell'ascesa ricompare in archi bassi, fagotti e clarinetto basso, mentre archi, clarinetti e flauti ci fanno sentire la presenza dell'acqua che scorre più in basso; il tempo si fa poco a poco più mosso; fagotti e corni espongono ancora il tema dell'ascesa, sempre in LAb maggiore; veloci figurazioni del flauti, poi ancora il tema dell'ascesa, sempre in fagotti e corni, gli uni in LAb maggiore, gli altri in DO minore. Ora il tempo si fa poco a poco sempre più vivo, si cammina ormai vicino all'acqua, come sottolineano le figurazioni di archi e clarinetti; i violini primi, con i corni, conducono ora il tema dell'ascesa ad una concitata progressione, mentre archi e strumentini descrivono la corrente sempre più impetuosa del ruscello. Ma adesso stiamo quasi correndo anche noi, perché siamo irresistibilmente attirati, verso monte, dal classico rumore di una cascata...

6. Am Wasserfall – presso la cascata

In tempo molto vivo e tonalità di RE maggiore, il tema scalpitante (sono i nostri ultimi balzi per arrivare al cospetto della cascata? o qualche stambecco che se ne scappa via da lì, spaventato dal nostro arrivo?) è riproposto, fortissimo, da trombe e corni, mentre flauti, clarinetti, fagotti e violini producono precisamente delle cascate di note discendenti:
Su un sottofondo dei piatti percossi da bacchette, che rende perfettamente l'idea del vaporizzarsi dell'acqua a contatto con le rocce, la cascata continua, prima in tempo quaternario, poi in ternario, punteggiata dalle due arpe e dalla celesta, mentre si prepara una...

7. Erscheinung – apparizione

Chissà se per caso si tratta della famosa Alpenfee, la Maga delle Alpi (quella che anche il byroniano Manfred incontra proprio sotto una cascatella…) È sempre il ribollire della cascata che occupa il campo, con continui glissando di violini e arpe, finchè il primo corno intona un dolce tema (lo risentiremo presto, e in quale maestosità!) che sfocia in quello dell'ascesa:
Tema che strumentini e violini riprendono e chiudono con una salita al RE, poi al MI, che conduce al FA#, dominante della tonalità che caratterizza la scena successiva...

8. Auf blumige Wiesen – su campi in fiore

Tempo molto vivo e tonalità di SI maggiore. Il tema dell'ascesa è ancora una volta ripreso negli archi bassi, mentre gli strumentini e le arpe emettono suoni al limite del ronzìo, forse a rappresentare gli insetti e le api che si affannano attorno ai fiori. Poi il tema si apre – proprio come lo scenario che stiamo attraversando adesso, sottolineato dalle crome in pizzicato dei violoncelli, che paiono descriverci le corse di qualche leprotto - in nuove forme, sempre più vivace:
per condurci, accompagnati dal tema dell'apparizione, verso una nuova tonalità, che introduce anche una nuova scena...

9. Auf der Alm – sul pascolo

In tempo moderatamente veloce e tonalità di MIb maggiore fagotti, clarinetti e corno inglese emettono come degli jodel, accompagnati dagli squittìi del flauto piccolo. Il clarinetto piccolo e gli oboi letteralmente belano, suonando con la tecnica nota come frullato (il tedesco Flatterzunge, consistente nel far vibrare la lingua mentre si emette il suono). Poi corni, viole e un violoncello intonano un nuovo tema, derivato da incisi uditi sin dall'inizio, dopo lo spuntar del sole, che si innalza in volute successive:
Il sottofondo è sempre di squittìi dei flauti, jodeln di corno inglese, clarinetti e fagotti, mentre si odono anche dei campanacci, evidentemente di mandrie che pascolano in qualche alpeggio nelle vicinanze… Corni e archi riprendono il tema, anche a canone, mentre jodeln, squittìi e suoni di campanaccio si fanno più intensi, poiché adesso dobbiamo essere assai vicini al pascolo. Un'ultima perorazione del tema negli archi, porta a una nuova scena, in tempo veloce: strumentini e fagotti espongono, in entrate successive, una figura discendente per ben quattro ottave, da dominante a dominante (chissà, il richiamo dello zufolo di un pastore che riecheggia più volte, riflesso da diverse pareti rocciose…) e subito dopo il primo corno, facendosi largo, avanti con freschezza, espone un nuovo tema:
Tema orecchiabilissimo questo, proprio da… montanari in marcia, che però si amplia, negli archi, in figurazioni mosse, come di un gregge che corre qua e là, e che introduce la scena seguente...

10. Durch Dickicht und Gestrüpp auf Irrwegen – attraverso roveti e boscaglia su sentieri sbagliati

L'ultimo tema del pascolo continua ad occupare la scena, ora in forma fugata, variato e in tonalità cangiante, da maggiore a minore, e sempre in carattere, spingendo violentemente, con forti scale ascendenti dei corni. Ci siamo adesso inoltrati su sentieri non battuti, siamo circondati da arbusti spinosi e ci troviamo in una situazione piuttosto critica; ma non ci perdiamo d'animo, anzi usciamo dai rovi e procediamo sempre accelerando. Qui il tema dell'ascesa è suonato anche dalle tubette tenore (wagneriane) che udiamo per la prima volta. La musica ci porta ad una sospensione, in minore e fortissimo, di tutta l'orchestra, allorquando trombe e tromboni ripropongono maestosamente, in SIb minore, il tema iniziale della montagna, sul quale i corni riprendono, in FA minore, il tema dell'ascesa, che ora ci ha fatto raggiungere il ghiacciaio...

11. Auf dem Gletscher – sul ghiacciaio

Tempo sostenuto, ma vivo e tonalità di RE minore. Mentre viole e poi violoncelli emettono ondulanti sestine di semicrome (attenzione, perché qui si scivola!) trombe e strumentini riprendono il tema dello scalpitìo (qui sono i nostri scarponi che faticano a reggere l'equilibrio) che in seguito viene affiancato dal tema variato dell'ascesa, che si conclude sulla sopratonica di RE minore:
Adesso, poco calando, passiamo alla successiva descrizione...

12. Gefahrvolle Augenblicke – momenti pericolosi

Tempo vivo, come prima. Fagotti, poi corni e trombe riprendono ancora il tema dello scalpitìo, che qui rappresenta bene il nostro difficoltoso arrampicarci sul ghiaccio, costellato da varie scivolate (scale discendenti di fagotti e violoncelli). Il violoncello solo riprende il tema dell'ascesa, in FA minore, ma qui con estrema circospezione, data la precarietà del momento! Ancor più cauti e tremebondi i tromboni ripetono, in MIb, il nostro procedere a scatti, sul tremolo invero rabbrividente degli archi (diciamo la verità, un pochino di caghetta qui ci sta assalendo). Infine viole e violoncelli e poi la tromba, in LA minore, ripresentano i temi dell'ascesa e dei saltelli, finchè i corni, se Dio vuole, con ultimi balzi decisi, ci portano...

13. Auf dem Gipfel – sulla vetta

Siamo, almeno inizialmente, in tonalità di FA maggiore e i tromboni interpretano l'arrivo in vetta con tre balzi sempre ascendenti: dominante-tonica, tonica-dominante, dominante-tonica:
È questo il momento culminante della giornata, l'obiettivo della nostra escursione. E ce lo vogliamo godere come si merita (e come ci meritiamo!) Ci sediamo su un masso e ascoltiamo ammirati: nell'incredibile silenzio dei ghiacciai, un po' più tranquillo, l'oboe espone una delicata melodia:
È a tratti esitante, chiusa su una cadenza presa dalla conclusione del pascolo cui, più mosso, il flauto, con gli archi in tremolo, risponde con un inciso che ricorda, sviluppandolo, l'apice del tema dell'ascesa; ancora l'oboe, di nuovo più tranquillo, ribadisce il suo tema esitante, che adesso sfocia (più mosso, in tutta l'orchestra e con una modulazione da FA maggiore a DO maggiore) nella grandiosa, enfatica perorazione del tema della magnificenza della Natura. Che altro non è se non l'ultima sezione del tema dell'ascesa, magistralmente sviluppata. Qui la parte dei flauti:
Ecco, quando Strauss alludeva alla sinfonia con il nome nietzschiano di Antichrist è probabile che avesse in mente soprattutto questa scena e questa tonalità: il DO, che rappresenta la Natura nella sua pura oggettività (si noti come il tema precedente sia esposto impiegando le sole note della scala diatonica, i tasti bianchi del pianoforte, ad esclusione della sensibile!) Adesso sono i tromboni che, in allegro maestoso, ripetono i tre balzi ascendenti, direttamente sfocianti (piuttosto trattenuto, con l'aggiunta delle trombe) in una riesposizione del tema iniziale della montagna, in LA minore, cui segue, nei corni, in DO maggiore, il tema solenne, esposto poco prima (nella scena dell'apparizione, dopo la cascata) e ulteriormente sviluppato, che bene fotografa la superba vista sulla natura circostante:
Il tema è ora esposto anche dai violoncelli, mentre archi alti e clarinetti lo contrappuntano, con inebrianti salti di quasi due ottave discendenti, e con risalite vertiginose, sempre più su, dopo ogni sosta, seguite ancora da salti in basso (l'ultimo è addirittura un intervallo di 17ma, un vero e proprio tuffo nell'abisso!) Qui davvero è descritto in modo sublime l'esterrefatto stupore che assale il piccolo uomo, di fronte a un tale spettacolo!
Dopodichè corni e tromboni, poi le trombe, ripresentano il tema dei nostri balzi, come se volessimo raggiungere una postazione ancor migliore per esplorare il panorama; e quel panorama ci viene rappresentato (abbastanza largo) dalla riproposizione del tema del sorgere del sole, qui in DO maggiore, davvero una cosa mozzafiato, ancora più radioso, se possibile, rispetto all'esposizione iniziale. Sono archi alti, trombe e strumentini ad esporlo, con i corni a contrappuntarlo con entusiasmanti salite fino al FA acuto. Si arriva quindi alla...

 

14. Vision – vision

Il tempo è sostenuto e trattenuto e il tema dei tre balzi ascendenti si ripresenta, esposto in tonalità diverse (inizialmente FA#) da trombe, corni ed oboi, e porta lentamente alla riapparizione del tema del sorgere del sole, ora esposto da violini e flauti in LAb maggiore (si noti: un semitono più basso rispetto alla prima esposizione, all'alba, e a partire dalla mediante, anzichè dalla tonica, come a segnalarci che ci stiamo lentamente avviando verso il meriggio?) Anche le quattro tubette tenore ingrossano il volume di suono. Il tema della vetta torna in tromba e corni, ma in tonalità oscure, come DO#, contrappuntato nei tromboni dal tema dei tre balzi, in SIb, fino a sfociare, forte, nel tema del sorgere del sole, esposto da trombe, viole e violoncelli che iniziano in LA (sempre dalla mediante, peraltro) come all'alba, ma ora in uno scenario piuttosto abbrunato dal tremolo degli archi e dal cromatismo dei fiati, per poi scendere e fermarsi per un attimo sulla dominante MI maggiore; da cui peraltro ci si allontana subito, con archi e fiati che risalgono faticosamente la scala cromatica, fino all'esplodere del tema notturno della montagna, in SIb minore, negli ottoni, corni esclusi... (per questo passaggio Strauss prescrive il raddoppio degli strumentini, per dare ancor più incisività al timbro). La grande visione del maestoso scenario alpino si sta però offuscando, poiché ormai…

15. Nebel steigen auf – sale la nebbia

Tempo ancora un poco più largo. Sono solo 8 battute, dove tutti gli archi in tremolo eseguono figure ascendenti (sì perché, in montagna, la nebbia sale dal basso…) mentre clarinetti e poi flauti rendono bene lo scenario delle minuscole particelle acquee che stanno invadendo la scena...

16. Die Sonne verdüstert sich allmählich – il sole si offusca poco a poco

I violini secondi, cui si accompagna l'organo, espongono ancora, in SIb maggiore, il tema del sorgere del sole, che è però irrimediabilmente offuscato dalla nebbia, sempre rappresentata dai fiati e dalle trombe; un'ultima volta tromba, organo e fagotto lo ripetono; poi, poco calando, si passa alla successiva...

17. Elegie – elegia

In tempo moderato espressivo gli archi intonano una mesta melodia, derivata per degradamento da quelle udite in vetta, la tonalità è indefinita, sempre cangiante, dal FA# minore al DO#. La sostiene un pedale d'organo, poi i fagotti e il clarinetto basso; il corno inglese ripete ancora, mestamente, il tema del sorgere del sole, ormai totalmente deperito. Ancora oboe e i violini espongono il tema dell'elegia e poi, in un tempo tranquillo, gli archi bassi e le viole preparano la transizione verso la scena successiva...

 18. Stille vor der Sturm – quiete prima della tempesta

Timpano e grancassa annunciano sordi e minacciosi tuoni, per ora in lontananza. Il clarinetto, in tempo sempre più tranquillo espone, in SI minore (perché ormai l'atmosfera è tutt'altro che serena…) la melodia esitante che l'oboe aveva suonato sulla vetta; il corno inglese e poi il flauto riprendono l'elegia; ora è il corno inglese ad abbozzare la melodia della vetta, seguito dal clarinetto basso. Dall'oboe sembrano cadere le prime gocce di pioggia; ancora fagotto e flauto si cimentano nella melodia della vetta, in FA# minore e sempre più lento; ecco un trillo del clarinetto, nel silenzio generale, poi compare un primo lampo, seguito da altri due, che il flauto piccolo rappresenta con brevi guizzi ascendenti. Fiati e archi bassi ripropongono il tema degradante iniziale, in SIb minore, poi timpani, tamburo e macchina del vento (più vivace) ci fanno capire, imitando la natura, che la tempesta è ormai vicina, mentre flauti, oboi, arpe e violini in pizzicato lasciano cadere gocce d'acqua in quantità crescente; con un accelerando di tutta l'orchestra si entra nel temporale vero e proprio...

19. Gewitter und Sturm, Abstieg – temporale e tempesta, discesa

Tempo veloce e veemente e tonalità di SIb minore. Tutti gli archi in tremolo e i flauti eseguono veloci scale discendenti, proprio a rappresentare gli scrosci della pioggia portata dalla bufera; tutti i fiati, tromboni esclusi, ripropongono il tema dell'ascesa a rovescio, poichè ora si scende, e maledettamente in fretta! Flauti, clarinetti e trombe emettono lampi e saette, mentre i timpani esplodono (oh, col dovuto ritardo!) i relativi tuoni. Il tema dello scalpitìo riappare qui nei fiati, proprio a rappresentare la fuga verso valle, a saltelloni; ancora lampi e tuoni in grande quantità, altri balzelloni all'ingiù nelle trombe, poi negli archi, con la tonalità che cambia in LA minore. Ancora balzelloni negli ottoni, finchè si ripassa dalla cascata: tre sole battute bastano a ricordarcela, perchè non è proprio il momento di fermarci ancora ad ammirarla, ma quello di scappare... In DO minore prosegue il temporale, con i temi della discesa e dei salti, intercalati da reminiscenze di suoni uditi prima della tempesta, che prosegue ancora, mentre si ripassa dai pascoli (da DO minore alla relativa MIb maggiore) con i corni a riesporre il loro bel tema, ora in tempo molto vivace (chè siamo, per così dire, di fretta…) Poco dopo si ripassa anche dal bosco, e si riode nelle trombe il relativo tema, subito ripreso da corni e tromboni… Da notare qui una – sicuramente voluta – variante di percorso su cui Strauss ci ha condotti, nella discesa. Ricordiamo che, salendo, eravamo passati prima dal bosco, dopo davanti alla cascata, e dopo ancora presso i pascoli. Scendendo invece incontriamo prima la cascata, poi i pascoli e quindi il bosco! Comunque sia, adesso si può correre a rotta di collo: su un accelerando ascendente di tutta l'orchestra si passa ad un molto veloce, dove ancora sentiamo lampi e tuoni (qui anche prodotti dalla Donnermaschine) accompagnati da scrosci d'acqua e dal vento persistente. Si intuisce però che forse il peggio sta per passare, perciò il nostro passo si fa più disteso (tema della discesa molto largo negli ottoni). Ancora gocce di pioggia, ma sempre più rade, qualche sporadico lampo (poco calando). Un tuono ancora, forte, ma lontano; un po' più largo e maestoso, ricompare negli ottoni il solenne tema notturno della montagna, nella sua originaria tonalità di SIb minore. Perché ormai siamo al tramonto...

20. Sonnenuntergang – tramonto del sole

Si modula alla sesta (SOL bemolle) e strumentini e violini riprendono in maggiore per riesporre il tema dell'alba, contrappuntato da trombe, tromboni e arpe con il tema dell'ascesa, ma molto allargato; nel tema dell'alba si inserisce una ampia divagazione, derivata da quello dell'elegia. Si passa poi alla tonalità relativa di MIb minore, con altri fraseggi degli archi, sempre contrappuntati da trombe e tromboni col largo tema dell'ascesa. Una stupenda modulazione porta al SI maggiore, con cui trombe e poi tromboni riespongono il tema dell'aurora, sempre sostenuti dalle figure degli archi, in perenne tensione cromatica, che sfocia poi nella ricaduta sul MIb maggiore che conduce a...

21. Ausklang – epilogo

Tempo poco largo e solenne. Sono le sensazioni a caldo che proviamo appena rientrati a casa, al termine dell'escursione, mentre rivediamo come in un replay l'emozionante giornata. È l'organo ad esporre la prima parte del tema dell'aurora, seguito dai corni, poi dalla tromba, che conduce alla riproposizione, negli strumentini, dell'esaltante tema della vetta (là era in DO maggiore, tonalità legata alla visione laicaAntichrist! - della natura, qui in MIb Maggiore, che ne rappresenta il lato religioso) con gli abissali intervalli discendenti e le sue risalite, poi contrappuntato nei corni dall'altro tema della vetta. Gli archi, quasi a voler impedire alla giornata di concludersi, intonano una lunga e struggente variazione sui temi della vetta, che viene qua e là contrappuntata dagli ottoni con spezzoni del tema dell'apparizione e dell'ascesa, fino ad arrivare ad un culmine in cui l'inizio del tema dell'alba è esposto da archi alti e strumentini in SOLb maggiore; una modulazione repentina ci riporta al MIb, su cui si conclude la cadenza... Adesso, un poco più vivace, i flauti, inseguiti dai clarinetti, ci fanno riascoltare il tema iniziale della scena del pascolo, caratterizzato dalle quattro discese di ottava. Poi, sul tempo primo, violini e viole sembrano tornare all'ascesa, imitati subito da corni, fagotti, tuba e archi bassi, ma non è che il pallido ricordo della baldanzosa scalata del mattino, e serve solo a riportare alla nostra memoria l'alba, il cui incipit viene riproposto da tromba, oboi e corno inglese, col pedale dell'organo, nell'originale tonalità di LA maggiore; ma ormai sta tornando…

22. Nacht – notte

Siamo proprio stanchi, ma ancora i ricordi della giornata ci accompagnano verso il sonno. In tonalità di SIb minore i clarinetti e i secondi violini, seguiti da fagotti e viole, poi dai violoncelli e dai contrabbassi, riespongono il tema degradante con cui la giornata, e con lei la sinfonia, si era aperta; per l'ultima volta, il tema notturno della montagna riappare negli ottoni (corni esclusi) per poi morire, in tempo molto adagio, su un'estrema e lenta reminiscenza, nei violini, del tema dell'ascesa.

Ecco: ora possiamo proprio addormentarci sereni, diciamo la verità… grazie alla Alpen-Reisen Strauss!
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