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13 settembre, 2010

Salonen con la Philharmonia al MiTo

Fra un Tristan e l'altro, la venerabile Philharmonia di Salonen ha trovato un po' di tempo da dedicare al MI-TO, ieri sera al Conservatorio. Sala Verdi praticamente al completo, fino all'ultima fila su, a 30metri di quota, per un appuntamento davvero importante: non capita – ahinoi – tutti i giorni di ospitare qui orchestre e direttori di tal calibro.

Programma corposo, traversante l'Europa da est a ovest, dalla Russia alla Francia, passando per l'Ungheria. E con sotterranei legami fra le tre opere, tutte in qualche modo caratterizzate da scenari diabolici, onirici, o macabri.

La serata si apre con Musorgski e la sua Una notte sul Monte Calvo (anzi, più precisamente: La Notte di SanGiovanni sul Monte Calvo). Come molte composizioni di Musorgski, anche questa ebbe una storia assai intricata: concepita come musica per opera, poi trasformata in poema sinfonico, quindi ancora impiegata in altre opere mai arrivate a compimento e soprattutto – nel bene e nel male – oggetto di attenzioni da parte di altri musicisti, Rimsky-Korsakov in-primis. E proprio la versione di quest'ultimo è quella di norma eseguita nei concerti (ad esempio qui da Maazel). Leopold Stokowski ne fece una personale edizione per il disneyano Fantasia, tagliuzzando un po' quella di Rimsky, cui giustappose l'Ave Maria di Schubert, tanto per strapparci qualche lacrima in più!

Salonen invece ci propone la versione originale del poema sinfonico di Musorgski (del 1867, ascoltabile qui da Abbado: parte1, parte2) assai raramente eseguita. A dispetto della spocchia che l'autore del Boris manifestava ad ogni piè sospinto nei confronti della musica occidentale, la composizione è debitrice a Berlioz (movimenti finali della Fantastica) e a Liszt (Totentanz). Si struttura in quattro sezioni: arrivo delle streghe e attesa di Satana; arrivo di Satana accolto dalle streghe; messa nera e lodi delle streghe a Satana; sabba. È di una rudezza davvero primitiva e selvaggia (qualcuno la chiama sarcasticamente incapacità ad orchestrare di Musorgski…) e quindi ha anche un finale a passo di carica, duro e privo di… campane e di ogni altro riferimento a cristiana redenzione: chiude, in RE maggiore, con una salita cromatica che descrive la pura e semplice sparizione degli spettri, che paiono proprio volatilizzarsi in un pof! sul pizzicato sforzato degli archi.








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Rimsky invece, producendo la sua versione (nel 1886) si basò in realtà sulla musica – solo parente di quella del poema sinfonico – che Musorgski aveva predisposto nel 1880 per la scena della visione onirica del contadinello, inserita senza troppa razionalità in un'opera (La Fiera di Sorochyntsi) rimasta incompiuta. Lì nel sogno il ragazzo vede le streghe, il demonio (Chornobog) e il sabba, però – a differenza del poema sinfonico - il sogno si conclude con la sparizione di spettri e diavoli, cacciati dallo spuntare del giorno e dai rintocchi di una campana. Ecco perché la versione di Rimsky – fra l'altro assai più stringata e magistralmente strutturata (bisogna riconoscerlo) rispetto al poema sinfonico originale - termina proprio con la dolce melodia del clarinetto, poi del flauto, i rintocchi della campana, e gli arpeggi in RE maggiore dell'arpa:











Non fosse che si rischierebbe di annoiare qualche spettatore schifiltoso, sarebbe interessante programmare, l'una dietro l'altra, le due versioni di questo brano, che sono tutte di grande effetto. Chissà se qualche direttore si permetterà mai una simile audacia…

In ogni caso questa esecuzione ci dà subito l'idea della potenza di fuoco dell'orchestra londinese – oggi 65enne - compattissima nella sezione archi e impeccabile davvero nei fiati e nelle percussioni.

Segue la suite da Il Mandarino miracoloso (o meraviglioso, chè il magiaro csodálatos – così risulta - ha entrambi i significati) di Bartòk. A differenza di quanto avviene di solito (le suites condensano i momenti più sinfonicamente interessanti dell'opera dalla quale derivano) qui Bartòk si è limitato ad accorciare l'integrale della pantomima, chiudendo dopo l'episodio della caccia del Mandarino alla ragazza, quindi con una scena mossa e di grande effetto (l'integrale chiude invece con la morte del Mandarino, tempo lento e cadenza di archi bassi e tuba).

La partitura abbonda di trovate (per gli esecutori: incubi) di tutti i generi e i professori della Philharmonia hanno quindi di che superarsi. In particolare il clarinetto di mr. Robson – che sottolinea le moine adescanti della ragazza - e gli ottoni spiccano per le loro maiuscole prestazioni.

Infine il pezzo forte della serata: la Sinfonia fantastica di Berlioz. Una di quelle opere che sono nei programmi da solo 180 anni, eppure ancora e sempre sono un piacere ad ascoltarsi. E senza che una sola nota venga cambiata, o l'orchestrazione manipolata, in modo da renderla più vicina alla nostra moderna sensibilità.

Sempre emozionante l'incipit, con le terzine di strumentini e corni ad introdurre il recitativo degli archi, che poi attaccano – in punta d'arco - quelle 11 misure che Berlioz definisce di un'estrema difficoltà, raccomandando al Direttore di farle provare più e più volte, prima separatamente ai violini primi e secondi, poi insieme ai fiati. Raccomandazione che Salonen e i suoi devono aver evidentemente seguito con scrupolo. Niente ritornello (tanto si avrà modo di riascoltare a josa l'idée fixe…) e chiusa del movimento proprio come prescrive Berlioz: religiosamente!

Nella successiva valse si mettono in luce anche le due arpe (mrs. Pierce e mr. Webb) che sono qui solo per questo movimento, e vengono quindi disposte in bella vista, proprio sul proscenio, a sinistra.

Grande prestazione della signora Crowther al corno inglese e di mr. Hunt all'oboe nel desolato dialogo che apre la Scène aux Champs, tanto lunga quanto ispirata – stupefacente poi l'apparizione dell'idée fixe – che si chiude con i sordi tuoni provenienti dai quattro esecutori al timpano.

Domanda: visto che gli ultimi due tempi della sinfonia descrivono le vicende di un artista incompreso che si è dato all'oppio per dimenticare i suoi tristi casi, devono anche gli esecutori essere – come minimo – in preda ai fumi dell'alcol, per interpretarli al meglio? Certo in Albione con whisky e simili non vanno per il sottile (e credo nemmeno in Finlandia con la vodka…) ma devo dire che nell'interpretazione di Salonen e dei suoi c'era proprio tutta la carica di adrenalina che ti dà un buon cicchetto, magari di grappa nostrana! Nella Marche sono gli ottoni a farla da padroni, incluse le due tube, che oggi rimpiazzano gli oficleidi di Berlioz. Ma il fracasso che Salonen ottiene è sempre così pulito da non offendere mai l'orecchio.

Senza interruzione si attacca il conclusivo Sabbat, dove la signora McLaren (un nome, un programma!) al clarinetto piccolo in MIb si distingue in quell'esposizione a mo' di sberleffo dell'idée fixe. Poi ancora gli ottoni alla grande nel Dies irae prima del vorticoso finale chiuso dalle otto martellanti terzine di tutta l'orchestra (in cui i fagotti e la prima tuba debbono però arpeggiare!) e dall'accordo perfetto di DO maggiore.

Inutile dire del delirio suscitato nel pubblico, che non finisce mai di applaudire e invocare selvaggiamente Salonen e i professori, chiamati quasi uno ad uno. E loro ricambiano concedendo non uno, ma due bis: la Valse triste, evidentemente in omaggio al Direttore, e uno sconvolgente preludio all'atto III del Lohengrin.

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