intime gioje

chiuder la prigione e buttar la chiave

26 febbraio, 2010

Bach dal web

Fino a pochissimi anni fa era cosa avventurosamente concessa solo a qualche dotato radioamatore: sintonizzarsi su un'emittente aliena per ascoltare qualche interessante trasmissione. Oggi – grazie soprattutto al web, Marconi non ce ne voglia! – chiunque, dotato di ADSL, può sbizzarrirsi a cercare e trovare in giro per il pianeta tesori apparentemente nascosti.

Questa sera la Bayerischer Rundfunk ha trasmesso, dalla Herkulessaal della Residenz di Monaco, la bachiana Johannespassion (quella cruenta e realista) con l'esperto tulipano Ton Koopman alla guida della gloriosa Orchestra della Radio Bavarese.







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Fra prescrizioni e inquinamenti materiali e politici, non ci resta che Bach…

Stagione dell’OrchestraVerdi - 20

Riecco il sommo Beethoven della Missa.

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C'è chi sostiene che – a differenza delle classiche messe precedenti – questa sia impossibile da eseguirsi all'interno di una canonica cerimonia liturgica. Cosa clamorosamente smentita proprio dall'Orchestra e Coro de laVerdi lo scorso settembre, alla Basilica di SanMarco, nell'ambito del MI-TO 2009. Sopravvivono, di quella esecuzione, la mezzosoprano Manuela Custer e il basso Kamie Hayato, cui si aggregano la soprano Helena Juntunen ed il tenore Richard Berkeley-Steele.

Ma ora siamo all'Auditorium, pieno come un uovo, al pari del palco, pur se l'organico per la Missa non è certo di stampo mahleriano o straussiano… Quindi in un luogo certo più adatto ad eseguire un'opera che, come tutto Beethoven del resto – e a dispetto della pomposa dedica al Cardinale suo allievo e mecenate, nonché Arciduca, Rodolfo - è indirizzata alla ragione, oltre e forse più che alla fede, o alla fede nella ragione.

Quanto ai solisti, la Juntunen, già ascoltata qui a fine anno in un'improbabile nona diretta da Marshall, ha voce penetrante, anche se in alto un pochino chioccia, quindi non proprio gradevolissima. Berkeley-Steeleheldentenor lo classifica la sua biografia – sfoggia effettivamente una bella voce piena e chiara, come la Manuela Custer, mentre Kamie Hayato fa dignitosamente la sua parte non proprio proibitiva.

Ma è il coro qui a farla da padrone, un coro nato – val la pena ricordarlo sempre – dalle amorevoli cure e dalla sapienza ed esperienza scaligera di Romano Gandolfi, alla cui memoria questo concerto è significativamente dedicato. Un coro che oggi non sfigura affatto di fronte a quello, sempre immenso, di Bruno Casoni. Un coro che affronta da par suo le impervie difficoltà di questa interminabile partitura. Erina Gambarini, che ne è guida e anima, si va a sistemare in mezzo ai suoi, dando così anche il suo contributo diretto di voce.

Però, anche in un'opera in tutto e per tutto corale, Beethoven trova modo di infilare un mirabile intervento solistico. È quello del violino, che introduce e poi sostiene e contrappunta l'intero Benedictus. Una vera perla, un tocco di cesello sull'immensa struttura di questa cattedrale:



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Tocca al Konzertmeister de laVerdi, Luca Santaniello, porgerlo in modo sublime, proprio come musica che scenda dall'alto dei cieli…

Dopo l'ultimo Dona pacem del coro, Xian Zhang chiude con grande compostezza, scandendo senza enfasi le tre ultime semiminime, sull'accordo di RE maggiore.

Grandi applausi – anche ritmati - ed ovazioni per tutti, coro in testa, com'è ovvio.

Prossimo appuntamento fra una settimana, con un grande Bartók e ancora un sommo Ludwig.

25 febbraio, 2010

Peter Grimes a Torino (su Radio3)

Ieri sera Radio3 ha diffuso la diretta della prima di Peter Grimes al Regio di Torino.

In attesa di assistere dal vivo, ecco le mie telegrafiche impressioni ricavate dall'ascolto via-etere, e qualche commento su quest'opera - ai non-più-teen-agers ancora contemporanea - per la quale si potrebbe quasi-quasi spendere la definizione di capolavoro.

Grimes era Neil Shicoff, a cui le 61 primavere cominciano evidentemente a pesare: ci ha messo l'anima e tutta l'espressività di cui è capace, ma la voce è quella che è, piuttosto impiccata e con difficoltà di intonazione. Convincente la Nancy Gustafson in Ellen: voce calda e gradevole. Grande il Balstrode di Marc S.Doss. Elena Zilio come Mrs.Sedley mi è sembrata eccedere nel parlare: quando ha cantato, lo ha fatto piuttosto bene. Su standard più che accettabili tutti gli altri/e. Preciso e pulito il coro di Gabbiani.

La direzione di Yutaka Sado mi è parsa davvero eccellente. Tempi sempre accurati e ottima resa delle ricche sonorità britteniane, non solo nei famosi interludi.

Sentiremo meglio dal vivo (ma con altri interpreti). Intanto qualcosa sul soggetto.

Non vorrei scomodare paragoni irriverenti o …pruriginosi, ma il Grimes è nato in un'atmosfera esistenziale non poi tanto diversa da quella (inizio 1800) in cui un tale Rossini scriveva opere per una tale Colbran. Nei primi anni '40 Ben Britten e Peter Pears stavano da tempo felicemente convivendo, il secondo collaborò in modo determinante con Montagu Slater alla stesura del libretto e fu il primo e forse - Vickers permettendo – il più grande interprete di Grimes. E proprio al tempo della creazione dell'opera i due si trasferirono al Aldeburgh, luogo dove il Grimes è ambientato e che si trova poco a sud di Lowestoft, dove lo stesso Britten era nato e aveva vissuto da ragazzo. Insomma, ci sono molti ingredienti – certo non sufficienti, ma utili – per garantire una buona riuscita dell'impresa.

La caratterizzazione del personaggio Grimes fu evidentemente condizionata da Pears (che a sua volta condizionò il librettista Slater e il compagno compositore Britten): da individuo quasi congenitamente perverso (pur figlio di un omonimo padre amorevole e ammirevole) qual è il Peter Grimes originale di George Crabbe, quello di Pears-Britten diventa un poveraccio perseguitato dal destino-cinico-e-baro (la sfiga che gli fa crepare, uno dopo l'altro, i suoi apprendisti) e contemporaneamente dalla società che lo circonda (anzi, che lo bracca, propriamente). Vive in un circolo vizioso: strafare e rischiare oltre il ragionevole per promuovere la propria immagine è incappare così in una disavventura dopo l'altra è vedere quindi la propria immagine deteriorarsi ulteriormente è rischiare ancor più per recuperarla è e così via precipitando in vite… un cerchio che lo stringe sempre più da presso, fino a schiantarne la robusta fibra e la folle determinazione.

Sui risvolti personali e sui paralleli autobiografici con l'opera (le vicissitudini a sfondo pedofilo vissute da Britten durante la pubertà e le loro ripercussioni sui suoi comportamenti da adulto; la coppia gay Britten-Pears guardata con qualche storcimento di naso dalla puritana società albionica del secondo dopoguerra) penso sia meglio lasciar perdere: se anche possono avere costituito – come è verosimile – un qualche stimolo per la creazione artistica, mi pare che non trovino alcun particolare riscontro dentro l'oggetto della creazione medesima. Non aveva quindi tutti i torti Jon Vickers (pur non apprezzato come interprete – ma solo sul fronte estetico - dallo stesso Britten, che aveva comprensibilmente negli occhi e nelle orecchie solo il suo Pears) a rifiutare qualunque caratterizzazione del personaggio in senso omosessuale o, peggio ancora, pedofilo.

Né alla tragica condizione di Grimes all'interno della società in cui vive si può assimilare quella dei due autori, che in fin dei conti – grazie certo alla loro preminente posizione – poterono condurre un'esistenza più che serena spiritualmente, oltre che materialmente agiata (Britten fu anche insignito del titolo di pari). Insomma, Britten e Pears erano dei diversi che poterono vivere passabilmente bene, senza subire più che tanto le conseguenze della loro diversità. Merito loro è comunque di aver artisticamente rappresentato – in Grimes, e in altre opere successive - la condizione di tanti altri diversi anonimi, poveracci e bistrattati dalla società cosiddetta benpensante.

Nel 1830, epoca in cui è ambientata la vicenda (e in cui Crabbe scrisse i versi che ispirarono più di un secolo dopo Britten&C) i ragazzini orfani o abbandonati venivano ancora sbolognati – per pochi soldi – dagli istituti a chiunque se li volesse prendere per farne liberamente uso, ad esempio impiegandoli in umili attività manuali, con trattamenti che sfioravano, se non configuravano in pieno, aspetti di vera e propria schiavitù e – purtroppo – anche di brutalità sessuale. Insomma, una situazione quasi normale e tollerata dalla società, che però parallelamente sfogava il suo ipocrita moralismo su qualche soggetto assunto a capro espiatorio di tutte le comuni colpe. Ed è su quest'ultimo aspetto che Pears e Britten misero l'accento, mostrandoci Grimes come una vittima (della società e dei suoi pregiudizi, del gossip dei vari Bob Boles e Mrs.Sedley) e non come un aguzzino violentatore di poveri orfanelli.

Nel Grimes c'è il classico spaccato della nostra società contemporanea: persone per bene, con la testa sulle spalle e cristiana carità (Balstrode, Ellen, Hobson); bigotti, visionari e falsi moralisti (Boles e Sedley); gente che pensa solo agli affaracci suoi (Keene, Auntie e nipotine); pubblici ufficiali o religiosi, che sembrano sempre agire con qualche secondo fine (Swallow, Adams). E poi – fondamentale – il coro, l'opinione pubblica, potremmo dire, che si muove ondeggiando, proprio come un branco di pecore, o un banco di aringhe nella fattispecie, a seconda di come tira il vento o il mare. Il povero Grimes sta lì in mezzo, disadattato e insolubile in questa brodaglia, il classico diverso, ora tollerato - ma sempre guardato di sottecchi - ora apertamente braccato, come pubblico pericolo.

E la sua fine è quanto di più pessimistico e addirittura nichilista si possa immaginare. Se è vero che - come unica alternativa alla prospettiva di essere catturato e sottoposto a sommaria giustizia dalla parte ipocrita della società, ormai fattasi maggioranza - anche la parte ancora sana e pietosa di quella medesima società non riesce a suggerire, per non dire imporre, a Grimes altro che il suicidio! In particolare, un verso di Balstrode è addirittura agghiacciante: Since the solution is beyond life - beyond dissolution (Poiché la soluzione è oltre la vita – oltre la dissoluzione). Sembra la maledizione di Ahasvero! Ma lo stesso Grimes, poco prima, aveva così delirato: Where's my home? Deep in calm water (Dove è casa mia? Nel profondo dell'acqua calma).

Dopodichè – sistemata in qualche modo la faccenda Grimes - la vita del borgo tornerà a scorrere pigramente, sempre uguale a se stessa, perfetta immagine dell'eterno tira-molla della marea. E con il coro a chiudere in LA maggiore, proprio come aveva aperto nel primo atto, come nulla fosse accaduto, in attesa del prossimo uragano, e del prossimo gossip.

Come ogni dramma che si rispetti, anche il Grimes ha il sui momenti tòpici, quelli che i tedeschi chiamano Höhepunkte, punti culminanti. Coinvolgono sempre il protagonista, com'è giusto che sia. L'ultimo di questi si trova quasi alla fine, ed è il disperato sfogo del pescatore, ormai incapace di connettere, prima di "lasciarsi convincere" a farla finita. Ecco come lo interpretò il grande Jon Vickers. A sottolineare questo allucinato monologo di Peter, Britten prescrive una tuba fuori scena, che impersona il Fog-horn, la sirena che avverte i naviganti in caso di nebbia: suona sempre – la udiamo esattamente per 12 volte - un'unica nota, MI bemolle, con finale appoggiatura sul RE puntato, un effetto rabbrividente davvero (lo si ode per la prima volta, nel filmato, e bisogna farci caso con molta attenzione, proprio immediatamente prima dell'entrata di Peter, fra i due richiami - Grimes! - del coro).

Immediatamente dopo ciò che si vede e ascolta nel filmato, Grimes canta (tradotto):

Quale porto ripara la tranquillità?

Lontano dalle onde di marea, lontano dalle tempeste

Quale porto può rinchiudere Terrori e tragedie?

Il suo seno è anche un porto – In cui la notte si volge in giorno.

Sono precisamente le ultime parole di Peter, rivolte ad Ellen e a Balstrode, ma in realtà al vuoto. Non sono nuove: sono (quasi) le stesse che Grimes aveva pronunciato nel primo atto (qui sempre Vickers) al momento dell'incontro-confessione con lo stesso Balstrode, di fronte allo scatenarsi dell'uragano. Ma è la musica a spiegarci stupendamente come ora davvero non ci sia più speranza: là quei versi erano cantati in chiave di LA naturale, con la notte che volge in giorno a salire ostinatamente, dal MI al FA#; adesso invece la fine si avvicina, e quindi tutto si degrada, un semitono più sotto, chiave di LA bemolle, e il volgersi della notte in giorno è in realtà un precipitare in basso, un autentico e profetico inabissarsi, quasi un'ottava, dal RE al MIb, sul quale incontrare proprio il cupo suono del Fog-horn.

Miracoli dell'espressività musicale!

Qui uno spezzone di questa scena, fino alla conclusione dell'Opera, dalla produzione BBC del 1969, Britten sul podio e il suo compagno (e co-autore) Pears nella parte di Grimes. Da notare come Britten, per il drammatico frangente del commiato di Balstrode ed Ellen da Grimes, rinunci alla musica e ricorra al semplice e nudo parlato:

Balstrode (si avvicina a Peter e parla): Avanti. Vi aiuterò con la barca.

Ellen: No!

Balstrode (parlando): Fate vela finché perdete di vista la terra. Poi affondate la barca. Mi sentite? Affondatela. Addio, Peter.

Sulla spiaggia ciottolosa di Aldeburgh, affacciata sul Mar del Nord, circa 160Km da Londra, che ispirò George Crabbe, prima ancora che Ben Britten e Peter Pears (di cui divenne la dimora e sede di festival) da qualche anno è stata posta una contestata scultura (The Scallop, la capasanta) che reca, traforato sul bordo, un verso del Grimes (monologo alla fine dell'Atto II, altro Höhepunkt dell'Opera): Odo quelle voci che non annegheranno













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Sono quelle voci che ricordano implacabilmente a Grimes il suo tragico destino di uomo senza dimora, senza pace e senza speranza.

Ma un uomo capace anche di esternazioni come questa (Atto I):

Ora l'Orsa Maggiore e le Pleiadi, man mano che la terra si muove,

Raccolgono le nuvole della sofferenza umana

Con un solenne respiro nella notte profonda.

Chi sa decifrare nella tempesta o alla luce delle stelle

I caratteri scritti di un destino favorevole –

Mentre il cielo ruota per cambiarci il mondo.

Ma se l'oroscopo è incomprensibile

Come il sommovimento lampeggiante di un banco di aringhe,

chi, chi, chi, chi,

chi può riportare indietro i cieli e ricominciare daccapo?


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(le traduzioni sono di Maria Luisa Bignami)

19 febbraio, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 19

Torna la cinesina a guidare la sua orchestra in un programma coi fiocchi, davanti ad un pubblico abbastanza folto.

Si apre con Brahms e il suo Concerto per violino. Contrariamente a quanto annunciato in sede di programmazione originaria, non è Daniel Hope ad interpretarlo, ma la brava Francesca Dego, già esibitasi qui poco tempo fa, nel concerto di Sibelius. Bella, oltre che brava, questa poco più che ventenne lecchese, ieri sera in un lungo nero scollato, con fascia bianca spiovente. E anche assai alta: la piccola Xian, per guardarla negli occhi, deve salire sul suo podio da 40 cm!

La tonalità del concerto di Brahms è RE, come anche lo è per Beethoven, Paganini (1° e 4°) Ciajkovski e Sibelius, per citare solo i più famosi. Ma anche per Mozart (2° e 4°) Prokofiev (1°) Lalo (sinfonia spagnola), Wieniawski (2°) e Schumann.

Solo qualche curiosità su quest'opera celeberrima. Per le prime 80 battute dell'Allegro non troppo il violino solista tace, poi finalmente entra con un lungo recitativo, che per altre 35 misure è accompagnato instancabilmente, in pianissimo, dal rullo del timpano della sempre impeccabile Viviana Mologni.

Brahms è assai parco di indicazioni agogiche per il solista, e così è ancora più singolare quell'isolato lusingando che compare alle misure 224 (esposizione, tonalità LA) e 467 (ripresa, tonalità FA#) e che sarebbe interessante capire come venga inteso da ciascun interprete, per poi essere tradotto in suoni. E se poi faccia proprio quell'effetto lusingante sull'ascoltatore!




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Francesca – chissà se riesce proprio a lusingarci… - lo esegue comunque con gran portamento e delicatezza, al pari di tutto il resto, va detto.

L'Adagio è aperto dal primo oboe, Emiliano Greci, che canta il dolcissimo tema principale in FA maggiore, che verrà poi ripreso dal solista.









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Il grande Sarasate si rifiutò sempre di eseguire questo concerto perché – a suo dire – di buono conteneva solo quel tema; e a lui avrebbe dato fastidio doverlo ascoltare standosene sfaccendato sulla sua pedana, a guardare il pubblico… La Dego invece ha tutta la pazienza di aspettare che arrivi il suo turno per esporci – variata – questa incantevole melodia.

Poi, con uno scarto cromatico dal FA al FA#, attacca l'Allegro giocoso conclusivo, caratterizzato da quel tema che nasce nervoso e scattante per poi – al poco più presto - addolcire di molto le sue spigolosità. Trionfo per la bravissima Francesca, che ci regala un gran bis paganiniano.

E dopo Brahms, ecco la Quarta di Ciajkovski. Sinfonia a sandwich, con i movimenti esterni enfatici, affettati e fracassoni che stritolano i due interni, di carattere più intimistico ed elegìaco.

Qualche passaggio non proprio impeccabile di corni e trombe nell'iniziale esposizione del millantato tema del destino, poi la Zhang dosa con sapienza i tempi del Moderato con anima negli archi, partendo un po' al rallentatore per poi ottenere un grande effetto con un crescendo generale. Bravi ancora tutti i legni nella sezione centrale Moderato assai, quasi andante, e brava ancora la Zhang a controllare lo stringendo di tutta l'orchestra, che porta alla riproposizione del tema del destino.

È ancora l'oboe protagonista dell'apertura dell'Andantino in modo di canzona, che crea uno stacco deciso dal fracasso del movimento iniziale. Efficace poi l'attacco della sezione centrale, dove clarinetti e fagotti presentano quel tema ostinatamente ondeggiante fra tonica e dominante (FA-DO) poi ripreso e rinforzato dagli archi e quindi contrappuntato dalle terzine degli ottoni. È poi nuovamente il fagotto a condurre alla chiusa, con la riproposizione del primo tema.

Il pizzicato ostinato è aggredito con la dovuta risolutezza da tutti gli archi, fino all'irruzione del lungo LA dell'oboe, anche qui protagonista, che introduce una specie di trio:





seguito poi da un concertino marziale, dove si mettono bene in mostra tutti gli ottoni.

Il finale Allegro con fuoco è una cosa invero tremenda per l'orecchio – mai peggio di certo Stockausen elicotterista, peraltro – e pieno di retorica a momenti quasi insopportabile. Nella battuta conclusiva Ciajkovski ci prende pure in giro, facendo tacere – nel generale triplo f - piatti, gran cassa e ottavino, bontà sua!

La piccola Xian cerca di non farsi mordere dalla tarantola, né dà in escandescenze come capita a molti direttori, che si fanno prendere la mano dalle turbe di zio Piotr. Va da sé che bisogna fare un monumento ai professori – dalla prima all'ultimo - per la loro stoica abnegazione.

È però il vecchio e caro Brahms ad avere l'ultima… nota: dato che la Zhang attacca – come bis – la quinta danza ungherese del burbero Johannes. Ancora ovazioni, e tutti a casa sotto la solita, fastidiosa pioggerella di questo febbraio meneghino.

Fra una settimana ancora la simpatica cinesina in un vero monumento dell'arte musicale, già presentato da lei e dai complessi de laVerdi lo scorso settembre, al MI-TO.

17 febbraio, 2010

In che modo le predette Sedeci chorde siano state da i Latini denominate.




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ET benche gli antichi Greci nella fabrica, ò diuisione de i Monochordo, considerassero solamente Sedeci chorde, diuise in cinque Tetrachordi; ne tentassero di passar più oltra, per la ragione detta di sopra; nondimeno i Moderni non contenti di cotal numero, lo accrebbero; passando più oltra, hora nel graue & hora nell'acuto; imperoche Guido Aretino nel suo Introdottorio, oltra le nominate chorde, ue n'aggiunse dell'altre alla somma de Ventidue, & le ordinò in sette Hexachordi; & tale ordine fu & è più che mai accettato & abbracciato dalla maggior parte de i Musici prattici; essendo che in esse sono collocate & ordinate le chorde al modo delle mostrate Pitagoriche. E ben uero, ch'à ciascuno di essi, aggiunse, per commodità de i cantanti, alcune di queste Sei sillabe: Vt, Re, Mi, FA, Sol, La, cauate dall' Hinno di San Giouanni Battista;

Vt queant laxis Resonare fibris Mira getorum Famuli tuo- rum; Solue polluti Labij reatum sancte Iohannes;

& li concatennò con tale arteficio & in tal maniera; che ciascuno contiene tutte le Specie della Diatessaron, le quali sono tre; come vederemo nella terza parte; accommodando il Semituono, circoscritto da queste due sillabe mezane Mi & Fa, nel mezo di ciascuno. La onde aggiunse primieramente alla Proslambanomenos di questo suo ordine nella parte graue una chorda, distante per un Tuono, segnata con lettera Greca maiuscola ritrouata forse per inanti, ouero aggiunta da altri Musici de suoi tempi all'ordine delle chorde Greche in questo modo G; & l'altre poi con lettere Latine; che dinota, la Musica (come uogliono alcuni) essere stata ritrouata primamente da i Greci, & posta in uso; & al presente da i Latini essere honoreuolmente posseduta, abbracciata & accresciuta. Et alla predetta Lettera aggiunse la prima delle Sei sillabe; cioè, Vt; in questo modo G, vt; che uuol dire Gamma ut; & cosi nominò la chorda aggiunta di tal nome; & è la prima chorda della sua ordinatione. Chiamò poi Proslambanomenos de i Greci A re; ponendo insieme la prima lettera latina & la seconda sillaba delle mostrate; & fù la seconda chorda del suo Introdottorio. La terza poi; cioè, la seconda Greca, detta Hypate hypaton, nominò r mi; ponendo insieme la seconda lettera latina, & la terza sillaba seguente; & pose tal lettera quadrata, differente da la b rotonda; per dinotarci la differenza de i Semituoni, che fanno queste due chorde; conciosiache non sono in un'istesso luogo; quantunque siano alle fiate congiunte quasi in una istessa lettera sopra una istessa riga, ouero spacio; come altroue vederemo. Nominò dopoi la quarta C fa ut, & il resto per ordine, fino à Netehyperboleon, applicandoli vna delle prime lettere latine, A, r, ouer B, C, D, E, F, G; descriuendole nel primo ordine maiuscole, nel secondo picciole, & nel terzo raddoppiate; come nell'Introdottorio si uedono. Ma sopra Nete hyperboleon aggiunse altre cinque chorde nel terzo ordine; cioè, bb fa, ee mi; cc sol fa; dd la sol; & ee la; & fece questo per finire gli ultimi due Hexachordi, de i quali l'uno hà principio in f; & l'altro in g: & per tal modo le chorde Greche acquistarono altra denominatione. Fù tenuto tale ordine da Guido (com'io credo) forse non senza consideratione, applicando cotali Sillabe alle chorde sonore, moltiplicate per il numero Settenario; perche comprese, che nel Senario si conteneua la diuersità de i Tetrachordi; & che nel Settenario erano Sette suoni, ò uoci, l'una dall'altra per natural diuisione al tutto uariate & differenti; come si può vedere, & udire nelle prime Sette chorde, le quali sono essentiali, & niuna di loro s'assimiglia all'altra di suono; ma sono molto diuerse. Questa diuersità conobbe il dottissimo Homero, quando nell'Hinno fatto à Mercurio disse:

Ma Sette chorde fatte di budella
Di pecore distese, che tra loro
Erano consonanti.


Cosi Horatio parlando all'istesso Mercurio, commemorò tali chorde con queste parole;

Tuque testudo resonare septem
Callida neruis.

Et se ben Theocrito pone, che la Sampogna di Menalcha pastore facesse Noue suoni differenti, quando disse:

Questa bella Sampogna, la qual feci
De Noue suoni.


Credo, che questo habbia fatto; perche (com'è manifesto & lo afferma Giouanni Grammatico) Theocrito scrisse nella lingua Doricale sue poesie, le quali cantandosi alla Cetera, ouer Lira, si cantauano nel Modo Dorio; che procedeua (secondo che uederemo nella Quarta parte) dal graue all'acuto, ò per il contrario, per un tal numero di chorde. Ma Virgilio suo imitatore, accordandosi con Homero, nella Bucolica espresse il numero di sette chorde solamente, dicendo:

Est mihi disparibus septem compacta cicutis
Fistula.


Et nel libro Sesto dell'Eneida toccò tal numero; quando disse,

Necnon Threicius longa cum veste sacerdos,
Obloquitur numeris septem dicrimina uocum.


Similmente Ouidio nel Secondo libro delle Trasformationi disse:

Dispar septenis fistula cannis.

Et però con giudicio (com'hò detto) esse Lettere da Guido furono replicate, & non variate; perche conobbe, che l'Ottaua chorda era simile di uoce alla prima; la Nona, alla seconda; la Decima, alla terza, & l'altre per ordine. E' vero, che non mancano quelli, che per le autorità addotte de i Poeti uogliono intendere le Sette consonanze diuerse, contenute nella Diapason; che sono l'Vnisono, il Semiditono, il Ditono, la Diapente, l'Hexachordo minore, il maggiore, & essa Diapason; & altri anco, che intendono il simigliante; lasciando fuori l'Vnisono; perche non è Consonanza propriamente detta; come vederemo al suo luogo; ponendoui la Diatessaron; le quali opinioni non sarebbono da sprezzare, quando fussero secondo la mente de tali autori, & non fussero lontane dalla verità; imperoche seguendo i Poeti indubitatamente l'opinione di Pitagora, di Platone, di Aristotele, & d'altri eccellentissimi Musici & Filosofi più antichi; non si può dire, che mai hauessero alcuna opinione, di porre il Semiditono, il Ditono, & li due Hexachordi nel numero delle Consonanze; per le ragioni dette di sopra. Ma s'alcun dicesse, che nella Diapason si ritrouano non solo Sette suoni, ò voci differenti; ma di più ancora; come si può uedere ne gli Istrumenti artificiali; il che arguisce contra quello, che di sopra hò detto; Si risponderebbe, ch'è uero, che tra la Diapason si ritrouano molti Suoni differenti, oltra i Sette nominati; ma tali Suoni non sono ordinati secondo la natura del genere Diatonico; ne meno sono acquistati per alcuna diuisione della Proportionalità harmonica.
























INTRODUTTORIO DI GVIDO Aretino ordinato secondo le diuisioni Pitagoriche nel genere Diatono Diatonico.

ISTITVTIONI HARMONICHE DEL REV. M. GIOSEFFO ZARLINO DA CHIOGGIA,
Maestro di Capella della Serenissima Signoria DI VENETIA. Seconda Parte. Capitolo 30. (MDLVIII)

12 febbraio, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 18

Molto Berlioz nel programma del diciottesimo concerto della stagione, in un Auditorium abbastanza gremito, a dispetto del freddo e del nevischio che in questi giorni deliziano Milano.

Per scaldare i motori dell'Orchestra – e per omaggio all'imminente ricorrenza pagana - si comincia con Le Carnaval Romain, ouverture scritta da Berlioz assemblando (mirabilmente!) spezzoni dello sfortunato Cellini. Qui il corno inglese – in cui soffia la bravissima Claudia Verdelocco - comincia a mettersi in mostra, esponendo il tema iniziale in DO maggiore, in attesa di farla poi da protagonista nel terzo tempo della Fantastica. John Axelrod lascia briglia sciolta all'orchestra, che produce tutto il fracasso possibile di questa esuberante partitura, il che strappa come giusto sonori applausi.

Seguono due serie di canti francesi musicati da Britten e Lutoslawski, e interpretati da Ian Bostridge.

Invertendo la sequenza annunciata, Bostridge parte da Lutoslawski, di cui propone le Paroles Tissées di Jean-François Chabrun. Sono quattro arazzi poetici liberamente ispirati al poema medievale La Châstelaine de Vergy, una breve ma struggente storia di amore e morte dei tempi di Tristano, i cui riferimenti nei versi di Chabrun sono peraltro labilissimi (il poeta novecentesco nomina gatti, quaglie, pernici, cavalli, galli, quando invece nel racconto medievale il protagonista, a suo modo, è un cagnolino…) Orchestra ridottissima (archi in formazione da camera, pianoforte, arpa e percussioni) per questi pezzi da Sprechgesang, qualcosa che richiama di lontano lo schönberghiano Pierrot. Suoni isolati, per lo più acuti, del tenore, che cadono come gocce nello stagno, o sui diversi tappeti (per stare al titolo) di suoni dell'orchestra. Certo, musica difficile da digerire, se quasi dopo un secolo ancora ci resta sullo stomaco anche Schönberg.

Dell'autore di Peter Grimes ascoltiamo le Quatre chansons françaises: sono poemi, alternativamente di Hugo e Verlaine, musicati nel 1928 da un ragazzino (quindicenne!) con una maestrìa davvero sorprendente. Qui l'orchestra è quasi al completo, il tessuto è assolutamente diatonico, come sarà del resto tutta l'opera di Britten. Bostridge mostra in questi lieder la chiarezza e la leggerezza della sua voce da tenorino, che gli merita calorosi applausi.

Infine, la fantastica Fantastica del complessato Hector. Opera rivoluzionaria – per il suo tempo – e anticipatrice di tanto Liszt e altrettanto Wagner. A partire dall'impiego di un vero e proprio Leitmotif (l'idea fissa) che si presenta come primo tema della forma-sonata iniziale, e poi ritorna ossessivamente in ogni successivo movimento. Per seguire con il lungo e sonnecchiante lamento del corno inglese nella Scène aux champs, così magistralmente ripreso – in chiave di desolazione - dal mago di Lipsia nel conclusivo atto del suo massimo capolavoro.

E proprio il terzo movimento della sinfonia è stato affrontato e presentato in modo oserei dire impeccabile, con quel duetto fra il corno inglese e l'oboe, uscito temporaneamente di scena e che fa udire il suo suono da dietro la quinta, cui subentra il dolcissimo tema in FA, esposto dal flauto e dai violini:




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È un movimento, questo, che ad un ascolto disattento e deconcentrato risulta noioso e prolisso, quanto invece è straordinario e sublime se lo si segue (e prima ancora, lo si esegue) con la dovuta cura. C'è spazio per tutti gli strumenti, che diventano di volta in volta solisti, come i fagotti, dopo clarinetti e corni, oboe e flauto. Emozionante davvero il tremolo (très serré) con cui violini e viole preparano l'ingresso dell'idée-fixe in flauto e oboe e poi la sospingono fino all'apice (i due poderosi accordi sul SOL e il LAb) da dove l'incantesimo finisce, con le semicrome che discendono la scala cromatica, in sincope, fino ad arenarsi sul lungo REb dei violoncelli. Dolcissimo e nobile il ritorno dell'Idée, variata, come una cadenza, in flauto, poi clarinetto e quindi oboe, prima della transizione alla coda, dove sono i quattro timpanisti a farla da padroni, intercalandosi con il lamento del corno inglese per portarci cupi rimbombi di tuono, che restano però lontani, salvo che per una battuta (poco sforzato) prima che il DO del corno chiuda la scena, accompagnato da due accordi di FA maggiore degli archi.

Ecco, solo questo movimento valeva tutta la serata. Non che prima le cose non fossero andate altrettanto bene. Rêveries-Passions (dove Axelrod ci ha risparmiato il ritornello dell'esposizione, cosa piuttosto sensata) e Un Bal ci sono stati offerti con grande efficacia, senza enfasi né gigionerìe, ma con assoluto rispetto dei tempi e dell'agogica.

Infine, nei due movimenti conclusivi, grande sfoggio di sicurezza e abilità da parte di tutti, ma sempre mantenendo equilibrio ed evitando facili esagerazioni cui la partitura presta il fianco in abbondanza. Insomma, una grande esecuzione, che si è meritata vere ovazioni per tutti i professori, chiamati quasi ad uno ad uno da Axelrod, e per lo stesso Maestro, che merita di sicuro un posto di primo piano fra i direttori di oggi.

Con il prossimo concerto si resta nel grandissimo repertorio, e sul suo podio ritorna Xian Zhang.

11 febbraio, 2010

Un po’ di avanspettacolo alla Scala

Datosi che il glorioso Teatro Smeraldo non ne propone più ormai da qualche lustro, La Scala ha pensato bene di offrire un po' di avanspettacolo, presentando il DonGiovanni di Mussbach.

Di Mozart! mi correggerete.

No no, di Peter Mussbach. Perché è della regìa che conviene subito dire. Il nostro è – attenzione – un uomo di cultura (ha insegnato o insegna regìa teatrale in diverse Università) mica un ciarlatano alla Calixto Bieito (tanto per intenderci). Ma anche lui, purtroppo, predica bene e razzola male. Oppure è vittima del dilemma fra due estremi: allestire uno spettacolo che sia facile da capire, da parte del supposto popolo-bue che frequenta i teatri, o invece cercare di far emergere il vero sostrato dell'Opera, quello che si cela sotto la sua crosta esteriore, ma così rischiando di non essere capito – sempre da quel popolo-bue - e di incappare in un flop. Orbene, il regista ha chiaramente deciso per la prima soluzione. E così ha messo in scena uno spettacolino piacevole, quanto quelli che si potevano vedere al vecchio Smeraldo.

Vieni avanti, cretino! Ecco, i non pochi recitativi con protagonisti DonGiovanni e Leporello sono tutti su questo stile. Compreso l'impiego di urlacci al posto del cantato nel quale Mozart aveva posto altrettanta cura che nelle arie.

Nel DonGiovanni aleggiano eros e sesso, giusto? Infatti ne vediamo parecchio, però tutta roba innocente, non vietabile ai minori di 14: strusciamenti, sbaciucchiamenti, qualche posizione copulativa, una mano infilata sotto una gonna… insomma nessuno scandalo (appunto, Mussbach non è Bieito). Così però non si capisce perché alla fine il povero Don debba andare all'inferno, e perché soltanto lui. Ma in questo tipo di varietà non si deve far caso al libretto e ai suoi reconditi significati, vero?

Nel DonGiovanni è rappresentata una società rigidamente divisa in classi? Come no, però ciò accadeva più di 200 anni fa, oggi siamo in democrazia. Così la simpatica DonnaElvira, che bisogna far capire essere una viaggiatrice, si fa un 800Km (da Burgos a Siviglia) in Vespa. E pensare che lei è una nobile! Come minimo, ai tempi nostri, viaggerebbe in Bentley o in Bugatti, o in Isotta-Fraschini. In Vespa, caso mai, dovremmo veder arrivare Masetto, con Zerlina seduta dietro, di traverso. Ma qui siamo allo Smeraldo, non dimentichiamolo! C'è una festa in casa di un nobile, dove sono invitati dei plebei? Perdinci, Mozart ci scrive un pezzo su cui sono stati scritti metri di enciclopedie, con tre orchestre che suonano contemporaneamente tre diverse danze, e con i ballerini meticolosamente accoppiati secondo le consuetudini, ma con qualche rivoluzionaria libertà! Ma non è roba da avanspettacolo, diciamolo pure, e qui basta mostrare un po' di confusione, che va tutto bene!

Bisogna comunque capirlo, il povero regista. Lui mica può – con qualche mossa degli interpreti – spiegarci tutto ciò che è scritto in quintalate di libri sul DonGiovanni. E poi, casomai, toccherebbe al Kapellmeister di rendere chiaro e visibile ciò che il DonGiovanni è, poiché è la musica, molto più che i gesti, a determinarlo. Ma anche lui, il povero direttore, non può mica premettere alla recita una lezione di due ore, leggendo ad esempio l'analisi di Roman Vlad, o capitoli e capitoli di Massimo Mila! Insomma, restiamo con i piedi per terra e accontentiamoci.

Quanto alle scene, è evidente – data la complessità del libretto – che un approccio minimalista rende la vita facile a tutti, compreso il pubblico che non si deve sorbire continue pause e rumori molesti dietro il sipario, per i mille cambi che si renderebbero necessari. Se poi così si perdono piccoli dettagli, quali la spiegazione della troncatura iniziale del minuetto (suonato dall'Orchestra sopra il teatro) chi se ne frega, tanto perché si devono offrire perle ai porci?

Dalla foggia dei costumi si deve dedurre che i responsabili della messinscena considerano il DonGiovanni precisamente un'opera buffa.

Adesso, la musica.

A chi deve esibirsi di fronte ad un uditorio viene insegnato che sono decisivi i primi 7 secondi: se si cattura subito l'attenzione e l'interesse del pubblico, si può sperare di avere qualche successo; se no, l'uditorio è perduto per sempre. Ecco, il nostro Louis Langrée ha clamorosamente ciccato le prime 4 battute dell'ouverture, attaccandole come un Allegro, e mancando del tutto il famoso effetto baratro determinato dalla semiminima che viole, celli e bassi tengono in più, rispetto a violini, fiati e timpano. Fatta la cappella (per giustificare il titolo di maestro di cappella, appunto) il nostro si è alienato per sempre le simpatie del loggione, che lo ha spietatamente buato alla fine.

Erwin Schrott è certamente un Don di grande statura. Sul piano fisico, nessun dubbio. Su quello del canto, io gli darei tranquillamente un bel 7+. Attenzione però: datosi che tutto è relativo, per uno come lui che ha fama (e marketing, e cachet) da 9, significa galleggiare sopra la mediocrità. Applaudito, solo alla fine, ma senza ovazioni, nonostante lui abbia sparato più di un bacio verso il loggione.

Ecco, il Leporello di Alex Esposito è uno dei pochi personaggi che – selon moi – la sufficienza se la è meritatamente sudata (gli darò 7-): discreta impostazione, esperta padronanza del ruolo, a dispetto di una voce troppo chiara. Per lui sì, un'ovazione, oltre all'applauso a scena aperta dopo il Catalogo.

Pure discreti il Masetto di Mirco Palazzi (6-7) e il Commendatore di Georg Zeppenfeld (6+).

L'invertebrato DonOttavio era Juan Francisco Gatell Abre, che ha persino avuto un timido applausetto a scena aperta, dopo la sua Il mio tesoro. E accoglienza discreta alla fine. Per me non troppo meritata (6--).

La DonnaAnna di Carmela Remigio non mi è dispiaciuta in generale (7-). Dopo il Non mi dir un battimano se lo sarebbe meritato, ma non è arrivato, così come freddina (ma non ostile) è stata l'accoglienza dedicatale all'uscita.

Sorpresa lei per prima la Emma Bell (DonnaElvira). A dispetto di una voce indisponente e di chiare manchevolezze, si è avuta un applaus(in)o a scena aperta (Mi tradì) e una calda accoglienza finale. Io invece le rifilo un bel 5.

La Zerlina di Veronica Cangemi senza infamia, né lode: dopo il Batti, batti qualcuno ha cercato di applaudire, ma subito sopraffatto da fischi e buh. Per me era meglio il silenzio e basta (5-6).

Bene il coro di Casoni, una sicurezza.

Al tirar delle somme, uno spettacolo appena appena mediocre, che è – se non proprio la dichiarazione di bancarotta di certi proclami (più che programmi) della sovrintendenza del Piermarini – testimonianza di gestione superficiale, o velleitaria.

E a proposito di programmi, visto che siamo ad un quarto del cartellone 2009-2010 (12 opere in tutto, poi ci sarà la Carmen2) è il momento – per me - di tirare un primo (parziale) bilancio. Che mi sento di giudicare più sul negativo che altro, se l'unica sufficienza complessiva ai miei occhi l'ha meritata un vecchio Rigoletto, dopo una Carmen-disastro e questo inconsistente Don.

Non ci resta che sperare in Janacek, Berg e nel …dio-Wagner!

10 febbraio, 2010

Il Faust di Schumann alla Scala

Pinchas Steinberg è ospite e guida della Filarmonica per una rara esecuzione delle Faust-Szenen di Robert Schumann (di cui ricorre quest'anno il bicentenario dalla nascita). Dopo il primo di sabato 6, trasmesso da RAI3, ieri sera è stata la volta del secondo concerto, in un Piermarini non propriamente affollatissimo e – cosa invero sconsolante – ulteriormente arricchitosi di posti vuoti dopo l'intervallo. Questi concerti sono intercalati a recite del Don Giovanni, e la cosa non può essere casuale, dati i legami – sotterranei e non – fra queste due figure rese immortali da sommi letterati e musicisti.

Le Szenen sono un sunto della sterminata opera di Goethe: disegnano, dopo l'ouverture, i profili di Gretchen (parte I) e di Faust (parte II) con interventi di Mephistopheles e altri personaggi. Nella conclusiva parte III è musicata la scena finale (proprio come farà Mahler nella seconda parte della sua ipertrofica Ottava sinfonia). Faust è stato oggetto di attenzione di numerosi musicisti ed è al centro di innumerevoli opere, da Gounod (lo risentiremo proprio alla Scala in questa stagione) a Berlioz, a Boito, per citare solo le principali di una lunga lista. Sul versante cameristico, ci si sono cimentati, fra gli altri, Schubert e Beethoven. Su quello sinfonico-corale, oltre a quest'opera di Schumann sono rimaste nei programmi dei concerti l'Ottava di Mahler, la Faust-Sinfonie di Liszt e più raramente la modesta Eine Faust-Ouverture di Wagner.

Schumann ha personalmente articolato così il suo bigino del Faust:

Ouverture composta fra il 1847 e il 1853.

Sezione I composta nel 1849: presentazione di Gretchen (Margarete) in 3 scene:

1. Scena nel giardino: protagonisti Gretchen, Faust, Mephistopheles e Marthe. Impiega versi del Faust I (Garten) a partire dalle parole di Faust Du kanntest mich, o kleiner Engel, per proseguire con lo spetalamento del fiore (l'astro) da parte di Margarete (m'ama, non m'ama) e termina con versi di commiato tratti dalla successiva scena Ein Gartenhäuschen.

2. Gretchen davanti all'immagine della mater Dolorosa: protagonista la sola Gretchen. Versi tratti dal Faust I (l'intera Zwinger).

3. Scena nella cattedrale: protagonisti Gretchen, lo Spirito maligno e il Coro. Versi dal Faust I (l'intera Dom).

Sezione II: presentazione di Faust in 3 scene:

4. Ariel, sorgere del Sole (1849): protagonisti Faust, Ariel, Soli e Coro. Impiega versi del Faust II (Atto I, una parte di Anmutige Gegend).

5. Mezzanotte (1850): protagonista Faust con Mangel (carestìa), Schuld (colpa), Sorge (ansia), Not (bisogno). Versi tratti dal Faust II (Atto V, una parte di Mitternacht).

6. Morte di Faust (1853): protagonisti Faust, Mephistopheles, gli Spettri (i lémuri) e il Coro. Versi tratti dal Faust II (Atto V, una parte di Grosser Vorhof des Palasts).

Sezione III composta nel 1847:

7. Trasfigurazione di Faust: è il Bergschluchten del finale Faust II, suddiviso da Schumann in 7 numeri:

1. Waldung, sie schwankt heran (Coro),

2. Ewiger Wonnebrand, Glühendes Liebeband (Pater Ecstaticus),

3. Wie Felsenabgrund mir zu Füßen (Pater Profundus, Pater Seraphicus e Coro dei Fanciulli Beati),

4. Gerettet ist das edle Glied (Angelo, Angeli Novizi, Angeli Perfetti, Fanciulli Beati, Coro),

5. Hier ist die Aussicht frei (Doctor Marianus),

6. Dir, der Unberührbaren (Doctor Marianus, Coro, Mater Gloriosa, Coro delle Penitenti, Magna Peccatrix, Mulier Samaritana, Maria Aegyptiaca, Una Poenitentium, Fanciulli Beati, Gretchen),

7. Alles Vergängliche Ist nur ein Gleichnis (tutti).

Diciamo la verità: un'opera abbastanza sofferta e un poco farraginosa (come dimostrano la lunga gestazione e una seconda elaborazione dell'ultimo numero, che non ha preso piede). Salvo l'Ouverture, in forma sonata, per il resto è qualcosa che assomiglia ad un oratorio, con grandi arcate melodiche ad appoggiare le voci dei soli e dei cori, ma senza temi musicali che caratterizzino personaggi o atmosfere e che quindi tornino, rielaborati, a farsi sentire. Ci si trovano atmosfere familiari di altre opere dello stesso Schumann (la Peri, la Rosa) ma anche tanto Mendelssohn degli oratori, o della Lobgesang. Siamo in pieno in quell'inconfondibile mondo germanico romantico della prima metà '800, che ha prodotto tante cattedrali, o affreschi musicali, come questo.

Personalmente – restando all'oggetto-Faust musicato per concerto e non per palcoscenico - trovo più interessanti, perché meglio strutturati, gli approcci successivi di Liszt e Mahler. La Faust-Sinfonie del primo, quantunque pletorica, e con il Coro finale appiccicatole a posteriori, ha il pregio di scolpire mirabilmente le figure dei due personaggi principali (Faust e Gretchen) e di quel Mephistopheles che invade come un virus la personalità di Faust. La seconda parte dell'Ottava di Mahler, per quanto rechi tratti di insopportabile magniloquenza, ha però il pregio di esporre il Bergschluchten con un approccio assolutamente sinfonico, con sapientissimo trattamento dei vari temi, collegati anche all'inno di Hrabanus; insomma: un corpus organico e perfettamente scolpito, cosa che mi pare non siano le Szenen.

Per curiosità ecco come Schumann, Liszt e Mahler attaccano il coro finale, che esalta l'eterno femminino:










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Tornando a ieri sera, sono in ogni caso da elogiare tutti gli esecutori: cantanti, cori e professori, stipati come sardine nel pur enorme palcoscenico scaligero. Il Maestro Steinberg (che porta curiosamente un anello al dito indice della mano destra…) ha diretto con gesto secco e autorevole – dal drammatico RE minore dell'attacco dell'Ouverture, fino al conclusivo FA maggiore, esalato in pianissimo - queste masse imponenti, coadiuvato dal sempre grande Casoni, preparatore dei cori: al solito, impeccabile quello adulto, ma bravissimi anche i ragazzi di Alfonso Caiani, che hanno parti assai difficili.

Delle voci soliste principali, Michael Volle (Faust, Marianus e Seraphicus) ha mostrato grande autorità, anche se la sua voce è parsa un poco debole nelle note gravi. Bravissima Dorothea Röschmann (Gretchen e Una Poenitentium) voce calda e bene impostata, in tutti i registri, e grande portamento. Buono anche Dimitri Ivashchenko come Mephistopheles, Böser Geist e Profundus, anche se di voce non proprio potentissima. Gli altri su standard più che accettabili. Insomma, tutti hanno concorso a riproporci questo non-proprio-un-capolavoro con grande cura e amore. Meritatissimi quindi gli applausi e le ovazioni che hanno accolto l'esecuzione, sia dopo il blocco delle prime due parti, che al termine.

Dopo il cerebrale Faust, questa sera toccherà al suo sensuale alter-ego .

05 febbraio, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 17

Tutto Shakespeare nel programma del diciassettesimo concerto della stagione. Programma evidentemente di appetibilità dubbia, visto che lascia un Auditorium purtroppo assai poco affollato. (Pochi, ma buoni ?!)

Eric Wolfgang Korngold è un musicista particolare, essendo nato a Brno e cresciuto nella Vienna e nella Mitteleuropa tardo-romantica di Mahler, Strauss, Zemlinsky, per poi trasferirsi – geograficamente, ma anche artisticamente - a Hollywood per dedicarsi, con grande successo, alle musiche da film. Della sua notevole produzione – fu un autentico bambino-prodigio - viene qui presentata la Suite di musiche di scena per Much ado about nothing, scritta nel periodo viennese, quasi contemporaneamente alla sua opera più famosa, Die tote Stadt, ancora oggi abbastanza eseguita. Questa di Shakespeare – Molto rumore per nulla - è una commedia degli equivoci e dei tiri burloni, ma anche dei doppi sensi a sfondo umoristico o volgare (il nothing del titolo può essere interpretato, in gergo elisabettiano, come 'n O-thing, in italiano sorca, passera, vulva… insomma, ci siamo capiti).

La Suite prevede un'orchestra con organico ridotto. In particolare – nella sezione archi - Grazioli schiera il puro quartetto; più nutrite le sezioni di fiati e percussioni; l'arpa è in prima fila a sinistra e il pianoforte dietro, a destra. Consta di 5 brani: 1. Ouverture, che sembra già precorrere il futuro americano di Korngold (Broadway, per la verità, più che Hollywood); 2.La ragazza nella camera nuziale; 3. Dogberry e Verges (il capo della polizia di Messina e il suo braccio destro, due tipi alla totò&peppino); 4. Intermezzo (assai straussiano); 5. Masquerade (il ballo mascherato organizzato dal governatore di Messina, dove sembra di sentire atmosfere mahleriane da Wunderhorn). Il tutto dura circa un quarto d'ora, ma per Grazioli è un bel modo per rompere il ghiaccio, con questa musica leggera e orecchiabile.

Accantonato per il momento il grande di Stratford (salvo che per la geografia) si passa a William Walton, un nostro contemporaneo (scomparso 27 anni fa) autore di ogni tipo di musica ("basta che mi paghino, io scrivo di tutto e per tutti" pare confessasse candidamente il nostro) inclusa quella da film, dal 1920 ai primi anni '80. E anche amico dell'Italia, avendo soggiornato parecchio, fino alla morte, in una specie di esilio dorato, a Forio d'Ischia, di cui ci resta la perenne eredità del giardino botanico della Mortella. Walton ebbe l'onore di rappresentare una sua opera (Troilus and Cressida, scritta per emulare il Peter Grimes di Britten) nientemeno che alla Scala (1956) e in versione ritmica italiana predisposta nientemeno che da Eugenio Montale. Sfortunatamente con esito catastrofico, dalla seconda moglie argentina (Susanna) attribuito alle défaillance della soprano, a suo dire capitata a cantare proprio durante il suo ciclo mestruale (!?!)

Guarda caso, questa settimana la BBC gli dedica una mini-serie (Composer-of-the-week) con quotidiane trasmissioni – ascoltabili per 7 giorni, on-demand - delle sue opere più importanti e proprio ieri ha trasmesso il Concerto per Violoncello, composto a Forio d'Ischia nel 1956 in omaggio (retribuito 300 dollari!) al grande Gregor Piatigorsky. Qui un'esecuzione del dedicatario (forse già pentitosi di aver sborsato quella sommetta per un simile concerto?): 1.mov; 2.mov; 3.mov-a; 3.mov-b.

Steven Isserlis, britannico e quindi con affinità elettive con l'Autore, ci ha intrattenuto con maestrìa e – nel secondo movimento, Allegro appassionato, come nelle due lunghe cadenze nelle variazioni del terzo - ha fatto sfoggio di tutto il suo virtuosismo, porgendoci al meglio questa musica, al primo ascolto abbastanza ostica, ma pur sempre ancorata a forme e strutture tradizionali, più vicina a Stravinski che non a Boulez, tanto per semplificare al massimo. Chiamato da applausi insistenti, Isserlis ha gentilmente concesso un bis: ha posato l'archetto ed ha letteralmente aggredito con le 10 dita le 4 corde dello strumento, in un vorticoso pizzicato. Che gli ha meritato ulteriori applausi.

Dopo l'intervallo è la volta di Hamlet, la Suite dalle musiche di scena scritte da Dimitri Shostakovich nel 1932. È il primo di una serie di lavori che il compositore dedicò alla tragedia shakespeariana. Sono 13 brani – poco più di un minuto a testa - di musica orecchiabile, quasi da balletto, con largo impiego di percussioni, di uno Shostakovich che sta arrivando alla maturità (ha appena composto la Lady Macbeth) e il cui caratteristico stile si riconosce da lontano e non si può non apprezzare.

Si chiude con Romeo&Giulietta di Ciajkovski, naturalmente la versione ultima del 1880, anch'essa profondamente influenzata da Balakirev, e che ha differenze strutturali rispetto alla prima, assai più semplice e più breve. È percorsa dai tre temi principali: padre Lorenzo, la guerra fra Capuleti e Montecchi e l'amore dei due protagonisti. Il primo dei temi – una specie di corale di marca tipicamente russa - è proprio la novità principale dell'ultima versione, e fa da collante per gli altri due, entrando con essi in dialogo. Anche il finale è diverso: intanto per l'ampliamento della riproposizione del tema dell'amore; poi, perché la prima versione chiude con due secchi accordi perfetti di SI maggiore, mentre l'ultima, dopo sei accordi in fortissimo, si conclude con un semplice, vuoto ma drammatico, SI naturale in tutti gli strumenti, arpa e flauti esclusi.

Oggi – magari senza conoscerne l'origine – molti ne hanno presente proprio il motivo del love-theme (esposto nell'opera dapprima in REb e poi in RE) perché impiegato in spot pubblicitari, oltre che come sottofondo in diversi film:


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Grazioli ne dà un'interpretazione coinvolgente, creando bene le diverse atmosfere che caratterizzano i temi principali: religiosa, arroventata (con formidabili interventi delle percussioni, piatti in testa) e strappalacrime. Ne esce un pezzo di grande effetto, come dev'essere, che guadagna agli esecutori altri calorosi applausi del pubblico.

Il prossimo concerto vedrà protagonista il fantastico Berlioz.