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da stellantis a stallantis

31 luglio, 2009

Il Ring di Bayreuth09 (III)

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Siegfried

Se per Rheingold avevo scritto di un discreta (quasi buona) torta, guarnita con qualche ciliegina acida, per questo Siegfried - ahimè – mi sa che devo ribaltare le proporzioni, giacchè le manchevolezze sono state tante e tali da superare le pur lodevoli qualità di fondo. Insomma, il pan di spagna della base è ben cotto, ma quasi tutte le ciliegine sono andate a male, la panna è in viraggio al rancido e il cioccolato sa troppo di vegetale…

Wolfgang Schmidt si era evidentemente ben mimetizzato nel Rheingold, uscendone senza troppi danni. Qui, dove per due atti la deve fare da protagonista: un disastro! Mime sarà pur un personaggio spregevole, e la sua parte fu certo scritta da Wagner per esaltarne questa miserevole dote, ma – vivaddio – è pur sempre una parte da cantare! Invece Schmidt ha quasi sempre berciato, urlato, emesso gridolini e risolini, lamenti, miagolìi e altri rumori vari. Tanto per esemplificare, basterà tornare con l’udito alla scena del battibecco con Alberich del secondo atto per capire la differenza che intercorre fra cantare (come ha magnificamente fatto Andrew Shore) e vociferare. Chissà, forse il nostro si è voluto vendicare per esser stato declassato dal ruolo di Siegfried – da lui coperto nelle precedenti stagioni - a quello della sua vittima.

Appunto, Andrew Shore: ha confermato in pieno, e non solo nella scena col fratello, ma in quella precedente, con Wotan e Fafner, di essere un grande Alberich, come voce e portamento adeguati al ruolo.

Così come pure Albert Dohmen, che al di là di un paio di FA eseguiti col cappio al collo, è stato ancora una volta un notevole Wotan, dotato di grande espressività del canto e di capacità di rendere al meglio la personalità complessa del capo degli dèi. In tutte le sue quattro apparizioni, ciascuna delle quali richiede una diversa ambientazione psicologica, mi è parso calarsi ottimamente nel personaggio.

Rimessasi dall’indisposizione che le aveva impedito di uscire dalla sua azzurrognola caverna nel Rheingold (dove aveva dovuto mandare in avanscoperta la Fujimura) Christa Meyer è tornata a farsi sentire come Erda, e mi è parsa la sua una prova rimarchevole, non solo nella precisione dell’esecuzione, ma anche nel pathos che la deve caratterizzare.

Due parole su Christiane Kohl, esordiente nel ruolo del Waldvogel (fa anche Woglinde e poi una delle escort nel Parsifal). Maliziosamente mi viene da dire che Wagner, pur non avendo indicato con precisione la specie del volatile, non pensasse di sicuro ad un gallinaceo! Intendiamoci, la ragazza non ha mancato una sola nota della sua parte assai difficile (su un pedale prevalentemente di 9/8 deve infilare tutta una serie di cambi e asimmetrie di tempo, proprio a simulare il ritmo del gorgheggio di un uccellino) però la sua voce – forte, profonda, stentorea - richiama quella di qualunque animale, tranne che di un piccolo pennuto! (A meno che la colpa non sia da addebitare ai microfoni della ripresa, ma ne dubito).

Veniamo adesso al povero Siegfried. Christian Franz mi ha assolutamente deluso. Anche lui, come il Mime che lo affianca nei primi due atti, ha spesso e volentieri urlato invece di cantare. E anche nella scena tòpica finale con Brünnhilde ha interpretato la parte di un burino selvaggio e pure arrapato, non quella di un ragazzo ignorante e incosciente sì, ma nel quale almeno l’istinto induce atteggiamenti poetici.

Linda Watson è da anni la Brünnhilde padrona di casa a Bayreuth: e ne rappresenta e sintetizza bene la contraddittoria gestione. Stento personalmente a darle la sufficienza, e non solo per il DO sporco della conclusiva lachender Tod (magari fosse solo quello…)

E ora le immangiabili ciliegine (ne cito solo un paio, ma proprio macroscopiche, ma ne ho segnato più di una dozzina…)

Nella scena della riforgiatura di Nothung si devono udire colpi di martello, ad accompagnare il lavoro e il canto di Siegfried. Sono un’infinità, ma tutti meticolosamente scritti da Wagner sul pentagramma: ne ho contati almeno una mezza dozzina o fuori posto o addirittura inventati. Se a batterli era lo stesso Franz, una nota di demerito in più… se era una controfigura, quindi uno strumentista, peggio ancora.

Era già successo credo un paio d’anni fa, ma si è ripetuto quest’anno: il corno solista che sporca miseramente il secondo attacco dell’assòlo nel secondo atto! E, come non bastasse, o forse in conseguenza dello stato ansioso indotto dal primo errore, ne infila altri due nel passaggio successivo, sul pedale del basso-tuba che annuncia il risveglio del drago. Un disastro davvero!

Chiudo con Thielemann. Cantiamo pure per fortuna che c’è Cristiano, perché altrimenti saremmo qui a chiedere il commissariamento del Festival! A parte i suoi ormai canonici marchi (sono come le pisciatine di un cane a delimitare il suo territorio) che lui ha scritto sulle sue partiture e a cui resta infallibilmente fedele (un esempio per tutti: i rallentando che lui fa sulle poderose entrate dei corni dopo i primi due Blase die Gluth della passacaglia della fusione) anche nel Siegfried è stato all’altezza della sua fama. Lui riesce in un’operazione che è una specie di sincretismo: senza nulla togliere alle caratteristiche fondamentali, storiche e fondanti della musica dei drammi wagneriani, e rimanendo un cultore convinto del cupo suono tedesco dell’orchestra, sa però introdurre elementi di lirismo e mettere in risalto particolari in modo assai appropriato. E soprattutto senza cadere in estremismi, quali le interpretazioni mozartiane, apprezzabili comunque, à la Karajan o quelle francamente deplorevoli, perché fatte impiegando strumenti di radiografia fabbricati a Darmstadt, à la Boulez. E forse Thielemann è per queste sue qualità debitore, almeno in parte, all’Italia, avendo trascorso parecchio tempo, negli anni della sua maturazione artistica, a Bologna e Roma.

Il pubblico in sala, che ha il vantaggio di giudicare l’effetto dal vivo e lo svantaggio di non poter disporre dei riferimenti oggettivi di ciò cui sta assistendo, ha portato tutti in trionfo con grandi ovazioni. Pace e amen.
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29 luglio, 2009

Il Ring di Bayreuth09 (II)

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Die Walküre

È unanimemente considerata la perla di tutta la tetralogia e Wagner stesso le assegnava il ruolo fondamentale all’interno del Ring. Specialmente sul piano drammatico-musicale contiene la summa del rivoluzionario pensiero wagneriano, basti ricordare la seconda scena dell’Atto II e poi la scena finale, sempre protagonisti padre e figlia (Wotan-Brünnhilde).

La prestazione della compagnia di Bayreuth mi è parsa di buon livello (non mi metto a tentare confronti, sempre opinabili e condizionati da mille fattori) anche perché da quattro anni, salvo modifiche fatte col bilancino, il cast è praticamente lo stesso, ormai perfettamente affiatato.

Endrik Wottrich (che continua a calcare il palco di Bayreuth anche dopo che la nuova co-direttrice Kathi lo ha lasciato per un pilota…) è un Siegmund assai solido e primitivo, per me incarna assai bene la natura del personaggio.

Eva-Maria Westbroek, che ha esordito lo scorso anno, è una Sieglinde discreta, che ha evidentemente ancora molta esperienza da fare, ma in complesso non mi sento certo di darle un’insufficienza.

E insieme ai due non si può non parlare del duetto d’amore dell’Atto I, una cosa sempre sconvolgente. Diverso, le mille miglia, da quello ancor più famoso del Tristan. Dove là c’è un approccio e uno scenario tutto cerebrale, psichiatrico verrebbe da dire, qui siamo nella più selvaggia e viscerale naturalità; qui non cantano i cuori nè le menti, ma gli istinti; qui non si distingue l’essere umano dalla natura circostante; qui si sente la carne, nel senso più materiale del termine, si vedono le vene delle tempie del maschio e i seni della femmina che si gonfiano sotto la forza dell’amore, ma l’amore istintivo, quello che il vecchio Sachs scopre nell’uccellino, che a maggio canta senza studiare, ma solo perché deve farlo, sotto l’impulso cogente della natura. Wottrich e la Westbroek, pur con qualche imprecisione di entrata lui e qualche urletto sulle note alte lei, hanno tenuto assai bene la scena, supportati da un’orchestra in stato di grazia, guidata da un grande Thielemann. A cui faccio – sempre, perché lui sempre così lo fa – un appunto sulla chiusura dell’atto, quelle due misure e mezza col LA-SOL dove lui tiene troppo - a mio modesto parere, ma espresso partitura alla mano – l’ultima semiminima, togliendo quell’effetto di schianto repentino (che dovrebbe ricordarci la schiavitù e la frustrazione…)

Kwangchul Youn è un Hunding compìto, se non proprio bonario (forse pensa già a Gurnemanz?) Grande voce ma senza quella rabbia e rozzezza che l’agiografia pretende dal personaggio. Per la verità, se si scava un poco nella partitura si potrebbe scoprire che il nostro non è in effetti un puro e incivile energumeno: se lo fosse, farebbe secco Siegmund già la sera del loro incontro, invece di ospitarlo a casa sua e addirittura lasciarlo solo con la moglie, andandosene tranquillamente a letto! Anche l’etimologia (equivoca, peraltro) del nome (Hund=cane) può esser vista dal lato buono, datosi che molti cani, se non quasi tutti, sono in fondo animali domestici e amici dell’uomo. Certo più dei lupi, specie animale cui si rifà l’eroe Siegmund!

Linda Watson è ormai da 11 anni ospite fissa del Festival, dove ha compiuto un percorso piuttosto strano: da Kundry a Ortrud a Brünnhilde. Devo dire che non mi ha convinto più di tanto, fin dai primi Hojotoho! E – microfoni innocenti? – ha anche stonacchiato i SI che precedono l’arrivo di Fricka. Poco efficace (al solo udito) il suo Zu Wotans Willen sprichts du, quell’autentica perla in LA maggiore che introduce il soliloquio di Wotan. Meglio ha fatto – credo io – nella scena conclusiva, quella della sua giustificazione e del suo confronto col padre, anche se in un altro passaggio topico (Der diese Liebe…) non mi è parsa impeccabile.

Il quale Wotan è qui bene reso da Albert Dohmen, che si deve far perdonare solo qualche piccola amnesia, con relativo scambio di parole, ma che supera di slancio le prove difficili, sia di puro canto (il SOLb del Gold!) che di espressione: le quattro prove a carico contro la figlia, principianti con Wunschmaid warst du mir; il sempre sbudellante Leb’wohl; lo straordinario Der Augen leuchtendes Paar e per finire il grandioso Wer meines Speeres Spitze fürchtet.

La Fricka di Michelle Breedt, alle luci del Rheingold aggiunge qui qualche ombra: è una parte relativamente contenuta come impegno, ma che per questo necessita della massima cura. Che la cantante non è sembrata esprimere in modo adeguato; un esempio per tutti il fondamentale Deine ewigen Gattin heilige Ehre, dove per la verità anche Thielemann – sempre ritenendo innocenti i microfoni – non è sembrato dare il massimo, su quelle terzine ribattute di violini e viole.

Le Walkirie (sempre le stesse, imperterrite, dal 2006!) han fatto bene la loro dovuta confusione. Una nota di colore extramusicale riguarda Waltraute: Martina Dicke viene nel Götterdämmerung ancora declassata a 2a Norna, per far posto a Christa Mayer, la mancata Erda della prima di quest’anno; evidentemente la svedese è ancora considerata inadeguata per la parte più solistica che la sorella di Brünnhilde deve sostenere nel Crepuscolo.

A proposito della cavalcata, qui avrei un altro appunto da fare a Thielemann. Lui ha ormai l’abitudine di introdurre un arbitrario rallentando al momento in cui arrivano Rossweisse e Grimgerde. È anche il momento in cui il poderoso contrabbasso tuba si aggiunge a tromboni e tromba bassa per esporre il tema in SI maggiore. Che l’effetto della personale dinamica del Maestro sia enorme, è garantito, però è lecito chiedersi chi o cosa avrebbe impedito a Wagner di scrivere uno Schwerer o qualcosa di simile sul pentagramma. Invece, nulla di nulla, probabilmente perché l’Autore pensò che bastasse l’ingresso del bassotuba, oltre al fortissimo di corni e strumentini, per creare l’effetto desiderato di accentuazione della pompa e dell’enfasi. Io – non c’è Thielemann che tenga – sto con Wagner (anche se non sto neanche con quei detrattori di Thielemann che lo accusano di tendenze, non solo artistiche, reazionarie).

Però tutto si può perdonare a Thielemann, dopo aver ascoltato passi come la grandiosa giustificazione (che segue lo stupefacente der freier als ich der Gott! di Wotan) e l’intero finale, dove nulla è fuori posto. L’emozione è qui davvero difficile da descrivere, la droga impossibile da neutralizzare…
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28 luglio, 2009

Il Ring di Bayreuth09 (I)

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Das Rheingold

Il ciclo nibelungico comincia con qualche patema. Allo stato d’animo non propriamente sereno di Thielemann (per la vicenda col comune di Monaco, a proposito della Filarmonica) si aggiunge all’ultimo momento la forzata rinuncia di Christa Meyer, che doveva impersonare Erda e così si deve urgentemente richiamare in servizio la Erda precedente (2006-2007) Mihoko Fujimura.

Il risultato è una più che discreta (arriverei quasi a dire buona) torta con sopra alcune ciliegine andate a male.

Thielemann compie un’impresa ragguardevole: impiegando tempi à la Boulez (nettamente sotto i 150’) riesce a produrre un Rheingold à la Knappertsbusch, con tutte le canoniche, tradizionali e doverose enfasi.

Ahilui, viene tradito dalla prima tromba che nell’esporre, nel solare DO maggiore, il tema dell’oro, incespica clamorosamente sul MI prima di arrivare al SOL: è come se sopra il pepitone d’oro fosse guizzato un luccio (la specie non è casuale, essendoci di mezzo Alberich) a spegnere per un attimo la luce solare che deve rendere abbacinante quella riflessa dall’oro… peccato! Il professore da qui in avanti non mancherà più una virgola, ma ormai la frittata era fatta.

Andrew Shore è un Alberich di tutto rispetto, a cominciare dalla pronuncia, cosa non secondaria in Wagner.

Albert Dohmen (Wotan) ha pure lui la sua buona torta con alcune ciliegine marce: in una prestazione complessivamente all’altezza, è deplorevole il suo impappinamento proprio sulla frase divenuta quasi un motto (Vollendet das ewige Werk!) dove, magari mal supportato da Thielemann, non riesce a sincronizzarsi con le tube che espongono il tema del Walhall; più avanti mostra qualche amnesia, scambiando parole, fino al silenzio assoluto (non credo ci sia stato un black-out microfonico solo per lui) sulla frase Den Hort und dein helles Gold, all’inizio del “processo ad Alberich” nella Scena IV.

Note non esaltanti per la Freia di Edith Haller, troppo urlante (per lei non può reggere la scusa della paura che le fanno i giganti che la inseguono…)

Bene Michelle Breedt, in un ruolo (Fricka) forse più adatto a lei di quello in cui l’abbiamo ascoltata sabato (Brangäne).

Note positive per il Mime di Wolfgang Schmidt, per il quale sta prendendo corpo una perfetta legge del contrappasso: dopo aver per anni (dal 1995 al 2004!) interpretato Siegfried, ed aver quindi fatto ripetutamente secco il povero Mime, quest’anno toccherà a lui di cadere miseramente sotto il fendente della Nothung brandita da Christian Franz.

Un altro che non mi è affatto dispiaciuto è il Loge di Arnold Bezuyen, voce e portamento assai appropriati alla personalità del fetente consigliere di Wotan.

La improvvisata (ma non troppo, dati i precedenti) Erda di Mihoko Fujimura ha onorevolmente sostenuto la sua parte, però qui la pronuncia e il conseguente canto non sono irreprensibili.

Kwangchul Youn è stato un ottimo Fasolt, il gigante raffinato e innamorato, che soccombe al truce fratello Fafner, qui interpretato da un modesto Ain Anger. Al bravo coreano tocca poi un altro ruolo di soccombente (Hunding in Walküre) ma si rifarà da assoluto protagonista vestendo i panni di Gurnemanz.

A proposito dell’ammazzamento di Fasolt, la partitura prescrive che siano il timpano (principalmente) insieme a viole e archi bassi a sottolineare i rantoli finali del gigante che tira le cuoia dopo che il fratello lo ha abbattuto, assestandogli un tremendo colpo di bastone. Gli strumenti suonano in sincronia perfetta per due misure e mezza. Ebbene, in questa esecuzione si sono sentiti dei colpi (verosimilmente in scena, non in orchestra) vibrati esattamente in corrispondenza delle pause delle parti strumentali (le ultime del timpano, in particolare) quindi in perfetta sincope con le note. Un dettaglio trascurabile e perdonabile?

Gli altri e altre interpreti hanno portato a casa lo stipendio con dignità, in specie il Froh di Clemens Bieber, che se l’è cavata discretamente nell’etereo Wie liebliche Luft… Le ondine piuttosto anonime, e poco efficaci - secondo me – specie nell’accorato appello finale.

Tornando a Thielemann, si è risparmiato quei (pochi) gigioneggiamenti che in altre occasioni lo hanno caratterizzato, e ciò torna ulteriormente a suo merito. A Monaco dovrebbero pensarci bene prima di cacciarlo nel 2011!
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27 luglio, 2009

Bayreuth: week-end di apertura


In assenza di nuovi allestimenti, la programmazione di quest’anno presenta le ultime 7 opere di Wagner, cioè l’intera produzione “rivoluzionaria” del maestro. Il programma delle prime è schematicamente suddiviso in tre blocchi:

1. Tristan e Meistersinger (25 e 26 luglio)
2. Ring (27, 28, 30 luglio e 1 agosto)
3. Parsifal (2 agosto).

Si può quindi fare un primo bilancio del week-end appena trascorso.

Un bilancio piuttosto deludente, tutto sommato, anche se nessuno poteva illudersi di godere di mirabilie da regìe e cast in gran parte già (tristemente) noti dalle precedenti stagioni. La stessa stampa vicina al Festival ha riconosciuto fin dall’inizio che l’aspetto più interessante dell’edizione n°98 consisteva nella presenza delle sorellastre Kathi ed Eva sul ponte di comando, a rimpiazzare il vecchio ed ormai (e non da poco) rincoglionito Wolfgang, del tutto impossibilitato a reggere il festival dopo la morte della seconda moglie (Gudrun) che da anni e anni era Festspielleiterin di fatto. Peraltro, dato che scelte e contratti si fanno con anni e anni di anticipo, molta della futura produzione sarà comunque, poco o tanto, influenzata dalle scelte della precedente direzione.

Dunque, si è aperto sabato con Tristan, una ripresa dell’allestimento 2005 di Marthaler, con Schneider sul podio. Chi ha un minimo di dimestichezza con Wagner ne ha dato giudizi severi, financo sprezzanti. Personalmente salverei Robert Dean Smith, un Tristan più che discreto, che non è bastato a sollevare il livello mediocre del tutto, a partire da Schneider, un Kapellmeister di quelli che lo stesso Wagner definiva “quadrupedi che sanno battere il tempo”.

Naturalmente, come in tutte le prime, c’è l’aspetto mondano che finisce per distorcere ogni giudizio. E così, se ascoltiamo le interviste fatte a caldo, durante e dopo la rappresentazione, ai vari vip intervenuti, non ascoltiamo altro che panegirici e iperboliche lodi. Una specie di Wanda Osiris teutonica che giudica eccezionale la Isolde (men che mediocre) della Theorin, un ministro che parla di livello artistico assoluto, il sindaco di Bayreuth, abbigliato con collare da sommelier, che esalta i secolari meriti della sua città, un capo di partito che non trova aggettivi adeguati per lodare tutto e tutti… Insomma, tutta gente che era lì a sbafo, con l’occasione di mettersi in mostra in TV, e dalla quale certo non ci si possono aspettare giudizi sereni (e soprattutto competenti!)

Ieri è stata la volta dei Meistersinger. Devo onestamente riconoscere parecchi meriti a questa performance, a partire da Sebastian Weigle, che sarà pure un imitatore di Knappertsbusch o più modestamente di Thielemann, ma insomma ha saputo estrarre parecchi dei tesori per nulla nascosti di questa sterminata partitura. Il terzo atto, pur tirato ad una lunghezza da record, non solo non (mi) ha annoiato, ma anzi (mi) ha parecchio convinto. Alan Titus è stato un buon vecchio Sachs, peraltro sempre impiccato sui FA e, alla fine, anche sui MI, l’ultimo dei quali (sul famigerato römsche Reich) esalato tramite puro stringimento di… sfintere. Piacevole sorpresa il David di Ernst, onesto il Beckmesser di Eröd, che nell’esposizione del grottesco lied ha mostrato parecchie incertezze, ma in questi casi non sai mai se sono effettive deficienze, o il tentativo di interpretare al meglio la caghetta che attanaglia il personaggio al momento di salire sul terrapieno che fa da palcoscenico per la tenzone canora. Discrete le primedonne e gli altri.

Insomma, un’edizione dignitosa. Ma solo se ascoltata per radio. La regìa della novella co-direttrice Katharina (cui farebbe bene una buona dose di educazione della bisnonna Cosima, il che è tutto dire…) è stata accolta da urla, invettive, buh e parolacce da un pubblico che, a differenza di quello del giorno prima, oltre che pagare il biglietto, ha aspettato in media 8 anni per poter finalmente entrare nel sacro tempio e poi cosa ti trova? Eva e Lene, abbigliate con caschetto alla Caterina Caselli, che sorseggiano un tè sedute ad un tavolino in fòrmica e acciao di un moderno bar; Hans Sachs che canta imperterrito “io sono un ciabattino e devo preparare le scarpe per Beckmesser” nel mentre che pigia freneticamente i tasti di una macchina da scrivere anni ’50; i maestri della sacra arte tedesca rappresentati da caricaturali pupazzi nella scena finale. Insomma, il trionfo del più bieco Regietheater. E visto che questa regista è oggi la co-direttrice dell’intero baraccone, c’è da temere il peggio (ammesso che di peggio si possa fare) quando inviterà gente come Bieito o Alden, o Guth, o altri dissacratori di professione (oltre al già collaudato Schlingensief), a inscenare le opere del bisnonno (che avrà così una ragione in più per rivoltarsi ancora nella tomba, dopo tutto ciò che gli è capitato di subire dal giorno stesso della sua dipartita).

Oggi pomeriggio (ore 18) inizia il Ring, che ci accompagnerà per l’intera settimana (riposo mercoledi e venerdi). Una produzione al 4° anno di vita, quindi assai collaudata. A noi ascoltatori interessa poco la regia di Dorst (piuttosto criticata gli scorsi anni, forse perchè non abbastanza dissacrante?) mentre ci aspettiamo grandi cose da Thielemann. Il quale – sul fronte Münchner Philharmoniker – sembrerebbe disposto a fare qualche concessione pur di rimanere anche dopo il 2011. Prepariamoci quindi al MIb grave dei 4 secondi contrabbassi, il nordico Ginnungagap, da cui prende vita la più stupefacente storia mai scritta dell’universo, dell’uomo e della sua psiche, ma soprattutto… della musica!


23 luglio, 2009

Ultime da Bayreuth (e non solo…)


Christian Thielemann, beniamino dei Wagner ed assai influente nelle scelte musicali di Bayreuth, dirigerà i tre cicli del Ring 2009 da “licenziato”.
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Non da Bayreuth, peraltro. L’estensione oltre il 2011 del suo contratto di Direttore Musicale dei Münchner Philharmoniker è stata bocciata dal Comune di Monaco (principale sponsor dell’orchestra). Il disaccordo nasce dalla richiesta di Thielemann di contare di più (del sovrintendente Müller…) nelle scelte che riguardano la programmazione musicale dell’orchestra, che solo per il 30% lo impegna direttamente come Kapellmeister. Insomma, l’eterno scontro fra l’artista e il manager, due ruoli che difficilmente riescono a convivere armoniosamente. Così si parla di un suo prossimo trasferimento a Dresda, che Fabio Luisi lascerà libera (per muovere a Zurigo nel 2012): una destinazione che ai tedeschi sembra assai appropriata, date le idee assai precise del maestro, riguardo l’antico, oscuro suono tedesco, di cui la Staatskapelle è da sempre portatrice.

Sul fronte del Festival, nessuna novità sulle trattative sindacali, che ancora non hanno dato esiti, ma che continueranno fino all'ultimo minuto. C’è da scommettere (e da sperare?) che the show will go on. E infatti, in serata, si apprende della positiva conclusione della trattativa.

Quanto alle possibilità di ascolto, sembra che quest’anno ci sia meno interesse rispetto alla consuetudine (che vedeva decine di radio collegate in diretta). Radio3 si limita alle prime due rappresentazioni ed ignora il Ring di Thielemann e il Parsifal di Gatti. Persino la radio bavarese, padrona di casa, si può dire, manda in diretta solo Tristan (25/7), Meistersinger (26/7) e Parsifal (2/8), mentre differisce di parecchi giorni il Ring. Che però potrà essere seguito in diretta (27-28-30/7 e 1/8) almeno sui siti web della radio spagnola, olandese, ungherese. Tranne che per Rheingold (ore 18) si inizia sempre alle 16.
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16 luglio, 2009

Bayreuth come LaScala? (upd. 20/7)


Sappiamo – ahinoi! – che da qualche anno non c’è SantAmbrogio senza patemi e suspence. La prima a rischio; salta la prima?; lo sciopero incombe sul 7 dicembre; sindacati sul piede di guerra. Sono i titoli ricorrenti all’avvicinarsi della data fatidica.

Bene (no, anzi, male…) oggi registriamo l’introduzione di questa nostra insigne pratica anche a Bayreuth, nel tempio più sacro e inviolabile della musica, un posto dove si fa arte (come ebbero un po’ ipocritamente a proclamare i fratellini Wieland&Wolfgang alla riapertura del 1951) e non politica, quindi neanche sindacato…

E invece è accaduto: la Verdi (lo dicevo io che c’erano di mezzo gli italiani, e pure rivali acerrimi di Wagner!) che, a parte le battute (Ver.di) è l’organizzazione sindacale delle maestranze (160 fra dipendenti e precari) che rendono materialmente possible l’esistenza del Festival, ha indetto scioperi che potrebbero anche mandare a monte la prima del 25 luglio, dopo che si sono rotte le trattative con la Fondazione per i rinnovi contrattuali.

Pare che la paga dei precari del teatro sia di 4€ all’ora (accipicchia, forse Alberich pagava di più i poveri Nibelunghi che martellavano sulle incudini – e sempre a tempo! - per procurargli ricchezza). Però c’è un risvolto non trascurabile: le due serate “chiuse” sono proprio a favore dei lavoratori e pare che molti di essi facciano affari mettendo all’asta i relativi biglietti. Ora però si richiede un meccanismo retributivo più trasparente, e ciò potrebbe comportare un ulteriore rialzo dei prezzi dei biglietti. La Fondazione ha da parte sua minacciato di ricorrere, in futuro, all’assunzione di altre maestranze in sostituzione dei ribelli. Notizie dell’ultim’ora danno per certa una conclusione positiva in extremis (toh, proprio come qui da noi!) visto che la trattativa riprenderà e proseguirà fino al 22 luglio.

Sia come si sia, una bella gatta da pelare e una partenza non proprio entusiasmante per la nuova gestione delle sorellastre terribili, Eva e Kathi.

La quale Katharina sta avendo proprio in questi giorni un’altra grana con la sua messinscena (puro Regietheater!) del Tannhäuser a LasPalmas.

Scioperi permettendo, la kermesse 2009 – una di quelle che si definiscono di transizione, non comportando alcun nuovo allestimento – inizia il 25 luglio con il Tristan inscenato da Marthaler e diretto dalla vecchia volpe Schneider. Sabato 26 sarà la volta (per la terza stagione) del famigerati Meistersinger di Kathi diretti da Weigle. Questi due mattoni saranno trasmessi in diretta da Radio3 (inizio alle 16). Poi (27, 28, 30 luglio e 1° agosto) il ciclo del Ring di Dorst diretto da Thielemann (che sta ormai diventando il padreterno della verde collina) e infine (2 agosto) il Parsifal di Herheim dove ritorna Daniele Gatti, non propriamente osannato al suo esordio l’anno scorso. Dal 3 agosto le repliche.

Chi è interessato alle emissioni (live o registrate) via etere o web può sempre tenere d’occhio il sito della Bayerischer Rundfunk, oppure Operacast, che ha una pagina specializzata per il Festival. Mentre la RAI non lo trasmetterà, il Ring potrà essere ascoltato in web sulla Radio classica spagnola (qui il link alla diffusione).

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Update 20 luglio
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Oggi la prova generale dei Meistersinger è iniziata con 30 minuti di ritardo, causa sciopero delle masse teatrali. Un avvertimento in vista della fase decisiva della trattativa di dopodomani?

A Bayreuth ci si preoccupa del danno di immagine che potrebbe derivare da una mancata apertura del festival, il prossimo sabato.

Un copione a noi fin troppo noto…
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15 luglio, 2009

Il nuovo Onegin del Bolscioj alla Scala

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La compagnia del Bolscioj è in questi giorni in tournée alla Scala con l’opera diventata simbolo di quel teatro: Evgenij Onegin.

Dmitri Cerniakov è il regista cui è stata affidata la nuova messa in scena, che nel 2006 ha rimpiazzato la precedente, vecchia di ben 60 anni, essendo nata nel 1944. Il regista spiega – in una nota che compare sul programma di sala – il suo Konzept dell’opera, tutto incentrato, psicologicamente, sulla figura di Tatjana e, scenicamente, su ambienti chiusi, con grande tavolata che raccoglie di volta in volta le diverse comunità che fanno da sfondo, o da brodo di coltura, alla vicenda dei due amanti i cui sentimenti non si incontrano mai. Dirò subito che, avendo potuto assistere - nel lontanissimo autunno del 1973 - all’opera nel precedente allestimento, ho pochi dubbi che quello fosse assai più convincente: la fedeltà al libretto, comprese le ambientazioni, anche questa volta ha la meglio su interpretazioni intellettualoidi, pur non prive di fascino. Mancava il corpo di ballo, dato che i balli previsti dal libretto sono stati eliminati, e così la famosa e lunghissima polacca che apre il VI Quadro è stata suonata come fosse Tafelmusik per i commensali dell’onnipresente tavolata!

Per chiudere sulla regìa, aggiungerò soltanto che, a fronte della cura con cui i due personaggi principali – Tatjana e Onegin – vengono fatti muovere nelle rispettive sfere psicologiche, troppo spesso ci sono forzature e ridicole sceneggiate, quasi che Cerniakov abbia voluto fare una gratuita parodia dell’intera vicenda. Esempi? Il trattamento riservato a Lenskij nel IV Quadro, dove il povero poeta viene ridicolizzato e sbeffeggiato dalla folla dei convitati; o ancora la scena del duello, una volgare zuffa casereccia, dove Lenskij viene raggiunto da un colpo sparato quasi accidentalmente da Onegin, mentre i due sono avvinghiati attorno ad un fucile da caccia… e la pagliacciata finale, con Gremin che entra inopinatamente in scena, sorprendendo la moglie e il suo pretendente in atteggiamento più che sospetto, ma che fa finta di nulla, offre il braccio a Tatjana e se la porta via, mentre Onegin cerca invano di suicidarsi premendo più volte il grilletto di una pistola (puntatasi al petto) che fa ridicolmente cilecca.

Gli interpreti: ieri sera i protagonisti erano la Scerbacenko (Tatjana) e Sulimskij (Onegin), oltre a Kazakov (Gremin), Goodwin (Lenskij) e la Mamsirova (Olga). Bravissima (scenicamente) e brava (vocalmente) la Scerbacenko, applauditi a scena aperta Kazakov e Goodwin dopo le rispettive arie principali; ma l’intero complesso ha mostrato di avere quest’opera nel suo dna, a partire da Alex Vedernikov (fresco fresco di dimissioni!) che ha sempre tenuto a freno l’orchestra, mai permettendole di coprire le voci degli interpreti (che spesso Cerniakov costringe a cantare con le spalle rivolte al pubblico, o negli angoli più remoti della scena…)

Certo, nel lontano 1973 sul palco del vecchio Piermarini c’era, fra gli altri, una certa Galina Visnevskaja, non so se mi spiego!
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13 luglio, 2009

Viaggi

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Inno bosniaco. Inno italiano. In un palasport gremito all’inverosimile. Ma in programma non c’era una partita di volley.

Il Pala de André di Ravenna ospitava ieri sera un concerto dell’Orchestra e Coro del Maggio fiorentino guidati dal loro vecchio amico Riccardo Muti.

Gli inni? In omaggio al Viaggio dell’Amicizia che riporta – proprio oggi 13 luglio 2009, a 12 anni dal primo – il Ravenna Festival e Muti in una Sarajevo che chiede aiuto alla musica per guardare avanti.

Mentre le strade della regione erano invase da auto di vacanzieri in rientro a casa (a proposito di viaggi: 2 ore per fare i 50 Km da Rimini!) Muti e il Maggio hanno presentato un programma tutto tedesco: Brahms e Beethoven (e l’orchestra era coerentemente dislocata secondo il layout teutonico).

Dapprima la Rapsodie op. 53 per contralto, coro maschile e orchestra e lo Schicksalslied op.54 per coro e orchestra, due specie di appendici che Brahms compose al monumento del suo Requiem, di cui recano chiari gli stilemi e lo spirito. Daniela Barcellona ha cantato i versi di Goethe con grande nobiltà e portamento, supportata al meglio dagli uomini del coro. Coro che poi, al completo, ha mostrato la bravura sua e del suo maestro Piero Monti negli impervi passaggi che Brahms scrisse sul canto di Hölderlin.

Indi l’Eroica. Muti, partitura sul leggìo, ha attaccato con piglio garibaldino, chiedendo davvero il meglio all’orchestra (rinforzata in strumentini e fagotti) e in particolare ai corni, davvero impeccabili. Primo tempo con tanto di ritornello, marcia funebre intensa ma non strascicata (entrambi i movimenti sono stati accolti da applausi, e sempre sorge la domanda: pubblico rapito o ineducato?) Poi lo scherzo, con i corni a superarsi nel trio; e infine l’apoteosi dove tutta l’orchestra ha davvero mostrato di che pasta è fatta.

Trionfo per tutti, omaggio floreale – forse fin troppo cerimonioso – al Maestro, che ha personalmente recato il bouquet alla signora al flauto (in omaggio alla quota rosa dell’orchestra?) e poi ovazioni da stadio, che Muti ha interrotto con un gesto perentorio ed eloquente, come a dire: abbiamo un lungo viaggio che ci aspetta. Sì, perchè questa sera il tutto (e anche più) si replica a Sarajevo, da dove il concerto verrà irradiato via etere, come ci ricorda anche una voce familiare agli ascoltatori di Radio3.
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