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Siegfried
Se per Rheingold avevo scritto di un discreta (quasi buona) torta, guarnita con qualche ciliegina acida, per questo Siegfried - ahimè – mi sa che devo ribaltare le proporzioni, giacchè le manchevolezze sono state tante e tali da superare le pur lodevoli qualità di fondo. Insomma, il pan di spagna della base è ben cotto, ma quasi tutte le ciliegine sono andate a male, la panna è in viraggio al rancido e il cioccolato sa troppo di vegetale…
Wolfgang Schmidt si era evidentemente ben mimetizzato nel Rheingold, uscendone senza troppi danni. Qui, dove per due atti la deve fare da protagonista: un disastro! Mime sarà pur un personaggio spregevole, e la sua parte fu certo scritta da Wagner per esaltarne questa miserevole dote, ma – vivaddio – è pur sempre una parte da cantare! Invece Schmidt ha quasi sempre berciato, urlato, emesso gridolini e risolini, lamenti, miagolìi e altri rumori vari. Tanto per esemplificare, basterà tornare con l’udito alla scena del battibecco con Alberich del secondo atto per capire la differenza che intercorre fra cantare (come ha magnificamente fatto Andrew Shore) e vociferare. Chissà, forse il nostro si è voluto vendicare per esser stato declassato dal ruolo di Siegfried – da lui coperto nelle precedenti stagioni - a quello della sua vittima.
Appunto, Andrew Shore: ha confermato in pieno, e non solo nella scena col fratello, ma in quella precedente, con Wotan e Fafner, di essere un grande Alberich, come voce e portamento adeguati al ruolo.
Così come pure Albert Dohmen, che al di là di un paio di FA eseguiti col cappio al collo, è stato ancora una volta un notevole Wotan, dotato di grande espressività del canto e di capacità di rendere al meglio la personalità complessa del capo degli dèi. In tutte le sue quattro apparizioni, ciascuna delle quali richiede una diversa ambientazione psicologica, mi è parso calarsi ottimamente nel personaggio.
Rimessasi dall’indisposizione che le aveva impedito di uscire dalla sua azzurrognola caverna nel Rheingold (dove aveva dovuto mandare in avanscoperta la Fujimura) Christa Meyer è tornata a farsi sentire come Erda, e mi è parsa la sua una prova rimarchevole, non solo nella precisione dell’esecuzione, ma anche nel pathos che la deve caratterizzare.
Due parole su Christiane Kohl, esordiente nel ruolo del Waldvogel (fa anche Woglinde e poi una delle escort nel Parsifal). Maliziosamente mi viene da dire che Wagner, pur non avendo indicato con precisione la specie del volatile, non pensasse di sicuro ad un gallinaceo! Intendiamoci, la ragazza non ha mancato una sola nota della sua parte assai difficile (su un pedale prevalentemente di 9/8 deve infilare tutta una serie di cambi e asimmetrie di tempo, proprio a simulare il ritmo del gorgheggio di un uccellino) però la sua voce – forte, profonda, stentorea - richiama quella di qualunque animale, tranne che di un piccolo pennuto! (A meno che la colpa non sia da addebitare ai microfoni della ripresa, ma ne dubito).
Veniamo adesso al povero Siegfried. Christian Franz mi ha assolutamente deluso. Anche lui, come il Mime che lo affianca nei primi due atti, ha spesso e volentieri urlato invece di cantare. E anche nella scena tòpica finale con Brünnhilde ha interpretato la parte di un burino selvaggio e pure arrapato, non quella di un ragazzo ignorante e incosciente sì, ma nel quale almeno l’istinto induce atteggiamenti poetici.
Linda Watson è da anni la Brünnhilde padrona di casa a Bayreuth: e ne rappresenta e sintetizza bene la contraddittoria gestione. Stento personalmente a darle la sufficienza, e non solo per il DO sporco della conclusiva lachender Tod (magari fosse solo quello…)
E ora le immangiabili ciliegine (ne cito solo un paio, ma proprio macroscopiche, ma ne ho segnato più di una dozzina…)
Nella scena della riforgiatura di Nothung si devono udire colpi di martello, ad accompagnare il lavoro e il canto di Siegfried. Sono un’infinità, ma tutti meticolosamente scritti da Wagner sul pentagramma: ne ho contati almeno una mezza dozzina o fuori posto o addirittura inventati. Se a batterli era lo stesso Franz, una nota di demerito in più… se era una controfigura, quindi uno strumentista, peggio ancora.
Era già successo credo un paio d’anni fa, ma si è ripetuto quest’anno: il corno solista che sporca miseramente il secondo attacco dell’assòlo nel secondo atto! E, come non bastasse, o forse in conseguenza dello stato ansioso indotto dal primo errore, ne infila altri due nel passaggio successivo, sul pedale del basso-tuba che annuncia il risveglio del drago. Un disastro davvero!
Chiudo con Thielemann. Cantiamo pure per fortuna che c’è Cristiano, perché altrimenti saremmo qui a chiedere il commissariamento del Festival! A parte i suoi ormai canonici marchi (sono come le pisciatine di un cane a delimitare il suo territorio) che lui ha scritto sulle sue partiture e a cui resta infallibilmente fedele (un esempio per tutti: i rallentando che lui fa sulle poderose entrate dei corni dopo i primi due Blase die Gluth della passacaglia della fusione) anche nel Siegfried è stato all’altezza della sua fama. Lui riesce in un’operazione che è una specie di sincretismo: senza nulla togliere alle caratteristiche fondamentali, storiche e fondanti della musica dei drammi wagneriani, e rimanendo un cultore convinto del cupo suono tedesco dell’orchestra, sa però introdurre elementi di lirismo e mettere in risalto particolari in modo assai appropriato. E soprattutto senza cadere in estremismi, quali le interpretazioni mozartiane, apprezzabili comunque, à la Karajan o quelle francamente deplorevoli, perché fatte impiegando strumenti di radiografia fabbricati a Darmstadt, à la Boulez. E forse Thielemann è per queste sue qualità debitore, almeno in parte, all’Italia, avendo trascorso parecchio tempo, negli anni della sua maturazione artistica, a Bologna e Roma.
Il pubblico in sala, che ha il vantaggio di giudicare l’effetto dal vivo e lo svantaggio di non poter disporre dei riferimenti oggettivi di ciò cui sta assistendo, ha portato tutti in trionfo con grandi ovazioni. Pace e amen.
Se per Rheingold avevo scritto di un discreta (quasi buona) torta, guarnita con qualche ciliegina acida, per questo Siegfried - ahimè – mi sa che devo ribaltare le proporzioni, giacchè le manchevolezze sono state tante e tali da superare le pur lodevoli qualità di fondo. Insomma, il pan di spagna della base è ben cotto, ma quasi tutte le ciliegine sono andate a male, la panna è in viraggio al rancido e il cioccolato sa troppo di vegetale…
Wolfgang Schmidt si era evidentemente ben mimetizzato nel Rheingold, uscendone senza troppi danni. Qui, dove per due atti la deve fare da protagonista: un disastro! Mime sarà pur un personaggio spregevole, e la sua parte fu certo scritta da Wagner per esaltarne questa miserevole dote, ma – vivaddio – è pur sempre una parte da cantare! Invece Schmidt ha quasi sempre berciato, urlato, emesso gridolini e risolini, lamenti, miagolìi e altri rumori vari. Tanto per esemplificare, basterà tornare con l’udito alla scena del battibecco con Alberich del secondo atto per capire la differenza che intercorre fra cantare (come ha magnificamente fatto Andrew Shore) e vociferare. Chissà, forse il nostro si è voluto vendicare per esser stato declassato dal ruolo di Siegfried – da lui coperto nelle precedenti stagioni - a quello della sua vittima.
Appunto, Andrew Shore: ha confermato in pieno, e non solo nella scena col fratello, ma in quella precedente, con Wotan e Fafner, di essere un grande Alberich, come voce e portamento adeguati al ruolo.
Così come pure Albert Dohmen, che al di là di un paio di FA eseguiti col cappio al collo, è stato ancora una volta un notevole Wotan, dotato di grande espressività del canto e di capacità di rendere al meglio la personalità complessa del capo degli dèi. In tutte le sue quattro apparizioni, ciascuna delle quali richiede una diversa ambientazione psicologica, mi è parso calarsi ottimamente nel personaggio.
Rimessasi dall’indisposizione che le aveva impedito di uscire dalla sua azzurrognola caverna nel Rheingold (dove aveva dovuto mandare in avanscoperta la Fujimura) Christa Meyer è tornata a farsi sentire come Erda, e mi è parsa la sua una prova rimarchevole, non solo nella precisione dell’esecuzione, ma anche nel pathos che la deve caratterizzare.
Due parole su Christiane Kohl, esordiente nel ruolo del Waldvogel (fa anche Woglinde e poi una delle escort nel Parsifal). Maliziosamente mi viene da dire che Wagner, pur non avendo indicato con precisione la specie del volatile, non pensasse di sicuro ad un gallinaceo! Intendiamoci, la ragazza non ha mancato una sola nota della sua parte assai difficile (su un pedale prevalentemente di 9/8 deve infilare tutta una serie di cambi e asimmetrie di tempo, proprio a simulare il ritmo del gorgheggio di un uccellino) però la sua voce – forte, profonda, stentorea - richiama quella di qualunque animale, tranne che di un piccolo pennuto! (A meno che la colpa non sia da addebitare ai microfoni della ripresa, ma ne dubito).
Veniamo adesso al povero Siegfried. Christian Franz mi ha assolutamente deluso. Anche lui, come il Mime che lo affianca nei primi due atti, ha spesso e volentieri urlato invece di cantare. E anche nella scena tòpica finale con Brünnhilde ha interpretato la parte di un burino selvaggio e pure arrapato, non quella di un ragazzo ignorante e incosciente sì, ma nel quale almeno l’istinto induce atteggiamenti poetici.
Linda Watson è da anni la Brünnhilde padrona di casa a Bayreuth: e ne rappresenta e sintetizza bene la contraddittoria gestione. Stento personalmente a darle la sufficienza, e non solo per il DO sporco della conclusiva lachender Tod (magari fosse solo quello…)
E ora le immangiabili ciliegine (ne cito solo un paio, ma proprio macroscopiche, ma ne ho segnato più di una dozzina…)
Nella scena della riforgiatura di Nothung si devono udire colpi di martello, ad accompagnare il lavoro e il canto di Siegfried. Sono un’infinità, ma tutti meticolosamente scritti da Wagner sul pentagramma: ne ho contati almeno una mezza dozzina o fuori posto o addirittura inventati. Se a batterli era lo stesso Franz, una nota di demerito in più… se era una controfigura, quindi uno strumentista, peggio ancora.
Era già successo credo un paio d’anni fa, ma si è ripetuto quest’anno: il corno solista che sporca miseramente il secondo attacco dell’assòlo nel secondo atto! E, come non bastasse, o forse in conseguenza dello stato ansioso indotto dal primo errore, ne infila altri due nel passaggio successivo, sul pedale del basso-tuba che annuncia il risveglio del drago. Un disastro davvero!
Chiudo con Thielemann. Cantiamo pure per fortuna che c’è Cristiano, perché altrimenti saremmo qui a chiedere il commissariamento del Festival! A parte i suoi ormai canonici marchi (sono come le pisciatine di un cane a delimitare il suo territorio) che lui ha scritto sulle sue partiture e a cui resta infallibilmente fedele (un esempio per tutti: i rallentando che lui fa sulle poderose entrate dei corni dopo i primi due Blase die Gluth della passacaglia della fusione) anche nel Siegfried è stato all’altezza della sua fama. Lui riesce in un’operazione che è una specie di sincretismo: senza nulla togliere alle caratteristiche fondamentali, storiche e fondanti della musica dei drammi wagneriani, e rimanendo un cultore convinto del cupo suono tedesco dell’orchestra, sa però introdurre elementi di lirismo e mettere in risalto particolari in modo assai appropriato. E soprattutto senza cadere in estremismi, quali le interpretazioni mozartiane, apprezzabili comunque, à la Karajan o quelle francamente deplorevoli, perché fatte impiegando strumenti di radiografia fabbricati a Darmstadt, à la Boulez. E forse Thielemann è per queste sue qualità debitore, almeno in parte, all’Italia, avendo trascorso parecchio tempo, negli anni della sua maturazione artistica, a Bologna e Roma.
Il pubblico in sala, che ha il vantaggio di giudicare l’effetto dal vivo e lo svantaggio di non poter disporre dei riferimenti oggettivi di ciò cui sta assistendo, ha portato tutti in trionfo con grandi ovazioni. Pace e amen.
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