affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

18 marzo, 2019

L’Orfeo di Carsen-Capuano-Vistoli a Roma


L’Orfeo di Gluck ieri pomeriggio in un Costanzi piuttosto affollato (ma non esaurito) è arrivato alla seconda recita delle 5 (+1) in programma.  

Carlo Vistoli era al centro dell’attenzione e devo dire che il combinato disposto della scrittura di Gluck, piuttosto sobria, e delle dimensioni non proibitive del teatro (dotato fra l’altro di buona acustica) ha contribuito a garantire alla sua prestazione un’accettabile efficacia, non facendo troppo rimpiangere i robusti suoni di contralto che da sempre siamo abituati a sentir uscire dalla bocca di Orfeo. Personalmente, avendo ascoltato (solo in registrazione, devo precisare) il sopranista Jaroussky (a Parigi nel maggio 2018) mi sentirei di dare un voto più alto a Vistoli, non fosse altro che per la miglior appropriatezza della sua voce di contraltista rispetto alle caratteristiche del personaggio. Ottima anche la sua presenza scenica.   

Onesto e non di più il contributo dei due soprani Mariangela Sicilia (Euridice) ed Emőke Baráth (ormai specialista del ruolo di Amore): due vocine abbastanza piccole e debolucce nei centri e nei gravi. Lodevole invece l’apporto del coro di Roberto Gabbiani (invero fondamentale in quest’opera).

Tutti autorevolmente concertati dall’esperta bacchetta di Gianluca Capuano (esordiente sul podio romano, ma che gli appassionati de laVerdi conoscono bene per le comparse in Auditorium con il suo ensemble vocale nel repertorio barocco). Al direttore mi sentirei di muovere un solo modesto rimprovero: qualche eccesso di... foga riguardo ai tempi. Senza pecche l’orchestra, con un plauso all’oboe per il suo intervento che anticipa il wagneriano venerdi santo.

Nonostante la durata dell’opera originale sia già abbastanza contenuta (circa 90’ netti) qui alcuni tagli (un paio relativamente piccoli, nel second’atto: da-capo omessi nei balli e nel coro finale; uno invece assai corposo: l’intero ballo, nel finale ultimo) la riducono a circa 75’: a parte la citata speditezza dei tempi di Capuano, c’è da esser certi che questo esito sia legato alle scelte estetiche e interpretative di Carsen (riprendo l’argomento più avanti). Un altro modesto (e quasi irrilevante) intervento sulla partitura riguarda il ballo degli eroi (in SIb) del second’atto: spostato - anche qui direi per esigenze sceniche (lo svestimento di Euridice nell'Eliso) - da prima a dopo il recitativo di Orfeo.

In definitiva, una prestazione musicale di cui ci si può accontentare, ecco. E anche il pubblico romano ha mostrato di gradirla, riservando applausi (non da stadio, peraltro...) per tutti quanti.
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Come noto, la messinscena di Carsen è una rivisitazione di suoi precedenti lavori (2006 e 2011) quindi di essa già si conoscevano pregi e difetti. Le scene di Tobias Hoheisel sono ispirate a severo minimalismo (tipo Wieland Wagner, per intenderci) in modo da concentrare l’attenzione dello spettatore sul canto e sulla recitazione dei protagonisti: uno spoglio e scuro terreno sabbioso circondato da un cyclorama bianco sul quale a volte si stagliano le silhouette dei personaggi. Costumi (pure di Hoheisel) di foggia moderna quanto anonima. Luci (Carsen e Peter van Praet) gestite con la proverbiale abilità del regista: illuminazione laterale, obliqua, retrostante.

Carsen, perseguendo l’obiettivo di enfatizzare gli aspetti più esistenzialisti del dramma, abolisce poi ogni sovrastruttura accessoria (non certo per fare della spending-review...) Quindi, oltre al minimalismo con cui caratterizza le scene, minimalizza o cancella tutto ciò che striderebbe con la sua concezione dell’opera: come i balli e le conseguenti coreografie. Che peraltro furono concepiti da Gluck-Calzabigi come parti integranti e non certo accessorie dell’opera, come ci conferma Giovanni Bietti nel suo intervento sul programma di sala. Sul quale è però sorprendente leggere un’affermazione del regista - nell’intervista rilasciata a Leonetta Bentivoglio - secondo il quale nella versione originale viennese del 1762 non ci sono danze! Beh, come spiegazione dei suoi barbari tagli, non c’è male...

In definitiva - a parte lo scippo consumato ai danni dell’ascoltatore, che si perde parecchia musica di ottima fattura - lo spettacolo rischia di diventare fin troppo serio se non monocorde. Se osserviamo la macro-struttura dei tre atti dell’opera, la potremmo (usando un termine musicale) definire come un semplice rondò: A-B-A-B-A. Dove le sezioni A sono caratterizzate da: giorno, luce e natura idilliaca; le B da notte, oscurità e natura orrida e infernale. Orbene, Carsen ci presenta invece solo uno scenario di tipo B, se si esclude il finale (Trionfi amore) peraltro abbastanza slavato. E meno male che il regista non ha ripetuto l’operazione perpetrata all’Alcina, dove aveva tagliato di netto il lieto-fine!

Parliamo adesso di Natura e Poesia. Se prendiamo ad esempio la prima scena, nell’originale ci troviamo una cerimonia funebre che avviene in un luogo incantevole, in mezzo ad alberi e fiori di ogni specie: il che accentua il contrasto lancinante con il dolore insostenibile di Orfeo - evocato dalla mirabile musica di Gluck - che in quegli elementi naturali riconosce i compagni dei suoi giorni felici passati con Euridice (In ogni tronco scrisse il misero Orfeo, Orfeo infelice: «Euridice, idol mio, cara Euridice»). Ebbene, se le parole hanno un senso, esso è totalmente tradito dalla scena proposta da Carsen, dove non c’è la minima traccia di Natura. Quanto alla Poesia, ditemi dove la si può trovare in una distesa di sabbia scura e in un corteo di popolani vestiti come becchini!  

Vengo ora ad Orfeo. Secondo Carsen è un poveraccio (everyman) come tutti noi, vittima di un destino avverso che gli ha tolto la persona più cara. Cosicchè, già al funerale, tira fuori un serramanico e cerca il suicidio... anticipato (rispetto a Gluck-Calzabigi). Sì, anticipato, perchè libretto e musica ci dicono che l’istinto suicida insorge in Orfeo soltanto dopo la seconda morte di Euridice, della quale lui si sente (ed è) unico responsabile, a causa della sua debolezza. Al funerale invece il suo atteggiamento è di temeraria sfida (Ho core anch’io...) ai numi di Acheronte e Averno che gli hanno sottratto la sposa, che lui si ripromette di recuperare alla vita prima ancora che Amore arrivi a supportarlo nell’impresa.  

Poi, per giustificare l’idea che si è fatto di Orfeo (un uomo qualunque, come tutti noi) ecco che Carsen (sempre nella citata intervista) afferma che nel testo di Calzabigi e nella musica di Gluck non ci sarebbe alcun riferimento allo status di artista (poeta e cantore) di Orfeo! Quando invece basta leggere il libretto e ascoltare gli interventi dell’arpa per convincersi del contrario. Insomma, il buon Carsen non ce la racconta giusta! 

Per lui i compagni di Orfeo, le Furie dell’Averno e gli Eroi dell’Eliso sono sempre le stesse persone: prima vive, poi morte e infagottate in bianchi sudari, poi rinate nell’Eliso e infine tornate vive ad accogliere i due amanti restituiti alla vita. Beh, a me pare una banalizzazione eccessiva del soggetto, conseguenza della sua totale smitizzazione perpetrata dal regista. Che poi ignora del tutto le precise modalità con le quali il mito pretende si realizzi la riconquista (e la seconda perdita) di Euridice. Le prime due scene dell’atto terzo (quella dove avviene il fattaccio e l’altra dove arriva provvidenzialmente Amore) dovrebbero essere ambientate ancora nell’aldilà infernale, poichè solo lì vale il divieto di sguardo. Invece Carsen già all’inizio dell’atto ci mostra Orfeo che trascina Euridice nell’aldiqua, rientrandovi precisamente dallo stesso passaggio impiegato per inoltrarsi nell’oltretomba (la fossa in cui la fanciulla era stata inumata) e ritrovandoci la giacca abbandonata a fine del primo atto, con annesso serramanico da usarsi per il secondo (per Carsen, non per Gluck) tentato suicidio. Ma se i due sono già riemersi nel mondo reale, non si capisce perchè lo sguardo debba esservi ancora vietato... 

Insomma, una serie di forzature (per me) francamente eccessive e giustificabili solo a fronte della scelta interpretativa di fondo compiuta dal regista. 

Ecco, come posso sintetizzare il tutto? Dicendo che: se ci si dimentica totalmente dei contenuti del soggetto originale e si fa propria la vision del regista, allora si può godere lo spettacolo e magari anche emozionarsi, poichè la suggestione che suscita questa messinscena è innegabile. 

Viceversa, è difficile andar oltre il rispetto e l’ammirazione per la professionalità con la quale l’allestimento è stato realizzato.

16 marzo, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°21


La seconda delle tre apparizioni stagionali del Direttore residente de laVerdi ha per oggetto un concerto di musiche nate a cavallo fra ‘800 e ‘900 (1888 - 1897 - 1911). Si tratta di tre lavori che traggono ispirazione da opere letterarie di diversa natura ed origine, tutte però con qualche riferimento a maghi e magie assortite.

Auditorium ancora pieno come un uovo, con folta rappresentanza di... minorenni, il che non può non salutarsi con grande piacere. E Bignamini&C hanno fatto del loro meglio per accontentare questo loro pubblico di ammiratori.      

L’apertura del concerto è riservata a Paul Dukas e al suo Apprenti Sorcier, composto nel 1897 e ispiratogli da una simpatica poesiola di Goethe. Solo un paio d’anni prima Richard Strauss aveva sfornato il suo Till, nel quale pare di scorgere (in grande, effettivamente, e non solo per la durata quasi doppia) il modello di questo poemetto sinfonico (scherzo lo battezzò l’autore) che a noi nati nel ‘900 fu reso famoso dalla sua presenza (arrangiamento di Stokowski) nel celeberrimo Fantasia di Disney (credo di averlo visto, al cinema dell’oratorio parrocchiale, alla tenera età di 6 anni, quando DeGasperi aveva da poco vinto le elezioni del ’48!)

A chi fosse interessato a conoscere i segreti del brano, solo apparentemente leggero e superficiale, consiglio la lettura di questo saggio del valente Christian Frattima, oltre a suggerire una pregevole esecuzione del 1961 di Pierre Monteaux con la London Symphony.

Bignamini, che mette tutto a memoria (provate a fare il conto di quante pagine di partitura d’orchestra si è immagazzinato nel cervello per questo concerto... vien da pensare che il suo sia un hard-disk nel quale a lui basta fare il download di qualche pdf dal computer!) ha condotto i suoi ex-compagni con una calma e una sicurezza che testimoniano del perfetto affiatamento che ancora ha con loro. E ciò vale per tutti i tre brani in programma.
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Ecco poi la versione tarda (1947) delle musiche del balletto Petruska che Igor Stravinski compose originariamente nel 1911 e del quale il citato Pierre Monteaux diresse la prima parigina. Va detto che la versione proposta da Bignamini si differenzia dall’originale quasi esclusivamente per l’orchestrazione più leggera (e la compagine ridotta) ma ne conserva intatta la struttura, oltre che la freschezza e la verve. Il Direttore sceglie per il finale la forma abbreviata, prevista da Stravinski per le esecuzioni concertistiche, quella che chiude l’opera sulla festa di popolo, tagliando la morte di Petruska e la vergognosa uscita di scena del Mago. 

Reitero qui una segnalazione già fatta parecchi anni fa di una benemerita iniziativa tedesca che ha avuto come oggetto il lavoro di Stravinski: una vera miniera d’oro per chi abbia voglia (e tempo...) di approfondire la conoscenza di Petruska e del suo autore. 

Propongo poi in appendice al post un bigino dell’opera, appoggiandomi a questa interpretazione di Jansons con l’Orchestra del Concertgebouw.

Tornando a ieri, strepitosa prestazione di tutti, salutata da ovazioni per Direttore e strumentisti, molti di loro chiamati a interventi squisitamente solistici e perciò ancor più apprezzabili.
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Dopo l’intervallo e a chiudere il concerto, un altro pezzo forte del repertorio dell’Orchestra, la Shéhérazade di Nicolai Rimski-Korsakov, del 1888. Questa volta il ruolo della principessa che incanta il sultano cattivone, spegnendone gli istinti omicidi, è affidato ad un altro Nicolai (Freiherr von Dellingshausen) che siede sulla sedia della spalla e deve quindi suonare le diverse parti solistiche che evocano i racconti della bella quanto astuta Shéherazade. Devo dire che non ha per nulla fatto rimpiangere Luca Santaniello (ieri seduto alle sue spalle) che fino ad oggi aveva di diritto impersonato quel ruolo.

Dopo un rigorosissimo Stravinski, Bignamini si è scatenato con un’interpretazione personalissima del lavoro di Rimski, non risparmiandosi rubati, cambi di tempo e di dinamica, magari al limite del... regolamento, ma di un’efficacia straordinaria. Memorabile, all’interno di una lettura da incorniciare, l’Andantino quasi allegretto, diretto senza bacchetta (appoggiata sul leggio di... Scarpolini): un vero diamante in un vaso di perle!

Alla fine pubblico entusiasta e trionfo per tutti.   
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Petruska

I passaggi descritti corrispondono alle indicazioni didascaliche sulla partitura.

Quadro I - La fiera di Shrovetide a Pietroburgo.

Siamo nella settimana grassa e la fiera è affollata da gente di ogni tipo: il flauto imita le grida dei venditori e l’orchestra il tumulto generale.

55” Ecco passare un gruppo di festaioli già ubriachi che ballano in modo sgangherato.

1’26” Il maestro di cerimonie attira l’attenzione dei passanti da sopra il suo banchetto; poi torna il tumulto della festa.

1’46” Un suonatore d’organetto arriva con una danzatrice.

2’08” L’organetto comincia a suonare.

2’26” la danzatrice balla accompagnandosi con il triangolo (canzonetta francese Elle avait une jambe de bois) mentre il suonatore d’organetto con una mano gira la manovella e con l’altra suona la trombetta.

2’50” Poco distante da lì un’altra ballerina danza sulla musica che esce da un carillon.

3’17” Tornano la prima danzatrice con il triangolo e il suonatore d’organetto con la trombetta.

3’33” Organetto e carillon tacciono improvvisamente: è il maestro di cerimonie che riprende il centro dell’attenzione con la sua parlantina, poi si riode il tumulto della piazza.

3’56” Ripassano gli allegri buontemponi; quindi ancora il chiasso della festa.

5’24” Due tamburini si piantano davanti al teatrino, attirando l’attenzione dei passanti con il rullo dei loro strumenti. All’interno del teatrino appare il vecchio mago.

6’00” Il mago suona il suo flauto magico.

6’41” Si apre il sipario del teatrino e compaiono tre marionette: Petruska, il Moro e la Ballerina.

7’11 Il mago anima le tre marionette toccandole col suo flauto magico. E loro si mettono a danzare la lunga e variata Danza russa, lasciando stupefatta la folla circostante.

10’02 Buio improvviso, cala il sipario. Lungo rullo di tamburo.

Quadro II - Nella stanza di Petruska.

Dal mondo reale si passa ora a quello virtuale: questo e il successivo quadro sono infatti incentrati sul rapporto fra le tre marionette, un triangolo che ricorda quello dei pagliacci del teatro dell’arte (Arlecchino t’invola Colombina... canta Canio, protagonista del triangolo con Nedda e Silvio) a sua volta mutuato però da tutti i triangoli che si materializzano nel mondo reale.

10’17 Petruska viene scaraventato in scena con un calcio.

11’21 Petruska esterna tutta la sua rabbia.

13’00 Arriva la Ballerina.

13’27 La Ballerina se ne va arrabbiata con Petruska.

14’16 Petruska resta solo e disperato. Un gran rullare di tamburi introduce il quadro successivo.

Quadro III - Nella stanza del Moro.

14’48 Atmosfera minacciosa.

15’45Il Moro comincia a ballare, sempre in uno scenario lugubre.

17’43 Arriva la Ballerina. Gran rullo di tamburi.

17’50 La Ballerina danza allegramente per il Moro, accompagnata da una trombetta. Poi si prepara a ballare con lui.

18’29 La Ballerina e il Moro danzano un walzer in due sezioni, tratte da lavori di Josef Lanner. Prima parte Lento cantabile, accompagnata da trombetta e flauto, con sottofondo del fagotto (da Steyrische tänze, qui a 1’27”). Poi (19’12) Allegretto (da Die Schönbrunner, qui a 5’22”). Da 20’05” riprende il tempo lento.

20’40” Moro e Ballerina rizzano le orecchie: sta arrivando Petruska!

21’01” Moro e Petruska si azzuffano. La Ballerina sviene.

21’33” il Moro sbatte fuori Petruska. Buio.

Quadro IV - La fiera di Shrovetide al tramonto.

21’41” Siamo tornati nel mondo degli uomini: la festa continua ormai da ore e ore. Introduzione con lungo rullo di tamburo e poi la solita animazione nella piazza.

22’47” Arrivano le balie e si mettono a ballare una lunga danza, con diversi motivi popolari.

25’24” Irrompe sulla scena anche un contadino con un orso. Fuggi-fuggi generale. Il contadino suona il suo piffero e l’orso balla sulle zampe posteriori. Poco dopo contadino ed orso se ne vanno e torna l’animazione nella piazza.

26’56” Ora un mercante festaiolo arriva con due zingare. Si diverte gettando banconote alla folla.

27’11” Le zingare ballano mentre il mercante suona la fisarmonica.

28’01” Mercante e zingare se ne vanno, sostituiti (28’07”) dal sopraggiungere di cocchieri e stallieri che cominciano a ballare.

29’09” Le balie (sul loro tema di poco prima) ballano con cocchieri e stallieri.

30’12” Arrivano anche i mimi. Quello che incarna la morte (30’32”) spinge la folla a danzare con lui.

30’46” Ecco ora una buffonata dei mimi (protagonisti capra e maiale).

31’11” Mimi e maschere danzano insieme. Tutta la gente (31’22”) si unisce alle loro danze. (Qui finisce - opzionalmente - la versione per concerto.)

31’48” Tutti continuano a ballare, mentre si odono grida dal teatrino delle marionette.

31’56” I balli cessano. Petruska corre fuori dal teatrino, inseguito dal Moro, che la Ballerina cerca di trattenere

32’16” Il Moro inferocito acchiappa Petruska e lo colpisce con la sua sciabola. Petruska cade con la testa fracassata e una folla si assiepa attorno alla marionetta.

32’48” Petruska muore, fra gemiti e lamenti. Una guardia va a rintracciare il mago. Il quale (33’26”) arriva, raccoglie e scuote la salma di Petruska.

34’10” La folla si disperde e il mago, restato solo in scena, trascina Petruska verso il teatrino.

34’39” Sopra il teatrino appare lo spettro di Petruska, minaccioso, che sporge il suo naso verso il mago. Il quale, terrorizzato, lascia cadere il fantoccio e se ne va rapidamente, gettando occhiate impaurite dietro le spalle.
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13 marzo, 2019

A Roma torna un Orfeo maschio


Al Costanzi sta arrivando (questa sera la primina giovani) l’Orfeo di Gluck, una co-produzione italo-franco-canadese affidata a Robert Carsen e già collaudata (mediamente con successo) nel 2018 a Parigi e prima ancora, nel 2011, a Toronto. Messinscena che Carsen ha peraltro riproposto rimaneggiando quella del 2006 a Chicago.

Come si sa, il ruolo del protagonista alle prime recite del 1762 a Vienna fu affidato ad un famoso castrato, il contralto Gaetano Guadagni, mentre nella versione francese del 1774 venne rivisto per la tessitura di tenore acuto. Tramontata l’epoca dei castrati, nella versione originale la parte venne tradizionalmente affidata ad un contralto en-travesti (prassi inaugurata già nell’800, con la sua versione ibrida, da Hector Berlioz). Ebbene, in questa produzione torna invece a sostenerla un maschio: è già successo l’anno scorso a Parigi (con Philippe Jaroussky, direzione di Fasolis) e alla COC nel 2011 (con Lawrence Zazzo, direzione di Bicket); ed era successo a Chicago nel 2006 (dove si esibì David Daniel, sempre con Bicket). Anche qui la cosa si ripete, protagonista Carlo Vistoli, il quale non è evidentemente (e per sua fortuna...) castrato ma - come i colleghi citati più sopra - controtenore.

Sull’opportunità e l’efficacia dell’impiego di queste voci (contraltisti come Vistoli, o sopranisti come Jaroussky) ci sono diverse correnti di pensiero: c’è chi lo disapprova, sostenendo che un contralto femmina en-travesti sia da preferire, poichè canta con voce naturale (come i castrati, per i quali furono scritte parti come quella di Orfeo); e chi all’opposto sostiene che un falsettista (se ben preparato) può imitare efficacemente la vocalità dei castrati, con il vantaggio di essere... di sesso maschile, quindi di per sè più appropriato, anche scenicamente, ad interpretare un ruolo di tal genere (poichè un Orfeo femmina rischia di trasportare la vicenda a... Saffo).

Beh, staremo a vedere e soprattutto sentire. Venerdi 15 ore 20 su Radio3 e - per ciò che mi riguarda - domenica 17 dal vivo.

08 marzo, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°20


Il versatile Fazil Say fa il suo ritorno dopo due anni in Auditorium nella triplice veste di compositore, solista e direttore per proporci ben due concerti per pianoforte che incastonano una sua composizione. Per la verità lui deve fidarsi così ciecamente della bravura dei ragazzi de laVerdi che lascia in pratica il ruolo di direttore alla spalla Santaniello, limitandosi a indicargli quando è ponto per attaccare... e a pochi e sobri gesti.  

Di Mozart viene inizialmente eseguito il Concerto n°1 K37, che ricade nella categoria dei cosiddetti concerti-pasticcio, poichè non sono tutta farina del sacco del Teofilo, ma riprese e rimaneggiamenti di musiche di altri compositori (si tratta sempre di tempi di sonate per tastiera). Così i tre movimenti del concerto in FA maggiore hanno tre diversi padri: Hermann Friedrich Raupach (Allegro); sconosciuto (Andante) e Leontzi Honauer (Rondò). Per di più i ricercatori hanno stabilito che anche papà Leopold ci deve aver messo le mani, per correggere e migliorare il lavoro del figlioletto undicenne. Insomma, un lavoro di... gruppo! Che peraltro mostra già le spiccate qualità del ragazzino, che Say mette in luce con grande delicatezza, dando ogni tanto una sbirciatina allo spartito... (proprio come fa qui il sommo Richter!)
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Poi Fazil ci offre una sua creazione, Yürüyen Köşk (Il palazzo semovente) un omaggio al grande Kemal Atatürk, fondatore della moderna Turchia, che purtroppo oggi un tale Erdogan sta cercando in tutti i modi di smodernizzare (ma fra i due proprio di recente c’è stato un riavvicinamento...)

Il brano, ispirato da un aneddoto riguardante un... platano che Atatürk risparmiò al taglio facendo spostare su rotaie un edificio attiguo, si suddivide in quattro parti che si succedono senza soluzione di continuità:

1- Enlightenment (Illuminismo)
2- Struggle against Darkness (Lotta contro l’Oscurantismo)
3- Believing in Life (Credere nella Vita)
4- Plane Tree (Il Platano)

Vi si alternano momenti di grande lirismo e atmosfere cariche di concitazione, richiami orientaleggianti e ritmi sincopati e di jazz; sembra far capolino - nella terza parte - anche Rachmaninov; l’ultima parte riassume la vicenda del platano, con momenti di serenità rotti da altri ancora agitati o cupi e pesanti (chissà, forse lo sforzo di uomini e mezzi per spostare l’edificio...) fino alla conclusione con le note acutissime del pianoforte che evocano il cinguettare degli uccellini sul platano salvato.  

Accoglienza calorosa dal pubblico che affollava piacevolmente l’Auditorium.
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Chiusura in grande stile con il Concerto in DO minore di Beethoven. Anche qui Fazil mostra la sua vena di compositore, presentando una sua stupefacente (e per la verità anche un po’ dissacrante) cadenza del primo tempo. Ma tutta la sua lettura è personalissima e trascinante e qualche piccola sbavatura nulla toglie all’eccellenza dell’esecuzione, ben supportata dall’Orchestra, specie dalla sezione dei legni. Trionfo assicurato e ricambiato ancora con un personale bis.

02 marzo, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°19


Tutta Spagna (patrocinio dell’Instituto Cervantes) in questo 19° Concerto della stagione: direttore, solista e compositori (nativi e... simpatizzanti.) La Spagna (specie se c’è il bolerodiravel!) fa sempre centro, e l’Auditorium era pieno come un uovo, con nutrita rappresentanza di giovani e giovanissimi!

Il primo simpatizzante è Luis (per noi Luigi) Boccherini che dalla natia Lucca sbarcò dapprima a Vienna, poi a Milano, quindi a Parigi e infine (1768) in Spagna, dove raggiunse una discreta fama (propagatasi in Europa) pari alle infinite avversità e miserie che caratterizzarono buona parte della sua permanenza laggiù. Un altro italiano, Luciano Berio, nel 1975 ha orchestrato e concentrato, quasi liofilizzato le diverse versioni della Ritirata di Madrid, che si ascoltano in questo concerto.

Della Ritirata (marcia notturna) risulta che Boccherini abbia composto ben cinque versioni. Le tre principali e più eseguite si trovano rispettivamente nell’ultimo movimento del Quintetto per archi G324 (una specie di micro-poema-sinfonico ambientato nella capitale spagnola, tema e 11 variazioni, qui Savall a 9’46”) composto nel 1780; poi come secondo movimento del Quintetto con pianoforte G418 (11 variazioni, qui Ensemble Claviere); e infine come quarto ed ultimo tempo del Quintetto con chitarra G453 (derivato a sua volta - per i primi 3 tempi - dal G409, 12 variazioni, qui Scattolin&C).

Berio, su commissione della Scala, ha mantecato quattro delle cinque versioni, costruendo una pièce per grande orchestra, eseguita per la prima volta (ricordo di avervi assistito... bei tempi!) martedi 17 giugno 1975 al Piermarini, direttore Piero Bellugi. Nel 2000 anche laVerdi ci si è cimentata per la prima volta diretta proprio da Berio; poi nel 2004 l’ha anche incisa con Chailly.

Il brano si presenta come un tema con 11 variazioni: sono quelle musicate da Boccherini, che Berio riprende e rimescola, facendo progressivamente aumentare il volume del suono, con l’ingresso in scena di nuovi strumenti, a rappresentare l’approssimarsi e poi il passaggio ravvicinato della banda militare; quindi il suono tende progressivamente a sfumare, diradandosi sempre più, fino a scomparire del tutto. Va detto che questo effetto non l’ha inventato Berio, ma fu lo stesso Boccherini a pretenderlo, con precise indicazioni poste sulla partitura:


Torniamo alla registrazione di Chailly  per apprezzare la struttura e l’orchestrazione del brano così come ideata da Berio:

          Introduzione: sono i tamburini (assistiti dai violini secondi) a dettare il ritmo, che si manterrà per l’intero brano; è la banda che si avvicina;
   19” esposizione del tema della Ritirata; tre flauti in primo piano;
   47” variazione 1; affidata al flauto e ai violini;
1’16”        “       2;  oboe, poi accompagnato da flauto e clarinetti;
1’44”        “       3;  violini, con interventi di flauto e oboe;
2’13”        “       4;  legni e archi, con trombe sordina;
2’41”        “       5;  violini con interventi di flauti e trombe;
3’10”        “       6;  violini e fiati al completo; la banda è ormai vicina;
3’39”        ”       7;  orchestra piena: arrivo della banda sulla piazza;
4’08”        “       8;  violini, legni, oboe; il volume del suono decresce; la banda comincia ad allontanarsi;
4’37”        “       9;  oboe, poi accompagnato da flauto (variazione 2);
5’05”        “     10;  flauti, clarinetti, violini; il suono sfuma sempre più;
5’34”        “     11;  trombe con sordina, flauti; si ode quasi solo l’accompagnamento;
6’04” coda: la musica si allontana... tamburi, tre flauti e violini spengono il suono.

Come curiosità scopriamo che la conclusione della melodia di Boccherini coincide praticamente alla lettera (a partire dalla tonalità di DO maggiore, ma anche nel tempo - 2/4 vs 4/4 alla breve - e persino nell’acciaccatura e nel trillo!) con quella del tema principale del Rondo finale della Sonata per violino e pianoforte K296 che un tale Mozart aveva composto a Mannheim nel 1778 (due anni prima, quindi, della prima versione di Boccherini):

Che sia questione di plagio in piena regola, di citazione esplicita, o di pura... telepatia è domanda tutto sommato stucchevole: a noi basta sia musica mirabile. E come tale ci è stata proposta dal giovane e brillante Manuel Coves, e meritatamente applaudita dal pubblico oceanico dell’Auditorium.
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Ecco poi il primo spagnolo verace, Joaquín Rodrigo con il suo celebre (soprattutto per il centrale Adagio) Concierto de Aranjuez. Il Concerto, dedicato al chitarrista Regino Sáinz de la Maza y Ruiz, fu composto a Parigi nei primi mesi del 1939 ed eseguito per la prima volta a Barcellona, solista il dedicatario, sabato 9 novembre 1940, in pieno regime franchista. Rodrigo ne formulò una specie di programma, secondo il quale il primo movimento (Allegro con spirito, in RE maggiore) si ispirerebbe all’idilliaca natura dei giardini del palazzo reale di Aranjuez, che lui aveva visitato con la moglie, potendo peraltro apprezzarne soltanto i profumi e l’atmosfera, essendo lui cieco quasi dalla nascita; il secondo (il famoso Adagio, in SI minore) sarebbe un autentico lamento per il figlioletto nato morto e il terzo (Allegro gentile, RE maggiore) rappresenterebbe la sua serena accettazione del destino.  

La chitarra da sempre è tipico strumento di accompagnamento della voce o della danza, un po’ come l’arpa. Ma almeno quest’ultima, non fosse che per le dimensioni, ha una sonorità che le permette di emergere anche in mezzo ad un’orchestra sinfonica... Grande merito dei due compositori presentati qui (Rodrigo e Moreno-Torroba) è stato di aver scritto brani dove la chitarra ha una parte spiccatamente solistica.

Il concerto di Rodrigo si può apprezzare in rete, eseguito proprio dall’interprete di oggi, Pepe Romero, che ha ricevuto applausi a scena aperta, cioè anche al termine dei primi due movimenti. Nel secondo dei quali si è messa in bella mostra con il suo corno inglese la bravissima Paola Scotti.    
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Ancora chitarra con il Concierto en Flamenco di Federico Moreno-Torroba. Opera del lontano 1962 che Pepe Romero ha riscoperto e valorizzato. Qui lo vediamo (1 e 2) diretto dal fratello Angel interpretarlo nel 2007 a Malaga (i Romero sono una vera e propria dinastia di musicisti, c’è anche un altro fratello, Celin, tutti figli di Celedonio, e poi mogli e nipoti... e soprattutto sono stati fieri antifranchisti, il che torna a loro onore...) 

Il concerto consta di quattro parti, corrispondenti ad altrettanti e diversi balli di flamenco:

  1’22” Fandango
11’08” Farruca
  1’02” Alegrias de Cadiz
  7’25” Bulerias

Anche qui è mirabile la distribuzione di compiti fra solista e orchestra, i cui strumenti (oboi, flauti, violini...) propongono le melodie che poi la chitarra impreziosisce con i suoi virtuosi interventi.

Ancora grande accoglienza (applausi anche dopo ognuno dei movimenti intermedi) per Pepe Romero che, per nulla stanco dei due impegnativi concerti, ci regala anche un bis... famigliare, la conclusione di una Suite del padre Celedonio!
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Chiusura alla grande con l’immarcescibile Bolero di Ravel, come al solito innervato sul tamburino di Ivan Fossati, che ormai lo suona innestando il pilota automatico (! ma ciò non significa che al suo posto si possa mettere un robot!)

Pubblico entusiasta e Orchestra che manifesta apprezzamento per il Direttore, accogliendolo all’ultima uscita con applausi ritmati. Insomma, una serata davvero splendida!