affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

16 ottobre, 2017

Il Tristan (di serie A-2) del Regio


Ieri pomeriggio il Regio torinese ha ospitato la quarta delle sette recite di Tristan und Isolde (il Teatro impiega, chissà perchè, il titolo italiano, che a me ricorda sempre la dissacrante parafrasi pippa su auto d’epoca, evabbè...)

Tristan è fuor di dubbio la prova più sfidante per un Direttore d’orchestra, quindi rendo subito omaggio alla prestazione del mio illustre concittadino, la cui prova d’esordio di martedi scorso è stata peraltro unanimemente apprezzata, almeno così deduco da ciò che si legge su carta e pixel.

Poi faccio i complimenti ai grafici della mood-design.it per la fulminante intuizione che li ha portati a ideare lo sfondo per la pubblicità dell’opera:


La silhouette della coppa del filtro d’amore disegnata dai profili dei due amanti!

Ma allora: perchè un Tristan di serie A-2

È una mia personale valutazione. Che applico automaticamente, a prescindere, proprio senza-se-e-senza-ma, a tutte quelle produzioni (non sono poche nè infrequenti, anche in presenza di nomi celebri, come vedremo) che per fare uno sconto sostanzioso soprattutto al tenore (e/o pensando di fare un gradito sconto al pubblico!) tagliano il 25% (322 battute!) del duetto del second’atto (su altri tagli e taglietti riesco a transigere...) Con ciò non solo cassando più di 10 minuti di grande musica, il che è già un delitto, ma anche eliminando una parte del testo che è indispensabile (certo, per chi segue anche la trama e quindi le parole, non per chi, con la scusa del crucco, si limita ad ascoltare passivamente la musica e magari non vede l’ora che finisca...) per comprendere tutte le implicazioni psicologiche della vicenda. È proprio in quei 10 minuti, dalle domande di Isolde e dalle risposte di Tristan, che noi scopriamo finalmente le ragioni, gli antecedenti e i retroscena di tutto ciò che è passato fra i due nel primo atto, e che allora non riuscivamo a spiegarci! Senza questa porzione del testo (5 interventi di Tristan e 4 di Isolde) l’intera trama resta nella più totale incomprensibilità. Ecco perchè l’integrità di questa parte dell’opera è per me condizione necessaria (non sufficiente, s’intende) perchè si possa catalogare la produzione fra quelle di serie A. (Dopodichè, anche la serie A-2 è ricca di buone squadre e di partite interessanti, per carità...)

Riporto in coda al post (la traduzione è del sommo Guido Manacorda) l’intero testo della seconda scena dell’atto II, con l’evidenza in giallo della parte proditoriamente tagliata: ognuno giudichi da sè dell’enormità del misfatto.

Purtroppo, come detto, lo scandalo si ripete spesso e volentieri, e da lunga pezza (nel ‘900 questo taglio, insieme ad altri, diventò quasi uno standard, e persino per tenori di indiscussa fama, come Lauritz Melchior e Max Lorenz): qui ecco ben cinque testimonianze, le prime proprio con Melchior e Lorenz, le altre relativamente recenti, con protagonisti anche illustri (il minutaggio si riferisce all’inizio del taglio):

- 1937 Melchior-Flagstad (a 1h36’43”)

- 1951 Lorenz-Grob (a 3’55”)

- 1981 Vickers-Norman (a 18’49”)

- 1993 Kollo-Jones (a 18’22”)

- 1996 West-Behrens (a 21’43”).

Ecco invece cosa ci ha lasciato Wagner e cosa ci è stato negato al Regio:

- 1995 Jerusalem-Meier (da 4’01” a 13’11”)

- 2004 Treleaven-Urmana (da 20’12” a 30’09”)

- 2013 Smith-Urmana (da 17’44” a 27’33”).

Infine: lo stesso Seiffert, con la Theorin, nel 2015 (da 21’00” a 31’42”).

Peccato davvero per il Regio! E mi spiace anche per l’autorevole Giorgio Pestelli, che sul giornale torinese ha minimizzato la cosa, definendola piccolo taglio! Più ancora mi spiace per Noseda, che pur non essendo (su questo potrei giurare) il mandante del misfatto, tuttavia - ai miei occhi - viene trascinato anche lui in serie A-2 con il resto della compagnia... 
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L’allestimento di Guth (già ampiamente conosciuto, perchè presentato anni fa a Zurigo) non contribuisce, a mio avviso, a sollevare le sorti della produzione. Lo spettacolo è ovviamente di alto livello (e ci mancherebbe, con ciò che costano le parcelle dei registi) ma ha il difetto (anche questo abbastanza tipico del Regietheater) di presentarci, invece del significante (l’originale) uno dei suoi tanti possibili significati: invece dell’archetipo, in sostanza, ci viene presentato un particolare tipo, col che si compie esattamente il percorso inverso rispetto a quello – faticosissimo, e geniale per davvero – compiuto dall’Autore, che ci ha messo l’anima per sublimare la prosaica realtà di rapporti e sentimenti umani (anche e proprio quelli da lui vissuti presso i Wesendonck) onde distillarne il soggetto di un’opera d’arte che si libra ben al di sopra di quella prosaica realtà.  

Al proposito ecco come lo stesso Wagner presentava la sua impresa: Poichè in tutta la mia esistenza non ho mai accolto nella sua perfezione la felicità dell’amore, voglio elevare a questo, che è il più bello di tutti i sogni, un monumento, un dramma in cui il desiderio d’amore sia pienamente soddisfatto. E il dramma è proprio un monumento all’amore, mentre Guth impiega testo e musica di Wagner per presentarci una delle tante tresche borghesi che fanno notizia su rotocalchi e riviste di pettegolezzo. Nobbuono...

Il regista medesimo ci indica un parallelo fra il soggetto del dramma e vicende e personaggi del periodo trascorso da Wagner a Zurigo. Sarebbe stato meglio non farlo, perchè suggerirci di vedere Tristan in Richard, Isolde in Mathilde, Marke in Otto è operazione tanto facile quanto penalizzante per il soggetto. Penalizzante perchè il parallelo fra i personaggi dell’archetipo e le persone del tipo è sbilenco e si porta dietro stupide contraddizioni: perchè tutti noi sappiamo bene che Richard amò una Mathilde già felicemente sposata, e con prole, a Otto (che la rimise incinta per la quinta volta dopo che l’opera era venuta alla luce!); mentre il testo che ascoltiamo ci presenta un Tristan che si innamora di un’Isolde nubile, ed anzi la porta quasi di forza a sposare un Marke vecchio vedovo senza prole, rincoglionito e presumibilmente impotente: uno scenario un filino diverso, vero?

E comunque, anche dimenticando (per chi lo conosce e può comprenderne le contraddizioni) il riferimento biografico a Wagner, l’ambientazione di Guth si porta dietro altri problemi: il soggetto vive sulla insanabile contraddizione fra le pulsioni sconfinate degli animi umani - di cui il mare (negli atti esterni) e la natura romantica (corni) e decadente (giardini fioriti) in quello centrale rappresentano l’allegoria - e la claustrofobia immateriale della quale quegli stessi animi soffrono a causa delle prosaiche regole della cosiddetta convivenza civile (rappresentata dalla fiaccola perennemente accesa sulla porta della dimora di Isolde). Dall’allestimento di Guth invece lo spettatore trae l’impressione (fallace!) che tutti i problemi esistenziali dei protagonisti nascano precisamente dal chiuso ambiente materiale che li circonda e li sequestra quasi fosse una prigione...


Siccome nell’opera non c’è praticamente azione (tutto gira attorno alla psiche dei due protagonisti) la sua messinscena è sempre problematica e probabilmente l’approccio meno disturbante sarebbe quello tipo-Wieland, per intenderci: scene praticamente spoglie, con richiami stilizzati all’ambiente esterno, per concentrare tutta l‘attenzione del pubblico sul dramma interno che si svolge davanti ai suoi occhi e dentro le sue orecchie. Insomma, poco teatro e tanta introspezione. Invece Guth vuol fare tantissimo (troppo!) teatro, inventando azione dove non c’è, e così ecco che siamo continuamente distratti dal seguire i contenuti profondi del dramma dal perenne turbinare di ambienti (camere da letto, da pranzo, da riunione, serre e quant’altro) nei quali i protagonisti si devono trasferire di volta in volta.

Quanto alla parte attoriale, Guth è un maestro e i due protagonisti si muovono precisamente come da copione. Peccato però che – nell’intento di strafare – il nostro scada nel triviale e nell’offensivo: mi riferisco alle figure di Kurwenal e del pastore (un po’ anche a quella di Melot) ridotte a macchiette da avanspettacolo (altro che teatro!) Il culmine si raggiunge appunto nel terz’atto dove lo scudiero di Tristan e il pastore ci vengono presentati come due avvinazzati. Il primo poi arriva a disturbare insopportabilmente il mirabile assolo del corno inglese: seduto per terra al proscenio, fa il tiro a segno cercando di lanciare sassolini dentro un suo stivale collocato proprio sopra la buca d’orchestra: siccome 9 volte su 10 fa cilecca, ecco che il rumore del mancato bersaglio (oltre alla stupidità di quei gesti) rovina irrimediabilmente la straordinaria atmosfera creata dalle note di Wagner. 

Il culmine della parodia si raggiunge quando il pastore cerca di fregarsi una bottiglia di birra di Kurwenal, e questi gliela strappa di mano proprio mentre canta: lass die Frage (!!!) Insomma, alla fine il succo dell’operazione di Guth si può così sintetizzare, con un parallelo enologico: dalla purezza della grappa distillata siamo regrediti alla sgradevole poltiglia della vinaccia! 
___ 
Torno ai suoni, per ribadire il positivo giudizio sulla lettura di Gianandrea Noseda. Lettura quasi cameristica e per questo assai apprezzabile. Come il risalto dato a tanti minimi dettagli, altrettanti tocchi di cesello a modellare quella straordinaria scultura in note che ha letteralmente cambiato il corso della storia della musica.

L’Orchestra ha risposto bene, compreso il complesso di fiati posto dietro le quinte; peccato solo per quella falsa partenza del corno proprio al suo attacco nel Preludio dell’atto terzo, che ha un po’ compromesso la resa di quel mirabile momento... Il coro dei maschi di Claudio Fenoglio ha fatto il suo dovere, a fronte di un impegno non proibitivo, limitato al primo atto.

Vengo alle voci. Peter Seiffert (sul quale avevo letto giudizi assai poco lusinghieri dopo la prima) mi è parso abbastanza a posto e ha tenuto più che degnamente anche il massacrante terzo atto. Mi risulta quindi ancor più incomprensibile la ragione del famigerato taglio del second’atto.

Ricarda Merbeth ha voce molto potente negli acuti (dove peraltro tende un filino a... sbracare, virando all’urlo) mentre purtroppo centro e gravi sono assai poco udibili. Un’Isolde comunque più che dignitosa.

Meglio di lei – per me, ovvio – la Michelle Breedt: certo la parte di Brangäne non è confrontabile con quella della protagonista, tuttavia questa veterana e specialista del ruolo ha ancora una volta convinto, in particolare nei suoi due notturni interventi del second’atto.

Ottimo davvero il Kurwenal di Martin Gantner, voce penetrante e benissimo impostata: peccato che il regista lo abbia costretto a fare... lo scemo del villaggio.

Il Marke di Steven Humes non ha demeritato, anche se il suo è un canto piuttosto monocorde e poco espressivo. Inoltre – sempre a mio personale giudizio - a quel ruolo si addicono meglio le caratteristiche di un basso profondo (tipo Inquisitore, ecco) piuttosto che quelle di un basso-baritono.

Ian Vacik ha fatto il minimo sindacale come Melot, ed è difficile pretendere di più. Stesso discorso per il pastore Joshua Sanders e il timoniere Franco Rizzo. Patrick Reiter, il marinaio cui è affidato l’ingrato compito di aprire lo spettacolo, ha un po’ sofferto la collocazione fisica, per me eccessivamente lontana dalla sala: dove il suo canto arrivava appena appena; comunque se l’è cavata anche lui discretamente.
___
Che dire, tirando le somme? Un Tristan che non passerà certo alla storia (forse nessuno lo pretendeva) e del quale personalmente mi accontento, ecco. Un’ultima nota sul pubblico: teatro abbastanza (ma non totalmente) affollato all’inizio e pubblico ulteriormente smagritosi nei due intervalli. Ahinoi, a dimostrazione che siamo ancora e sempre lontani da un livello accettabile di... scolarizzazione musicale.
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ZWEITE SZENE
Tristan und Isolde
SCENA SECONDA
Tristano e Isolda
TRISTAN
(stürzt herein)
Isolde! Geliebte!
TRISTANO
(entra precipitosamente)
Isolda! Cara!
ISOLDE
(ihm entgegenspringend)
Tristan! Geliebter!
ISOLDA
(balzandogli incontro)
Tristano! Caro!
(Stürmische Umarmungen beider, unter denen sie in den Vordergrund gelangen)
(Impetuosi amplessi, durante i quali essi raggiungono il proscenio)
ISOLDE
Bist du mein?
ISOLDA
Sei tu mio?
TRISTAN
Hab ich dich wieder?
TRISTANO
Ti ho nuovamente?
ISOLDE
Darf ich dich fassen?
ISOLDA
Ti posso abbracciare?
TRISTAN
Kann ich mir trauen?
TRISTANO
Posso credere a me stesso?
ISOLDE
Endlich! Endlich!
ISOLDA
Finalmente! Finalmente!
TRISTAN
An meiner Brust!
TRISTANO
Al mio cuore!
ISOLDE
Fühl ich dich wirklich?
ISOLDA
Veramente ti sento?
TRISTAN
Seh' ich dich selber?
TRISTANO
Proprio ti vedo?
ISOLDE
Dies deine Augen?
ISOLDA
Sono questi i tuoi occhi?
TRISTAN
Dies dein Mund?
TRISTANO
Questa la tua bocca?
ISOLDE
Hier deine Hand?
ISOLDA
Qui la tua mano?
TRISTAN
Hier dein Herz?
TRISTANO
Qui il tuo cuore?
ISOLDE
Bin ich's? Bist du's?
Halt ich dich fest?
ISOLDA
Sono proprio io? Sei proprio tu?
Ti tengo stretto?
TRISTAN
Bin ich's? Bist du's?
Ist es kein Trug?
TRISTANO
Sono proprio io? Sei proprio tu?
Non è un inganno?
BEIDE
Ist es kein Traum?
O Wonne der Seele,
o süsse, hehrste,
kühnste, schönste,
seligste Lust!
AMBEDUE
Non è un sogno?
O delizia dell'anima,
o dolce, nobilissima,
arditissima, bellissima,
beatissima gioia!
TRISTAN
Ohne Gleiche!
TRISTANO
Senza pari!
ISOLDE
Überreiche!
ISOLDA
Traboccante!
TRISTAN
Überselig!
TRISTANO
Sovrumana!
ISOLDE
Ewig!
ISOLDA
Eterna!
TRISTAN
Ewig!
TRISTANO
Eterna!
ISOLDE
Ungeahnte,
nie gekannte!
ISOLDA
Non presentita,
mai conosciuta!
TRISTAN
Überschwenglich
hoch erhabne!
TRISTANO
Sconfinata,
alta, sublime!
ISOLDE
Freudejauchzen!
ISOLDA
Ebrezza di gioia!
TRISTAN
Lustentzücken!
TRISTANO
Estasi di piacere!
ISOLDE
Himmelhöchstes
Weltentrücken!
Mein! Tristan mein!
Mein und dein!
Ewig, ewig ein!
ISOLDA
Altissimo celeste
rapimento dal mondo!
Mio! Tristano mio!
Mio e tuo!
Eternamente, eternamente uno!
TRISTAN
Himmelhöchstes
Weltentrücken!
Mein! Isolde mein!
Mein und dein!
Ewig, ewig ein!
TRISTANO
Altissimo celeste
rapimento dal mondo!
Mio! Isolda mio!
Mio e tuo!
Eternamente, eternamente uno!
ISOLDE
Wie lange fern!
Wie fern so lang!
ISOLDA
Quanto tempo lontani!
Come lontani per tanto tempo!
TRISTAN
Wie weit so nah!
So nah wie weit!
TRISTANO
Così lontani [essendo] così vicini!
Così vicini [eppure] così lontani!
ISOLDE
O Freundesfeindin,
böse Ferne!
Träger Zeiten
zögernde Länge!
ISOLDA
O nemica degli amici
maligna lontananza!
Di pigri tempi
indugiante lentezza!
TRISTAN
O Weit' und Nähe!
Hart entzweite!
Holde Nähe!
Öde Weite!
TRISTANO

O lontananza e vicinanza!
Duramente separate!
Grata vicinanza!
Desolata lontananza!
ISOLDE
Im Dunkel du,
im Lichte ich!
ISOLDA
Tu all'oscuro,
io alla luce!
TRISTAN
Das Licht! Das Licht!
O dieses Licht,
wie lang verlosch es nicht!
Die Sonne sank,
der Tag verging,
doch seinen Neid
erstickt' er nicht:
sein scheuchend Zeichen
zündet er an,
und steckt's an der Liebsten Türe,
dass nicht ich zu ihr führe.
TRISTANO
La luce! La luce!
O questa luce,
per quanto tempo non si è spenta!
Tramontato era il sole
e scomparso il giorno;
pure la propria invidia
egli non soffocava:
il suo segnale che allontana
egli accende;
e lo infigge presso la porta dell'amata,
perché io non possa recarmi da lei.
ISOLDE
Doch der Liebsten Hand
löschte das Licht;
wes die Magd sich wehrte,
scheut' ich mich nicht:
in Frau Minnes Macht und Schutz
bot ich dem Tage Trutz!
ISOLDA
Ma la mano dell'amica
ha spento la luce;
di quello che l'ancella non osò
non ebbi io paura:
nella potenza e nella protezione di monna Minne
io lanciai al giorno la mia sfida.
TRISTAN
Dem Tage! dem Tage!
dem tückischen Tage,
dem härtesten Feinde
Hass und Klage!
Wie du das Licht,
o könnt' ich die Leuchte,
der Liebe Leiden zu rächen,
dem frechen Tage verlöschen!
Gibt's eine Not,
gibt's eine Pein,
die er nicht weckt
mit seinem Schein?
Selbst in der Nacht
dämmernder Pracht
hegt ihn Liebchen am Haus,
streckt mir drohend ihn aus!
TRISTANO
Al giorno! Al giorno!
Al frodolento giorno,
al più crudele dei nemici
odio ed accusa!
Come tu la luce,
oh potess'io la fiaccola,
per vendicare i dolori dell'amore,
al prepotente giorno spegnere!
C'è un'angoscia,
c'è una pena,
ch'egli non susciti
con la sua luce?
Anche della notte
nella magnificenza crepuscolare,
la mia piccola lo mantiene nella sua casa,
lo protende minacciosamente contro di me!
ISOLDE
Hegt ihn die Liebste
am eignen Haus,
im eignen Herzen
hell und kraus,
hegt' ihn trotzig
einst mein Trauter:
Tristan, - der mich betrog!
War's nicht der Tag,
der aus ihm log,
als er nach Irland
werbend zog,
für Marke mich zu frein,
dem Tod die Treue zu weihn.
ISOLDA
Se la tua amica lo mantiene
nella propria dimora,
nel suo cuore,
chiaro, fiammeggiante
lo mantenne spavaldamente
un giorno il mio amico:
Tristano,... che m'ingannò!
Non fu il giorno
che in lui mentì,
quand'egli in Irlanda
andò quale messo di nozze,
per sposarmi a re Marco,
e la sua fedele consacrare alla morte?
TRISTAN
Der Tag! Der Tag,
der dich umgliss,
dahin, wo sie
der Sonne glich,
in höchster Ehren
Glanz und Licht
Isolde mir entrückt'!
Was mir das Auge
so entzückt',
mein Herze tief
zur Erde drückt':
in lichten Tages Schein
wie war Isolde mein?
TRISTANO
Il giorno! Il giorno
che intorno t'irraggiò,
e colà, dove ella
rassomigliò al sole,
di altissimi onori
nella luce e nello splendore,
Isolda a me rapì!
Quel che a me l'occhio
così estasiava,
il mio cuore profondamente
a terra abbatteva:
nella chiara luce del giorno,
come poteva Isolda essere mia?
ISOLDE
War sie nicht dein,
die dich erkor?
Was log der böse
Tag dir vor,
dass, die für dich beschieden,
die Traute du verrietest?
ISOLDA
Non fu ella tua
colei che ti scelse?
Quale menzogna il maligno
giorno ti mentì,
perché, colei che era a te destinata,
la tua amata, tu avessi a tradire?
TRISTAN
Was dich umgliss
mit hehrster Pracht,
der Ehre Glanz,
des Ruhmes Macht,
an sie mein Herz zu hangen,
hielt mich der Wahn gefangen.
Die mit des Schimmers
hellstem Schein
mir Haupt und Scheitel
licht beschien,
der Welten-Ehren
Tages-Sonne,
mit ihrer Strahlen
eitler Wonne,
durch Haupt und Scheitel
drang mir ein,
bis in des Herzens
tiefsten Schrein.
Was dort in keuscher Nacht
dunkel verschlossen wacht',
was ohne Wiss' und Wahn
ich dämmernd dort empfahn:
ein Bild, das meine Augen
zu schaun sich nicht getrauten,
von des Tages Schein betroffen
lag mir's da schimmernd offen.
Was mir so rühmlich
schien und hehr,
das rühmt ich hell
vor allem Heer;
vor allem Volke
pries ich laut
der Erde schönste
Königsbraut.
Dem Neid, den mir
der Tag erweckt';
dem Eifer, den
mein Glücke schreckt';
der Missgunst, die mir Ehren
und Ruhm begann zu schweren:
denen bot ich Trotz,
und treu beschloss,
um Ehr' und Ruhm zu wahren,
nach Irland ich zu fahren.
TRISTANO
Come intorno ti irraggiarono
con nobile magnificenza
lo splendore dell'onore,
e la potenza della gloria;
di stringermi ad essi col mio cuore,
m'irretì il mio delirio.
La stella, che del suo splendore
con la più lucente fiamma,
a me capo e fronte
chiaramente illuminava -
degli onori mondani
il sole del giorno -
dei suoi raggi
con la vana delizia
attraversando e capo e fronte,
penetrò in me
del cuore
fin nella più profonda lacuna.
Quel che, colà in casta notte
chiuso all'oscuro vegliava,
quel che, senza saperlo e senza sognarlo
in quella lacuna crepuscolare avevo accolto:
un'immagine, che i miei occhi
non si fidavano di contemplare,
colpita dai raggi del giorno
mi apparve aperta nel suo splendore.
Quel che a me così glorioso
appariva ed augusto,
io lo vantai apertamente
davanti a tutte le schiere;
davanti a tutto il popolo
ad alta voce celebrai
come la più bella della terra,
la fidanzata regale.
All'invidia, che contro di me
il giorno aveva suscitato,
alla gelosia, che
la mia fortuna aveva atterrito,
al disfavore, che al mio onore
ed alla mia fama cominciava a portar danno:
a tutti io lanciai la mia sfida,
e fedelmente decisi,
per conservare il mio onore e la mia gloria,
di recarmi in Irlanda.
ISOLDE
O eitler Tagesknecht!
Getäuscht von ihm,
der dich getäuscht,
wie musst' ich liebend
um dich leiden,
den, in des Tages
falschem Prangen,
von seines Gleissens
Trug befangen,
dort wo ihn Liebe
heiss umfasste,
im tiefsten Herzen
hell ich hasste.
Ach, in des Herzens Grunde,
wie schmerzte tief die Wunde!
Den dort ich heimlich barg,
wie dünkt' er mich so arg,
wenn in des Tages Scheine
der treu gehegte eine
der Liebe Blicken schwand,
als Feind nur vor mir stand!
Das als Verräter
dich mir wies,
dem Licht des Tages
wollt' ich entfliehn,
dorthin in die Nacht
dich mit mir ziehn,
wo der Täuschung Ende
mein Herz mir verhiess;
wo des Trugs geahnter
Wahn zerrinne;
dort dir zu trinken
ew'ge Minne,
mit mir dich im Verein
wollt' ich dem Tode weihn.
ISOLDA
O vano servo del giorno!
Da quello illuso
che t'illudeva,
quanto dovetti io amando
per te soffrire!
Colui, del giorno
nella falsa magnificenza,
e del suo splendore
dall'inganno preso,
colà, dove l'amore
ardentemente l'aveva accolto,
dal più profondo del cuore
apertamente odiai.
Ah! nel profondo del cuore,
come profondo mi straziava la ferita!
Colui che colà segretamente avevo celato,
come mi sembrò odioso,
quando, nella luce del giorno,
egli solo fedelmente amato,
sparve agli sguardi d'amore
e davanti a me stette, nemico!
Quella luce che traditore
mi ti mostrava,
a quella luce del giorno
volli sfuggire;
e laggiù in quella notte
te con me trarre,
dove la fine dell'illusione
il mio cuore mi prometteva;
dove dell'inganno il presagito
errore si sperdesse;
per libare a te colà
eterno amore,
te insieme con me
volli io consacrare alla morte.
TRISTAN
In deiner Hand
den süssen Tod,
als ich ihn erkannt,
den sie mir bot;
als mir die Ahnung
hehr und gewiss
zeigte, was mir
die Sühne verhiess:
da erdämmerte mild
erhabner Macht
im Busen mir die Nacht;
mein Tag war da vollbracht.
TRISTANO
Nella tua mano
la dolce morte
quand'io la riconobbi
ch'ella m'offriva;
quando un presentimento
nobile, certo,
mostrò quel che a me
la riconciliazione prometteva,
allora sorse, come un dolce crepuscolo
di sublime potenza,
nel mio cuore la notte;
fu il mio giorno consumato.
ISOLDE
Doch ach, dich täuschte
der falsche Trank,
dass dir von neuem
die Nacht versank:
dem einzig am Tode lag,
den gab er wieder dem Tag!
ISOLDA
Pure, ahimè, t'illuse
il perfido filtro,
così che a te nuovamente
s'affondò la notte:
colui, che solo pensava alla morte,
il filtro donò nuovamente al giorno!
TRISTAN
O Heil dem Tranke!
Heil seinem Saft!
Heil seines Zaubers
hehrer Kraft!
Durch des Todes Tor,
wo er mir floss,
weit und offen
er mir erschloss,
darin ich sonst nur träumend gewacht,
das Wunderreich der Nacht.
Von dem Bild in des Herzens
bergendem Schrein
scheucht er des Tages
täuschenden Schein,
dass nachtsichtig mein Auge
wahr es zu sehen tauge.
TRISTANO
Oh! benedetto quel filtro!
Benedetto il suo succo!
Benedetto della sua magia
il nobile potere!
Attraverso la porta della morte,
là dove per me fu versato,
ampio ed aperto
esso mi schiuse
quello che io non avevo visto che in sogno:
il reame meraviglioso della morte.
Dall'immagine, del cuore
nel celeste scrigno [racchiusa],
esso cacciò del giorno
l'ingannevole luce,
affinché il mio occhio veggente nella notte
valesse a contemplarla nella sua realtà.
ISOLDE
Doch es rächte sich
der verscheuchte Tag;
mit deinen Sünden
Rat's er pflag;
was dir gezeigt
die dämmernde Nacht,
an des Taggestirnes
Königsmacht
musstest du's übergeben,
um einsam
in öder Pracht
schimmernd dort zu leben.
Wie ertrug ich's nur?
Wie ertrag ich's noch?
ISOLDA
Pure si vendicò
il giorno cacciato;
coi tuoi peccati
egli prese consiglio;
quel che ti aveva mostrato
la notte crepuscolare,
alla della costellazione del giorno
regale potenza,
dovesti consegnare:
per solitario,
in deserta magnificenza
e splendidamente vivere in essa.
Come l'ho mai potuto sopportare?
Come lo sopporto ancora?
TRISTAN
O nun waren wir
Nachtgeweihte!
Der tückische Tag,
der Neidbereite,
trennen konnt uns sein Trug,
doch nicht mehr täuschen sein Lug!
Seine eitle Pracht,
seinen prahlenden Schein
verlacht, wem die Nacht
den Blick geweiht:
seines flackernden Lichtes
flüchtige Blitze
blenden uns nicht mehr.
Wer des Todes Nacht
liebend erschaut,
wem sie ihr tief
Geheimnis vertraut:
des Tages Lügen,
Ruhm und Ehr',
Macht und Gewinn,
so schimmernd hehr,
wie eitler Staub der Sonnen
sind sie vor dem zersponnen!
In des Tages eitlem Wähnen
bleibt ihm ein einzig Sehnen -
das Sehnen hin
zur heil'gen Nacht,
wo urewig,
einzig wahr
Liebeswonne ihm lacht!
TRISTANO
Oh eravamo ormai
consacrati alla notte!
Il frodolento giorno,
pronto all'invidia,
ci poteva separare col suo inganno,
ma non più illudere con la sua menzogna!
La sua vana magnificenza,
il suo vanitoso bagliore
deride, colui al quale la notte
ha consacrato la vista!
Della sua luce vacillante
i lampi fuggitivi
non ci abbagliano più.
Chi la notte della morte
ha visto in amore;
colui al quale ella il suo profondo
segreto ha affidato,
le menzogne del giorno,
la gloria e l'onore,
la potenza e la ricchezza,
per quanto splendidi e nobili,
come vana polvere solare
davanti a lui si sono dissipati!
Nella vana illusione del giorno
rimane a colui una sola aspirazione...
l'aspirazione laggiù,
verso la sacra notte,
dove dall'eternità,
unico vero,
a lui sorride la voluttà d'amore!
(Tristan zieht Isolde sanft zur Seite auf eine Blumenbank nieder, senkt sich vor ihr auf die Knie und schmiegt sein Haupt in ihren Arm)
(Tristano trae Isolda dolcemente al suo fianco su d'un sedile fiorito, le si inginocchia davanti, e poggia il capo tra le sue braccia)
BEIDE
O sink hernieder,
Nacht der Liebe,
gib Vergessen,
dass ich lebe;
nimm mich auf
in deinen Schoss,
löse von
der Welt mich los!
AMBEDUE
Oh scendi quaggiù,
notte d'amore;
dona l'oblio
che io viva;
accoglimi
nel tuo seno;
scioglimi
via dal mondo!
TRISTAN
Verloschen nun
die letzte Leuchte;
TRISTANO
Spente ormai
le ultime luci;
ISOLDE
was wir dachten,
was uns deuchte;
ISOLDA
quel che noi pensammo,
quel che a noi parve;
TRISTAN
all Gedenken -
TRISTANO
ogni ricordo...
ISOLDE
all Gemahnen -
ISOLDA
ogni sovvenire,...
BEIDE
heil'ger Dämm'rung
hehres Ahnen
löscht des Wähnens Graus
welterlösend aus.
AMBEDUE
di un sacro crepuscolo
l'augusto presagio
l'orrore dell'illusione scioglie,
liberando dal mondo.
ISOLDE
Barg im Busen
uns sich die Sonne,
leuchten lachend
Sterne der Wonne.
ISOLDA
[Da poi che] s'è nascosto in cuore
a noi il sole,
splendono ridendo
stelle di voluttà.
TRISTAN
Von deinem Zauber
sanft umsponnen,
vor deinen Augen
süss zerronnen;
TRISTANO
Dal tuo incanto
lievemente circonfuso,
davanti ai tuoi occhi
dolcemente perduto;
ISOLDE
Herz an Herz dir,
Mund an Mund;
ISOLDA
il mio cuore sul tuo,
sulla tua la mia bocca;
TRISTAN
eines Atems
ein'ger Bund; -
TRISTANO
di un solo respiro
unico vincolo;...
BEIDE
bricht mein Blick sich
wonn'-erblindet,
erbleicht die Welt
mit ihrem Blenden:
AMBEDUE
si smarrisce il mio sguardo
abbagliato dalla voluttà,
impallidisce il mondo
col suo barbaglio.
ISOLDE
die uns der Tag
trügend erhellt,
ISOLDA
Quel mondo, che il giorno
ingannevolmente illumina,
TRISTAN
zu täuschendem Wahn
entgegengestellt,
TRISTANO
per mentita illusione
a noi contrapposto,
BEIDE
selbst dann
bin ich die Welt:
Wonne-hehrstes Weben,
Liebe-heiligstes Leben,
Niewiedererwachens
wahnlos
hold bewusster Wunsch.
AMBEDUE
io stesso, dunque,
sono quel mondo:
sacra trama di voluttà
santa vita di passione
del mai più svegliarsi
vigile,
dolce, consapevole volere.
(Tristan und Isolde versinken wie in gänzliche Entrücktheit, in der sie, Haupt an Haupt auf die Blumenbank zurückgelehnt, verweilen)
(Tristano ed Isolda si perdono nella plenitudine dell'estasi, indugiando, abbandonati sul sedile fiorito, capo appoggiato a capo)
BRANGÄNES STIMME
(von der Zinne her)
Einsam wachend
in der Nacht,
wem der Traum
der Liebe lacht,
hab der einen
Ruf in acht,
die den Schläfern
Schlimmes ahnt,
bange zum
Erwachen mahnt.
Habet acht!
Habet acht!
Bald entweicht die Nacht.
VOCE DI BRANGANIA
(dalla terrazza merlata)
Solitaria vigilante
nella notte;
colui, al quale il sogno
dell'amore sorride,
presti di una sola
al grido attenzione;
di colei che ai dormienti
presagisce il periglio,
ed ansiosamente al
risveglio li chiama.
Attenti!
Attenti!
Presto cede la notte.
 
 
ISOLDE
(leise)
Lausch, Geliebter!
ISOLDA
(sommessamente)
Odi, mio caro!
TRISTAN
(ebenso)
Lass mich sterben!
TRISTANO
(c.s.)
Lasciami morire!
ISOLDE
(allmählich sich ein wenig erhebend)
Neid'sche Wache!
ISOLDA
(lentamente di poco sollevandosi)
Invidiosa vigilia!
TRISTAN
(zurückgelehnt bleibend)
Nie erwachen!
TRISTANO
(rimanendo supino)
Mai più svegliarsi!
ISOLDE
Doch der Tag
muss Tristan wecken?
ISOLDA
Eppure il giorno
dovrà svegliare Tristano?
TRISTAN
(ein wenig das Haupt erhebend)
Lass den Tag
dem Tode weichen!
TRISTANO
(sollevando un poco il capo)
Lascia che il giorno
ceda alla morte!
ISOLDE
Tag und Tod,
mit gleichen Streichen,
sollten unsre
Lieb' erreichen?
ISOLDA
Giorno e morte
con gli stessi colpi,
dovrebbero il nostro
amore colpire?
TRISTAN
(sich mehr aufrichtend)
Unsre Liebe?
Tristans Liebe?
Dein' und mein',
Isoldes Liebe?
Welches Todes Streichen
könnte je sie weichen?
Stünd' er vor mir,
der mächt'ge Tod,
wie er mir Leib
und Leben bedroht,
die ich so willig
der Liebe lasse,
wie wäre seinen Streichen
die Liebe selbst zu erreichen?
(immer inniger mit dem Haupt
sich an Isolde schmiegend)

Stürb ich nun ihr,
der so gern ich sterbe,
wie könnte die Liebe
mit mir sterben,
die ewig lebende
mit mir enden?
Doch, stürbe nie seine Liebe,
wie stürbe dann Tristan
seiner Liebe?
TRISTANO
(sollevandosi maggiormente)
Il nostro amore?
L'amore di Tristano?
Il tuo e il mio?
L'amore d'Isolda?
Quale colpo di morte
potrebbe mai vincerlo?
Stesse avanti a me
la morte potente,
a me persona
e vita minacciando,
che così volentieri
ad amore io sacrifico;
come sarebbe ai suoi colpi
l'amore stesso raggiungibile?
(sempre più intimo, col capo
stretto alla persona d'Isolda)

Morissi anche io d'amore,
onde così volentieri io muoio,
come potrebbe l'amore
con me morire,
l'eterno vivente
con me finire?
Ma, se l'amore di lui non potrà mai morire,
come potrebbe mai Tristano morire
al suo amore?
ISOLDE
Doch unsre Liebe,
heisst sie nicht Tristan
und - Isolde?
Dies süsse Wörtlein: und,
was es bindet,
der Liebe Bund,
wenn Tristan stürb,
zerstört' es nicht der Tod?
ISOLDA
Ma il nostro amore
non si chiama Tristano
e... Isolda?
Questa dolce paroletta: e
quel ch'essa congiunge,
questo vincolo d'amore,
se Tristano morisse,
non verrebbe distrutto dalla morte?
TRISTAN
Was stürbe dem Tod,
als was uns stört,
was Tristan wehrt,
Isolde immer zu lieben,
ewig ihr nur zu leben?
TRISTANO
Che cosa soccomberebbe alla morte,
se non quel che ci disturba,
se non quel che impedisce a Tristano
di amare sempre Isolda,
e di vivere eternamente per lei?
ISOLDE
Doch dieses Wörtlein: und, -
wär' es zerstört,
wie anders als
mit Isoldes eignem Leben
wär' Tristan der Tod gegeben?
ISOLDA
Pure se questa paroletta: e,...
fosse annientata;
come altrimenti che
con la vita stessa d'Isolda,
potrebbe essere data la morte a Tristano?
(Tristan zieht, mit bedeutungsvoller Gebärde, Isolde sanft an sich)
(Tristano, con gesto pieno d'amore, attira Isolda dolcemente a sé)
TRISTAN
So starben wir,
um ungetrennt,
ewig einig
ohne End',
ohn' Erwachen,
ohn' Erbangen,
namenlos
in Lieb' umfangen,
ganz uns selbst gegeben,
der Liebe nur zu leben!
TRISTANO
Così siamo morti:
per inseparati,
eternamente congiunti,
senza fine,
senza risveglio,
senza sospetto,
ineffabilmente
presi in amore,
a noi soli intenti,
vivere d'amore!
ISOLDE
(wie in sinnender Entrücktheit
zu ihm aufblickend)

So stürben wir,
um ungetrennt, -
ISOLDA
(guardandolo come
in estasi pensosa)

Così noi moriremmo:
per inseparati,...
TRISTAN
ewig einig
ohne End', -
TRISTANO
eternamente congiunti,
senza fine,...
ISOLDE
ohn' Erwachen, -
ISOLDA
senza risveglio,...
TRISTAN
ohn' Erbangen, -
TRISTANO
senza sospetto,...
BEIDE
namenlos
in Lieb' umfangen,
ganz uns selbst gegeben,
der Liebe nur zu leben!
AMBEDUE
ineffabilmente
presi in amore,
a noi soli intenti,
vivere solo all'amore!
(Isolde neigt wie überwältigt das Haupt an seine Brust)
(Isolda come sopraffatta china il capo sopra il suo petto)
BRANGÄNES STIMME
(wie vorher)
Habet acht!
Habet acht!
Schon weicht dem Tag die Nacht.
VOCE DI BRANGANIA
(come prima)
Attenti!
Attenti!
Già cede al giorno la notte.
TRISTAN
(lächelnd zu Isolde geneigt)
Soll ich lauschen?
TRISTANO
(chino su Isolda, e sorridente)
Debbo prestare ascolto?
ISOLDE
(schwärmerisch zu Tristan aufblickend)
Lass mich sterben!
ISOLDA
(guardando Tristano con passione)
Lasciami morire!
TRISTAN
Muss ich wachen?
TRISTANO
Debbo vegliare?
ISOLDE
Nie erwachen!
ISOLDA
Mai più svegliarsi!
TRISTAN
Soll der Tag
noch Tristan wecken?
TRISTANO
Dovrà il giorno
ancora svegliare Tristano?
ISOLDE
Lass den Tag
dem Tode weichen!
ISOLDA
Lascia che il giorno
ceda alla morte!
TRISTAN
Des Tages Dräuen
nun trotzten wir so?
TRISTANO
La minaccia del giorno
così noi sfideremmo?
ISOLDE
(mit wachsender Begeisterung)
Seinem Trug ewig zu fliehn!
ISOLDA
(con crescente esaltazione)
Alla sua frode per sempre fuggire!
TRISTAN
Sein dämmernder Schein
verscheuchte uns nie?
TRISTANO
Il bagliore del suo crepuscolo
non ci caccerebbe mai più?
ISOLDE
(mit grosser Gebärde
ganz sich erhebend)

Ewig währ uns die Nacht!
ISOLDA
(alzandosi del tutto
con gesto solenne)

Che la notte duri eterna per noi!
(Tristan folgt ihr, sie umfangen sich in schwärmerischer Begeisterung)
(Tristano la segue: essi si abbracciano con appassionata esaltazione)
BEIDE
O ew'ge Nacht,
süsse Nacht!
Hehr erhabne
Liebesnacht!
Wen du umfangen,
wem du gelacht,
wie wär' ohne Bangen
aus dir er je erwacht?
Nun banne das Bangen,
holder Tod,
sehnend verlangter
Liebestod!
In deinen Armen,
dir geweiht,
urheilig Erwarmen,
von Erwachens Not befreit!
Wie sie fassen,
wie sie lassen,
diese Wonne,
Fern der Sonne,
fern der Tage
Trennungsklage!
Ohne Wähnen
sanftes Sehnen;
ohne Bangen
süss Verlangen;
ohne Wehen
hehr Vergehen;
ohne Schmachten
hold Umnachten;
ohne Meiden,
ohne Scheiden,
traut allein,
ewig heim,
in ungemessnen Räumen
übersel'ges Träumen.
AMBEDUE
O notte eterna,
dolce notte!
Augusta, sublime
notte d'amore!
Colui che tu hai stretto,
colui al quale hai sorriso,
come senza timore
si sveglierebbe mai da te?
Bandisci dunque il timore,
o dolce morte,
o ardentemente invocata
morte d'amore!
Nelle tue braccia,
a te sacri,
[quale] ardore santo ed antico,
libero dall'angoscia del risveglio!
Come comprenderla,
come lasciarla,
questa voluttà,
lontana dal sole,
lontana dal giornaliero
dolore della separazione!
Senza illusione
mite aspirare;
senza timore
dolce desiderare;
senza dolore
alto disciogliersi;
senza languire,
grato annottare;
senza distacco,
senza separazione,
caramente soli,
ad un focolare eterno,
in interminati spazi,
sovrumano sognare:
TRISTAN
Tristan du,
ich Isolde,
nicht mehr Tristan!
TRISTANO
Tu Tristano,
io Isolda,
non più Tristano.
ISOLDE
Du Isolde,
Tristan ich,
nicht mehr Isolde!
ISOLDA
Tu Isolda,
io Tristano,
non più Isolda!
BEIDE
Ohne Nennen,
ohne Trennen,
neu Erkennen,
neu Entbrennen;
endlos ewig,
ein-bewusst:
heiss erglühter Brust
höchste Liebeslust!
(Sie bleiben in verzückter Stellung)
AMBEDUE
Senza chiamarsi,
senza separarsi,
nuovo riconoscere,
nuovo ardere;
senza fine eternamente,
intimamente consci:
cuore ardente come la fiamma,
suprema voluttà d'amore!
(Rimangono in atto estatico)

14 ottobre, 2017

laVerdi 17-18 – Concerto n°4


Oleg Caetani è il protagonista dell’appuntamento di questa settimana, con un programma tutto russo, anzi... russo-sovietico! Già, perchè proprio in questi giorni corre il secolare anniversario della Rivoluzione più amata e più odiata nella storia dell’umanità, e allora viene proposto per la prima volta in Italia l’omaggio che a quell’avvenimento rese Sergei Prokofiev nel ventesimo anniversario.

Si tratta della Cantata op.74, che a dispetto delle (verosimili) migliori intenzioni dell’Autore conobbe un’esistenza assai stentata: composta giusto in tempo per l’anniversario ottobrino, venne invece stroncata dall’establishment staliniano (forse per lesa-maestà, dato che cita discorsi del dittatore, oltre che di Lenin e Marx) e così il povero Prokofiev mai la potè udire eseguita compiutamente. Fu Kirill Kondrashin a riesumarla e presentarla al pubblico, ma solo 13 anni dopo quel giorno del 1953 in cui Stalin e Prokofiev si presero amichevolmente per mano per procedere insieme al... trapasso. Però, accipicchia, nel ’66 erano ancora tempi di de-stalinizzazione, e la Cantata comprende ben due numeri (dei 10) che riportano testi del baffuto dittatore caduto in disgrazia. Ecco che allora i due movimenti vennero cassati (per il reato di apologia dello stalinismo!) e il finale rimaneggiato. Solo nel 1992 a Londra l’opera verrà udita nella sua originale interezza, diretta da Neeme Järvi e con Gennady Rozhdestvensky voce recitante. Noi abbiamo pazientemente aspettato altri 25 anni, senza peraltro farci sopra una malattia... Qui invece un’interpretazione di Gergiev al Barbican.

Nella consueta conferenza che precede il concerto, l’autorevole russologo Fausto Malcovati e il sovietologo (per antica, seppur miglioristica, militanza) Gianni Cervetti (oh, dico, Presidente de laVerdi) hanno riassunto le vicissitudini – nello scenario poco rassicurante del periodo delle purghe staliniane - della gestazione e dell’aborto dell’opera; poi è stato lo stesso Caetani, prima di imbracciare la bacchetta, a dire la sua riguardo quest’opera, che molti bollano come ipocrita, mentre lui (e io concordo in pieno) le riconosce totale buona fede e patriottismo encomiabile (pur se mal riposto... ecco).

Palcoscenico riempito all’inverosimile (come del resto la sala dell’Auditorium, letteralmente presa d’assalto) con l’orchestra disposta in modo assai inconsueto: le viole al posto dei violini secondi messi al proscenio, davanti ai celli e con i bassi alle spalle. Ma c’era da far posto anche a pianoforti e fisarmoniche! Oltre, naturalmente, al coro di Erina Gambarini. E così membri della Filarmonica Paganelli (qui in veste di banda militare aggiunta all’orchestra) guidati da Donatella Azzarelli hanno dovuto trovar posto nella parte anteriore destra della galleria, da dove hanno peraltro realizzato un’accattivante effetto stereofonico.

Musica certo ricca di retorica ed enfasi (ma perchè, il Nevsky non lo è?) come si addice all’occasione; però Prokofiev vi si riconosce da lontano e se ne può apprezzare tutta l’inventiva e la carica genuina.

Grandissimo successo e massimo merito a laVerdi e al maestro Caetani per essere stati i primi in Italia a proporre quest’opera praticamente sconosciuta, ma assolutamente meritevole di apprezzamento.  
___
Il concerto si era aperto, come di prammatica, con una sconosciuta e desueta composizione di riempimento: la Patetica di Ciajkovski (!!!) 

Caetani ne ha dato una lettura essenziale, prosciugandola di ogni leziosità decadente (parlo dei movimenti esterni, condotti con piglio quasi espressionista) e non lesinando in fatto di energia (e di... decibel) nei due movimenti interni. Insomma, un Ciajkovski vicino al ‘900 e a Prokofiev, date le circostanze. 

10 ottobre, 2017

I tiratori tornano alla Scala


Alla Scala torna dopo quasi 20 anni di assenza Der Freischütz, unanimemente riconosciuta come il prototipo dell’opera romantica, tedesca ma non solo.

La prima apparizione dell’opera alla Scala risale al 1872 (50 anni dopo l’esordio tedesco) con il titolo Il franco cacciatore e con la traduzione dall’originale di Friedrich Kind fatta da Arrigo Boito (si noti l’esotico Freyschütz, di moda nell’800 e non solo in Italia):


Il titolo italiano non fu però farina del sacco di Boito, ma si trova già nella traduzione di Francesco Guidi (1843, Pergola di Firenze). Intanto: perchè franco? Escluso che vada inteso etnicamente, come francese, o francone (chè la vicenda si svolge in Boemia); ma neanche come schietto, o sincero (Max non pare proprio un tipo così irreprensibile). Si potrebbe allora interpretare come bravo, preciso, ma il nostro non sembra proprio tale, se deve ricorrere alla magìa per diventarlo. In realtà, se ci basiamo sul finale dell’opera, oltre che sulla traduzione letterale dal tedesco (dove frei sta per libero, ma viene usato nell’ambiente commerciale a significare franco-domicilio, porto-franco, etc.) il protagonista è franco nel senso di affrancato (sfuggito infatti all’esilio che gli aveva comminato il Principe). C’è poi chi – partendo dall’indizio delle pallottole magiche, frutto di diavoleria - azzarda che frei sia da interpretare come stregato, allucinato.

Poi: cacciatore non è certo la traduzione letterale di Schütz, che sta per tiratore (di doppietta) termine letteralmente più aderente al soggetto dell’opera, che tratta - più che di battute di caccia – di gare di tiro. Però da noi cacciatore è anche un termine militaresco, che denomina corpi di fanteria leggera esperti nel tiro, come ad esempio i bersaglieri...

E al proposito: il citato Francesco Guidi aveva precisamente tradotto il titolo come Il franco bersagliere (fantastico qui l’italianizzato De Weber: perchè non... Del Tessitore?):

 
E chissà se il Guidi, oltre ad impiegare un termine come da dizionario, abbia anche voluto rendere omaggio al corpo militare, formatosi proprio pochi anni prima.
___
Quanto alla forma, l’opera è un classico Singspiel, con numeri musicali alternati a parlati, tipo Serraglio o Flauto o Fidelio, ecco. E quindi si ripropone il solito dilemma: quanto tagliare di ciò che non suona? Staremo a sentire (a proposito: Radio3 trasmette in diretta venerdi 13).

Sappiamo che Wagner fu un ammiratore entusiasta di Weber e in particolare del Freischütz, nei quali vedeva precisamente il creatore e la creazione di un teatro musicale autenticamente Deutsch... Tale fu la devozione che nel 1844 andò in Albione a riesumare le spoglie del Maestro morto lassù 18 anni prima, onde trasferirle in patria e dar loro una seconda, trionfale sepoltura! E gli rese poi omaggio improntando l’entrata del coro femminile della Wartburg nel Tannhäuser al Vivace con fuoco dell’aria di Agathe del second’atto.

Wagner è sinonimo di Leit-Motive e Weber ne fu certamente un pioniere, in specie con Euryanthe. Qui nel Freischütz c’è invece un piccolo ma significativo esempio di impiego reiterato di un motivo, poco più di un segno, di una traccia, quasi un’impronta che ricompare in momenti e contesti diversi e con diversi accenti: un piccolo tema con variazioni nascosto fra le pieghe di questo capolavoro.

Parto dalla coda, cioè dal terzo atto, e da quella celestiale aria di Agathe Und ob die Wolke sie verhülle, introdotta e poi accompagnata dalla calda melodia del violoncello. Ecco qui:

Le note riquadrate in rosso coprono un intervallo di nona (da dominante a sesta) con ricaduta sulla dominante: una cellula di una bellezza davvero sbudellante. E riappaiono più volte, nello strumento e nella voce, nel corso della cavatina.

Andando a ritroso al primo atto, ecco che ritroviamo quelle cinque note (tonalità a parte) a costituire l’incipit del 
Walzer, n°3, come certificato di seguito:

Certo, mentre con Agathe eravamo in un sognante adagio, qui manca ogni indicazione agogica, così il walzer può essere attaccato con diverso piglio: abbastanza letargico per essere abbordabile da due solerti bambinette allieve di pianoforte nel Baden-Württemberg; oppure come un comodo Ländler dal compaesano Rafael Kubelik; o anche come una rincorsa di bersaglieri (toh!) dietro un indiavolato Carlos Kleiber! Sentiremo poi Chung...

Ma non finisce qui, perchè, con tempo ancora più lesto (Molto vivace) quella cellula era apparsa ancor prima, proprio alla fine del primo coro Victoria, Victoria! (qui Sinopoli a 59”):



Sì, va bene, qui la terzina iniziale è sull’arpeggio di dominante e non di tonica... ma di fatto è la stessa cellula (che appena dopo viene precisamente replicata) degli altri due riferimenti. 

Un discorso a parte merita l’Ouverture, che è una mirabile sintesi del cuore filosofico dell’opera, la lotta fra il bene e il male, che abitano l’animo umano nello scenario della natura, a sua volta splendente o minacciosa. Seguiamola dalla bacchetta del grande Giulini (che diresse l’opera alla Scala nel lontano 1955) qui con la New Philharmonia nel 1970.

Inizia con un cupo motivo in DO (prima dalla tonica, poi dalla dominante) caratterizzato da ottave ascendenti e successiva discesa, che apre la strada (1’04”) alla seducente melodia dei corni, a introdurre lo scenario profondamente romantico di boschi e montagne. La mirabile melodia si chiude però (2’39”) in DO minore, su un sinistro tremolo degli archi, con rintocchi di timpano e di contrabbassi in pizzicato, che annunciano la presenza rabbrividente di Samiel, il demonio rappresentante (non cantante!) del male.

A 3’39” compare quindi un riferimento all’aria di Max, dalla quarta scena del primo atto (Doch mich umgarnen finstre Mächte), un motivo agitato, poiché Max sta subendo l’influsso sinistro di Samiel. È immediatamente seguita (4’09”) dal terrificante motivo del malefico Caspar, che si udrà nella gola del lupo, alla fine del second’atto.

Dopo che (4’48”) i corni hanno fatto risentire i loro squilli, modulando da DO minore alla relativa MIb maggiore, ecco che, su un tremolo degli archi (4’55”) è il clarinetto che presenta un dolce motivo, che deriva dall’esclamazione di Max di fronte alla gola del lupo, alla fine del second’atto (Ha! Furchtbar gähnt der düstre Abgrund!) ma qui introduce (5’33”) il tema che rappresenta il bene, impersonato da Agathe, e la sua aria dalla seconda scena del second’atto (Süß entzükt gegen ihm) che lei canta all’arrivo dell’amato Max.

Ma ecco tornare (6’02”) il truce motivo di Caspar, poi (6’57”) ricomparire Agathe, ma in un’atmosfera sospesa e poco rassicurante, che infatti lascia spazio ancora ai motivi di Max (7’38”) e Caspar (7’55”) e poi (8’19”) ancora alla sinistra presenza di Samiel.

A 915 una colossale esplosione di DO maggiore dà inizio alla coda, che è ovviamente occupata (936) dal motivo di Agathe, ripreso ancora (1011) a chiudere in gloria.
___
A parte queste spigolature, si tratta di un’opera che non ha perso la sua carica di vitalità e il fascino che continua ad esercitare sull’ascoltatore. Grazie - a dispetto di un libretto non entusiasmante - alla bellezza e all’ispirazione delle melodie (le arie di Agathe da sole meritano un monumento) che la percorrono da cima a fondo, agli squarci altamente drammatici che la caratterizzano (la gola del lupo...), alla grandiosità dei cori e alla lussureggiante orchestrazione (la scelta dei timbri, in particolare) ancor oggi esempio e riferimento assoluti.

Insomma, la grande musica c’è, quindi ci sono tutte le premesse per potersi godere anche un dignitoso spettacolo.

09 ottobre, 2017

Jérusalem a Parma


Ieri pomeriggio un Regio abbastanza (ma non totalmente) affollato ha ospitato la seconda delle quattro recite di Jérusalem. È la seconda comparsa dell’opera a Parma, dopo l’esordio avvenuto a distanza di ben 139 anni dalla prima parigina: 1986, con Renzetti sul podio e Giacchieri alla regìa.    

Quest’anno viene presentata una nuova edizione critica, di Jürgen Seik, che ha recuperato materiale finora sconosciuto, fra cui alcuni minuti aggiuntivi, rispetto agli spartiti storici, ai balletti del terz’atto (ecco da 2’57” l’esecuzione di Renzetti dell’86). Balletti di cui si può sempre discutere la pertinenza (qui sono più di 25 minuti di spettacolo-nello-spettacolo) ma che Leda Lojodice ha coreografato con eleganza e raffinatezza.

La messinscena di Hugo De Ana è precisamente ciò che ci si può immaginare leggendo il libretto. Toh, che cosa banale e ammuffita, dirà qualcuno con la puzza al naso, qualcuno che avrebbe voluto vedere, come minimo, un’ambientazione in Iraq, o Afghanistan, alla peggio in Yemen o Siria, e il prologo in Texas, a casa dei Bush o direttamente in un albergo di Trump. Con kalashnikov, bombe a mano e droni, mica spadoni, scudi e pugnali di latta. E invece qui leggiamo subito, durante il preludio, la bolla di Papa Urbano del 1095 che aizza i crociati, e poi, a partire dal second’atto, le pietraie di Palestina dove agonizzano gli assetati pellegrini e dove arrivano i liberatori papalini.

Ecco, uno spettacolo di eccellente fattura, in stile zeffirelliano (come sono sempre quelli del regista argentino, che cura anche scene e costumi, avvalendosi dei giochi di luci di Valerio Alfieri e delle proiezioni olografiche di Sergio Metalli) che valorizza al meglio una partitura che merita sicuramente una considerazione maggiore di quella in cui vien tenuta da più di un secolo.

Sul fronte dei suoni notizie dal discreto al buono, direi. Dove il buono arriva sicuramente dalla concertazione di Daniele Callegari, che ha gestito al meglio la Filarmonica Toscanini (la cui esperienza nel sinfonico ne fa interprete ideale per questa partitura): sia la compagine in buca che la banda fuori scena, che ha portato da lontano suoni pulitissimi e mai sguaiati. E buona la prestazione del coro del Regio di Martino Faggiani, che qui ha un impegno invero gravoso; impegno assolto con magistrale professionalità: O mon Dieu, il famoso O signor, qui anticipato al second’atto, ha riscosso minuti e minuti di applausi.

Fra le voci, la palma del migliore va all’intramontabile Michele Pertusi, autentico mattatore, oltre che profeta in patria: la voce forse non ha più lo smalto di un tempo e le note gravi sono un po’ forzate, ma in complesso il Roger che ne esce è da incorniciare.

Con i due protagonisti amanti si scende (sul mio personalissimo cartellino, come usava dire il Rino Tommasi commentatore di boxe) verso il discreto: Ramon Vargas ha voce ormai usurata, opaca, poco squillante, il che per una parte scritta per tale Gilbert-Louis Duprez non è proprio il massimo, ecco (i due DO acuti del second’atto? mah...) Annick Massis da parte sua ha mostrato qualche limite negli acuti e una voce non molto penetrante e dal timbro non proprio gradevolissimo. Al suo livello la sua confidente Isaure di Valentina Boi.

Abbastanza efficaci il Legato pontificio di Deyan Vatchkov, il Conte di Paolo Gálvez e l’Emiro di Max Catellani. Oneste le prestazioni degli altri tre comprimari.

Tirando le somme: una proposta che fa onore al Regio e che non per nulla il pubblico ha mostrato di gradire assai, con applausi a scena aperta dopo i principali numeri e alla fine per tutti i protagonisti. Mi sentirei di inserirla decisamente nei miei consigli per gli acquisti.

06 ottobre, 2017

laVerdi 17-18 – Concerto n°3


Torna a calcare il podio dell’Auditorium il texano, ormai trapiantato in Europa (ora factotum alla ROSS di Siviglia) John Axelrod, che propone opere giovanili dei due giganti del tardoromanticismo, precedute da un’opera matura che viene dal sollevante ma che con le altre due (e i relativi autori) ha parecchio in comune, compresi – per la seconda - i drammatici eventi che funestarono gli anni precedenti la metà del secolo scorso.

Il filo conduttore del concerto, che è anche quello di ciascuno dei tre brani in programma, si può individuare come il cammino che porta dalla vita alla morte, e da qui alla resurrezione, o trasfigurazione. Programma che non pare abbia avuto particolare attrattiva sul pubblico, a giudicare dalle molte poltrone vuote (ma gli scettici hanno ancora due chance per rimediare...)

Per Mahler questo fu il programma interno di quasi tutte le sue sinfonie: nella prima si passa dai sogni di gioventù alla marcia funebre e da qui al trionfo finale; nella seconda è la marcia funebre che si presenta subito per poi lasciar spazio a ricordi, sereni o grotteschi, e sfociare precisamente nell’Auferstehung; nella terza c’è tutto un lunghissimo percorso che parte dalla materia inanimata e arriva all’uomo, peccati compresi, per raggiungere infine l’estatica contemplazione divina; la quarta apre su scorci agrodolci di vita, poi incontra per strada la morte (con tanto di violino scordato) e quindi si trasfigura fino a salire in un fanciullesco paradiso; la quinta attacca con non una, ma due marce funebri (o giù di lì) quindi con un poco raccomandabile scherzo, per poi ritrovare serenità, in vista di un trionfalistico epilogo; la settima ne segue le orme, passando da atmosfere sinistre a notturni incantamenti, inframmezzati da danze di streghe, prima di chiudere con esilarante gaiezza; la sesta e l’ottava fanno dovuta eccezione alla regola, collocandosi ai due antipodi, un quasi-nichilismo e una messa cantata; la nona ripercorre il ciclo dei ricordi, della vita con alti-e-bassi, con squarci di gaiezza e spettrali intermezzi, fino al raggiungimento di una serena rassegnazione e al perdersi in un silenzio eterno ed infinito.

Per Strauss siamo di fronte ad un autentico testa-coda: a 25 anni compone il suo terzo Tondichtung evocando immagini di sofferenza preagonica, ma con irruzione di un ideale rincorso vanamente per un’intera vita, ideale che si completa e si raggiunge finalmente solo dopo che il corpo ha esalato l’ultimo respiro; praticamente 60 anni dopo, sulle soglie dell’estremo trapasso, Strauss se ne ricorderà nell’ultimo dei suoi 4 ultimi Lieder, il cui titolo (Al tramonto) e il cui ultimo verso (É questa forse la morte?) mirabilmente dipingono l’attesa, ma anche la serena preparazione del momento a cui nessun essere vivente può sfuggire; e pochi mesi prima, giusto al termine di quella guerra che ne aveva distrutto gli ideali perseguiti per tutta una vita (ideali guglielmini, certo, ma sequestrati poi dal nazismo) Strauss aveva composto una specie di De-profundis per 23 archi solisti.

Ad eventi di quella stessa tragica guerra ci rimanda il primo brano in programma, del nipponico Tōru Takemitsu (del quale avevamo ascoltato anni fa un’altra opera non disprezzabile, Marginalia) che nel 1989 compose la colonna sonora del film Kuroi ame (qui la breve introduzione) letteralmente Pioggia nera (quella del fungo atomico di Hiroshima, soggetto del film): musica per soli archi, poi riarrangiata nel 1996, poco prima della scomparsa dell’Autore, e pubblicata con il titolo Morte e Resurrezione.     

Per la verità, a differenza di quanto si ascolta in Strauss e Mahler, dove il contrasto tra morte e trionfo (o trasfigurazione) è netto e inconfondibile, qui siamo in presenza di una reiterazione di momenti che evocano dolori lancinanti (esasperato cromatismo e atmosfere decisamente dissonanti) e di momenti di relativo sollievo, come quello che appare per la prima volta a 3’02” e che ricorda proprio il Mahler della Quinta (primo tema della Trauermarsch, che rimanda a sua volta allo Schumann della Romanza della Quarta...) La Resurrezione – almeno come la si intende qui da noi, con pompa ed enfasi - si fatica assai a decifrarla: l’opera si chiude con un semplice e scarno passaggio diatonico, SOL-LA-FA# e l’ultimo suono che udiamo è un flebile accordo FA#-RE (tonica di RE maggiore o settima di dominante di SOL?) che si spegne nel silenzio eterno.

Brano comunque di ottima fattura che gli archi de laVerdi, guidati per l’occasione dalla seconda spalla, Dellingshausen, hanno proposto con grande efficacia e sensibilità.
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Ecco poi lo straussiano Tod und Verklärung, sui cui contenuti mi ero dilungato tempo fa, in occasione di un concerto diretto – guarda caso - proprio da Axelrod. Come ha acutamente osservato il sommo Quirino Principe, fra tutti i poemi sinfonici di Strauss è quello più scopertamente descrittivo, quello dove la musica aderisce con accuratezza quasi fotografica al soggetto ispiratore - sintetizzato da Strauss in poche righe - più ancora che nella smaccatamente descrittiva Alpensinfonie.

Axelrod evidentemente non ha cambiato idea interpretativa rispetto a 4 anni fa: la sua mi è parsa anche questa volta una lettura assai severa - con tempi mediamente sostenuti - anche se tutt’altro che noiosa o inefficace, anzi. E il pubblico ha apprezzato moltissimo, a giudicare dal livello raggiunto dall’applausometro.
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Si chiude con il (cosiddetto) Titano, in origine Poema sinfonico in 5 movimenti e poi – espunto il Blumine - innalzato da Mahler al rango di Sinfonia in RE maggiore. Pezzo fra i più inflazionati, ma che – se assunto in modiche dosi – fa comunque sempre il suo bell’effetto. Axelrod, da buon allievo di tale Lenny Bernstein, ci mette parecchio di suo, ma senza mai scadere – pericolo sempre in agguato con questa partitura - in gigionerie assortite.  

In un insieme più che apprezzabile mi sentirei di segnalare lo sviluppo del primo movimento, per la delicatezza delle sonorità esibite; poi la marcia funebre, tenuta sempre su un piano lontano da volgarità da strada. Va da sè che il finale abbia incendiato gli animi, se lo stesso direttore ha sentito il bisogno di fare uno slalom fra i leggìi per complimentarsi e/o abbracciare rappresentanti di tutte le sezioni dell’orchestra.   

30 settembre, 2017

laVerdi 17-18 – Concerto n°2


Terza consecutiva presenza sul podio de laVerdi per Patrick Fournillier (lo rivedremo altre due volte nella stagione) che ci guida in una promenade attraverso l’800 operistico francese (con escursione nel primo ‘900) insieme al soprano fiammingo 35enne Iris Hendrickx (nuovo cognome d’arte della Luypaers).

Programma francamente modesto, e non a caso l’Auditorium è rimasto semideserto. La Hendrickx deve aver scambiato il concerto per una sfilata di moda, sfoggiando ben due abiti talmente ingombranti da quasi impedirle l’accesso e l’uscita dal proscenio... Dirò malignamente che sono le cose migliori che ha saputo presentare: voce che negli acuti ha un timbro francamente sgradevole (urla piuttosto che canto) e personalità interpretativa un po’ deboluccia, ecco.

L’Orchestra ha vissuto su qualche assolo (Scarpolini, Santaniello, Stocco, Amatulli, Piva) e su pochi sprazzi di carica dei bersaglieri (Carmen e Samson) per il resto normale amministrazione.

Alla fine bis in pieno ‘900 (Poulenc: Les chemins de l’amour) ma resta la domanda: perchè niente di Meyerbeer, Auber, Halévy? Troppo impegnativi per la voce ? Evabbè, almeno... che non si ripeta.

29 settembre, 2017

27 settembre, 2017

Il Verdi-festival parte per le crociate


Domani 28/9 a Parma si apre l’annuale festival verdiano con una nuova produzione di Jérusalem.  

Singolari le analogie che accomunano le vicissitudini della nascita e poi della vita di quest’opera verdiana con quelle del Siège de Corinthe di Rossini. Verdi percorse infatti nel 1847 (quasi) pari-pari la strada aperta 20 anni prima dal grande Gioachino per la conquista di Parigi (strada che già era stata battuta anche da Donizetti): proporre come prima opera francese un adattamento-rifacimento di un lavoro già presentato e collaudato in Italia. Rossini scelse Maometto II e lo fece usare ai librettisti franco-italiani (Soumet&Balocchi) come base di partenza per la creazione del Siège, poi musicato impiegando buona parte delle note del Maometto, accanto a moltissime composte all’uopo. Successivamente il Siège venne ritradotto in italiano e importato da noi come L’assedio di Corinto, la cui fortuna per la verità fu assai modesta, schiacciato fra i due originali, napoletano e parigino.

Ebbene, una trafila quasi identica caratterizzò la nascita e la vita della Jérusalem: Verdi, richiesto dal più grande teatro parigino di un’opera francese, decise – per ragioni di tempo ma soprattutto per evitare rischi e brutte sorprese – di riciclare una sua opera già collaudata con discreto successo in Italia: I Lombardi alla prima crociata. Così ne affidò la trasformazione (in Jérusalem) ai librettisti francesi Royer&Vaëz, che scrissero un nuovo testo sul quale Verdi trasportò in parte la musica dei Lombardi e ne compose parecchia di completamente nuova (inclusi gli immancabili balletti, tassativamente previsti dal capitolato tecnico de l’Opéra). A fronte del buon successo dell’impresa, Jérusalem fu tradotta in italiano (in Gerusalemme) per essere importata sul nostro mercato. Dove però, proprio come il rossiniano Assedio, fece completamente cilecca, anche lei schiacciata fra l’originale italico e la versione parigina.

Un eccellente studio di David R.B. Kimbell (apparso a gennaio del 1979 sulla rivista Music and Letters) intitolato Il primo rifacimento di Verdi: Lombardi e Jérusalem, analizza le principali differenze (testo e musica) fra le due opere. Il confronto fra i libretti di Solera e di Royer&Vaëz è abbastanza impietoso (per il povero Solera): il testo francese appare nettamente superiore a quello italiano, sia dal punto di vista strettamente drammaturgico (l’organizzazione dell’intero soggetto) che da quello letterario.

Quanto alla musica, Kimbell analizza le differenze fra le due opere distinguendo fra imprestiti (parti riprese pari-pari o con minimi ritocchi), rifacimenti (dove l’originale venne modificato in funzione del nuovo testo, ma a volte semplicemente... migliorato) e novità (musica quasi completamente scritta ad-hoc); vengono poi elencate le parti dei Lombardi puramente cassate. Riassumo nella tabella sottostante (l’oggetto è Jérusalem) queste differenze (i numeri esposti si riferiscono a singoli movimenti musicali, es.: recitativo, tempo di mezzo, cabaletta, scena, etc.)

atto
totale
imprestiti
rifacimenti
nuovi
esclusi
I
20
7
4
9
8
II
16
5
5
6
8
III
15
2
3
10
2
IV
10
-
6
4
6
Totale
61
14
18
29
24

Come si può notare, quasi la metà (29 su 61) dei movimenti è nuova, mentre ben il 42% degli originali dei Lombardi è stato escluso da Jérusalem e solo 1/4 sono quelli re-impiegati nella nuova opera senza sostanziali modifiche.

L’analisi di Kimbell può essere riassunta – proprio nei minimi termini – così: nei meno di 5 anni che separano Jérusalem dai Lombardi, e grazie al mercato francese, Verdi smise di usare la vanga!

26 settembre, 2017

Il Tamerlan-baffone di Livermore


Ier sera la Scala ha ospitato la quarta delle sette recite di Tamerlano. Per le considerazioni legate alle scelte dei contenuti musicali rimando alla mia breve nota scritta dopo la prima radiofonica del 12 scorso: ribadisco qui le perplessità rispetto ad alcune di tali scelte. Come anche la critica all’orario d’inizio dello spettacolo, che andava tassativamente anticipato, come  minimo, alle 19:30, se non alle 19.

Parlo invece subito dell’allestimento di Davide Livermore. Spettacolo di alto livello, molto ben curato nelle scene e nella recitazione dei protagonisti; si può certo dire che sia – nel suo complesso – uno spettacolo precisamente modellato sul teatro musicale barocco (e londinese in particolare): che privilegiava grandi spiegamenti di mezzi tecnologici a supportare drammi-per-musica aventi come oggetto tipiche vicende umane (il potere, l’amore, l’odio, la vendetta, ...) attribuite a personaggi fantastici o pseudo-storici, vicende come questa versificata da Nicola Haym e musicata da par suo dal grande Georg Friedrich.

Come osserva giustamente il regista nelle note allegate al programmma di sala (titolate L’Antistoria) nessuno all’inizio del ‘700 si sognava nè pretendeva, assistendo all’opera, di approfondire la conoscenza di un pezzo di storia vecchio di (più di 3, nel caso) secoli: quel pubblico (e a maggior ragione noi che arriviamo dopo quasi altri 3 secoli) voleva godersi senza problemi il teatro del dramma umano su cui si basa il libretto. Dove i personaggi storici come Tamerlano&C vengono impiegati dagli autori dell’opera quasi come degli archétipi, prescindendo completamente dalle loro reali vicende vissute, per presentarne di totalmente inventate: sono in sostanza poco più che un pretesto onde costruirci sopra un mirabile spettacolo e della grande musica. E la cosa funziona proprio in quanto la storia autentica di tali personaggi e delle relative relazioni si perde in un passato quasi mitologico, dove realtà e finzione si possono facilmente confondere, o mescolare, o scambiare. Ecco quindi fiorire i Giulio Cesare, gli Orlando, i Rinaldo, come più tardi - in Mozart - troveremo Idomeneo, Silla, Mitridate, Tito e poi - in Rossini - Ciro, Tancredi, Elisabetta, e ancora - in Verdi – Nabucco, Attila, Macbeth, Boccanegra... e giù giù fino alla Lucretia di Britten, tanto per chiudere il ciclo e tornare a Londra.   

Livermore, per questo suo esordio scaligero, sceglie di ri-ambientare l’opera ai tempi della Rivoluzione dell’ottobre 1917 (di cui siamo proprio in piena ricorrenza centenaria) e forse, se si può muovere un appunto alla sua scelta, è di essersi troppo, e pericolosamente, avvicinato all’attualità, calando il soggetto originale su personaggi e vicende a noi ancora troppo vicini e vividi nella memoria per non avvertire l’assurdità di tale accostamento. Poichè, grazie a Livermore, ci troviamo di fronte a Nicola II (che non si suicidò affatto, ma sappiamo bene come venne orrendamente passato per le armi con l’intera famiglia); a sua figlia (ma quale poi delle quattro?); a Stalin, a Lenin e a Rasputin, personaggi dei quali conosciamo a menadito vita-morte-e-miracoli, a partire dai loro volti per finire alle vicende umane e alle loro reciproche relazioni.   

Ecco che, allora, mostrare Stalin che bistratta Lenin e cerca di sottrargli la figlia dello Zar, sua promessa sposa, rischia di farci sorridere, invece che emozionare, così come scoprire che Rasputin è stato resuscitato per essere posto al servizio non già del suo Zar, ma del povero Lenin, del quale si adopera per facilitare le nozze con una rappresentante dell’alta nobiltà (la figlia dello Zar, nientemeno!) 

Insomma, qui con l’antistoria mi pare si sia un filino esagerato. Proviamo ad immaginare come avrebbero reagito i londinesi di metà ‘700 se un regista avesse ambientato l’opera un secolo prima, protagonisti Carlo I e Oliver Cromwell (?!?)   

Strettamente legati all’ambientazione che il regista ha scelto per la sua messinscena sono poi – dichiaratamente – alcuni accorgimenti (registici e scenici) del grande Eisenstein, aedo della Rivoluzione bolscevica. Che funzionano assai bene, allo scopo di dare un po’ di sapore ad un soggetto dove di azione non v’è quasi nulla e dove le classiche arie-col-da-capo sono sempre micidiali da gestire scenicamente.

E devo dire che anche le trovate di Livermore non sempre riescono ad evitare momenti di stagnazione o ripetitività. Che ad esempio si manifestano nel primo atto, con il vagone ferroviario in cui i protagonisti si muovono sempre scendendo da una porta e risalendo dall’altra o viceversa, oppure compaiono e scompaiono al centro della carrozza, la cui fiancata si apre e richiude per scorrimento. Altre volte il regista, per animare la scena, ricorre ad ammiccamenti a-luci-rosse, come all’inizio del second’atto, ma anche per lui è difficile inventarsi qualcosa, sempre nell’atto centrale, per accorciare (nella percezione dello spettatore) l’interminabile recitativo che precede il trio Asteria-Tamerlano-Bajazet, e che d’altra parte è essenziale per preparare lo sviluppo della vicenda.

Ma tutto sommato si tratta di uno spettacolo eccellente, cui il pubblico non oceanico del Piermarini ha riservato un’accoglienza assai calorosa.  

Che è stata riservata anche ai protagonisti della parte musicale, Fasolis in-primis, che come suo solito si è sdoppiato nelle vesti di direttore ed accompagnatore al cembalo (uno dei tre dislocati in buca).

Rispetto all’audizione via etere, confermo le perplessità su Domingo, che al di là della voce fatalmente usurata fatica a proporsi come interprete squisitamente barocco: troppe incrostazioni verdiane ne caratterizzano il canto; come attore nulla da eccepire, e non è escluso che lui abbia scelto questo ruolo (di tenore... non spinto) perchè si avvicina, per molti aspetti, a quelli di baritoni che lui ha impersonato di recente, come Simone e Rigoletto, che comportano scene finali di alta drammaticità che lui sa gestire come pochi.

I due controtenori (Mehta e Fagioli) hanno sciorinato tecnica sopraffina e, a differenza del Topone, alta specializzazione (per così dire) in questo genere di opera. Peccato che le loro vocine fatichino assai a percorrere le decine di metri che separano palco da loggione... La vecchia, cara e mai abbastanza rimpianta Piccola Scala sarebbe stato l’ambiente ideale per valorizzare le loro qualità.

Discrete le prestazioni delle due nobildonne, alle quali scambierei gli elogi fatti dopo l’ascolto radio: brave entrambe, ma un filino sopra (per me) la Crebassa rispetto alla Schiavo. Non più che dignitoso (anche qui gli abbasso il voto) l’apporto di Senn, che ho trovato un po’ troppo vociferante (forse anche lui preoccupato dai grandi spazi da... perforare) e non sempre perfettamente intonato.

Ma il pubblico non ha mancato di applaudire tutti, Domingo in testa.