affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

18 dicembre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n°64


Si conclude con questo triplice appuntamento la lunghissima stagione 14-15 de laVERDI, stagione che – EXPO imperante – si è estesa fino ad includere quella che tradizionalmente era la parte iniziale (settembre-dicembre) della stagione successiva.

Come la WWII, anche questa stagione si chiude in Giappone, grazie all’ultimo sforzo di Nicola Campogrande e ad opere delle due principali potenze vincitrici della guerra: USA e URSS Russia. Sul podio il sempre effervescente John Axelrod.

Dopo che Campogrande si è congedato con il suo sayonara è Rachel Kolly d'Alba (che torna in Auditorium a quasi quattro anni di distanza dalla sua precedente apparizione) a presentarci un particolare concerto per violino: la Serenade di Lenny Bernstein, che lei ha già inciso con l’Orchestra di cui Axelrod è Direttore musicale.

Composta su commissione della Fondazione Koussevitzky, esordì alla Fenice nel 1954 con il dedicatario Isaac Stern come solista e l’Autore alla testa della IPO; si ispira al Simposio di Platone, dove si celebrano le magnifiche e progressive sorti dell’Amore. È strutturata in cinque parti, che ripercorrono, senza rispettarne rigorosamente la sequenza, i lavori del Simposio (in realtà una prosaica mangiata&bevuta) evocando i principali interventi di sette dei convenuti, i cui nomi compaiono in testa a ciascun movimento del concerto (le frasi accanto ai nomi non sono di Bernstein, ma sintetizzano il senso dei diversi interventi):

I Lento – Allegro
Phaedrus: Amore è un dio potente, antichissimo e meraviglioso
Pausanias: Ci sono due tipi di amore, e solo uno è positivo (quello omosessuale)

II Allegretto
Aristophanes: Una volta i sessi umani erano tre (maschio, femmina e andrògino)

III Presto
 Eryximachus: Esiste un amore di vita ed un amore di morte

IV Adagio
    Agathon: Diamo una definizione dell'amore: esso è il più buono e il più bello degli dèi

V Molto tenuto - Allegro molto vivace
   Socrates: La meta finale è la contemplazione della Bellezza divina
   Alcibiades: Io non farò l'elogio dell'amore, ma quello di Socrate

Bisognerebbe entrare nella mente di Bernstein per cogliere le oscure sensazioni da lui provate alla lettura del Simposio e poi dalla sua penna tradotte in musica. Il compositore in effetti lasciò alcune note in proposito, che furono redatte però a-posteriori, e che chiariscono più che altro le relazioni di carattere musicale fra i diversi movimenti del concerto. Questa è comunque musica che si può apprezzare anche senza necessariamente rifarsi al platonico testo. E la bella rossocrociata-rossocrinuta Rachel non ci priva di un’esecuzione davvero ispirata, e ben supportata dagli archi e percussioni guidati da uno che il pezzo l’ha studiato nientemeno che con… l’Autore! Poi un impegnativo encore del prediletto Ysaÿe, del quale la nostra ha pure inciso un album.
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Chiude il concerto un simpatico abbinamento di sapore natalizio: gli Schiaccianoci della premiata coppia Ellington-Ciajkovski. Abbinamento anche fra i due gruppi di esecutori: ai ragazzi de laVERDI (che stanno con Ciajkovski) si affiancano quelli della Tomellieri Jazz Band, che interpretano l’arrangiamento di Ellington.

Come ci aveva anticipato Axelrod nella presentazione del programma, le due versioni della Suite Op.71a vengono presentate in un geniale incastro: ciascun numero viene eseguito dall’Orchestra in versione originale e subito dopo dalla Band in versione Duke! Axelrod è bravissimo nell’esaltare i contrasti fra le due facce della medaglia: estrae dall’orchestra un suono sottile, etereo, leggerissimo, proprio come in un mendelssohniano sogno natalizio, che contrasta piacevolmente con il suono necessariamente corposo dei fiati della Band, dove Tomellieri&C si superano in strepitosi virtuosismi.

Applausi a scena aperta dopo ciascun numero. Quindi si ripete l’Ouverture, la cui versione-Duke viene accompagnata dal pubblico con battimani stile-Radetzky a Vienna! E ancora il pubblico (Auditorium letteralmente gremito!) non ne vuol sapere di andarsene, attaccando un applauso ritmato… così ecco un nuovo travolgente doppio-Trepak a chiudere una serata da incorniciare.
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Ora aspettiamo, dopo una breve pausa natalizia, l’esordio della nuova stagione 2016 (che coprirà l’anno solare): apertura a fine dicembre con il tradizionale appuntamento con… l’inno europeo.   

12 dicembre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n°63


Il concerto di questa settimana è davvero particolare, per contenuti e… brevità quasi aforistica. Sul podio John Neschling, la cui sospetta combinazione nome-cognome ne tradisce la nazionalità: brasiliana. Pubblico limitato agli irriducibili intimi: fra le numerose assenze, notata quella di Nicola Campogrande, che ormai da mesi saliva regolarmente sul podio per ricevere gli applausi di prammatica per i suoi divertimenti targati EXPO.  

Abbiamo quindi tre poemi sinfonici (o affini): due di Respighi ad incastonarne uno di Sibelius. Questo però secondo la locandina ufficiale, chè la voce di Ruben Jais ci ha avvertito che la sequenza di esecuzione avrebbe più strettamente rispecchiato la cronologia di composizione: che va dalla fine ‘800 (per il finlandese) al 1930, passando per il 1920 (per l’italiano).

Si apre quindi con Il Cigno di Tuonela, la cui prima stesura, seguita da qualche aggiustamento, causa cambi di destinazione del brano, risale al 1893. È il secondo (o terzo, a seconda della collocazione) dei quattro numeri della suite titolata Lemminkäinen, dal nome di un personaggio della principale mitologia finnica, la Kalevala (alter-ego delle Edda norrene).  

Il cignone nero protagonista del brano è quello che maestosamente circumnaviga l’isola di morti di Tuonela, e che il prode quanto incallito sciupafemmine Lemminkäinen dovrebbe far secco per ottenere la mano di una principessa. Invece è lui che fa la fine del cigno del Parsifal, trafitto con una freccia avvelenata da un pastore cieco che poi lo riduce pure a spezzatino. Però sua madre recupera i pezzettini galleggianti sull’acqua (prima che il cigno se li ingoi) e li re-incolla con l’attak, rimettendolo in sesto meglio di prima (!? evabbè… i miti.)

Sono meno di 10 minuti di musica proprio… nordica, in cui ha una parte di spicco il corno inglese, che Paola Scotti mostra di saper suonare divinamente. A lei vanno i meritati applausi di pubblico e colleghi.
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Ecco poi Ballata delle gnomidi (1920). Il testo letterario che Respighi musicò è un poemetto di 13 strofe in settenari a rima incrociata, vergato dall’avvocato-musicomane partenopeo Carlo Clausetti, un dirigente della Ricordi. Il soggetto è assai curioso e un tantino macabro, con risvolti hardcore. Siamo in una comunità di gnomi, dove si svolge una specie di rituale sadico-erotico: due gnocche gnome scelgono un maschietto sfigato e lo trascinano in camera da letto per un triangolo erotico, culminante nello schiattamento del malcapitato. Il mattino successivo lo portano in corteo funebre, con seguito di gnomi smoccolanti, fino ad una roccia a strapiombo sul mare turchino, nel quale lo scaraventano senza tanti complimenti. Poi si danno, insieme agli gnometti superstiti, ad una danza sfrenata (Salome docet).

Mah, forse Respighi doveva pagare un debito all’editore, o magari dovette sottostare ad una qualche forma di ricatto da parte del Clausetti, chissà: non altrimenti si spiega un’iniziativa così bizzarra. Che però fa il paio con il bartokiano Mandarino, composto 7 anni più tardi.

Che la musica evochi puntualmente le improbabili vicende uscite dalla fervida fantasia di Clausetti sarebbe tutto da dimostrare: certo ci troviamo una prima sezione rapida (saranno gli gnomi che si agitano quando le due ninfomani sequestrano la vittima?); poi una sezione più lenta che con poca fantasia possiamo immaginare riguardi ciò che accade nell’alcova, dai preliminari di petting alle… ehm, effusioni orgasmiche; un improvviso Allegro con intervento di ottavini, flauti e violini, seguito da un crescendo concluso da alcuni schianti dell’orchestra potrebbe ricordarci il grido selvaggio dello gnomo che tira le cuoia. Ad esso segue l’unica sezione esplicitamente sottotitolata in partitura (la marcia funebre) che potrebbe benissimo evocare un’avanzata di panzer (o, trattandosi di Respighi, di legioni romane sulla via Appia?); quindi un tonfo che magari accompagna il corpo dello gnomo scaraventato in mare, con gli immancabili colpi di timpano a dargli il… colpo di grazia. Infine la danza delle gnome-sado-ninfomani seguita dal sabba selvaggio che chiude la storiella. Possiamo anche riconoscere alcuni temi che tornano a mo’ di Leit-motive, ad evocare i diversi personaggi.

Ma in sostanza non sorprende che il brano – a dispetto del magistero di Respighi in fatto di strumentazione - sia caduto presto nel dimenticatoio, nel quale per quanto mi riguarda (lo considero più fumo che arrosto) potrebbe tornare rapidamente, eccola. Ai ragazzi va l'encomio per l'abnegazione dimostrata.
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Chiude la serata Metamorphoseon (1930) una composizione di circostanza, commissionata dalla Boston Symphony di Koussevitsky per celebrare i 50 anni dalla sua fondazione. Come il successivo bartokiano Concerto per Orchestra, composto 14 anni dopo per la stessa Boston Symphony, è il pretesto per far risaltare le qualità solistiche delle sue prime parti. Il che di conseguenza si ripercuote sugli interpreti ad ogni nuova esecuzione: così anche qui sono i bravissimi ragazzi de laVERDI a mettersi in gran mostra. 

Il titolo tradisce vagamente la struttura dell’opera, che è un tema con (12) variazioni, che Respighi chiama modi, con un’abile ambiguità terminologica, che serve anche a indicare il ricorso a modi musicali antichi (sappiamo della predilezione dell’Autore per il canto gregoriano). Anche questo brano pare più ricco di affettazione e pedanteria scolastica che di genuina ispirazione: insomma, lascia un retrogusto come di vino… maderizzato, cioè invecchiato male.

Però la prestazione dell’Orchestra e dei singoli, chiamati a virtuosismi acrobatici, è come benzina sul fuoco dell’entusiasmo tanto da far sembrare la sala come stracolma di pubblico osannante.

08 dicembre, 2015

È arrivata la Giovanna!


Ecco, è già passato un altro SantAmbrogio, il terzo consecutivo a mettere al centro dell’attenzione dei melomani (e dei pettegoli) un’esponente del gentil sesso: dopo Violetta (la donna redenta) e Leonore (la donna salvatrice) è ora la volta di Giovanna, emblema della compromissione fra Religione e Politica.

Ecco, insieme al rapporto conflittuale padre-figlia (una costante nella produzione verdiana) questo a me pare il nocciolo fondamentale del libretto di Temistocle Solera, e non è escluso che fosse proprio questa tematica ad attirare l’interesse del mangiapreti Verdi. Andando assai al di là del testo ispiratore di Schiller, Solera fa scomodare la mamma (immacolata) di Gesù per indirizzare le sorti della guerra dei 100 anni. Ma per sottolineare come tutte le parti in causa strumentalizzino la Religione per i propri interessi, ecco che addirittura la Vergine fa il doppio gioco! Ordinando in sogno al Re di Francia – ma che bella figura il neoguelfo Solera fa fare ad un sovrano! - di regalare il suo trono agli invasori albionici, e contemporaneamente ispirando le gesta patriottiche anti-albione della pulzella.

Altro elemento, diciamo così, di critica socio-religiosa è la figura di Giacomo, che impersona il bigottismo del popolino, credulone perchè (non per sua colpa) ignorante: un padre snaturato che, insieme a se medesimo, vende la figlia al nemico - dopo averla umiliata con un barbaro processo in piazza - come castigo per sue supposte colpe di impurità. Ma è un padre che… rinsavisce giusto in tempo per consentire alla figlia di tornare a combattere e vincere, col che Solera fa anche passare il concetto che le guerre alla fin fine non sono i sovrani e i potenti a vincerle, ma le umili persone del popolo, che per loro si sacrificano sui campi di battaglia.     

Come detto, il soggetto del lavoro di Verdi è il frutto di ben due manipolazioni: quella che Friedrich Schiller operò, disinvoltamente quanto deliberatamente, sulla realtà storica al momento di stendere il suo dramma Die Jungfrau von Orleans. Eine romantische Tragödie; e quella operata da Solera sul testo di Schiller, fonte dichiarata del libretto. I principali oggetti di tali manipolazioni sono assai schematicamente riassunti nella tabella che segue. Che a mio avviso conferma la mirabile abilità del nostro librettista nel creare una drammaturgia perfettamente tagliata sulle caratteristiche e le esigenze espressive di questo Verdi, che sarà ancora acerbo fin che si vuole, ma che (parlo per me) è nondimeno entusiasmante:

storia
Schiller
Solera
Giovanna: la famiglia
3 fratelli – 1 sorella
2 sorelle
figlia unica?
Giovanna: la chiamata divina
Arcangelo Michele, Santa Caterina, Santa Margherita
Vergine Maria
Vergine Maria
Giovanna: ruolo e azioni belliche
motivazione delle truppe – suggerimenti di strategia ai comandanti – pietà per le vittime delle battaglie  
partecipazione attiva agli scontri – foga sanguinaria - nessuna pietà per chi si arrende (Montgomery)   
visione di battaglie cruente - evocazione delle sue imprese da parte degli inglesi sconfitti
Giovanna: inizio della parabola discendente
dopo l’incoronazione di Carlo VII a Reims, comincia a considerare conclusa la sua missione
incontra un cavaliere nero, che le consiglia di abbandonare le armi, avendo compiuto la sua missione di portare Carlo sul trono
prima dell’incoronazione di Carlo VII a Reims, comincia a considerare conclusa la sua missione e pensa di ritirarsi in campagna
Giovanna: vita sentimentale e amori
nulla
ha un pretendente che lei ignora - in battaglia si innamora (alla maniera di Isolde con Tristan!) di Lionel, ufficiale inglese, poi prova senso di colpa 
si innamora di Re Carlo, poi prova senso di colpa
Giovanna: la prigionia
catturata dai borgognoni e riscattata su cauzione (raccolta aumentando le tasse in… Normandia!) dagli inglesi, che la fanno prigioniera di guerra
accusata dal padre di un patto col diavolo, per ottenere onori materiali, viene esiliata - catturata dai soldati di Isabella (madre ma avversaria di Carlo) e consegnata agli inglesi – rifiuta di sposare Lionel
accusata dal padre di un patto col diavolo, per ottenere l’amore del Re  – consegnata dal padre agli inglesi e da questi imprigionata
Giovanna: la morte
condannata dopo processo per eresia – arsa sul rogo
liberatasi da sola dalla prigione inglese - morta in battaglia dopo aver salvato Carlo
liberata dal padre dalla prigione inglese - morta in battaglia dopo aver salvato Carlo
Re Carlo
accettazione dello status-quo con gli inglesi
accettazione dello status-quo con gli inglesi
la Vergine lo ammonisce a deporre le armi
amante di Agnès Sorel
amante di Agnès Sorel
innamorato di Giovanna
padre di Giovanna
Jacques d’Arc
Thibaut d’Arc
Giacomo
inizialmente contrario ai propositi guerreschi della figlia – si riconcilia con lei dopo i successi militari
accusa la figlia di stregoneria, provocandone indirettamente la cattura da parte di Isabella
sospetta che la figlia abbia venduto l’anima al diavolo e promette agli inglesi di consegnargliela – la accusa di impurità – la consegna agli inglesi – poi la riabilita e la libera

La prima, vista ieri sera (malamente, managgia alla RAI) in TV, mi permette di fare una stringata considerazione sull’allestimento di Moshe Leiser e Patrice Caurier. I quali hanno sintetizzato il loro Konzept con la definizione Immaginario eroico ed estasi isterica. In sostanza i registi hanno scoperto che un medico, nientedopodomanichè maestro di Freud, tale Jean-Martin Charcot, che si occupava di matti&affini, aveva cominciato a studiare, proprio negli anni in cui Verdi componeva la Giovanna, i comportamenti di persone (soprattutto donne, guarda caso) isteriche ed epilettiche. Ecco, la loro Giovanna è una delle pazienti matte-da-legare del dottor Charcot, una che sogna di far massacri ISIS-like in nome della Madonna! E quindi il padre fa precisamente il suo civico dovere a denunciarla alle autorità e all’opinione pubblica, prima che la fuori-di-melonera possa far troppi danni! Oh, più attuale di così, parbleu

Non si capisce però come mai, visto che anche il reuccio Carlo ha le visioni della Madonna, non ci venga mostrato pure lui nelle vesti di un matto (no, per la verità le vesti erano proprio da matto, ecco); ed anche Giacomo, diciamola tutta, tanto tanto equilibrato non sembrerebbe (i suoi atti dimostrano il disordine della mente). Insomma, i registi avrebbero potuto sviluppare meglio il loro concetto e presentarci direttamente una gabbia-di-matti (quella dove in realtà andrebbero rinchiusi loro, stra-smile!) 
                                                        
Leggo che anche il real-timer Amfortas ha trovato ridicolo l’allestimento. 
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Sul fronte musicale, attestato che ciò che è portato alle nostre orecchie da diavolerie tecnologiche assortite, di originale e genuino ha poco o nulla, mi sentirei – salvo smentirmi, se sarà il caso, dopo l’ascolto nature – di parlare di prestazione complessiva più che onorevole, naturalmente con alti e bassi che non mancano mai, per definizione. Fra i primi metterei sant’Anna, che mi è parsa proprio a suo agio nella parte (quella vera, non la matta!) anche se nel concertato di fine atto III mi ha dato l’impressione di essere affaticata (e mi pare si sia anche risparmiata un paio di frasi) e sanFrancesco, che mi azzardo a definire il miglior tenore (oggi, quasi) in circolazione: voce sempre ben impostata e grande cura dell’espressione. Fra i secondi colloco il povero Devid Cecconi, cui va doverosamente accordata l’attenuante di essere stato catapultato in scena quasi a sua insaputa, causa il perdurante forfait di Alvarez, già mancato sia alla generale che alla prima-giovani. 

Proprio al centro collocherei Riccardo II, che mi sembra abbia tenuto una prudente equidistanza fra gli opposti eccessi nell’impiego di armi più o meno improprie, tipiche di questo Verdi d’assalto: la vanga (nei diversi a tutta forza e negli accompagnamenti da banda del pignataro) e il cesello (nei momenti di introspezione e di intimità). Certo, detta così potrebbe significare un complimento (mirabile equilibrio) o una stroncatura (né carne, né pesce): personalmente cercherò di sciogliere il dubbio dopo l’ascolto dal vivo… E con Chailly metto anche il coro (di Casoni) che è un autentico personaggio di primo piano in quest’opera, e che spero migliori ancora con le prossime recite.

05 dicembre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n°62


Programma russo questa settimana (più Campogrande, in Thailandia). A dirigerlo non è, come da remoto annuncio, Wayne Marshall, ma Stanislav Kochanovsky, che pare diventato il tappabuchi-principe (devo dire che se la cava sempre assai bene) de laVERDI.

Il primo brano vede protagonista Nicola Benedetti: chi mai direbbe trattarsi di un’avvenente ragazza 28enne? No, tranquilli, non è un maschietto che ha cambiato sesso: il nome – per noi italiani impensabile per una femmina – si spiega col semplice fatto che lei non è italiana, ma scozzese (sia pure di padre toscano). Lassù Nicola è femmina, il maschio è Nicholas, e allo stesso modo Andrea è nome femminile, essendo Andrew il maschile.

Chiarito il piacevole equivoco, parliamo del Concerto per violino di quel simpatico alcolizzato che rispondeva al nome di Aleksandr Konstantinovich Glazunov. Concerto composto nel 1904 ed eseguito nel 1905 a SanPietroburgo, proprio a ruota di quello del suo dirimpettaio di Helsinki, Jean Sibelius, giusto per inquadrarlo storicamente e pure geograficamente. Ma mentre il finlandese (che pure non lesinava corpose libagioni di… spirito) si era attenuto alla struttura più tradizionale, limitandosi a qualche bizzarra trovata in fatto di acrobazie tonali, il russo costruì il suo concerto con un’ardita operazione di incastro. Nel bel mezzo del primo movimento, dopo la canonica esposizione dei due temi, invece di far seguire lo sviluppo e il resto, cosa ci combina? Infila una sezione tematicamente del tutto nuova, quasi fosse un secondo tempo, conclusa la quale riprende lo sviluppo dei primi due temi, poi li ricapitola, ci aggiunge una cadenza e da qui attacca il rondo conclusivo!

Beh, c’è da riconoscere che i fumi dell’alcol a volte danno frutti strani, ma interessanti. Seguiamone una storica esecuzione di David Oistrakh.
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Su terzine ribattute di clarinetti e fagotti (triade di LA minore) il solista apre subito esponendo il primo tema, Moderato, 4/4:


È una lunga e languida melodia con inflessioni orientaleggianti, che a 53” (animato) assume un carattere momentaneamente più brioso (tutto in terzine) per poi sfociare (1’11”) in un ponte a mo’ di cadenza, dove le folate ascendenti del violino si alternano ad interventi più pesanti dei legni e in cui (1’45”) pare di riconoscere Ciajkovski nell’introduzione del suo concerto per violino. È in effetti l’introduzione al secondo tema (2’04”) tranquillo, in FA maggiore (relativa della sottodominante minore della tonalità d’impianto):


Il tema si sviluppa con inflessioni in minore (2’36”) poi torna al maggiore e viene seguito (3’12”) da una coda che si anima con un serrato dialogo fra il solista e l’orchestra, culminante (3’44”) in un secco accordo di FA maggiore, dove possiamo collocare la chiusura dell’esposizione. Ora inizia un progressivo calando, che porta (4’18”) ad un ponte (tranquillo) di 6 battute, che parrebbe proprio essere la preparazione ad una sezione di sviluppo. Ma qualcosa ci dice che non sarà così: la tonalità infatti è passata chissà come a REb maggiore!

(video2)

Ed infatti, sorpresa-sorpresa, ecco apparire un nuovo tema, anzi un’intera sezione in Andante, col tempo che muta a 3/4, quasi fosse un secondo movimento del concerto:

 
Tema invero dolce e sognante, ancora à-la-Ciajkovski, sviluppato anche in corda doppia, che (1’33”) vira, attraverso un’enarmonia LAb-SOL#, al LA maggiore, da cui modula ulteriormente, con il solista impegnato in grandi virtuosismi (da 1’49”) sullo sfondo di ampie folate dell’arpa. Si torna a REb maggiore (2’20”) dove il solista riprende la melodia portandola alla sua conclusione, con un pizzicato sulla dominante LAb.  

Qui ecco la seconda sorpresa, con il ritorno (Tempo I, 4/4) alla fine dell’esposizione dei due primi temi, che ora – 3’53”, la tonalità vira nuovamente a LA - vengono sottoposti a sviluppo, dalla sola orchestra. Così si ascolta il primo tema (fagotto e viole) e subito dopo (4’13”) il secondo, tuttora in FA (in flauto e oboe).

A 4’53” irrompe gagliardamente (più animato) il solista, che si imbarca in una specie di spiritato scherzo, culminante (5’18”, pesante) in quella che possiamo considerare la ricapitolazione: preceduta da un paio di batti-e-ribatti fra intera orchestra e solista in corda doppia sul primo tema (un tono sopra) e con il solista che poi (5’32”) lo ripresenta in LA, ma assai variato ed impreziosito di virtuosismi; poi (6’59”) ecco tornare il secondo, questa volta canonicamente in DO maggiore.

Si arriva ora, sempre come prescrivono le regole non scritte del concerto solistico, alla cadenza, introdotta (8’08”) da due accordi a piena orchestra. La prima parte (dove riconosciamo il secondo tema, poi il primo) viene chiusa a 9’20” da sette accordi in pizzicato.

(video3)

La seconda parte della cadenza (più sostenuto) ripropone il primo tema virtuosisticamente esposto in corda doppia dalla voce superiore, mentre quella inferiore crea un tappeto di velocissime biscrome. A 1’18” la cadenza si conclude con il rientro molto discreto dell’orchestra (archi bassi e corni, poi timpani) e il solista che attacca in DO maggiore con altre biscrome.

La tonalità poi modula fino a sboccare, sul MI sovracuto del violino, al LA maggiore con cui una smaccata fanfara di trombe (1’42”) irrompe come il proverbiale elefante in cristalleria, attaccando l’Allegro conclusivo (un Rondo sui generis, in 6/8) con l’esposizione del ritornello A, subito ripreso dal solista in corda doppia:

Ancora l’orchestra con il controsoggetto del tema, imitata subito dal violino, che poi riesegue soggetto e controsoggetto un’ottava sopra e con piglio squisitamente virtuosistico. A 2’26” è la sola orchestra a riproporre due volte il tema del ritornello.

Ecco poi il primo episodio (B): un bel tema cantabile che il solista espone (2’38”) sulla dominante di MI maggiore:
 
Torna a 3’34” il ritornello A in LA maggiore nella sola orchestra (due ripetizioni senza controsoggetto). A 3’45” abbiamo l’episodio C nel violino, tonalità RE maggiore:

 
È una saltellante melodia di sapore vagamente contadino, interrotta a 4’09” dall’orchestra che ne ripropone una variante, seguita (4’20”) dal ritorno del violino. A 4’30” ecco un cullante motivo di semiminime puntate nel solista, appoggiato da accordi dell’arpa e sul quale si innestano pregevoli interventi di corno e legni, finchè si giunge (4’49”) alla ripresa del ritornello A, ma assai variato e in DO maggiore, nel solista. Lo riprende l’orchestra, poi ancora il violino, ma modulando bruscamente (5’06”) a LA maggiore, quindi ancora a RE maggiore, poi a SI maggiore, fino a tornare al LA, dove (5’22”, più animato) il solista con una serie di quintine prepara il ritorno del ritornello A (5’30”) che viene eseguito poi nella sua interezza dall'ottavino e dai campanelli, col solista che batte il ritmo in pizzicato (quasi guitarra, sic):



Il tutto fa quasi l’effetto dell’incantesimo del fuoco 

A 5’52” riecco il tema A nel violino, sempre in LA, che inizia calmo (tempo mutato in 3/4) per poi presentare una continua accelerazione. A 6’26” si torna a LA maggiore per il gran finale (tempo 6/8): tre scambi di… cortesie fra orchestra e solista, poi (6’40”, sempre animando) il tempo passa a 2/4 (per tutti tranne che per il solista, che continua con le sue terzine in 6/8) e si accelera continuamente fino alla cadenza conclusiva (7’02”) dove anche il solista si allinea al tempo di 2/4 per gli ultimi battibecchi con l’orchestra che concludono il concerto, con il penultimo accordo del solista che impegna tutte le 4 corde del violino (dal basso: LA-MI-DO#-LA).
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La bella McBenedetti – presentatasi in un elegantissimo lungo nero, con ampia vista sul… ehm, lato-b (zona superiore, cosa credete!) – sciorina tutta la sua gran tecnica. Se posso farle un appunto, ma qui è questione di gusti, mi è parsa eccessivamente metronomica, ad esempio nel finale, dove un maggiore stacco dei tempi nei due episodi centrali non avrebbe guastato.

Per lei comunque un gran successo, che ci ricambia con uno dei bis più inflazionati: la sarabanda dalla seconda partita di Bach, che lei esegue con grande ispirazione.
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C’è forse un legame sotterraneo fra Glazunov e la Seconda sinfonia di Rachmaninov: la quale sarebbe probabilmente tutta diversa, se non fosse accaduto che la Prima (assai più innovativa, devo dire) venisse pesantemente contestata al suo esordio (César Cui arrivò a sentenziare che avrebbe potuto trovare gradimento soltanto all’inferno…) riducendo il Rach in uno stato di tale prostrazione da fargli rischiare la salute. E che c’entra con tutto ciò Glazunov? C’entra perché fu lui, salito sul podio verosimilmente inzuppato di vodka, a far fallire miseramente quella prova del giovane e promettente Sergei!

Il quale, ricominciando a vivere e comporre dopo anni di robuste cure di natura psicanalitica, decise verosimilmente di percorrere – sul piano artistico – strade più sicure e meno perigliose di quella imboccata in precedenza. Così la Seconda resta abbondantemente anacronistica, rispetto agli sviluppi coevi (si pensi a Mahler…) Personalmente su di essa mi sono espresso piuttosto negativamente – per usare una formula farmacologica: mi pare contenga 5 minuti di principio attivo e 45 di eccipiente - in occasione di una performance di Pappano alla Scala; il quale Pappano (avrà ragione lui!) si dice invece innamorato di quest’opera (e lo si vede bene qui).
  
Quando ascolto musica di questo genere mi verrebbe voglia di non applaudire (pensando che mi veda l’autore); ma dato che chi mi vede sono i ragazzi, che devono comunque fare una fatica d’inferno (il direttore un po’ meno…) ecco che – loro, non l’autore – meritano un encomio solenne. Però una sinfonia come questa, fossi Jais, la programmerei una volta ogni 20 anni, ecco.

01 dicembre, 2015

È in arrivo la Giovanna


Facciamo un… prologo in terra per SantAmbrogio. Cominciando dalle constatazioni più angosciose, tipo: Mattarella non viene! Anche Renzi non viene? (avrà mica passato il suo ingresso a Verdini, hahaha!) Pisapia viene solo perché obbligato (ma sarà per l’ultima volta, non vede l’ora di defilarsi, così dal 2016 ci dovremo sorbire… chi: Salaexpo o un grillino? o lo zio di Salvini?) Grasso e Boldrini non-parvenues. Trussardi, senza patente, poveretto, proverà ad arrivare in monopattino, fendendo la solita barriera di no-global, ma anche di no-giovanna (pare siano più incarogniti dei no-global) che accerchierà il gran teatro. Valeria Marini si dichiarerà stupita e delusa per la mancanza del rogo, Vittorio Sgarbi sentenzierà che quel pirla di Chailly festeggia il primo SantAmbrogio nel suo sospirato posto al sole con l’opera più brutta di Verdi. Che invece verrà santificata, su RAI5, da Michele Dall’Ongaro (o chi per lui, visto che lui adesso ha un’altra santa cui pensare, una certa… Cecilia). Insomma, c’è di che passare notti insonni, o imprecare, come faranno gli sfigati che potranno assistere solo all’ultima delle 8 recite, il 2 gennaio, dove invece di sant’Anna si dovranno sorbire – allo stesso prezzo! - tale Grimaldi.        

Veniamo ora al sodo, per chi voglia fare un po’ di compiti a casa e non restare sorpreso come la Marini (!) Dato che la Giovanna si rappresenta mediamente con frequenza… secolare, mi sono permesso di compiere un’operazione banditesca, scannerizzando (mi scuso in anticipo della pessima qualità) per pubblicarlo piratescamente, il capitolo che riguarda l’opera nel primo volume del sommo Julian Budden (pronto a rimuoverlo immediatamente dalla rete se raggiunto da intimazioni dei detentori di qualsivoglia diritto). I verdiani (non verdini, occhio!) più convinti e fedeli l’avranno di sicuro già messo a portata di mano (magari sul comodino) ma forse c’è qualche sprovveduto, ops! sprovvisto (del tomo) che troverà il regalino utile per prepararsi all’avventura del 7/12.

Come esercitazione pratica, si può ricorrere a questa giovanile interpretazione, a Bologna, dello Chailly-di-belle-speranze