XIV

da prevosto a leone

19 agosto, 2015

Il ROF-36 live (2): Messa e Inganno

 

Ieri doppia razione di ROF, con spola fra Adriatic Arena e Teatro Rossini, in una Pesaro ritornata, ma pare solo momentaneamente, quasi estiva.


Nel pomeriggio il palazzone-vongola era un barile di… sardine (evidentemente basta la sigla JDF per fare il pieno!) per un programma sacro-profano incentrato, nella prima parte, sulla rediviva Messa di Gloria e nella seconda su due composizioni giovanili per soli e coro. Avendo Roberto Abbado dovuto rinunciare, essendosi rotto… (un tendine d’achille) è toccato a Donato Renzetti (già titolare nella Gazza) guidare la Filarmonica Rossini (di cui è fresco Direttore principale) e il Coro di Bologna di Andrea Faidutti, che hanno accompagnato il quintetto di voci soliste: tenori Juan Diego Florez e Dempsey Rivera, soprano Jessica Pratt, contralto Viktoria Yarovaya e basso Mirco Palazzi.

Dapprima, quindi, la Messa corta, che vide la luce un lontano venerdi 24 marzo del 1820 (festa della Madonna dei Dolori) nella Chiesa di SanFerdinando a Napoli. Così ne ricordò l’esecuzione un rossiniano sfegatato, uno che oggi non si perderebbe un solo minuto dei ROF (da: La vie de Rossini di Stendhal, capitolo XXXVII, ultimo capoverso):

Avemmo a Napoli, nel 1819 credo, una messa di Rossini, che impiegò tre giorni a dare l'apparenza di canti di chiesa ai suoi motivi più belli. Fu uno spettacolo delizioso; noi vedemmo passare successivamente sotto i nostri occhi, e con una forma un po' differente, che dava del frizzante ai riconoscimenti, tutte le arie sublimi del grande compositore. Un prete gridò serioso: Rossini, se tu bussi alla porta del paradiso con questa messa, malgrado tutti i tuoi peccati, san Pietro non potrà rifiutarsi d'aprirti!

C’è chi mette seriamente in dubbio l’attendibilità di questa testimonianza del peripatetico Marie-Henry Beyle. E c’è chi non digerì per nulla la Messa, come un musicista crucco protestante (!) a nome Carl Borromäus von Miltitz, che deplorò il suono dell’organo durante l’intera esecuzione, con l’orchestra che suonava contemporaneamente e Rossini che chiedeva dei fortissimo ora ad uno ora all’altro degli strumentisti, con conseguente immaginabile dissacrazione della santità del luogo. (Insomma, un… inganno di messa!)

In effetti dobbiamo ammettere che più che una Messa par di ascoltare un melodramma, e qua e là compaiono motivi che richiamano opere precedenti. Sergio Ragni, sul programma di sala, ci ricorda dapprima un imprestito da Bianca e Falliero nel Laudamus; poi nel Domine Deus una chiara scopiazzatura, persino nella tonalità di MIb, del mirabile motivo di Se tu m’ami, o mia regina (Aureliano, scena seconda). E infine, proprio in apertura del Gloria, il tema che tornerà 6 anni più tardi nel parigino Siège de Corinthe (sinfonia e finale atto II): tema che non è nemmeno rossiniano in origine essendo mutuato da Atalia di Giovanni Simone Mayr, che forse lo aveva a sua volta ripreso da un Salmo di Benedetto Marcello (della serie: le combinazioni dei 12 suoni della nostra civiltà non sono infinite!) Di più: il finale fugato pare proprio essere stato composto dallo specialista in contrappunto a nome Pietro Raimondi, cui Rossini chiese aiuto per la bisogna.

JDF ha subito messo tutti in apprensione: finito di cantare il Gloria, proprio mentre Jessica Pratt si alzava per il Laudamus, lui abbandonava il palco! Fortunatamente per rientrarvi giusto in tempo per il suo successivo Gratias agimus. Dalla sua cera, a dir la verità, sembrava uno cui sono rimasti sullo stomaco gli spaghetti allo scoglio, ecco. Come abbia potuto continuare a cantare all’altezza della sua fama è per me un miracolo. A lui e alla Jessica si è aggiunto su un gran livello Mirco Palazzi, mentre un gradino sotto è rimasta la Yarovaya. Senza voto Rivera, che ha una parte invero minuscola, di sola seconda voce del tenore principale nel Christe. Discreta la Filarmonica Rossini e possente il coro misto bolognese di Faidutti. In fin dei conti, un’esecuzione di tutto rispetto.
___
Dopo la Messa del Rossini maturo, ecco due opere del Rossini poco più che ragazzo. Un Rossini fantastico, anche se ancora piuttosto acerbo, come dimostra l’enfasi sparsa a piene mani sulle partiture, ricche di dinamiche spinte all’estremo (è un po’ come il primo Verdi della famosa vanga!)

La cantata Il pianto d'Armonia sulla morte d'Orfeo (per tenore, coro maschile e orchestra, testo del gesuita Girolamo Ruggia) è del 1808 (di fatto una prova di Liceo, eseguita giovedi 11 agosto di quell’anno, a Bologna).

Subito dalla Sinfonia si avverte un’ambientazione che fa pensare a Cherubini o a Gluck, o anche a Haydn, con l’introduzione lenta (DO minore e sesta napoletana) e poi con l’esposizione di un motivo serrato e protervo, che percorre in discesa e risalita l’accordo perfetto di DO minore, e si sviluppa poi nella relativa MIb e sulla sua dominante SIb. Segue un temino nell’oboe in MIb. Poi il tutto ripetuto in forma variata e con modulazione a SOL minore e chiusura in diminuendo che anticipa (come ci ricorda ancora Sergio Ragni) il passaggio che nel Barbiere chiude il temporale.

Il SOL torna dominante del DO maggiore sul quale entra il coro con una prima quartina (Quale i campi rodopei) ed una seconda (Perché i rai discioglie in pianto) sulla dominante SOL, da cui si torna a casa sul DO.

Qui entra il solista (Armonia) con un mirabile recitativo accompagnato (Sparse il lacero crine) in FA minore, poi modulante a maggiore e quindi alla sottodominante SIb. La conclusione riporta la tonalità al DO minore per introdurre l’aria (Dalle spietate furie) che vira subito alla relativa MIb maggiore, con temporaneo passaggio sulla dominante SIb.

Segue un nuovo recitativo accompagnato (Ma tu che desti già sì dolce suono) introdotto da uno splendido assolo del violoncello, passato bruscamente a SOL maggiore, sulla quale tonalità si muove il languido canto del solista. Poi si modula alla sottodominante DO, con un nuovo intervento solistico del violoncello prima della chiusa della voce.

Infine l’aria con coro in DO maggiore introdotta da un romantico e virtuosistico assolo del corno (o come ieri, del più facile clarinetto). Dopo la prima quartina, ecco la seconda (Ed Armonia) nella dominante SOL, poi si torna a DO, il tempo si agita e il corno (non ieri…) esplode in un fantastico virtuosismo mentre entra il coro (Finchè frondi e fior del Rodope) subito seguito dal solista (Finchè in pregio l’arti armoniche) che per gli ultimi due versi della sua quartina (Ogni cor pietoso, e tenero) modula a LAb maggiore, prima del trionfale ritorno a DO.

Ecco, per essere opera di un 16enne, non c’è davvero male (sì, Rossini non fu un bambino prodigio come il suo idolo Mozart, ma insomma…)  

Qui un’interpretazione del prossimo Direttore artistico del ROF, Ernesto Palacio (1990 a Bratislava).

Dopo lo spavento nella Messa, JDF (cui la Pratt ha lasciato l’onore dell’ultima parola - inversione dell’ordine delle cantate rispetto al programma) non ha tradito le aspettative delle falangi di suoi fan arrivati da ogni dove.
___
Subito prima, La morte di Didone, scena lirica per soprano con cori maschili (testo dalla Didone abbandonata di Metastasio) che è del 1810 (stessa dedicataria del Demetrio, Ester Mombelli) anche se fu eseguita parecchi anni dopo (sabato 2 maggio 1818, Venezia).

Qui il birichino (che rima con Gioachino…) Rossini ha già imparato alla perfezione il trucco degli auto-imprestiti, così l’introduzione alla scena è presa quasi di peso dalla Sinfonia del Pianto

Una possente scarica del timpano introduce il coro che canta Misera, sventurata! Didone abbandonata! riprendendo di fatto l’atmosfera di DO minore della sinfonia, da cui mutua anche il successivo temino in MIb maggiore, sui versi L’amante tuo spietato alfin se ne partì, prima di tornare al DO minore per ripetere la quartina.

Un’altra raffica del timpano introduce il recitativo accompagnato di Didone (Tutto è orror, tutto è morte) dove torna il tema principale della sinfonia (Infido, sconoscente!) Il recitativo prosegue con modulazioni a SIb e persino a RE maggiore (!) prima del ritorno al MIb sul quale la protagonista canta la sua prima aria: Se dal ciel pietà non trovo, introdotta e poi accompagnata dall’accorato suono del corno inglese e dalla cadenza dei violini, uno stilema in 3/4 che ritroveremo spesso nei lavori di Rossini. Il coro interviene a contrappuntare il canto del soprano il quale, dopo un concitato crescendo supportato da un ostinato tonica-dominante, va a toccare (opzionalmente, cosa che la Jessica peraltro non ha fatto) anche il MIb sovracuto e poi chiude in bellezza sulle parole Tradita dall’amor!

Ma è una falsa chiusura, chè la scena riprende, con il coro che invita Didone a fuggire (Fuggi, Regina, fuggi!) su un concitato DO maggiore. Segue un nuovo recitativo accompagnato di Didone (Ingiustissimi dei!) che si muove dal DO al SOL, al RE e chiude sul MI, dominante del LA minore su cui si apre l’aria conclusiva (Per tutto l’orrore) dove la tonalità vira al DO (La smania, il furore). Abbiamo ora la ripetizione (tutta in LA minore) degli stessi versi.

Quindi riecco il coro (Più scampo non ci resta) che ha modulato a FA maggiore, sulla quale tonalità Didone riprende il suo canto (Ch’io ceda ad un tiranno?) contrappuntata dal coro (Di te, di noi pietade). L’ultima esternazione di Didone (Enea, l’ingrato) resta sul FA fino al ritorno del canonico DO (Precipiti Cartago) sul quale il soprano sale fino ad un ultimo sovracuto (Il cenere di lei) prima della cadenza orchestrale.

Ecco come l’ha interpretata nel 2010 un’extracomunitaria dell’est che qui a Pesaro si è direttamente… accasata, non proprio come badante (smile!) ma assumendo il difficile ruolo di nuora del sovrintendente del ROF.

Ieri l’imponente Jessica ha offerto una prova buona ma non proprio eccellente, mostrando difficoltà a farsi udire nelle note gravi; comunque per lei grandi applausi e ripetute chiamate.
___
___

 

Il tempo per una piadina (!) e poi trasferimento al Teatro Rossini (non certo affollato come l’arena) per L’Inganno felice, per la quale farsa il ROF ripropone dopo 21 anni l’allestimento di Graham Vick.

 

Spettacolo assai curato nei dettagli (Vick era già qualcuno nel 1994!) e, come è caratteristica somatica del regista inglese, arricchito da (qui pochi e per fortuna innocui) tocchi di ideologia socialistoide, del tutto inventati rispetto al soggetto originale di Giuseppe Foppa.


Così una vicenda – ambientata casualmente nei pressi di una miniera - che più personale e privata non potrebbe essere (antefatto: la moglie del Duca invano insidiata dal di lui braccio-destro il quale per vendetta la denuncia al marito ottenendone la condanna) diventa per Vick l’occasione per ricordarci che un tempo anche i bambini venivano mandati a lavorare in miniera: così ne vediamo uno in particolare (con berrettino rosso vivo di ordinanza) che diventa quasi protagonista muto (tipo la gazza di Michieletto…) per movimentare un po’ la scena.

La recitazione è curatissima, anche laddove ci presenta gratuiti comportamenti di alcuni personaggi, tipo: Batone che dà una moneta al ragazzino dal berretto rosso per toglierselo di torno, moneta che però il poveretto è costretto (dal padre, si presume) a restituire. Morale? Mah, forse ci viene ricordato che il proletariato non vuole elemosine, ma parità di diritti… La stessa Nisa dapprima – da povera ex-nobile - insegna premurosamente a leggere e scrivere al minator-ino di cui sopra, ma alla fine, tornata in sella (che rima con Isabella) lo abbandona alle sue umili mansioni di pelar patate; poi impedisce al marito di lasciare un doveroso obolo al suo salvatore-protettore Tarabotto. Della serie: un nobile è socialmente utile ed accettabile solo fin quando è… decaduto!

Evabbè, rispetto alle radicali rivisitazioni di Mosè e di Tell, qui siamo ancora sul sopportabile. Vengo ora a ciò per cui (Vick permettendo) un melomane si reca a teatro.

L’Orchestra è la Sinfonica Rossini (da non confondersi con la Filarmonica, protagonista della prima metà del pomeriggio): orchestra che al ROF è ormai di casa da qualche anno e che si conferma di buon livello in tutti i reparti. Alla sua guida Denis Vlasenko, tornato qui dopo 7 anni (quando diresse un Reims dell’Accademia) che mi è sembrato davvero autorevole e attento a tutti i dettagli della partitura.

Il cast dei 5 personaggi è abbastanza ben assortito Per cavalleria parto da Mariangela Sicilia, tornata al ROF dopo due anni (ebbe parti in Italiana e Donna del Lago nel 2013): voce squillante e ben impostata, ha confermato alle mie orecchie la buona impressione già fatta alla prima radiofonica. Cito su tutto il resto l’aria (che in passato veniva spesso sostituita da altra musica) Al più dolce e caro oggetto, dove c’è fra l’altro una fugace citazione (auto-imprestito) dalla Didone udita nel pomeriggio (Ah, quanto pena un’anima).

Fra i quattro signori che contornano la protagonista i più convincenti sono stati i due bassi: Davide Luciano (già segnalatosi nell’Italiana del 2013) che mi sembra ulteriormente cresciuto e che è stato un Tarabotto poco meno che perfetto, per chiarezza e profondità della voce e sensibilità interpretativa; accanto lui Carlo Lepore, ormai veterano e beniamino del ROF, che ha ben ricoperto il ruolo semi-serio di Batone. Davvero encomiabile – in particolare – il loro duetto (Va taluno mormorando) accolto da un interminabile applauso.

Un filino al di sotto della media il Bertrando di Vassilis Kavayas, apparsomi poco intonato e dall’espressione piuttosto piatta e monotona: anche il pubblico ha avuto per lui solo applausi di stima. Personalmente lo ricordavo meglio dall’Armida dello scorso anno. Giulio Mastrototaro era il cattivone Ormondo: una parte (relativamente) leggera, con un’aria piuttosto breve (Tu mi conosci, e sai) che è stata comunque sostenuta con pieno merito.

In definitiva, una simpatica riproposta che il pubblico ha mostrato di gradire assai, ripagando tutti di applausi e consensi, dopo ciascun numero e alle uscite finali.

(next: La Gazzetta)

17 agosto, 2015

Il ROF-36 live (1): La Gazza ladra

 

Primo mio personale incontro diretto con il ROF-36, La Gazza ladra, arrivata alla terza delle quattro rappresentazioni. Titolo noto a tutto l‘universo, ma solo per via della strepitosa Sinfonia. Al proposito Lodovico Settimo Silvestri, nel suo tomo Della vita e delle opere di Gioachino Rossini, del 1874, ci racconta ciò che il Maestro scrisse in risposta a tale signor De Mirandel, che gli chiedeva consigli sul momento migliore per comporre l’Ouverture di un’opera:

1. Aspettate fino alla sera prima del giorno fissato per la rappresentazione. Nessuna cosa eccita più l'estro, come la necessità, la presenza d'un copista che aspetta il vostro lavoro, e la ressa d'un impresario in angustie che si strappa a ciocche i capelli. A tempo mio, in Italia, tutti gl'impresari erano calvi a trent'anni.
2. Ho composto l'ouverture dell'Otello in una cameretta del palazzo Barbaja, ove il più calvo ed il più feroce dei direttori mi aveva rinchiuso per forza senz'altra cosa che un piatto di maccheroni, e con la minaccia di non poter lasciare la camera, vita durante, finchè non avessi scritta l'ultima nota.
3. Ho scritto l'ouverture della Gazza Ladra il giorno della prima rappresentazione sotto il tetto della scala, dove fui messo in prigione dal direttore, sorvegliato da quattro macchinisti che avevano l'ordine di gettare il mio testo originale dalla finestra, foglio a foglio, ai copisti, i quali l'aspettavano abbasso per trascriverlo. In difetto di carta da musica, avevano ordine di gettare me stesso dalla finestra.
4 Pel Barbiere feci meglio: non composi ouverture, ma ne presi una che destinava ad un'opera semiseria chiamata Elisabetta. Il pubblico fu arcicontento.
5. Ho composto l'ouverture del Conte Ory stando a pesca, coi piedi nell'acqua, in compagnia del signor Aguado, mentre costui parlava di finanze spagnuole.
6. Quella del Guglielmo Tell fu scritta in circostanze presso a poco simili.
7. Quanto al Mosè non ne feci alcuna.

Lo stesso autore ci informa di come venne presa la Sinfonia alla prima della Scala da un musicista giovane ma già… conservatore:

A Milano l'introduzione del tamburro nell'orchestra gli valse un nemico terribile. Era un'allievo di Alessandro Rolla, un violinista della Scala. Questo giovino artista non poteva vedere, senza dare ne li eccessi della più violenta colera, l'istromento ritmico dei reggimenti aggiunto ai nobili organi della sinfonia. Il prodigioso risultato del novatore lo fece andare fuori dei gangheri. La sua colera divenne una specie di furioso delirio. Egli andava per le vie, pei caffè gridando a tutti quelli che volevano ascoltarlo, che bisognava uccidere Rossini affine di salvar l'arte, e che egli s'incaricava di dargli un colpo di stile per finirla coi tamburi, i crescendo, le cabalette ed il resto. L'idea dei tamburi lo faceva soprattutto dare nelle più frenetiche smanie. La voce di questo progetto d'assassinio che il giovine violinista non si faceva scrupolo di manifestare a chiunque incontrasse, giunse fino a Rossini. Il colpevole autore dell'introduzione del tamburo nell'orchestra, trattando con disprezzo ogni timore, volle vedere faccia a faccia il vendicatore di sì gran misfatto ed intrattenersi un momento con lui. Alessandro Rolla fu incaricato di trattare la conferenza. Egli da principio non voleva assumersi la responsabilità.
– Se il mio allievo ti vede, disse Rolla a Rossini, egli ti coprirà d'ingiurie, puoi essere sicuro.
- Io gliele renderò, replicava il maestro, la mia provvista non è ancora esausta. Ma io desidero a qualunque costo, di conferire coll'uomo che vuole pugnalarmi per cagione del tamburo.
Alessandro Rolla non avendo nulla a replicare ad una volontà si recisamente formulata mise finalmente il maestro alla presenza del suo terribile antagonista dopo di avere ammonito assai costui. L'incontro fu dei più curiosi. Il compositore con quella maniera che un accusato dovrebbe presentarsi al suo giudice, spiegò i motivi della sua azione, patrocinò le circostanze attenuanti in suo favore, fece in una parola quanto potè per ottenere una sentenza assolutoria.
– Vi sono si o no soldati nella Gazza Ladra? domanda al suo feroce avversario.
- Non vi sono che gendarmi! rispose questi di cattivo umore.
- Sono essi a piedi od a cavallo? riprese l'incolpato con una dolcezza angelica.
– No, essi sono a piedi, rispose il conservatore.
– Ebbene se sono a piedi essi hanno il tamburo, o il devono avere come tutte le truppe a piedi. Perché dunque volete pugnalarmi per non averli privati? l'impiego del tamburo all'orchestra era voluto dalla verità drammatica. Date al libretto tutti i colpi di stilo che vi piacerà, io non mi oppongo in nessuna maniera: egli è il vero colpevole, ma risparmiate il mio sangue, se desiderate evitare i rimorsi.
E siccome quest'aringa non bastava a far disparire tutta la colera e dissipare tutti i dubbi del suo futuro assassino, Rossini gli promise con una comica solennità che avrebbe mai più adoperato il tamburo nelle sue nuove opere. - E questa promessa fatta, in circostanza cosi buffa, seppe mantenere il compositore. Certamente egli non avrebbe potuto violare senza mancare alle leggi dell'onore. La storia della scena burlesca nella quale Rossini fece cadere il pugnale dalle mani del Ravaillac del purismo musicale, sparsa per tutta Milano, aumentò, se il poteva, il trionfo della Gazza Ladra. Il maestro aveva bene il diritto di prendersi un po' a giuoco gli avversari delle sue felici innovazioni. Egli aveva creato uno dopo l'altro, quattro de' suoi più grandi capolavori ed in un genere tutto affatto diverso. La viva commedia del Barbiere, la possente tragedia shakespiriana dell'Otello, il racconto della Cenerentola, ed il melodramma della Gazza Ladra.
___

Evidentemente il rodaggio delle due prime rappresentazioni è servito: personalmente ho avuto l’impressione di un certo miglioramento complessivo della prestazione di tutti, rispetto alla non entusiasmante prova dell’inaugurazione, ascoltata alla radio. Confermo l’apprezzamento per la concertazione di Renzetti, che mi pare abbia colto lo spirito dell’opera, che è – a parte l’introduzione ed il finale – un dramma serioso, se non proprio una tragedia. L’orchestra del Comunale di Bologna lo ha ben assecondato, nell’insieme e nelle parti solistiche.

 

Quanto alle voci, sempre sugli scudi Alex Esposito (cui perdonerei un paio di calate non determinanti) che propone un Fernando davvero autorevole. Anche gli altri due bassi non hanno sfigurato: Mirko Mimica è un più che discreto Podestà, che tende forse a incupire eccessivamente una voce chiara e ben impostata; e Simone Alberghini, un Fabrizio dignitoso.


Nino Machaidze non ha fatto miracoli (che penso siano fuori dalla sua portata) semplicemente mi è parsa meno urlacchiante e vetrosa negli acuti rispetto alla prima: la vociona ce l’ha, ma dovrebbe amministrarla meglio, ecco. Teresa Iervolino ha messo in mostra una voce dal timbro fin troppo scuro, ma proprio per questo abbastanza adatto ad impersonare la severa Lucia. Un filino sotto (a mio avviso) il Pippo di Lena Belkina, la cui voce fatica a passare adeguatamente.

René Barbera (Giannetto) è quello che mi è parso progredire di più rispetto alla prima; il tenorino yankee ha messo in mostra voce squillante, acuti sicuri e buon fraseggio. Lo risentiremo a giorni nello Stabat Mater che chiuderà il Festival. Da tutti gli altri (vedi locandina) prestazioni complessivamente accettabili. Assai bene anche il coro di Andrea Faidutti.

Doverosa citazione per la Gazza – Sandhya Nagaraja – che Damiano Michieletto ha elevato a protagonista dell’opera. E così parliamo della messinscena, che era conosciuta fin dalla sua comparsa nel 2007, quando venne pure premiata (!?) e poi dalla successiva fruibilità in web. Una proposta tutto sommato dignitosa e godibile (non parliamo però di capolavori, please…) che ha il pregio di non raccontarci una storia inventata dal regista al posto di quella scritta dal librettista, ecco.

Sì, perchè l’idea di farci apparire la vicenda come il brutto sogno di una ragazzina che si mette nei panni del volatile (della famigerata serie bracardiana: la donna c’ha ‘n cervello de galina) è tanto gratuita quanto innocua, non inducendo lo spettatore a distrarsi dallo spettacolo (la musica, soprattutto!) per cercar di decifrare il Konzept del regista. Poi la cosa assume qualche aspetto di incoerenza, come il pentimento che la (ra)gazza sembra provare al vedere la frittata che ha combinato (alla povera Ninetta) col furto del cucchiaio, che non le impedisce poi di tornare ladra, innescando però in tal modo il lieto fine per Ninetta e un incubo per sé medesima, trovatasi di fronte il plotone d’esecuzione destinato alla protagonista, dal quale si salva grazie al brusco risveglio (!?)

Per il resto, detto della miracolosa guarigione del Podestà (che nel 2007 – Michele Pertusi - era affetto da chiara zoppìa, ora perfettamente scomparsa) resta da chiedersi la ragione per la quale l’intero secondo atto si debba svolgere in un acquitrino provocato da una pioggia torrenziale che investe la prigione di Ninetta proprio all’inizio dell’atto. Acqua che oltretutto ha fatto proprio da menagramo, a giudicare dai temporali che in questi giorni flagellano la riviera.

Ma insomma, alla fine Rossini non delude mai e il pubblico, per la verità non proprio… oceanico, ha accolto con gran calore questa riproposta pesarese.

(coming soon: Messa e Inganno… o inganno di una messa?)

11 agosto, 2015

Il ROF-36 alla radio (1)

 

La più sconvolgente (!) novità del ROF-36 è costituita dall’avvicendamento di uno dei suoi interpreti fissi: l’inviato di Radio3 Giovanni Vitali che – essendo passato a più importanti incarichi nella sua Firenze e paraggi – ha ceduto il microfono a Nicola Pedone. Il quale si è presentato con una classica gaffe, collocando l’anno di nascita del Festival nel 1985… nemmeno dovesse fare i complimenti ad una bella donna, ecco. Poi, intervistando Michieletto, dopo qualche battuta sulla Gazza, lo ha portato a parlare del suo recente Tell alla ROH, una scena del quale spettacolo è stata accolta da una plateale contestazione. Così il regista ha potuto spiegare a tutti come e perché quella contestazione fosse responsabilità del solito pubblico ignorante, che non è all’altezza di comprendere le vertiginose intuizioni del regista. Il quale ha promesso però di meditare sull’accaduto. Bene così.

 

Sul fronte dei suoni, La Gazza ladra di Donato Renzetti - per quanto si possa giudicare dall’ascolto tecnologico – ha portato alle mie orecchie sensazioni agrodolci, come dire: ha avuto alti e (parecchi) bassi. Fra i primi includerei proprio la concertazione del navigato Direttore e le dignitosa prova del Coro bolognese di Faidutti; come pure le onorevoli prestazioni di Alex Esposito (papà Fernando) e Mirko Mimica (Podestà). La protagonista (Ninetta) Nino Machaidze non si è smentita rispetto a sue passate prestazioni cui ho potuto assistere dal vivo: una certa approssimazione e una voce che sugli acuti pieni fa uno sgradevole effetto carta-vetro. Tutti gli altri accomunati da un’aurea mediocrità.

Di interessante e coinvolgente, manco a dirlo, c’è stata la strabiliante musica del genio pesarese, che è in grado di resistere a qualunque agente chimico cerchi di corromperla.
___ 

12 agosto, 2015

 

Il ROF-36 alla radio (2)

 

Riecco dopo 10 anni La Gazzetta, che si fregia per l’occasione del ritrovato quintetto dell’atto I, che sembra dare nuovo impulso alla diffusione di quest’opera considerata immeritatamente fra le minori di Rossini (anche per via di un libretto proprio scadente) mentre è musicalmente degna di stare a fianco a Barbiere&C nel novero dei migliori prodotti del genio di Pesaro. E la miriade di auto-imprestiti che Rossini si concede, praticamente da tutta la sua produzione precedente, non ne intacca minimamente freschezza ed originalità.

Devo dire che l’ascolto mi ha piacevolmente sorpreso: Mazzola ha subito mostrato di che pasta è fatto con una splendida esecuzione della Sinfonia; poi non ha più perso un colpo. Ma tutto il cast mi è parso all’altezza, a cominciare dalla Lisetta di Hasmik Torosyan, vocina sottile ma ben impostata e adatta al ruolo. Nicola Alaimo è stato un convincente Pomponio, a dispetto di qualche moderata sguaiatezza… partenopea. Anche il tenorino Maxim Mironov (che debuttò al ROF come accademico nel 2001) ha mostrato buone qualità, così come Vito Priante (Filippo). Ma tutti hanno contribuito ad un risultato che – pur detraendo tutte le tare legate all’ascolto artificiale – definirei più che lusinghiero, e nella media superiore a quello della Gazza di ieri.
___

13 agosto, 2015

 

Il ROF-36 alla radio (3)

 

L’Inganno felice ha chiuso ieri le prime del cartellone principale. Dignitosa prestazione di tutti, fra i quali eleggo Mariangela Sicilia, non foss’altro che per… cavalleria, essendo lei l’unica femmina fra ben quattro maschi che – per ragioni diverse e magari opposte – se la contendono (smile!)

Anche il corrispondente di Radio3 (Nicola Pedone) ha chiuso in bellezza con un paio di topiche e con un’intervista a patron Mariotti che gli meriterà il premio stregone

Mie impressioni dal vivo… next week.
___
Breaking news:

Un annuncio di oggi ci informa che domani 14/8 (ore 11) la recita del Viaggio a Reims (da anni inserito nel cartellone secondario del ROF, per valorizzarne l’Accademia) verrà irradiata in streaming a questo link. Similmente accadrà per lo Stabat Mater del 22 agosto (20:30).
  

08 agosto, 2015

Guerre stellari?


Un famoso sito italiano di melomani è oggetto da qualche settimana di micidiali attacchi informatici che ne bloccano la fruibilità.

Do un microscopico contributo all’esercizio dei diritti di espressione riportando l’indirizzo della pagina facebook dove è possibile – in attesa che tutto torni alla normalità, inclusa l’individuazione e punizione dei responsabili degli attacchi – reperire i contenuti del sito.


Qui il messaggio dei titolari del sito che riassume le recenti vicende:


A parte ogni considerazione nel merito, trovo assai onesta la puntualizzazione contenuta nel messaggio:

cercare di capire se siamo stati presi dentro qualcosa più grande di noi oppure siamo davvero oggetto di tanta sofisticata volontà di distruggere un sito di opera.

Arriva il ROF XXXVI

 

Lunedì 10 agosto apre l’edizione n°36 del RossiniOpera Festival.

 

In proposito, ecco qualche notazione statistica. La Gazza ladra è alla sua quinta apparizione al ROF, che inaugurò nel 1980 e dove è poi tornata nel 1981, 1989 e 2007 (quest’ultimo allestimento, dovuto a Damiano Michieletto, viene ripreso nell’occasione). Anche L’inganno felice ebbe l’onore di aprire le edizioni del Festival, tornandovi poi nel 1994 (e in quello stesso allestimento di Vick torna anche quest’anno). La Gazzetta vanta presenze più recenti, che risalgono al 2001 e al 2005 (allestite da Dario Fo).

 

Più in generale: l’opera maggiormente gettonata del ROF resta La scala di seta, con 6 apparizioni fra il 1988 e il 2011. Il Festival ha ospitato fino ad oggi 38 opere rossiniane: se si escludono i centoni (o pastiche che dir si voglia) Ivanhoé e Robert Bruce e Ugo, Re d’Italia (rimasta nel catalogo solo per la cronaca, essendo andata perduta), dell’intera produzione teatrale del Gioachino in pratica rimane ancora ineseguita al ROF soltanto Eduardo e Cristina. Dalla prima del 1980, 27 delle 36 edizioni hanno presentato almeno una nuova opera. Ciò non è avvenuto per 9 edizioni, che hanno presentato solo opere già comparse in annate precedenti: 1989, 1994, 2003, 2005, 2007, 2008, 2009, 2013 e 2015.

 

È pacifico che ormai (salvo una futura eventuale proposta di Eduardo) il ROF ha perso la sua originaria caratteristica di palestra impiegata per portare in vetrina opere rossiniane dimenticate e/o criticamente editate – cioè rimesse-a-nuovo - dai musicologi (Cagli, Gossett, Zedda e altri 36 collaboratori) per assumere esclusivamente un ruolo più simile a quello che svolge Bayreuth in casa-Wagner, particolarmente dal 1951, quando si passò dalla concezione sacrale-museale del Festival a quella votata alla proposta di nuove interpretazioni (musicali e registiche) dei drammi wagneriani. Con la differenza che Bayreuth (che oltretutto si ostina a disconoscere le tre opere della produzione pre-Holländer) ha soltanto 7 ingredienti per confezionare la minestra del suo Festival, mentre Pesaro ad oggi ne dispone di ben 38!

 

La tabellina che segue riporta (aggiornati al 2015) i dati relativi alle esecuzioni dei diversi titoli al ROF (la colonna più a destra indica il numero di catalogo dell’opera):



Come in tutti i processi (non solo economici) anche qui assistiamo – come teorizzò il vecchio e troppo frettolosamente sepolto Karl Marx - ad una mutazione quantitativa che alla fine ne induce una – ben più radicale – di natura qualitativa. Il pubblico che negli anni ‘80 arrivava in agosto da ogni angolo del pianeta nella piccola Pesaro, lo faceva perché lì e solo lì si potevano gustare delle primizie rossiniane introvabili a LosAngeles, Berlino, Sidney e in ogni altro posto al mondo. Era un pubblico tutto sommato elitario, formato da rossiniani sfegatati e da operatori interessati a riproporre a casa loro o in disco ciò che la Pesaro-ROF metteva via via a disposizione. Mentre la Pesaro-città viceversa – parole di patron Mariotti - più che supportarlo, il Festival lo sopportava

Oggi, proprio grazie all’opera dei musicologi della Fondazione, a Casa Ricordi e alla straordinaria produttività del ROF, parecchie delle opere rossiniane un tempo sconosciute, o dimenticate o bistrattate, sono comodamente fruibili in-loco a LosAngeles, Berlino, Sidney e in moltissimi altri teatri del globo, per non parlare della spettacolare e capillare diffusione di immagini e suoni rossiniani garantita dalle incisioni, dal web e dal tube!

E allora come si fa per invogliare pubblico da tutto il mondo (ancora nel 2014 gli stranieri rappresentavano ben i 2/3 delle presenze!) a continuare a recarsi nella piccola Pesaro? È questa una sfida non da poco, che Mariotti&C hanno del resto cominciato ad affrontare da qualche anno, con risultati per ora – almeno a sentir loro – incoraggianti. E si basa sull’idea – ecco il parallelo con Bayreuth post-1951 - di offrire sempre nuove interpretazioni (che significa: cast, direttori, regìe) dei titoli rossiniani che ormai, proprio grazie ai successi di 35 anni di ROF, non posseggono più i tratti dell’assoluta novità. In questa logica si inserisce il nuovo allestimento che caratterizza una delle tre opere in programma quest’anno.

Per il resto, il progressivo e fatale svuotarsi del serbatoio delle novità, in aggiunta a fattori esogeni legati alla perdurante crisi economica, hanno fatto sì che le risorse disponibili (alla Fondazione Rossini ma soprattutto al Festival) abbiano subito negli ultimi anni tagli consistenti. Stando a Mariotti, oggi il Festival dispone di un budget che è poco più del 50% di quello di cui disponeva 10-15 anni fa, e con quello deve comunque garantire un’offerta dignitosa; non solo, ma anche giustificarsi economicamente: non a caso viene attribuita un’enfasi crescente al cosiddetto indotto del ROF sull’economia locale, calcolato dagli esperti ricercatori dell’Università di Urbino in termini di € di fatturato incrementale delle strutture commerciali dell’area per ogni investito nella realizzazione del Festival. Numeri che sembrerebbero giustificarne ampiamente – quanto meno sul venale fronte del business – tanto l’oggi che il domani.

A proposito di mutazioni, proprio con il 2015 si chiude il ciclo del venerabile Alberto Zedda quale Direttore artistico: dal 2016 il suo posto verrà preso da Ernesto Palacio (Zedda rimarrà tuttavia responsabile dell’Accademia). È stato nel frattempo anche annunciato il programma del ROF-37, che comprenderà Donna del lago, Turco e Ciro (ma le sorprese - sotto forma di variazioni - come ben sappiamo qui sono all’ordine del giorno…)

Adesso, poche note sui tre titoli in programma da lunedi, in ordine cronologico di composizione.
___
L’Inganno felice è una farsa rappresentata per la prima volta a Venezia mercoledì 8 gennaio 1812. Rossini, ventenne, è qui alla sua quarta esperienza compositiva, ma solo alla terza teatrale (dopo Cambiale ed Equivoco) poichè la sua prima opera, Demetrio e Polibio, verrà rappresentata (a Roma) solo nel maggio successivo, subito dopo un’altra farsa veneziana (La scala di seta).

L’Inganno è la seconda delle 5 farse che Rossini compose per il Teatro SanMoisè in poco più di 2 anni (dicembre 1810, Cambiale – gennaio 1813, Bruschino) e che rappresentavano fino ad allora più della metà della sua produzione (in tutto 9 titoli). Due mesi dopo L’Inganno, Rossini presenterà a Ferrara il suo Ciro, un’opera seria che doterà – guarda un po’ – della stessa Sinfonia (dai tratti che anticipano certo Schubert…) della farsa veneziana, inaugurando con ciò la lunga serie dei suoi auto-imprestiti e la sua propensione a svincolare i contenuti musicali dai soggetti delle opere.

Per la verità, se guardiamo da vicino il testo di Giuseppe Foppa dobbiamo concludere che l’attributo di farsa non vada per nulla inteso nel senso di pezzo comico o leggero, ma semplicemente di opera breve, dalla struttura semplice e concisa (atto unico con 8 numeri musicali in tutto, Sinfonia esclusa). In effetti, il testo presenta risvolti assai drammatici, e il lieto fine è l’unico squarcio consolante di tutta la vicenda. Più che un dramma giocoso (come venne caratterizzato) è una classica pièce au sauvetage, dove la sfortunata protagonista viene miracolosamente restituita all’affetto del nobile marito dopo aver rischiato di fare una brutta fine per la seconda volta nella vita e per mano del medesimo sbifido individuo, finalmente e doverosamente tratto in catene. Insomma, qualcosa di vagamente simile (nel suo piccolo) al Fidelio, che a nessuno verrebbe in mente di catalogare come farsa solo perché alla fine due coniugi vi si riuniscono felicemente mentre un tiranno viene castigato come si merita…

In rete è possibile ascoltare almeno due edizioni complete dell’opera: una diretta da Marcello Viotti nel lontano 1992 e l’altra più recente (2010) di Marc Minkowski.  
___
La Gazzetta, unica opera buffa composta per Napoli (debutto al Teatro dei Fiorentini, giovedì 26 settembre del 1816, poco più di due mesi prima dell’Otello) si avvale di un libretto a dir poco strampalato di Giuseppe Palomba. A differenza dell’originale che lo ispirò (un mirabile testo di Goldoni) esso è un insipido minestrone infarcito di gratuiti equivoci, imbrogli e travestimenti che – manco a dirlo - si salva esclusivamente grazie alla straordinaria verve della musica del Gioachino. Che già si manifesta dalla Sinfonia, uno dei gioiellini rossiniani, la cui fama fu ulteriormente illustrata dal suo totale re-impiego, 4 mesi più tardi, per la romana Cenerentola.

A sua volta la sinfonia recupera il secondo tema dal Torvaldo, dato a Roma meno di un anno prima, nel dicembre del 1815. E, a proposito di riciclaggi, chissà quale fu il nesso causa-effetto che determinò – nel testo – l’invenzione della scena del ballo con i travestimenti da turchi e – nella musica – gli auto-imprestiti rossiniani dal Turco in Italia.  Ma l’imprestito più famoso è quello… mancato, poiché lo si ritrova nel libretto, ma non nella musica. Dunque, a metà del primo atto era d’uso collocare un concertato (o un quintetto, come in questo caso) che creasse un climax intermedio, prima del finale. Nella Gazzetta è il momento in cui si sciolgono, alla presenza di Pomponio, gli equivoci Filippo-Lisetta e Alberto-Doralice, e dove tutti manifestano stupore e incredulità, chiudendo il quintetto con l’impiego quasi alla lettera dei versi che si odono alla fine del primo atto del Barbiere, di soli 7 mesi più anziano:

Mi par d’esser con la testa
in un’orrida fucina,
ove cresce e mai non resta
un continuo susurrar.
Alternando questo e quello
pesantissimo martello,
che coi colpi d’ogni intorno
fanno l’aria rimbombar.

Per ragioni insondabili – la più gettonata è quella della necessità di stringere i tempi, già ampi, dell’atto primo – Rossini non musicò il quintetto, che viene direttamente cassato oppure – come fece Dario Fo nella sua regìa al ROF – semplicemente recitato con accompagnamento di altra musica rossiniana. Ebbene, nel 2011, a quasi 200 anni di distanza, si è ritrovato a Palermo un manoscritto di Rossini che l’esperto Philip Gossett non ha esitato a riconoscere come il quintetto mancante all’appello. Si tratta di un brano tripartito la cui ultima sezione, sui citati versi del Barbiere, ne ripropone sostanzialmente anche la musica. Qui lo si può seguire nella prima esecuzione assoluta, avvenuta in USA nel 2013 proprio sotto la supervisione di Gossett. Il quale ha successivamente retro-fittato (come barbaramente direbbero gli informatici) il quintetto nella sua edizione critica del 2001 (Ricordi) che è stata impiegata per la prima volta a Liegi nel 2014 in questa edizione dell’Opera (a partire da 47’00”). Qui il sestetto del Barbiere incorporato nel quintetto della Gazzetta. Ecco, il ROF non ha voluto fare uno sgarbo a Gossett (che nel 2006 ha, diciamo così, divorziato dalla Fondazione Rossini) e ha deciso di incorporare il ritrovato quintetto nell’edizione 2015; staremo a vedere sentire.

Aspettiamo anche con interesse di vedere il nuovo allestimento di Marco Carniti.
___
La Gazza ladra (che debuttò sabato 31 maggio del 1817 alla Scala) fu un’opera totalmente nuova, cui Rossini dedicò la massima cura, scrivendone ex-novo tutte le note, a partire dalla famosissima Sinfonia, che non è un brano avulso dal contesto, ma nella quale compaiono almeno due motivi che si udiranno nell’atto secondo: il crescendo che segue il secondo tema (SOL maggiore) il quale sostiene il coro-concertato (Udiste, vi seguo) dopo l’aria del Podestà (In odio e furore); e poi il primo tema (in MI minore) che supporta il duetto Pippo-Ninetta (A mio nome deh consegna).

In rete è disponibile una registrazione del 2007, dalla quale è possibile farsi un’idea del premiato spettacolo di Damiano Michieletto (il cast 2015 è invece totalmente rinnovato, così come la compagine strumentale, il coro e il concertatore). Forse più storicamente interessante è la registrazione del 1989, introdotta da una splendida Simona Marchini.
___

Appuntamenti su Radio3 il 10-11-12 (ore 20) per le tre prime del cartellone principale.


02 agosto, 2015

Da Wagner a Rossini

 

Archiviato (dal mio punto di vista e senza troppi rimpianti) il Festival wagneriano, sta arrivando l’ora (10 agosto) di quello rossiniano: un virtuale trasferimento dalla verde collina di Franconia alle calde sabbie dell’Adriatico.

 

Il che mi dà lo spunto per qualche considerazione sui rapporti e i reciproci apprezzamenti (veri o presunti tali) fra questi due compositori che – nel giro di 50 anni – produssero le due più epocali svolte nella storia del teatro musicale.

___
È opinione diffusa che Rossini avesse scarsissima considerazione di Wagner, e al proposito circolano da sempre aneddoti di ogni tipo. Al musicista Michele Carafa (Caraffa) wagneriano convinto, si narra che Rossini fece servire a cena una portata di pesce guarnito con diverse salse, ma dove mancava proprio… il pesce: spiegando che chi apprezzava la musica di Wagner (tutto contorno e niente melodia) avrebbe dovuto quindi apprezzare la sola salsa senza il pesce. Sappiamo peraltro (da quanto riferito da Wagner stesso nella terza delle sue Censuren - Eine Erinnerung an Rossini – vergata in occasione della morte di Rossini e da quanto dettagliatamente riferito da Edmond Michotte, testimone oculare) che in occasione dell’incontro che i due musicisti ebbero a Parigi nel 1860 (quando Wagner era là per preparare Tannhäuser) l’anziano maestro italiano smentì categoricamente ogni malignità che gli era stata attribuita nei suoi riguardi dai giornali, cui dichiarò di aver chiesto formali smentite di queste dicerie.

Un’altra citazione rossiniana che si legge ovunque riguarda Lohengrin: Rossini avrebbe affermato che per giudicare compiutamente l’opera fosse necessario almeno un secondo ascolto, che lui però… si sarebbe ben guardato dal fare. Ora sappiamo benissimo che, Rossini vivente, di Lohengrin a Parigi si eseguirono soltanto pochi brani antologici (la prima rappresentazione si ebbe nel 1877…) il che rende assai poco verosimile quella battuta. Così come altre, del tipo: Wagner ha qualche momento buono e interi quarti d’ora insopportabili; oppure: finalmente riesco a capire qualcosa di questo Tannhäuser (ma la partitura è capovolta…); e così via.

Quel che è certo è che Rossini non poteva condividere la visione wagneriana sul futuro dell’opera (sono figlio del mio tempo…) ma nemmeno si può escludere che la giudicasse con un minimo di tolleranza e senza farci guerre di religione.
___    
E Wagner, cosa pensava di Rossini?

Beh, che Wagner non avesse in simpatia l’establishment culturale e musicale del suo tempo è assodato. Ed è noto come avesse aspramente criticato - particolarmente in Oper und Drama - lo sviluppo del teatro musicale e dell’opera così come maturato negli anni di massimo fulgore di Rossini. Nel capitolo L’Opera e la natura della musica Wagner dedica pagine e pagine a Rossini, analizzandone l’approccio compositivo: in primo luogo il ruolo preminente destinato proprio alla melodia, tanto genialmente ispirata da profumare i fiori finti delle sue opere facendoli apparire come veri! Certo, Wagner si scaglia contro quella che considera un’autentica degenerazione dell’arte musicale, ma riconosce a Rossini una specie di stato di necessità, che lo aveva portato ad assecondare le tendenze di mercato: che privilegiavano i cantanti, le voci, i gorgheggi, sacrificando ad essi – pura forma – la sostanza dei contenuti del dramma per musica.  

Ma è significativo notare come il citato capitolo si apra con queste precise parole: dieser große Künstler war Joachimo Rossini, questo grande artista fu Rossini. Il che ci fa pensare che di lui Wagner avesse un’alta considerazione (così come di Bellini, del resto; al contrario di Donizetti, che Wagner detestava probabilmente per aver dovuto sbarcare il lunario trascrivendone per trombetta alcune arie). Interessante notare il trattamento riservato (sempre nel citato Oper und Drama) a Giacomo Meyerbeer, accreditato di capacità musicali pari a zero! Evidentemente per lui non valeva la giustificazione delle esigenze di mercato! (Poi, per dimostrare che i suoi non erano ciechi pregiudizi, Wagner fa una lode sperticata del passaggio in SOLb maggiore – Tu l’as dit – di Raoul-Valentine dal quarto atto di Les Huguenots, che forse gli ispirerà qualcosa nel Tristan…)  

Ci sono poi le controverse citazioni che Wagner fa di motivi rossiniani nei Meistersinger. La prima riguarda Beckmesser, che i sostenitori (Gutman, Zelinsky, Millington, Leeson, Nicholson, Brach, etc.) della tesi secondo cui l’anti-semitismo sarebbe organicamente connaturato alle opere di Wagner, definiscono come rappresentante della razza semitica, individuo artisticamente inferiore che però cerca di conquistare Eva con tutti i mezzi, anche illeciti, a spese del puro ariano Stolzing. Orbene, dato che a lui Wagner mette in bocca una parodistica citazione della serenata di Lindoro dal Barbiere, ne deriverebbe il facile e offensivo parallelo: Rossini=Beckmesser=verme. Ma basterà ascoltare come quel motivo viene da Wagner magistralmente sviluppato per rendersi conto dell’assurdità di tale parallelo.


Poi è soprattutto la citazione del motivo Di tanti palpiti dal Tancredi ad essere presa di mira. Vediamo come e perché. Il presupposto filosofico è l’astio razionale che Wagner avrebbe nutrito per l’arte degenerata (rappresentata principalmente dagli ebrei Mendelssohn e Meyerbeer, ma anche dall’imperante opera italiana) che avrebbe minacciato di inquinamento la pura Arte tedesca.  

Orbene, nel terzo atto dei Meistersinger Wagner mette in scena l’arrivo delle diverse corporazioni di Norimberga presso la spianata sulla Pegniz dove si celebrerà la festa di SanGiovanni (che includerà anche la tenzone canora): ciascuna corporazione marcia fra uno sventolio di bandiere e stendardi, cantando le lodi delle proprie professionalità e i meriti acquisiti in passato presso la città e il popolo. Dopo che per primi sono sfilati i calzolai (la corporazione di Hans Sachs) ecco arrivare i sarti illustrando i meriti di un loro rappresentante che – tempo addietro - nientemeno aveva salvato Norimberga da un assedio nemico, mettendo in fuga gli assedianti con un curioso quanto geniale stratagemma: cucendosi addosso una pelle di caprone ed esibendosi in corse e salti sulle mura della città. Al che il nemico, disgustato dalla prospettiva di dover affrontare non esseri umani ma mandrie di cornuti, aveva deciso fosse meglio lasciar perdere l’assedio… (evabbè)

È qui che Wagner cita, in modo parodistico, i famosi palpiti dal Tancredi. Ed ecco che diventa facile sostenere che la citazione, fatta nel contesto di una storia di assedio della città tedesca, in realtà rappresenterebbe, secondo Wagner, l’assedio che la cultura straniera (qui quella italiana, impersonata da Rossini) starebbe portando a quella tedesco-luterana. Da ciò i successivi incitamenti di Sachs a difendere l’arte tedesca da queste minacce, e la profezia che essa, se onorata e custodita dal popolo, avrebbe potuto sopravvivere anche al tracollo del Sacro Romano Impero.

Insomma: citandone un motivo musicale del Tancredi in modo tendenzioso se non addirittura calunnioso, Wagner avrebbe offeso e dileggiato Rossini come un pericoloso nemico dell’arte germanica. Ma sarà proprio così?

Proviamo ad analizzare un po’ più da vicino lo scenario, dando un’occhiata all’unica fonte certa, autentica e inoppugnabile di cui disponiamo: la partitura (testo e musica di Wagner). Ecco cosa ci troviamo precisamente nel momento in cui i sarti cantano l’inizio della loro storiella: nove battute, che possiamo suddividere in due parti uguali. Nelle prime 4 e mezza c’è il ricordo dei giorni tragici dell’assedio, nelle successive 4 e mezza l’anticipazione dello scampato pericolo, grazie al coraggio e all’inventiva del sarto:



L’entrata dei sarti si accompagna ad una repentina modulazione: dal DO maggiore precedente (con i festosi squilli di tromba) si passa al LA minore, poiché il coro deve raccontare il pericolo mortale vissuto dalla città assediata (sono le prime 4 battute e mezza). Poi abbiamo la transizione verso il consolatorio e allegro ricordo dell’impresa del sarto che occupa, tornando a DO maggiore, le successive 4 battute, contenenti appunto la citazione - la tonalità originale è FA - dei palpiti.

Ergo: la melodia rossiniana è impiegata qui da Wagner per supportare l’epinicio dei sarti per il loro valoroso collega, non già la minaccia portata dagli assedianti, che è stata evocata con il LA minore precedente, che nulla ha a che fare con Tancredi. Ed è quindi una citazione del tutto positiva, un vero e proprio omaggio al compositore italiano di cui Wagner – lo abbiamo già appurato - apprezzava il genio, pur criticandone l’involuzione delle forme musicali. Altro che considerarlo un… assediante! Anche il tono allegro e scanzonato della citazione (i tre ein Schneider che devono essere cantati quasi… belando, in omaggio al travestimento del sarto) non è certo irriguardoso né offensivo nei confronti di Rossini, ma simpaticamente appropriato ad evocare un’impresa dai contenuti più spassosi che drammatici (e del resto non fu proprio Rossini il campione dell’impiego della medesima musica per supportare il serio e il giocoso?)

In ogni caso la prova definitiva l’abbiamo chiedendoci: chi è Tancredi? Guarda caso un patriota, precisamente come l’anonimo quanto bizzarro sarto di Norimberga! (O vogliamo concludere che l’eroe di Wagner fosse in realtà una macchietta da avanspettacolo? E che quindi tutti i Meister siano una farsesca presa in giro, predica finale di Sachs inclusa?)
___

Tornando a Pesaro, i tre titoli principali (per 4 recite cadauno) dell’Edizione n°36 del ROF (dedicata significativamente alla memoria di Luca Ronconi) sono Gazza ladra, Gazzetta e Inganno felice. Cartellone assai diverso da quello prospettato un anno addietro in chiusura del n°35 che prevedeva - oltre a Gazzetta - Donna del Lago e Adelaide di Borgogna (della serie: mica siamo a Bayreuth!) In compenso è un programma arricchito dal ritorno (dopo un ventennio e più: 1992 e 1995) della Messa di Gloria (più Pianto d’Armonia e Morte di Didone, con due giganti rossiniani di nome Pratt e Florez!) e chiuso (sabato 22, con diffusione in piazza) da una ripresa dello Stabat Mater (più Danze dal Tell) con Mariotti, come nel 2010.  


Quanto agli allestimenti, la novità è La Gazzetta (regìa di Marco Carniti e concertazione di Enrique Mazzola) mentre La Gazza ladra riprende la fortunata produzione targata Michieletto del 2007 e L’inganno felice quella ancor più stagionata di Vick del 1994.

 

Radio3, continuando una ormai lunghissima tradizione, irradierà in diretta - il 10, 11 e 12, sempre alle ore 20 - le prime delle tre opere del cartellone principale.