affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

14 dicembre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°13


Riecco il Direttore principale John Axelrod alle prese con un programma piuttosto insolito, una passeggiata musicale tutta romantica (e tardo-) che ci porta da Mahler a Brahms passando per Wagner. Un viaggio interessante ed anche curioso, dacchè vi viene smentita la cosiddetta proprietà transitiva: visto che Wagner e Brahms stavano (artisticamente) su sponde opposte, chiunque seguisse l’uno avrebbe dovuto automaticamente prendere le distanze dall’altro. Non così Mahler, che invece fu fervente ammiratore di entrambi (pur con qualche distinguo di natura estetica).

Il concerto si apre con un breve brano che Mahler aveva originariamente incluso - come secondo movimento, Andante alegretto (sic!) dei cinque - nella sua Prima sinfonia (anzi, Poema sinfonico, come lo aveva inizialmente battezzato, nel 1888): si tratta di Blumine, il cui manoscritto si era perso in giro per il mondo e che è stato riportato alla luce qualche decina di anni orsono (1966).

 
Stando all’Autore medesimo il titolo, così come quello della sinfonia (Titan) fu mutuato da Jean Paul, precisamente da una raccolta di articoli di rivista, pubblicata a Tubingen nel 1810 e intitolata Herbst-Blumine… (Fiori d’autunno). Ma si è scoperto poi che il brano era da Mahler già stato composto a Kassel nel 1884 per la serenata di Werner nelle musiche di scena (andate perdute o distrutte, salvo proprio il frammento relativo alla serenata) di Der Trompeter von Säkkingen di Viktor von Scheffel, un poema eroicomico ambientato nella guerra dei 30 anni.


Non a caso protagonista del brano è la tromba solista (qui Christopher Dicken, con Harding e la MCO).

Curiose le peripezie cui il pezzo andò incontro nelle mani del suo autore: dopo essere stato presentato alla prima di Budapest nel 1889, Mahler (all’inizio del 1893) aveva deciso di cestinarlo. Ma pochi mesi dopo (estate 1893) lo aveva ripristinato e presentato in un’esecuzione ad Amburgo (ancora l’opera si chiamava Poema sinfonico…)

Fu in occasione di un’esecuzione a Berlino nel 1896 che Mahler cassò definitivamente Blumine e presentò il suo lavoro in 4 movimenti come Sinfonia in RE maggiore per grande orchestra: e così essa fu definitivamente pubblicata nel 1899 e poi nel 1906 e così da allora viene eseguita in tutto il mondo.

Cedo ora la parola a Henry-Louis de La Grange perché ci descriva questo brano (testo preso dalla sua monumentale biografia di Mahler, traduzione mia):

Tonalità: DO maggiore. Tempo: 6/8. Forma: ABA.
Dopo un poetico preludio degli archi, pianissimo, di quattro misure, la tromba solista espone immediatamente la melodia, la cui seconda frase (prima del numero 2), è poi ripresa dagli archi. La sua principale debolezza risiede in un eccesso di simmetria nelle appoggiature dal semitono inferiore, rozzamente accentuate, che precedono ogni nota importante della melodia, e che finiscono per creare l’impressione di un tic o di un ossessivo manierismo. L’episodio centrale (B) comincia in LA minore con imitazioni sulla prima misura del tema A. Un secondo episodio espone una nuova versione di A, dopo la quale si perviene poco a poco alla forma originaria del tema attraverso un passaggio modulante che combina un’altra versione di A con un controcanto nei violini. Raggiunta la tonalità di SOLb maggiore nella quale i violoncelli in acuto e i flauti hanno scambiato A in imitazione, Mahler ritorna alla tonalità principale in sole quattro misure. È la seconda frase di A, negli archi, che introduce la riesposizione. Questa è abbreviata e seguita da una piccola coda, assai semplice, sempre basata su A.
Insomma, Mahler fa un uso eccessivo del suo primo tema, la cui dolcezza un po’ zuccherosa e le famose appoggiature ne distruggono ben presto il fascino. Se non fosse che è di Mahler, tutto farebbe pensare che Blumine sarebbe scomparso in un oblio definitivo, trattandosi al più di una musica neo-mendelssohniana, la cui grazia, lo charme, l’eleganza e l’invenzione piuttosto modesta sono totalmente lontani dallo stile mahleriano, così come lo conosciamo. Alcuni passaggi sono particolarmente ben riusciti, in particolare le transizioni, ad esempio quella che collega i due temi dell’esposizione, dove una lunga nota tenuta, MI (mediante di DO maggiore) si trasforma in dominante della tonalità seguente, LA minore, attraverso un semplice salto d’ottava in glissando. Un altro momento di pura poesia è quello dove il primo motivo viene elaborato in imitazioni, e passa da uno strumento all’altro; e anche quello dove, più tardi, l’arpa esegue dei tremoli su triple crome. L’arpa è peraltro utilizzata ovunque con una consumata perizia, come nei Gesellen. Tuttavia, qualche fortunato cammeo non è sufficiente a rendere il pezzo degno del suo autore. In tutto il resto dell’opera mahleriana non esiste null’altro di così superficiale e meramente decorativo come questo pezzo, nemmeno il grande assolo nostalgico del Posthorn della Terza sinfonia, che pure discende direttamente da questo. Non c’è quindi nulla di male nel fatto che Mahler lo abbia soppresso, casomai ci si dovrebbe stupire del fatto che Mahler dopo qualche mese fosse tornato su quella decisione. L’interesse di questo pezzo è soprattutto di tipo documentario. Senza di esso, in effetti saremmo privi di ogni idea riguardo lo stile delle musiche di scena del Trompeter von Säkkingen.

Per la verità Blumine viene qualche volta presentato al suo posto originario nella Sinfonia: c’è chi – con de La Grange - boccia l’idea come si trattasse di uno scoop ammuffito, mentre altri cercano di dimostrare come in fin dei conti quella presenza non sarebbe poi del tutto ingiustificata.

E al proposito, mi limito a segnalare qui uno dei legami concreti che oggettivamente si possono individuare fra Blumine ed il resto della sinfonia: la chiara somiglianza fra la cadenza dei violini che chiude la frase di Blumine e il passaggio (Sehr gesangvoll) del Finale, che a quella si richiama senza alcun’ombra di dubbio:


Ecco: questo aspetto ciclico della Sinfonia si perde irrimediabilmente con l’assenza di Blumine. 

Che poi uno dei motivi che portarono Mahler all’abbandono del brano fosse il pudore per la rassomiglianza delle prime 6 note del tema della tromba con quelle dell’Allegro ma non troppo del Finale della Prima di Brahms, mi parrebbe una spiegazione poco plausibile (ci avrebbe messo 6 anni ad accorgersene?):
Certo, non esistendo alcun indizio di possibili ulteriori ripensamenti di Mahler in proposito, parrebbe giusto rispettare la sua volontà, come testimoniata dalle edizioni ufficiali, e non eseguire il brano nel corpo della Prima. Però non ha nemmeno torto chi sostiene – con argomenti non peregrini - che il re-inserimento di Blumine non sia poi un delitto di lesa-maestà.

Ad ogni buon conto, Axelrod ha fatto la cosa più sensata: ci ha proposto questo delizioso cammeo, che è un vero piacere ascoltare, senza però metterci intorno… la sinfonia! Bravissimo, come al solito, Alex Ghidotti a porgerci questa piccola ma interessante reliquia.
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Wagner compose il Siegfried-Idyll per farne un regalo di compleanno alla moglie Cosima che da poco più di un anno gli aveva dato il tanto atteso figlio maschio. Anche qui, lascio la parola ad un illustre wagnerita, il compianto prof. Teodoro Celli, per raccontarci di quest’opera in modo a dir poco appassionato:

Il 24 Dicembre 1870.
Era la vigilia di Natale; Cosima, in quel giorno, compiva i trentatré anni. Aveva appena scritto sul suo diario: “Quest’anno da Richard non ho avuto nessun regalo”. Era la mattina; quando giù, nell’atrio della villa – a Triebschen in Svizzera dove abitavano – udì risuonare una musica.
L’evento era frutto d’un amorevole complotto. In novembre e in dicembre, Wagner aveva scritto un poemetto sinfonico con l’intenzione di farne dono alla sposa amata. Aveva segretamente ingaggiato i musicisti necessari, e aveva fatto eseguire le prove: fra di essi era il celebre cornista Hans Richter, futuro direttore d’orchestra dell’Anello del Nibelungo a Bayreuth, per la “prima” del 1876. In quest’occasione egli aveva imparato a suonare la tromba!
I leggii furono disposti nell’atrio della villa, e sulle scale. Wagner stesso diede l’attacco. E così Cosima quando scese, circondata dalle figlie, e col piccolo Siegfried in braccio (aveva un anno e mezzo), udì qual’era il suo “regalo”.
Questa musica fu poi chiamata Siegfried-Idyll, “Idillio di Sigfrido”. I bambini di casa Wagner la chiamavano invece Treppermusik, “musica delle scale”, dal luogo dove l’avevano sentita! Otto anni dopo Wagner acconsentì a pubblicarla, con una dedica a Cosima che diceva fra l’altro: “La calma gioia che noi abbiamo goduta al focolare e che è espressa in questi suoni, noi volemmo tenerla segreta. Ma a coloro che ci furono fedeli, che furon dolci a Sigfrido e amorosi a nostro figlio, sia finalmente rivelata, col tuo consenso, quest’opera che canta la serena felicità di cui abbiamo gioito”.
La gioia della vita familiare – che fu veramente “unica” nell’arco affannoso della vita del Maestro – è qui cantata con accenti indicibilmente toccanti. Vi si ascolta l’amore di Wagner per la sua donna, e l’emozione per i cari figli, soprattutto per il piccolo “Fidi”; e vi si vede – quasi – anche il Wagner capace, di quando in quando, di tornar ragazzo, giocando in giardino con i bambini e arrampicandosi sugli alberi, con non diminuita agilità d’acrobata, nonostante i cinquantasette anni. Ma vi si sente soprattutto un magistero puramente sinfonico, che dimostra a quale altezza il Maestro fosse arrivato.
Composta per piccola orchestra, la partitura richiede (secondo le indicazioni di Wagner stesso) un flauto, un oboe, due clarinetti, un fagotto, due corni, una tromba, sei primi violini, cinque secondi violini, quattro viole, tre violoncelli e due contrabbassi. Il tessuto sinfonico aduna alcuni temi del Sigfrido, e precisamente: la melodia della “Pace”, il “Sonno”, “Siegfried erede della potenza del mondo”, “Decisione d’amare”, “Angoscia d’amore” e “Uccello del bosco”; ad essi è aggiunta, di quando in quando, una canzone popolare svizzera. Fluiti dall’animo del Maestro nella sua opera, quei motivi tornavano affettuosamente dall’opera al Maestro, a contrassegnare il momento più dolce della sua vita.

In realtà parrebbe che quell’esecuzione scaligera (!) sia avvenuta proprio il giorno di Natale, poiché Cosima era solita spostarvi i festeggiamenti per il suo compleanno.

Quanto alla primogenitura di alcuni temi, primo fra tutti quello della Pace, recenti studi porterebbero a pensare che sia entrato prima nel poemetto sinfonico e successivamente nell’opera, contrariamente a quanto sostenuto da Celli (in effetti Wagner stava lavorando al terz’atto del Siegfried quando compose l’Idyll). Quel che è incontestabile è però che il tema in questione (e forse anche quello di Siegfried erede della potenza del mondo) ha un’origine assai più remota rispetto all’opera; un’origine, per così dire, galeotta: dacchè viene dall’abbozzo di un quartetto - detto di Starnberg perché colà ideato e mai portato a termine - che Wagner avrebbe voluto dedicare alla sua Cosima amante, e non ancora moglie. Erano i giorni (estate 1864) in cui i due convissero more-uxorio (la piccola Isolde fu concepita lì, nella Villa Pellet, messa a loro disposizione da Re Ludwig e che sorgeva sulla costa orientale del laghetto, subito sotto la cittadina, a sud di Monaco) senza curarsi di occultare la loro relazione al marito di lei, Hans von Bülow, che anzi – da wagneriano sfegatato – ottenne in cambio (smile!) il privilegio di essere il primo a dirigere il Tristan!

Infine, anche in merito alla canzone popolare svizzera ci sono probabilmente delle inesattezze: ciò che compare nella partitura è un richiamo (letterale nelle prime 4 battute) al tema di una ninna-nanna che Wagner aveva composto qualche tempo prima per la figlia Eva, trascrivendolo sul suo diario: il primo verso suona come Schlaf, Kindchen, Schlafe, che guarda caso è molto simile al titolo di una ninna-nanna tedesca, musicata da Johann Friedrich Reichardt nel 1781, che però ha un testo diverso ed un motivo piuttosto banalotto:


Come si vede, si tratta di tutti motivi di 10 battute, ed è quasi certo che Wagner conoscesse il brano di Reichardt e che ne abbia tratto vagamente lo spunto.

Il complesso che eseguì originariamente il poemetto - che aveva anche un titolo diverso, quasi più lungo della stessa musica (smile!): Tribschener Idyll mit Fidi-Vogelsang und Orange-Sonnenaufgang, als Symphonischer Geburtstagsgruss. Seiner Cosima dargebracht von Ihrem Richard. - era composto da otto fiati (1-1-2-1-2-1) e dai 5 archi tradizionali. Nel far pubblicare la partitura, oltre ad imporle il titolo, Wagner mantenne l’organico dei fiati e irrobustì gli archi (6-5-4-3-2).

Qui lo esegue un Celibidache sempre grande, ma forse fin troppo… ascetico! Francamente gli ho preferito l’Axelrod di ieri sera, più asciutto e spedito, che ha ben interpretato le diverse variazioni agogiche previste in partitura. Invece dei 20 archi prescritti, ne ha schierati quasi il doppio (!) e di conseguenza l’atmosfera cameristica si è un pochino persa, ma va bene lo stesso.
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Chiude il concerto Brahms con la Terza Sinfonia. Opera che Mahler apprezzava assai, arrivando a pensare persino (udite, udite!) di manipolarne l’orchestrazione (come fece con Schumann…) da lui considerata troppo scarna.

Di Brahms Mahler aveva una grandissima stima (appena appannata da quello che lui considerava uno sgarbo fattogli dal burbero amburghese, ai tempi della bocciatura del suo Klagende Lied al Conservatorio di Vienna) ma considerava la sua musica troppo fredda. Come scrisse a Natalie Bauer-Lechner, gli sembrava che essa avesse un solo limite, quello di non spezzare mai le catene che le impedivano di elevarsi al di sopra della vita e dei dolori di questa terra, per esplorare mondi più liberi e luminosi. Brahms, scriveva, sembra prigioniero della sua condizione, di questo mondo e di questa vita; non rivolge mai lo sguardo verso le più alte vette; per questo le sue opere mai potranno produrre la più forte ed alta impressione; ad esse ornamenti, fioriture e fantasia sono del tutto estranei, e vi rimane solo un gioco di suoni duro ed austero, anche se sono colme di ingegno e di arte, dato che Brahms è un grande artista ed un uomo superiore.

Poi, constatando l’abissale differenza fra le sue opere e quelle di Brahms, Mahler si chiedeva (con grande onestà intellettuale) se per caso non fosse lui a sbagliare, e la sua musica non fosse altro che un guazzabuglio (cattolico!) di misticismi…

Dai tempi di Hanslick si usa dire che la musica di Brahms è assoluta, in opposizione a quella di Liszt, di Wagner (ovviamente) di Strauss e di Mahler. Ma allora perché una musicista raffinata, colta e sensibile come l’amata Clara (Schumann) nel felicitarsi con l’autore per la sua Terza gli confida di vederci i boschi e le foreste, i boscaioli inginocchiati ai piedi di una cappella nel verde, e ancora lo sciacquio del ruscello ed il ronzio degli insetti (ohibò… il Waldweben)? In realtà a questa, come a qualunque altra sinfonia o musica in genere, si possono appiccicare dall’esterno tutti i programmi di questo mondo, quanto infinite sono le sensazioni che ciascuno di noi può provare ascoltando quel dato brano musicale.

E questa Terza non comincia per caso con un motivo preso da un’altra Terza, precisamente quella di Schumann, apertamente sottotitolata renana?

E non era proprio il Reno che Brahms poteva ammirare dalle finestre della casa che lo ospitava a Wiesbaden mentre componeva la Terza? E a proposito di Wagner: se in quel tema sostituiamo la tonica di partenza (SOL) con una sesta (MI) non troviamo forse l’incipit del motivo assolutamente renano del Weia-Waga, che poi è anche quello del Sonno e dell’Uccellino del bosco?  

Beh, ce n’è abbastanza per ripensare certe categorie piuttosto stucchevoli che ancora vengono usate per catalogare musiche e musicisti…   

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Axelrod e laVerdi hanno eseguito la Terza non troppo tempo fa con gran profitto, così adesso la registrano per inciderla nell’integrale del maestro texano. Un’esecuzione forse un poco contratta all’inizio (magari eccessiva… tensione?) ma poi cresciuta via via (pregevoli i due tempi centrali) fino alla splendida conclusione.

Gran trionfo in un Auditorium gremito.

08 dicembre, 2013

Ancora due cosette sulla Traviata scaligera

 

Come si è ben visto – anzi, udito – i dissensi finali hanno colpito principalmente (ma non solo) la regìa di Cerniakov. Il quale ha seguito l’ormai classico – e quasi sempre deleterio – processo che ha come obiettivo quello di impiegare l’opera in questione per rappresentare (in funzione pseudo-maieutica) scenari e problemi di attualità. Nella fattispecie, come deve aver ragionato il regista russo?

 

1. Verdi (con Piave) intendeva mettere in scena uno spaccato di certa società degli anni 1850, contemporanea quindi a lui e al suo pubblico;

2. vivendo noi negli anni 2000, bisogna trovare qualcosa che rappresenti aspetti e comportamenti radicati nella nostra società, che è oggettivamente diversa da quella di 150 anni orsono;

3. una di queste caratteristiche – ormai lo abbiamo imparato a memoria, da Freud sui libri e da Strindberg, per dire, a teatro – è la nevrosi (indotta in tutti noi da questa nostra società alienante) che impedisce agli esseri umani di vivere compiutamente e in modo spontaneo e… umano anche il rapporto più importante: l’amore;

4. e quindi Violetta e Alfredo il loro amore lo devono vivere in uno stato di perenne isteria, che porta lei nientemeno che alla morte e lui a vedere quella morte come un’autentica liberazione da un incubo.

 

Noto di passaggio che il regista non si deve essere fatto tradurre bene in russo il testo dell’aria di esordio dell’atto secondo, che ci racconta del tipo di ménage Violetta-Alfredo più e meglio di un’intera raccolta di Racconti di Liala… Forse questo ha portato il regista ad immaginare che i bollenti spiriti fossero riferiti ad un minestrone di verdura, che infatti Alfredo si mette solertemente a cucinare (smile!)

 

Se qualcuno obietta che il soggetto di Cerniakov sarà pur interessante ed attuale quanto si vuole, ma non ha nemmeno un capello in comune con quello di Verdi-Piave, la risposta è già bell’e pronta: chi se ne frega! qui si fa teatro, amico, mica siamo al museo!

 

Beh, a qualcuno invece pare che gliene freghi parecchio, a giudicare dai buh di ieri sera. Di cui val la pena anche di interpretare il senso, essendo stati apparentemente… schizofrenici (proprio come questa Violetta, smile!) Allora: alle prime uscite singole tutti gli interpreti (con una sola eccezione) hanno ricevuto soltanto consensi, da quelli trionfali alla Damrau fino a quelli moderati, andati persino a Lucic. L’eccezione è stato Beczala, accolto da un mix di applausi e buh. Poi i buh son diventati un fiume alla comparsa di Gatti, cui evidentemente non si sono perdonati certi elastici nei tempi e magari  - forse contagiato dal regista - un approccio più consono a Berg che a Verdi. Infine sono diventati appunto un oceano per il regista. Dopodiché però hanno continuato ad imperversare anche sui singoli, alle uscite successive. Perché mai? Ecco, a me pare che questi ultimi fossero dissensi espressi verso gli interpreti in quanto complici – convinti o meno – del risultato complessivamente negativo della serata. Come dire: cara Diana, tu avrai anche cantato benissimo, ma la tua Violetta in complesso ci ha deluso, e poco conta che la colpa sia del regista, perché in scena c’eri comunque tu.        

 

Radio3, in una specie di fuori-onda al termine della trasmissione, ha captato il pistolotto di addio di Lissner (questo era il suo ultimo SantAmbrogio, e meno male, aggiungo io…) alle masse scaligere. Indirizzo concluso con la ripetizione del suo ritornello ormai trito e ritrito: la missione della Scala non è far divertire il pubblico, ma farlo riflettere!

 

Beh, in linea di principio si potrebbe anche concordare, ma a condizione che il pubblico sia portato a meditare sui contenuti che Mozart, Wagner, Verdi ci hanno trasmesso nei loro capolavori. Meno, se veniamo costretti a sorbirci i contenuti dei vari genialoidi sponsorizzati da Lissner: Carsen, Guth e Cerniakov; che per farsi belli, ricchi e famosi loro (e far salire l’ingaggio del soprintendente!) non esitano a sequestrare, per poi riconsegnarceli dovutamente adulterati, quei capolavori del teatro musicale.

 

Amen.


Ah, dimenticavo che ce n’è anche per Gatti. Tutti ricordano come reagì al fiasco del SantAmbrogio 2008: richiesto di commentare i fischi piovutigli addosso, rispose un filino piccato (prima di sbattere la porta) che non ne aveva udito alcuno!

Ieri sera, intervistato da Pedone di Radio3 dietro le quinte, e con il frac ancora inzuppato di buh, il nostro ha serenamente ammesso che le contestazioni erano la legittima manifestazione di libero pensiero. Ohibò, due Gatti e due misure? Mah, credo che la spiegazione non sia poi così difficile: quel Don Carlo rappresentava per lui una specie di esame di ammissione al concorso per un posto di Direttore musicale alla Scala, e la bruciante bocciatura doveva parecchio rodergli dentro. A 5 anni di distanza il nostro si deve essere messo il cuore in pace, quanto meno accettando il fatto che la prossima opportunità gli verrà offerta quando avrà raggiunto l’età che ha oggi Riccardo Chailly (smile!) Ecco perché, almeno per un po’ di tempo, può permettersi di fare il signore…


Ri-amen.

07 dicembre, 2013

Alla Scala una Traviata… isterica


Sì, isterica sulla scena (la prossima, per contrappasso, avrà la personalità di barbie) e – alla fine – in loggione.

 

La regìa, che si può abbastanza bene giudicare anche dalla TV, mi è parsa di una puerilità disarmante. E non certo per la sfoglia e i cetrioli…

 

Le voci è un po’ difficile apprezzarle quando si sente un suono che arriva da un microfono posto sull’ugola del/della cantante. Comunque la Damrau mi è parsa all’altezza (salvo che nel MIb opzionale) mentre Beczala è partito discretamente, ma alla fine mi pareva in difficoltà anche sui SOLb (non parliamo di come ha fatto il DO all’attacco della ripresa di Oh mio rimorso). Lucic meno peggio dell’immaginabile, anche se Gatti non mi pare l’abbia aiutato, con tempi francamente troppo celeri. La Zampieri-Wanna mondiale!



In loggione c’erano evidentemente quelli che Alberto Mattioli chiama amichevolmente, e anche un po’ grillescamente, care salme… Per ripicca, han fatto loro il funerale al regista (smile!)

06 dicembre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°12

 

Un Direttore di casa a laVerdi, Oleg Caetani, torna a dirigere in Auditorium un concerto assai impegnativo, con Schubert e Shostakovich. A proposito di quest’ultimo, prima del concerto si è tenuta una conferenza di presentazione del recente lavoro del venerabile Piero Rattalino, cui è intervenuto l’autore in persona, accompagnato dallo stesso Caetani (che per discendenza da Igor Markevitch è un profondo conoscitore della musica, ma anche della realtà russa) e dai professori Malcovati e Beacco; ha introdotto, e con gran cognizione di causa, il Presidente della Fondazione, Gianni Cervetti, che la passata militanza politica aveva condotto più volte in quel di Mosca, dove (a fine anni ’50) aveva anche avuto modo di incontrare un paio di volte lo stesso Shostakovich. Tutti (più o meno) concordi nel convenire con la tesi che sorregge il libro di Rattalino, secondo cui la figura del controverso compositore vada oggi vista in un’ottica depurata da ogni opposto pregiudizio di parte (né eroico anti-stalinista, né ipocrita doppiogiochista).
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Di Schubert ascoltiamo la Sinfonia in DO maggiore, catalogata come sesta, ma amichevolmente chiamata piccola, per distinguerla da quel mostro, sempre in DO, che va sotto il nome di grande.

Schubert, sommo liederista e camerista, difficilmente sarebbe passato alla storia solo grazie alle sue sinfonie. La cui debolezza principale – oltre al fatto di essere, almeno le prime 6, lavoretti scolastici di uno che era poco più che un ragazzino - si annida sempre nel primo movimento, quello che, da Haydn in poi, e massimamente con Beethoven, dà l’impronta a tutto il lavoro. E il primo tempo deve essere in forma-sonata; e la forma-sonata richiede la presenza di (come minimo) due temi, il maschio (eroico) e la femmina (contemplativa, elegiaca) che devono prima presentarsi, poi provare a convivere, confrontarsi, magari pure affrontarsi e scontrarsi, per poi concludere la pace in cui il secondo tema entra nella casa del primo (proprio come una moglie entra, tradizionalmente, in quella del marito).

Ebbene, al giovane Schubert sinfonista mancava proprio la capacità non di inventare dei temi (e ci mancherebbe!) ma di trovare temi con le caratteristiche richieste dalle regole del gioco. Nei primi tempi delle sue sinfonie i due temi sono quasi sempre neutri (né completamente eroici, né completamente elegiaci: né-carne-né-pesce, si potrebbe malignamente insinuare) e quindi il compositore fatica assai a creare le condizioni per farli muovere e vivere all’interno della forma canonica. 

Questo limite si manifesta puntualmente anche nella sesta sinfonia, che si apre con ben 30 battute di un pretenzioso Adagio (proprio à la Haydn) ad introdurre l’immancabile Allegro. Che però soffre della mancanza di stacco, di conflittualità (potremmo dire) fra i due temi, cui non basta certo differenziarsi per la tonalità (DO-SOL) per creare quell’atmosfera particolare che è l’essenza dei primi tempi di sinfonia.

Nei movimenti centrali (Andante e Scherzo) la vena melodica di Schubert va a nozze e cava fuori due cammei di tutto rispetto. Il Finale è ancora una volta assai ricco (pur se monotono la sua parte): un chiaro preludio a quello della futura grande.

Meritoria in ogni caso l’esecuzione dei ragazzi, giustamente in formazione un po’ ridotta negli archi, nel rispetto della tradizione e dell’originaria destinazione (piccole sale private) dell’opera.
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La seconda parte del concerto è occupata come detto da Shostakovich e dalla sua Ottava Sinfonia, composta, come la settima, in piena guerra (1943) e dedicata a Evgeny Mravinsky. L’organico orchestrale è proprio tardo romantico, ipertrofico in particolare negli archi (64, la tipica struttura straussiana, anche se nella 7, poi nella 13 ne sono prescritti fino a 80-84!) Qui ne abbiamo meno di 50 (la dotazione è questa…) ma direi che bastano ed avanzano a produrre il richiesto volume di suono. Caetani li schiera con le viole al proscenio, probabilmente in forza del risalto di cui la sezione gode nella partitura di Shostakovich.

Del quale di solito si suol descrivere la musica (e le sinfonie, in particolare) come fosse tutta una serie di episodi della vita di un artista (parafrasando Berlioz…): in questo caso non un artista (come l’ipersensibile francese) alle prese con problemi sentimental-psicologici e conseguenti  visioni mistico-infernali, ma (anche secondo la visione che ce ne dà Rattalino) un artista-patriota che se la doveva vedere tutti i santi giorni con fastidiosi pipistrelli, quali Stalin e Ždanov.
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Fra la settima (sinfonia trionfalistica, retorica - e non del tutto sincera, ad onor del vero - composta mentre si era in piena guerra e con i nazisti ormai alle porte di Leningrado) e l’ottava (sinfonia invece di ambientazione abbastanza cupa, composta però mentre la guerra si avviava pur lentamente alla vittoriosa conclusione, dopo l’impresa di Stalingrado - che infatti aveva dato il nome all’opera) c’è in effetti una distanza abissale, come se il compositore volesse qui meditare sulle disgrazie dell’umanità, di tutta, vincitori e vinti. È curioso come il primo tema dell’Adagio, che si alza nei violini, sia una reminiscenza – in chiave mesta e su ritmo da marcia funebre – di quello spigliato e baldanzoso che evocava l’incedere dell’armata nazista, nel primo movimento della settima:

Ecco, è come se qui si si cantasse una specie di requiem per le vittime di tutte le guerre. Ma chissà che non ci sia anche un po’ di pessimismo sul futuro, e magari una larvata denuncia del regime sovietico che si avviava (a guerra vinta) a diventare ancora più totalitario ed oppressivo di quanto già non fosse.

Il secondo scenario tematico, Poco più mosso (difficile qui parlare di strutture classiche, anche se qualche connessione con la forma-sonata è vagamente riconoscibile) è in tempo prevalente di 5/4, un ritmo quindi sghembo, ma non certo come lo era l’Allegro con grazia della patetica: qui pare di assistere ad un incedere strascicato e scomposto di armate in rotta, o al procedere di un’esistenza che ha perso la sua normalità.

La ripresa dell’Adagio, che è una sorta di sviluppo, porta gradatamente, con interventi del tamburo militare, ad un climax (in cui par fare capolino persino… Fratelli d’Italia!) che introduce una sezione in Allegro non troppo, nella quale si stagliano per due volte sette battute in cui i corni emettono, su ripetute terzine e in zona acuta, lamenti disperati e strazianti. Il tutto sfocia in un Allegro marziale, spiritato, quasi isterico, che porta un nuovo climax caratterizzato (col ritorno in Adagio, per una specie di ricapitolazione) da cinque scrosci a piena orchestra dove nell’intervallo fra i due ultimi compare negli ottoni una citazione dal ciajkovskiano Manfred (che risentiremo anche nel finale):

Qui segue una lunga melopea del corno inglese, sul tremolo dei soli archi e con un breve e momentaneo supporto di oboi e clarinetti: sono 50 battute di vero e proprio lamento, come un accompagnare morti al cimitero, seguite dal mesto incedere degli archi, che riaprono la sezione in 5/4, questa volta interrotta da uno spettrale squillo di trombetta (con sordina) che conduce – riprendendo il motivo dell’introduzione - alla cadenza conclusiva del primo movimento. La quale si adagia, abbastanza sorprendentemente, dopo tanta tristezza e tanti lutti, su un sereno e forse ottimista DO maggiore, illuminato dal SOL della tromba, non più imbavagliata dalla sordina.

A questo punto Shostakovich infila non uno, ma due consecutivi Scherzi, assai diversi fra loro quanto a spirito e ambientazione. Il primo (Allegretto, REb, 4/4) sembra una parodia della felicità, o la danza di un ubriaco che cerca di rimuovere scomodi ricordi, o il tentativo di mascherare, dietro una facciata di allegrezza, problemi e disgrazie. È caratterizzato da insistenti ripetizioni di un inciso anapestico (doppia croma + semiminima) su cui si inseriscono gli svolazzi degli strumentini. Il ritmo pare rallentare e, passando a LA minore, abbiamo un siparietto dominato da impertinenti guizzi dei due ottavini, supportati da fagotti e controfagotto e poi dal clarinetto piccolo (in MIb). Si ripetono, ma assai variate, le due sezioni in REb e LA, nella seconda delle quali subentra un’atmosfera marziale, con interventi di tamburino e percussioni, prima della cadenza conclusiva, ancora in REb, dove tornano a spiccare i due ottavini. L’anapesto conclusivo è affidato ai timpani, che preparano l’accordo finale di REb in fff dell’intera orchestra.

Il secondo Scherzo  (Allegro non troppo, 2/2, MI minore) è uno dei tipici moti-perpetui di Shostakovich, dove si evocano atmosfere da industria pesante (magli che incessantemente pestano lingotti d’acciaio rovente) o da locomotive sbuffanti lanciate in corse forsennate. Il ritmo è sempre scandito da semiminime (prescritte a tutti gli strumenti in marcatissimo) a partire dalle viole, che aprono il movimento:

Questo pedale ostinato, su cui si innestano di tanto in tanto gli schianti degli altri archi e gli urli dei legni, contagia poi i violini primi, quindi i secondi, per poi trasferirsi ai fiati; successivamente si fraziona, con le prime due semiminime negli archi in pizzicato e le seconde nei fiati, creando un effetto stereofonico; quindi torna nei soli archi, con le scansioni (una sul terzo tempo della battuta) dei fiati. Poi riprende la configurazione iniziale, diminuendo l’intensità, adesso nei soli archi bassi, che ben presto (all’ingresso delle percussioni) muta con le semiminime alternate fra gli ottoni, mentre la tromba esplode spiritate volate in su e in giù, inframmezzate da svolazzi degli strumentini e dalle folate delle terzine degli archi. Torna l’ostinato iniziale, che si sviluppa con un impressionante crescendo fino a provocare un autentico terremoto in tutta l’orchestra, un fracasso infernale in cui spiccano le tremende mazzate dei timpani. Il tutto chiuso da un prolungato rullo di tamburino che introduce senza soluzione di continuità il…

Largo (4/4, SOL# minore). Dopo due colossali accordi a tutta orchestra viene esposto il tema principale, una lunghissima frase che partendo dal grave sembra non riuscire a spiccare il volo; poi si innalza, ma a fatica, con puntate verso l’alto seguite da ricadute. La cosa si ripete fino all’ingresso del corno, che espone un nuovo motivo lamentoso, subito seguito dall’ottavino solo che sembra portare echi di mondi lontani, imitato poi dal flauto. Ora l’atmosfera sembra addolcirsi, il tremolo dei legni introduce i clarinetti che riprendono il motivo prima esposto dall’ottavino. E sono i clarinetti (anche quello basso) ad accompagnare gli archi nella sognante cadenza finale che porta (ancora senza alcuna cesura) al conclusivo…

Allegretto (3/4, DO maggiore). OK, sarà pure un maggiore un po’ offuscato e corrusco, però qui siamo nel pieno solco di una tradizione che (tralasciando opere meno famose di Mendelssohn, Bruckner, Dvorak, Saint-Saëns e Prokofiev) dalla quinta di Beethoven passa attraverso la prima di Brahms, la seconda di Ciajkovski e l’ottava di Bruckner!  

È il primo fagotto ad esporre il tema conduttore, che ci riporta vagamente all’incipit della quinta. Gli subentrano gli archi, interrotti dall’impertinente irruzione del primo, poi del secondo flauto, che sembrano fischiettare il loro motivo. Adesso tocca al violoncello solo cantare una melodia intrisa di malinconia, che sfocia nel ritorno del primo tema negli oboi. Tocca poi ai violini l’esposizione di un nuovo motivo, in realtà mutuato dal tema principale; quindi gli archi bassi introducono una sezione caratterizzata da un vivace contrappunto fra archi e fiati, dopodiché ancora gli archi riprendono il tema principale, contrappuntati poi dai legni (oboi, corno inglese e clarinetti).

Adesso inizia una sezione più mossa (Allegro) con interventi degli ottoni (trombe in particolare) che porta ad un progressivo crescendo culminante, come era accaduto nel primo movimento, in alcuni colossali quanto sinistri schianti di tutta l’orchestra, al termine dei quali riudiamo in trombe e tromboni quell’inciso che ricordava il Manfred. Ancora pesanti accordi portano (Adagio) alla conclusione di questo squarcio cupo ed enfatico. Qui entra in scena il clarinetto basso, che espone uno dei motivi già uditi, durante il quale abbiamo un’improvvisa irruzione del primo violino che apre la strada al ritorno del violoncello per riesporre il suo tema cantabile.

Tornano i fagotti, con una cadenza che introduce il primo tema, subito raggiunti dagli archi. Ci si avvia alla conclusione, con una coda dove si fa sentire l’ottavino, con il suo melisma intriso di malinconia. Sono gli archi soli a chiudere, esalando serenamente la triade di DO maggiore.    
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Ora, l’ottava non sarà forse un capolavoro (ammesso che troviamo autentici capolavori in tutta la produzione del buon Dimitri) ma di sicuro presenta aspetti assolutamente interessanti, anche se magari piuttosto nascosti e non facili a discernersi di primo acchito. 

Per i curiosi: c’è anche chi si è divertito a descrivere nei minimi dettagli ciò che questa musica (gli) dice, proponendone una versione… romanzata, buona magari per farci un’azione scenica (?!)

Invece io sono personalmente più che soddisfatto di come Caetani e laVerdi ce l’hanno proposta, meritandosi convinti applausi dal loro (iersera ahinoi scarsino, ma affezionato ed osannante) pubblico. Che all’uscita benedice la compressione adiabatica dell’aria, arcano fenomeno fisico che, dal gelo imperante fino a metà giornata, ha portato in un batter d'occhio la temperatura sopra i 10°…

02 dicembre, 2013

Alla Fenice un’africana un filino… impoverita


Ieri la Fenice ha ospitato l’ultima delle sei rappresentazioni de L’Africaine di Giacomo Meyerbeer. Segnalo che MediciTV ha mandato in onda in diretta la recita del 29 (primo cast) e che – per qualche tempo ancora, quanto non è dato capire – la mette meritoriamente a disposizione sul suo sito-web.

Altre lodi si merita l’ufficio gestione-immagine-e-promozione-culturale del Teatro: il giorno successivo alla prima il pregevolissimo programma di sala era disponibile in web, ad arricchire il già sterminato archivio online: roba da meritare alla Fondazione un supplemento agli scarsi fondi FUS!

Venendo invece allo spettacolo, arrivano note un poco meno liete: purtroppo – a mio modestissimo avviso – si è trattato di una proposta discutibile, quanto meno poco coraggiosa, nel senso che non si è presentata nemmeno la versione Fétis, che pure sappiamo fu ottenuta attraverso dolorose ferite al corpo dell’opera come lasciato da Meyerbeer, bensì una sua riduzione di cui fatico (io, perlomeno) a cogliere i razionali.

Salvo la solita preoccupazione relativa al timing: dove l’imperativo categorico sembra quello di non superare le tre ore nette di musica, costi quel che costi. Tanto per dare un’idea ed un riferimento ormai consolidato, è lo stesso obiettivo che si era posto l’ormai antica edizione Verrett-Domingo (San Francisco, 1971 e poi 1988). Non a caso parecchi tagli sono presi direttamente da lì, con alcune importanti differenze, che può essere interessante analizzare, se non altro per curiosità.

Nel primo atto qui alla Fenice si rispetta quasi completamente Fétis, di cui si taglia solo l’inizio (e non la quasi totalità, come a San Francisco) del Terzettino (Don Diégo, Inès, Don Pédro) e un paio di passaggi del finale, meno tagliato quindi della versione americana.

Nel secondo atto viene soppressa la strofa centrale (Je vois, dans la grande île) e la seconda entrata di Fille des Rois (Atto II, aria di Nélusko) il che è un autentico scempio musicale, e poco conta che fosse perpetrato anche nella citata edizione californiana. Dalla quale si mutuano anche i due tagli al settimino finale (alla scoperta da parte di Inès del non-tradimento di Vasco e a quella di Vasco delle nozze di Inès con Don Pédro); tagli che gioveranno senza dubbio ai cantanti, meno al pubblico (almeno a quella parte che ne conosce il contenuto…)

Nel terzo atto – quello già massacrato da Fétis! - vengono cassati, come a San Francisco, il coro femminile d’entrata, il quartetto dei marinai, poi l’intervento di Don Pédro e marinai fra i due couplets di Adamastor e infine la parte conclusiva del coro degli Indiani: tutta musica che si fa rispettare, ma anche classici squarci da grand-opéra. Si mantiene invece (quasi) intatto il duo Vasco-Don Pédro, assai più decurtato a San Francisco.

Ma è all’inizio del quarto atto che viene perpetrata l’offesa più grave al concetto stesso di grand-opéra: la solenne e pomposa entrata di sacerdotesse, bramini, amazzoni, giocolieri, guerrieri e, infine, della Regina, viene totalmente rimossa dalla scena (a San Francisco ciò non accadeva). Quanto all’orchestra, a sipario chiuso, nemmeno suona il brevissimo Entr’acte e poi si limita a ripetere (abbastanza noiosamente, direi) le sole prime sezioni in RE minore della Marche indienne, privandoci del trio in RE maggiore all’entrata delle sacerdotesse (con il bel tema affidato alle trombe); poi subito dopo di quello in LA maggiore; poi ancora del primo (adesso in SIb) all’entrata dei bramini; e di tutto il resto della musica che dovrebbe accompagnare una scena sfarzosa ed enfatica. Buonanottealsecchio!

Sempre nel quarto si penalizza fortemente – come  a san Francisco – la scena dove Nélusko ha la sua crisi al momento di dover giurare il falso riguardo le nozze Sélika-Vasco; si taglia un po’ meno che in California la prima benedizione del gran sacerdote agli sposi; poi si fanno quasi gli stessi tagli al finale, salvo opportunamente eseguire (parte clamorosamente amputata a San Francisco) il celestiale Remparts de gaze, vero contraltare della marcia nuziale del Lohengrin.

Il quinto atto qui è letteralmente devastato! Non solo viene ignorata la scena iniziale con Inès e Vasco (che a San Francisco avevano meritoriamente ripescato dal cestino di Fétis) ma si butta in discarica, oltre all’Entr’acte, tutto il successivo e drammatico duetto Sélika-Inès. In sostanza viene unito, senza soluzione di continuità, il finale dell’Atto IV alle le prime battute (di Fétis) dell’Atto V, dove Sélika impreca al tradimento di Vasco e ordina a Nélusko di spedire a casa i portoghesi; poi si fa un lungo cambio scena (invece di due, ad onor del vero) e si passa direttamente al finale, con Sélika sul promontorio, nei pressi dell’albero della mancinella. 

Insomma, sono tutte mutilazioni piuttosto deleterie sia per la drammaturgia, sia perché ci privano di fior di musica e di canto. Nel complesso una scelta di fondo piuttosto infelice, sulle cause della quale a noi poveri mortali non resta che farci le solite domande oziose: timore di russate generali in platea e nei palchi? di fughe di massa fra un atto e l’altro? O il problema erano per caso i cantanti, incapaci di arrivare in fondo ad un’esecuzione di dimensioni non dico meyerbeeriane, ma almeno normali (chez-Fétis, per intenderci)? Già il libretto è farraginoso la sua parte; già Fétis ha confuso le idee ripristinando un titolo fuorviante e ha tagliato la partitura col machete; se poi anche il direttore e i cantanti decidono di suonare/cantare soltanto ciò che pare e piace a loro (chissà, forse per evitare… figuracce?) ecco raggiunto il poco esaltante risultato!

Altre domande (sempre di quelle da sesso degli angeli): ma allora, non sarebbe stato preferibile rinunciare del tutto a mettere in cartellone un’opera come questa, e spendere meglio gli scarsi quattrini disponibili? O comunque anche un suo torso, privo di arti, è reputato utile a promuoverne conoscenza e apprezzamento presso il vasto pubblico? Oppure l’obiettivo è di far bella figura proponendo un titolo difficile quanto desueto pur non disponendo di un cast adeguato e allo stesso tempo senza impegnare troppo un pubblico considerato ignorante e irrecuperabile, propinandogli qualche mezz’ora di musica più o meno accattivante, e chi se ne frega di tutto il resto?
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Fatte queste premesse – che gettano una luce non proprio limpida sui protagonisti, facendo insorgere nei loro confronti sospetti di inadeguatezza ai ruoli, che si sarebbe cercato di mascherare cambiando… le carte in tavola – vediamo come se la sono cavata i quattro principali.

La Sélika di Veronica Simeoni merita ai miei occhi un’ampia sufficienza; alle mie orecchie la sufficienza si striminzisce un filino e mi domando come sarebbe… morta (smile!) se prima di aspirare il veleno della mancinella avesse dovuto sostenere il drammatico confronto con Inès (dove, incidentalmente, dovrebbe anche spiegare al perplesso pubblico perché deciderà di fare quella brutta – o bella – fine).

Vasco de Gama era Gregory Kunde, gran professionista, che ha come al solito fornito una prestazione di tutto rispetto, anche se non la definirei superlativa. Comunque nella famosa grand air ha dato il meglio, accolto da un’autentica ovazione, mentre nel duetto con Sélika (che per sua fortuna è l’ultima parte che canta, poi rientra in camerino un atto – qui mezzo atto - prima degli altri…) ha ben mascherato qualche appannamento. Il trionfo finale è anche alla carriera, oltre i meriti della serata.   

Jessica Pratt ha impersonato Inès senza infamia e senza lode; si è pure risparmiata - seguendo abbastanza disciplinatamente (e direi giudiziosamente) lo spartito - quello svolazzo tanto sovracuto quanto gratuito che alla prima aveva esibito (dicono) in chiusura della romanza di esordio.

Anche sul Nélusko di Angelo Veccia pesano i… tagli che gli sono stati concessi (o che si è fatto concedere per cavarsela?) Bella voce, calda e passante, per una prova discreta (ma è come correre i 110-ostacoli con sole 7 barriere su 10…)

Degli altri direi abbastanza bene del Don Pédro di Luca dall’Amico e dei due… porporati: il cattolico Mattia Denti e il braminico Ruben Amoretti, tutti bassi, come si vede.

Il resto della compagnia (Don Alvar di Emanuele Giannino, Don Diégo di Davide Ruberti e la Anna diAnna Bordignon) ha onestamente fatto il suo dovere.

Bene invece il coro di Claudio Marino Moretti e l’orchestra, che il concertatore Emmanuel Villaume ha guidato in modo pulito, diciamo con una sana routine.
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L’allestimento (di stampo abbastanza tradizionale) di Leo Muscato, con scene di Massimo Checchetto e costumi di Carlos Tieppo ha avuto il merito di non complicare una trama che già Scribe ha reso farraginosa la sua parte (anche perché a complicarla ci hanno pensato i responsabili della parte musicale…) Peraltro ciò che si è visto credo abbia poco a che fare con il grand-opéra, o al massimo ne è un modellino tipo rivarossi, inclusi i filmetti pretenziosi e puerilmente didascalici che introducevano i vari atti.

Morale: ci dobbiamo accontentare?