affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

16 settembre, 2013

L’Orchestraverdi apre la stagione dei suoi 20 anni alla Scala

 

La simpatica tradizione, che vuole laVerdi ripresentarsi al suo pubblico dopo le vacanze (cortissime, per lei, come testimoniano le facce smunte di tutti i ragazzi) nell’austero scenario del Piermarini, si è ripetuta ieri sera per l’inaugurazione della stagione dei 20 anni dell’Orchestra, guidata da Zhang Xian.

 

Teatro affollato ma non proprio esaurito per ascoltare un programma all-russian: evidentemente in questi giorni, oltre che sulla scena politica internazionale, anche nei programmi musicali milanesi imperversa l’orso russo…


In realtà esiste una ragione più seria e profonda per questa scelta: il doveroso omaggio al leggendario fondatore dell’Orchestra: Vladimir Delman.



Così si parte da Ciajkovski per arrivare a Stravinski, passando per Rimski: un percorso persino didascalico, quasi una lezione da Conservatorio, come l’avrebbe fatta il Maestro, sull’evoluzione della musica russa nel passaggio da ’800 a ‘900. Poi in Scala si scopre che l’allievo Igor lascerà l’ultima parola al maestro Nicolaj, ma invertendo l’ordine degli addendi… etc. Si tratta in ogni caso di opere che per evidenti ragioni fanno parte del repertorio dell’Orchestra fin dalla sua fondazione.
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Ad aprire le danze è il 22nne Yury Revich che interpreta quella che l’esteta Eduard Hanslick aveva definito musica puzzolente (! in effetti anni fa da noi profumava di… brandy!)

Il ragazzo sarà forse ancora un po’ acerbo, ma ha una tecnica davvero straordinaria e non potrà che migliorare col tempo: già ieri, per dire, mi è parso più autorevole rispetto a questa esibizione di qualche anno fa.


Come allora, è stato forse eccessivamente circospetto nell’avvio, ma ha poi tirato fuori le unghie nel finale. Il meglio, a mio modesto parere, lo ha però dato nella canzonetta. Successo indiscutibile e bis sacrosanto.

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Evidentemente le guerre dovevano avere un effetto speciale su Stravinski e in particolare sul suo Uccello (pornosmile!): dico, appena finita la grande (1919) lui sciorina una nuova Suite dalle musiche del balletto, dopo quella del 1911; nel 1945, come si chiude la seconda, ecco subito una terza Suite! Poi, scongiurato per fortuna il non c’è due senza tre nucleare, il nostro è stato privato della possibilità di sfornare una quarta Suite, ergo si è dovuto rassegnare ad apportare alla sua creatura infuocata solo dei piccoli ritocchi qua e là, e magari solo per esigenze discografiche, come accaduto ad esempio nel 1947.

La figura che segue mostra una sintesi della struttura del Balletto e delle tre Suite (la terza anche in edizione 1947). L’ampiezza verticale delle righe è (più o meno) in scala con il numero di battute musicali del brano ivi indicato (il che non significa ovviamente che ci sia proporzione con la durata). La numerazione all’estrema sinistra è quella della macro-suddivisione di scene del balletto fatta dall’Autore; quella in testa ad ogni titolo è invece la micro-suddivisione dei singoli numeri del balletto, come si desume dalla partitura originale. Ho omesso per non complicare la figura i titoli dei vari brani delle Suite: per le prime due in pratica sono gli stessi titoli delle corrispondenti scene del balletto; la suite del 1945 introduce un po’ surrettiziamente tre brani intitolati Pantomima, ma null’altro sono se non parti o diverse denominazioni dei numeri del balletto. Nell'edizione in disco del 1947 sono stati usati anche termini svincolati dalle scene del balletto, come ad esempio: Adagio (Suppliche) Scherzo (Gioco) e Rondò (Khorovod).

Come si nota, le Suite pescano in modo diverso dalla fonte comune del balletto.


Il balletto originale (qui un’esecuzione di Jukka-Pekka Saraste) dura all’incirca 45 minuti. Le Suite si caratterizzano per la differenza di approccio con cui Stravinski le ha costruite a partire dal balletto.

La prima Suite del 1911 fu ricavata per pura e semplice estrazione di 96 pagine dalle 172 della partitura del balletto, con la sola modifica di 7 pagine, per ragioni di chiusura o collegamento di numeri. Le stesse matrici originali delle pagine del balletto furono impiegate per stampare la partitura della Suite. Quindi praticamente nessun intervento sulla strumentazione, né sull’organico orchestrale, a parte l’esclusione dei rinforzi dei 7 fiati (trombe e tuba) che nel balletto sono previsti suonare sulla scena e più che altro in numeri esclusi dalla Suite. La quale dura circa 25 minuti: qui è eseguita dagli spagnoli della Radiotelevisione di Madrid diretti da David Shallon, che però ci aggiunge anche la Ninnananna e il Finale.

La seconda Suite del 1919 fu invece assai più elaborata da Stravinski, che non si limitò ad una diversa scelta di brani da includervi, ma procedette ad una sostanziosa rivisitazione dell’orchestrazione e a qualche sottile intervento anche sulle linee melodiche. L’organico orchestrale è un filino ridotto rispetto a quello della prima Suite, sia nei fiati che nelle percussioni. Inoltre questa Suite prevede due possibili strutture: la prima si chiude, come quella del 1911, con la Danza infernale, la seconda include anche la Ninnananna, una transizione e il grandioso e magniloquente Finale, per una durata in questo caso di poco più di 20 minuti.

E al proposito si può osservare un esempio apparentemente insignificante di intervento sul contenuto musicale: riguarda le 16 battute (nella partitura del balletto) che chiudono il numero 23 (Profonde tenebre) prima dell’inizio del glorioso Finale dove – come nell’Alcina di Händel, per dire – si ripristina il ritorno alla vita. Mentre nel balletto queste battute arrivano dopo la morte del mago cattivone Kastchei e dipingono una specie di spettrale quiete che deve apparire come eterna, prima di essere inaspettatamente rotta dall’irrompere del tema del Finale, nella Suite il passaggio segue immediatamente l’esposizione della Ninnananna, che ha già instaurato, dopo il feroce ballo infernale, un clima più sereno e disteso. Perciò Stravinski altera quelle 16 battute, introducendovi una sia pur lenta accelerazione del tempo, proprio a preparare l’arrivo del trionfante Finale; e lo fa dimezzando il valore delle note delle ultime 10 battute, che si riducono a 5 trasformando le semibrevi in minime:


Qui il novello senatore Abbado la dirige a Lucerna, in versione completa con il Finale. È questa, delle tre, la Suite sicuramente più eseguita: a parte la maggior concisione rispetto alle altre, ha anche una struttura molto simmetrica, essendo costituita in pratica da un alternarsi per tre volte di brani lenti e mossi.  

La terza Suite del 1945 ricalca – a parte la presenza del Finale - piuttosto la prima nella struttura (quindi è più lunga della seconda, durando 28-30’) mentre di quest’ultima conserva le novità di contenuto. Ecco Stravinski dirigerla a Londra con la NewPhilharmonia nel 1965, a 82 anni! E qui la stessa versione come pubblicata nel 1947, eseguita con la NYPO.
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Bravissima la Xian già dall’iniziale pianissimo degli archi bassi e poi nella Khorovod, dove si distinguono l’oboe di Emiliano Greci e il cello di Mario Shirai. Forsennata, più che infernale, la danza delle creature del cattivone Kastchei: la cui conclusione proterva fa scattare anzitempo un applauso liberatorio quanto inopportuno, chè rovina il contrasto con la successiva ninnananna. Non proprio impeccabile l’attacco del finale, chiuso comunque con straordinaria efficacia.
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Infine è la volta di Rimski e del suo Capriccio Spagnolo (qui alcune mie personali note di presentazione). La Xian ci aggiunge manciate di rubato, che si possono anche tollerare, date le circostanze. Il pezzo è di quelli che non possono non far ammattire il pubblico. Note di merito per Luca Stocco al corno inglese, Raffaella Ciapponi al clarinetto, Max Crepaldi al flauto e per il Konzertmeister Santaniello.


Non poteva mancare un travolgente bis, e così i nostri hanno chiuso la serata precisamente come avevano fatto 10 giorni or sono ai PROMS.

Giovedi si comincia in Auditorium con tutto e solo Verdi

10 settembre, 2013

Il MiTo Temirkanov con Colli agli Arcimboldi


Il venerabile Yuri Temirkanov ha portato agli Arcimboldi (sala strapiena!) la sua splendida creatura (leggasi: Orchestra Filarmonica di SanPietroburgo) in un concerto tutto russo e tutto classico.

Il mio conterraneo (forsa Brèsa!) Federico Colli si è cimentato con un’opera che nuoce-gravemente-alla-salute (smile! ma lui è già immune dal contagio, avendo domato questo virus fin dal 2008 a Cantù). In effetti, da quando fu protagonista del film Shine, il Rach3 è – almeno nell’immaginario collettivo (beh, insomma… nell’immaginario di quei quattro gatti che si interessano di musica cosiddetta classica) – un pezzo da fuori-di-testa.

In realtà le difficoltà esecutive sono forse di natura atletica più che mentale (la lunghezza del concerto, mediamente sopra i 40’, e soprattutto la quasi continua presenza della parte solistica, che spesso e volentieri obbliga l’esecutore a velocissimi passaggi di semicrome percuotendo contemporaneamente fino a otto tasti!) mentre sul lato squisitamente estetico siamo un filino distanti da qualcosa che si possa definire un capolavoro. Rachmaninov approntò anche delle versioni tagliate della sua opera e lui stesso qui ci propone un’esecuzione attorno ai 30’, grazie a pesanti sforbiciate nel primo (da metà cadenza alla fine, per dire!) nel secondo e nel terzo movimento. Qui invece una coppia di cinesine – una delle quali ormai di casa a Milano - non dimentica una sola nota del concerto.

A NewYork, la sera della domenica del 16 gennaio 1910, a meno di due mesi di distanza dalla prima (28 e 30 novembre 1909, direttore Walter Damrosch con la NYSO) Rachmaninov interpretò il suo nuovo concerto con la NYPO diretta da Gustav Mahler. Nelle sue memorie, il compositore parla di quel successo travolgente (una decina almeno di chiamate) ma soprattutto esalta le grandi qualità di Mahler, che lo impressionò particolarmente durante le prove, per l’attenzione posta a ogni dettaglio della partitura ed anche per non esitare ad imporre all’orchestra un autentico super-lavoro, pur di ottenere la massima qualità dell’esecuzione. Rachmaninov ricorda come un giorno, alle 13:30 e alla fine di tre ore e mezza filate di prove, protrattesi per un’ora abbondante oltre il termine previsto, Mahler rimase seduto sul podio per discutere con lui alcuni dettagli; gli orchestrali cominciarono ad andarsene e lui li costrinse a rimanere ancora, esclamando: Finchè io sono seduto qui, nessun musicista ha il diritto di alzarsi!
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Rachmaninov doveva essere un tipo affetto da una qualche forma di ossessione, il che spiega certe sue manìe, come quella di infilare a destra e manca nei suoi lavori il motivo del Dies Irae. O di autocitare dei motivi che evidentemente gli ronzavano di continuo in testa.

E proprio l’introduzione dell’Allegro ma non tanto del concerto ne è un esempio: il motivo in RE minore (semiminima puntata e croma) affidato a clarinetti e fagotti, che prepara l’entrata del solista, è una chiara reminiscenza del primo tema (DO minore) del secondo concerto:


La struttura del primo movimento è una specie di simulacro di forma-sonata, che in realtà presenta – in particolare nella parte solistica - molti tratti più tipici della fantasia (questo rilievo in realtà si applica all’intero concerto). Si può schematicamente inquadrare come segue.

Dopo la breve introduzione strumentale abbiamo l’esposizione nel pianoforte del primo tema, in RE minore, un tema che non è propriamente fra i più mirabili che siano stati inventati:

In realtà, più che un classico tema, conciso e ben scolpito, è una melopea che si sviluppa e si trascina per ben 24 battute, su un accompagnamento sommesso dell’orchestra, prima che il pianoforte (Più mosso) introduca con un arpeggio la riesposizione del tema da parte di archi e fiati, che il solista accompagna con leggere e svolazzanti semicrome. Questa riesposizione viene sviluppata ulteriormente dal solista con grandi volate e in modo ipertrofico (per 48 battute, le ultime 8 in Allegro) prima che si arrivi ad una mini-cadenza (Veloce) chiusa sul LA. Da notare una raffinatezza di Rachmaninov - che sfugge anche all’orecchio più attento – consistente nell’anticipare nei fiati, proprio all’inizio delle battute in Allegro, il motivo marziale che introdurrà e accompagnerà il secondo tema:



Ora una transizione di 12 battute (Moderato, poi Allargando) affidata all’orchestra, che varia il primo tema e si abbandona ad una languida cadenza chiusa dal corno, ci fa scivolare verso la tonalità di SIb maggiore, in cui viene esposto dal solista il secondo tema, introdotto da 14 battute in cui archi, fiati e pianoforte, con piglio marziale, si alternano quasi a preparargli il terreno:


Questo secondo tema, che solo nella tonalità-modalità contrasta con il primo, condividendone invece il taglio languido, viene poi sviluppato in modo ancor più ampio e articolato rispetto al primo, con dolci interventi su un controsoggetto di fagotto, corno e oboe e cambi di tempo (Allargando, poi Allegro) fino alla conclusione, che – trasformando la mediante RE del SIb in tonica – ci riporta al RE minore su cui inizia quello che scolasticamente dovrebbe essere lo Sviluppo.

In realtà qui Rachmaninov avrebbe probabilmente avuto difficoltà a contrapporre i due temi, data la loro natura poco… contrastante, e così ecco che sviluppa soprattutto il primo, anzi più ancora l’inciso introduttivo (semiminima puntata e croma). Sviluppo invero mastodontico, costituito da almeno 5 sezioni che contengono continue modulazioni, variazioni di tempo e di volume del suono, dove è il pianoforte a farla da padrone; sviluppo che tocca un autentico parossismo in un passaggio notato in Allegro, poi Accelerando e infine, preceduto da 4 battute dove compare in orchestra un colossale accenno alla Pasqua di Rimski (ma nel terzo tempo la cosa diventerà ancor più scoperta) un Allegro molto, alla breve. Qui nel pianoforte emerge anche una figurazione che sembra richiamare, pur da lontano, quel Dies Irae che era un’autentica ossessione del compositore:

Questa sorta di anomalo sviluppo porta, quasi canonicamente, alla lunga cadenza, suddivisa in quattro parti: le prime due basate sul tema principale, poi un intermezzo in cui intervengono i fiati (12 battute, sempre sul primo tema) e quindi la quarta parte (21 battute) basata sul secondo tema (ora esposto in MIb). Della prima parte esistono due versioni, una di 39 battute, assai virtuosistica (qui Vladimir Horowitz da 10’59”) e l’altra di 55 battute, più pomposa e drammatica (qui Olga Kern da 10’56”).

Quella che dovrebbe essere la Ripresa si riduce ad una specie di Coda, dove viene riproposto quasi integralmente il tema principale e dove il secondo fa capolino (prima nei fiati e poi negli archi) in proporzioni assai ridotte e sulla tonalità di RE, prima della chiusa, che porta sommessamente ai RE gravi di pianoforte, corni e archi bassi.

Il tempo centrale è intitolato Intermezzo. Ha una struttura piuttosto articolata, che al primo ascolto è davvero difficile da inquadrare. Si potrebbe assimilare ad un anomalo Rondo, caratterizzato dalla presenza delle sezioni A-B-A’-C-A”, dove nei diversi A si nascondono almeno cinque variazioni del tema principale. Da notare che la sezione B è spesso tagliata, cosicchè il movimento si riduce quasi ad un tema con variazioni.

Inizia in Adagio, 3/4 RE minore (a dispetto dei tre diesis in chiave) ed è l’orchestra, dove si alternano archi e fiati, ad anticipare il tema principale:


Tema poi esposto, in forma arricchita, dai primi violini:


Dopo che gli archi hanno concluso languidamente l’esposizione, il solista – che ha avuto uno dei pochissimi momenti di respiro, per 30 battute… - entra per supportare la transizione verso una prima forma variata del tema, esposta poi modulando a REb:


L’orchestra entra poco dopo ad affiancare il solista che si sbizzarrisce in volate di semicrome, fino a chiudere la variazione con una veloce cadenza, dopodichè la ripresenta (Più mosso) in forma diversa e, raggiunto ancora dall’orchestra, modula verso il FA per preparare l’ingresso della sezione B:

Si noti nei violini primi un inciso che ricorda apertamente il tema principale del primo movimento! La sezione si stempera fino ad un Meno mosso, sempre sul FA,  dove ancora il pianoforte riprende vigore con una robusta figurazione – tonica-dominante - che introduce (Tempo più mosso) la ripresa del tema principale (sezione A’) ulteriormente variato, in SIb, che richiama vagamente all’orecchio l’incipit del Doppio concerto brahmsiano:


Altre due variazioni del tema (in RE e REb) proposte dall’orchestra, sono sottolineate dal solista con pesanti accordi in fortissimo, poi si ha la transizione che porta verso la sezione C, che è un velocissimo tempo di Walzer in 3/8 e in tonalità FA#. Qui Rachmaninov introduce quasi subliminalmente richiami ai due temi del primo movimento: dapprima nella linea del clarinetto (primo tema) poi nei violini (introduzione marziale al secondo) e infine nel pianoforte (primo tema ancora):


Un rallentamento del ritmo (Meno mosso) porta, su un trillo in DO# del pianoforte – che poi si riposa per 20 battute - all’ultima apparizione (sezione A”) del motivo principale, esposto dalla sola orchestra, con il corno principale in evidenza.

A questo punto il pianoforte interviene assai brutalmente per proporre, in RE minore, la transizione al movimento conclusivo, cui si accede attraverso due poderosi accordi di tutta l’orchestra, dopo una velocissima volata in biscrome del solista.

Il Finale attacca subito, riprendendo l’accordo che aveva chiuso l’Intermezzo. L’incipit, nei legni, è un chiaro rimando ad uno dei motivi che Rimski aveva presentato nella Grande Pasqua russa, e per la verità viene anche da più lontano… (Glinka, Ruslan&Lyudmila):


La struttura di questo finale rispetta fondamentalmente i canoni della forma-sonata: esposizione di due gruppi tematici, ipertrofico sviluppo degli stessi, ricapitolazione e corposa coda conclusiva.

Il primo gruppo tematico è composto da due motivi, esposti di seguito dal solista e accompagnati dall’orchestra, il primo in RE minore, il secondo in LA minore, abbastanza apparentati dal ritmo:


Il secondo gruppo, sempre esposto dal solista, ma con accompagnamento più corposo dell’orchestra, è costituito da due motivi più elegiaci, in specie il secondo, in DO e in SOL maggiore, rispettivamente:


Complessivamente l’esposizione (chiusa da un fugace ritorno del primo motivo e del RE minore) è di 131 battute, anche se Rachmaninov stesso autorizzò il taglio delle ultime 29 (in pratica l’intero secondo motivo del secondo gruppo tematico, quello che verrà ripreso in pompa magna nella cadenza finale).

Come detto, lo sviluppo è davvero assai esteso: occupa 113 misure e si può suddividere in ben 10 sezioni distinte (anche qui l’autore ha autorizzato il taglio delle sezioni 5 e 6, per un totale di 13 battute). La tonalità modula a MIb, mentre ricompaiono ricordi dei due temi principali del primo movimento (conferendo ancor più all’opera una caratteristica di ciclicità). Sul ricordo struggente del secondo dei due temi – accompagnato dagli interventi di flauto e corno - si divaga brevemente a MI. Lo sviluppo è chiuso da quattro battute di cadenza, una specie di corale, del pianoforte.

La ricapitolazione è aperta da quattro battute introduttive, sempre in MIb, che segnano il ritmo caratteristico del primo tema, che compare poi in DO minore negli archi. Più avanti il secondo motivo è riproposto dal pianoforte in FA, quindi ancora il primo in SOL. Arriva poi il secondo soggetto, praticamente riproposto come nell’esposizione, il cui primo motivo è esposto in SIb e il secondo in FA maggiore.

Ecco ora la lunghissima Coda (121 battute!) Si suddivide in due parti, di cui la prima è caratterizzata dal ritmo dell’introduzione del movimento e chiusa da una rapidissima cadenza del solista, dopo che una modulazione ci ha portato a RE maggiore. Nella seconda parte Rachmaninov getta a piene mani tutti gli ingredienti più dolciastri della sua dispensa: poderosi accordi del solista espongono ed accompagnano la melodia degli archi, che ripropone il secondo motivo del secondo gruppo tematico. Un crescendo generale porta alla conclusione tanto enfatica e retorica quanto impressionante.
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Federico Colli (che si è presentato indossando una giacca a code di un bianco abbacinante…) intanto ha eseguito quasi tutte le note (concedendosi solo il breve taglio nello sviluppo del finale) e ha suonato la prima delle due cadenze, sicuramente la più impegnativa. Ha aggredito la tastiera da par suo nei molti passaggi truculenti che costellano il concerto, ma soprattutto e specialmente ha mostrato una grande sensibilità interpretativa nei momenti più intimistici dell’opera, meritandosi un autentico trionfo, ripagato con uno dei suoi bis abituali.
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Dopo un antipasto che da solo equivale a… tre portate piuttosto ardue da digerire, ecco il main-course che invece si merita mille-e-una beatificazioni! La strepitosa Sheherazade di Rimski. (Rachmaninov – diciamola pure tutta – non arriva nemmeno a sfiorare le caviglie al sommo Nikolaj.)

Temirkanov (qui 10 anni fa con la SantaCecilia, di cui è oggi Accademico) ha cavato dai suoi tutto quanto (e di più…) c’è di straordinario in questa partitura. È davvero un piacere per l’orecchio, ma anche per l’occhio, vedere questa squadra affiatatissima con il suo capitano, che la conduce quasi… facendosi condurre, sempre senza bacchetta e con gesti che paiono carezze rivolte agli strumentisti.

Successo strepitoso - ovviamente con menzione speciale per la... principessa Lev Klychkov - ripagato con bis, chiusi da Stravinski, col celebre Vivo pergolesiano dal Pulcinella, dove spiccano i glissando del trombone e la parte del contrabbasso.

Insomma, una bella serata - si replica stasera sotto la Mole, con Ciajkovski al posto di Rimski - che onora la manifestazione milan-torinese.
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Con l’occasione allego un corposo studio di Valeri Voskobojnikov sul Gruppo dei Cinque (noto come Mogučaja kučka, il possente manipolo, di cui fu membro eminente Rimski e da cui fu influenzato Rachmaninov) apparso nel numero di settembre del 1987 di Musica&Dossier.


06 settembre, 2013

L’Orchestraverdi si fa onore in Albione


A due giorni dalla proverbiale ultima notte, i prestigiosi PROMS (passeggiate con la musica…) hanno ospitato ieri sera nella sterminata Royal Albert Hall l’Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi  (per gli amici: laVerdi) in un concerto double-face: una corposa prima parte con al centro Verdi (e Joseph Calleja) e la seconda occupata dalla Sinfonia Manfred di Ciajkovski.


Un’occasione che laVerdi non ha sprecato, ben supportando il 45enne tenore maltese e poi sciorinando grande sicurezza nell’ostico Ciajkovski, che la Xian ha diretto autorevolmente (le rimprovero però un’eccessiva lentezza con cui ha condotto l’Andante). Spumeggiante bis con la carica del Tell!  

La BBC mette a disposizione per qualche giorno la registrazione dell’intero contenuto dell’evento, così strutturata:

fino a 3’00” presentazione del concerto
da 3’00” a 41’40” la prima parte, dedicata a Verdi
da 41’40” a 1h11’30 commenti e intervallo, dedicato ad una conversazione in studio su Verdi e ad un’intervista con la Xian
da 1h11’30” a 2h08’25” l’esecuzione del Manfred, seguita poi da applausi e commenti
da 2h10’40” a 2h13’50” il bis con il finale della sinfonia del Tell, seguito poi da applausi e commenti
chiusura dell’evento a 2h15’09”
infine: altri ascolti verdiani (Barenboim alla Scala al pianoforte) e poi Schubert.

Purtroppo la ripresa video è invece indisponibile fuori da UK (a meno di non avere capacità di hackeraggio – a me negate - per contrabbandare il proprio IP-address come albionico…)

02 settembre, 2013

Nemmeno Abbado è un santo, ma…


Chi oggettivamente sta – right or left - dalla parte del kaimano (tuttora dibattentesi in una gabbia di m. 1x1x1, più che sufficiente del resto a lasciargli ampia libertà di… dibattimento, date le sue misure) ci ricorda che tale Claudio Abbado (in ottima compagnia) decise di prendere domicilio fiscale a Montecarlo, ovviamente per evadere il fisco.

Sarà pur vero. Ma anche lo fosse, ci sarebbero impercettibili differenze da sottolineare.

Il kaimano i paradisi fiscali non li ha solo sfruttati, bensì li ha addirittura inventati. E l’evasione fiscale l’ha teorizzata e continua a teorizzarla.

Ma mentre tale Abbado è tranquillamente addivenuto ad una equa transazione con l’Agenzia delle Entrate, il kaimano di cui sopra non solo non ha fatto lo stesso, ma anzi pretende di passare per vittima di complotti di toghe rosse – 4 anni per frode fiscale, hai detto niente! - nei suoi confronti.

Ecco perché – una ragione fra mille - a Senatore-a-vita è stato nominato Abbado e non Berlusconi.

30 agosto, 2013

Berlusconi: un’occasione persa


Proprio ora che avrebbe potuto finalmente farsi una cultura musicale, approfittando di un compagno di banco come Claudio Abbado, Berlusconi rischia di dover abbandonare il Senato per ritirarsi agli arresti domiciliari.

Che sfiga!

Rimini: amarcord verdiano


Anche Rimini ha voluto rendere un piccolo omaggio a Verdi in occasione del bicentenario.

La città di Fellini è in effetti legata al Maestro di Roncole da un preciso avvenimento: la prima rappresentazione – 16 agosto 1857 – dell’Aroldo (ex-Stiffelio)  - nell’inaugurando Teatro Vittorio Emanuele, intitolato oggi (ma non è più un teatro, a parte la facciata e il foyer, bensì una… palestra!) ad Amintore Galli.

Il Comune ha pubblicato un opuscolo che, oltre ai salamelecchi del Sindaco Gnassi, riproduce per intero una pubblicazione di 20 pagine del 1913 – prezzo 50 cent. - redatta da Girolamo Bottoni – storico e critico letterario - e rievocante quel periodo di presenza verdiana in riviera.

Molti mi devono credere morto, ma io però vivo e pianto alberi con grande attenzione.

Questo scriveva Verdi ai primi di settembre del 1858, fra un Simone e un Ballo!!!

28 agosto, 2013

Aperta la Sagra Musicale Malatestiana


Yannick Nézet-Séguin alla testa della prestigiosa Rotterdam Philharmonic ha aperto l’edizione n°64 della Sagra riminese.

Programma di gran tradizione, incentrato su Ciajkovski ma con una corposa spruzzata wagneriana (siamo pur sempre nel 2013…)

Concerto aperto da Romeo&Giulietta, la versione seconda (1880) e largamente la più eseguita dell’Ouverture-fantasia (qui Gergiev). La prima versione del 1869 (nella quale mise un pesante zampino anche Balakirev) è decisamente più… rozza e immatura (per constatarlo, eccone un’esecuzione di Geoffrey Simon).

In particolare nella versione ultima Ciajkovski sostituì completamente il tema dell’introduzione, invero banalotto, con un corale assai più nobile e di chiara ispirazione russa, seguito da una cadenza arpeggiante in minore che verrà ripresa in maggiore poco prima della chiusa; eliminò poi la prima timida e scipita comparsa del tema dell’amore (che chiudeva sulla dominante, invece che sulla sesta abbassata); espunse un’enfatica e velleitaria ripresa del motivo dell’introduzione all’interno della seconda esposizione del tema della guerra civile; e soprattutto introdusse un paio di sviluppi in cui i tre temi principali (Lorenzo, guerra, amore) si contrappuntano mirabilmente, mentre nella prima versione compaiono quasi semplicemente giustapposti; infine ingentilì anche la finale cadenza sul tema dell’amore.

Nézet-Séguin ne ha dato un’interpretazione caratterizzata da forti chiaroscuri, esagerando forse in lentezza nell’introduzione e poi scatenando l’orchestra nel tema della guerra Capuleti-Montecchi. Apprezzabile ed emozionante l’attacco delle viole sul tema dell’amore. Qualche apparente compenso, almeno a giudicare da chi come me stava verso il fondo della sala, fra i piani sonori delle diverse sezioni è forse da attibuire all’acustica non ottimale di questo enorme spazio (che non a caso hanno chiamato la Piazza!)

E penso che questa sia anche la causa della scarsa udibilità della voce di Anna Caterina Antonacci (che non è propriamente una vocina) che ci ha proposto successivamente i cinque Wesendonk-Lieder di Wagner. I testi della bella e giovane Mathilde Luckemeyer, maritata con Otto Wesendonk e con lui trasferitasi dalla Germania a Zurigo per ragioni di business, non sono certamente di qualità eccelsa: nessuno se ne curerebbe se Wagner non li avesse rivestiti con le sue note, tutte impregnate di abbondante tristanismo, misto a qualche eco di motivi del Ring, ciclo che proprio in quel periodo (1857-58) il nostro aveva momentaneamente accantonato nel bel mezzo del Siegfried per dedicare le sue morbose attenzioni contemporaneamente al Tristan e alla sua ispiratrice (oltre che ricchissima mecenate).

La quale a sua volta trasse ispirazione dai testi del Tristan, che Wagner le aveva letto in anteprima e così Der Engel (L’Angelo… custode) sembra proprio una dichiarazione d’amore di Mathilde per il musicista: un angelo venuto dal cielo su piume lucenti per sollevare in alto il suo spirito (!)

Stehe still (Resta immobile… sembra il Tell) vorrebbe fermare il tempo per assaporare attimi di estasi. Versi come Aug’ in Auge sembrano proprio mutuati da Herz an Herz dir, Mund an Mund del celebre duetto del second’atto del Tristan.

Im Treibhaus (Nella serra, esplicitamente definito da Wagner Studio per Tristan und Isolde) lascia emergere concetti quali il vuoto chiarore del giorno e Chi veramente soffre si ammanta nel buio del silenzio, che non lasciano dubbi sulla sua ascendenza tristaniana!

Schmerzen (Dolori) sembra far da contraltare al Tristan: qui il sole (che muore, tramontando, ma rinasce ogni mattino) fa accettare tutti i dolori che la natura riserva all’essere umano.

In Träume (Sogni, anche questo indicato da Wagner come Studio per Tristan und Isolde) troviamo versi come Allvergessen, Eingedenken, che paiono venire proprio dal duetto del Tristan.

Apprezzabile (anche se… flebile, smile!) l’interpretazione della Antonacci, ben supportata dall’orchestra (assai ridotta nei ranghi) che il Direttore ha dosato con la dovuta parsimonia.

In chiusura di serata la celeberrima Patetica. Essendo un’opera nota quanto e più del Danubio blu, ecco che ogni direttore si sente in dovere, per distinguersi, di metterci parecchio di suo. E anche Nézet-Séguin non fa eccezione, infarcendo la sua interpretazione di arbitrari interventi su dinamica e agogica (forse accentuati, ancora una volta, dall’acustica del luogo…) Il pubblico, che è rimasto in silenzio alla fine del movimento iniziale, applaude al termine dell’Allegro con grazia, così il Direttore, al termine del poderoso tatata-tà di SOL maggiore dell’Allegro vivace (dove è quasi normale che il pubblico si scateni) non lascia a nessuno nemmeno il tempo di battere le palpebre, e attacca subito l’Adagio lamentoso, effettivamente condotto, questo, come si deve.

Alla fine buon successo e applausi da parte del pubblico assai folto e che, come è un po’ di prammatica in questi festival vacanzieri, costringe tutti ad un indebito quarto d’ora accademico prima che si possa iniziare.

La Sagra prosegue fino al 15 settembre con altri 4 concerti (Fedoseyev, Valcuha, Mehta, Salonen).
 

24 agosto, 2013

ROF XXXIV: La donna del lago chiude con uno Zedda da… brivido

 

Chiusura del ROF in grande stile – e con intermezzo drammatico - al Teatro Rossini: come è diventato ormai consuetudine il venerabile Alberto Zedda ha proposto un’opera in forma concertante e diffusa in diretta in Piazza del Popolo. Quest’anno è toccato a La donna del lago.


Teatro gremito e posti in piazza già occupati un’ora prima dell’inizio, a testimoniare dell’interesse del pubblico. Al quale l’ottantenne maestro ha pure riservato momenti di suspence allorquando - chiusa la strofa di Rodrigo col Fa quest’anima bear - invece di scattare per dare l’attacco al coro si è girato sulla sinistra, appoggiandosi al corrimano del podio, colto da un principio di collasso. Dopo attimi di smarrimento generale in cui si è temuto il peggio, il maestro è stato soccorso dai due violini di spalla, poi dal patron Mariotti uscito dal suo palco di barcaccia, infine accompagnato (ma camminando sulle proprie gambe) fuori dal palco, abbandonato anche da orchestrali, coristi e dal povero Spyres, rimasto lì interdetto e senza saper che pesci pigliare.

Per fortuna Zedda è rientrato dopo una quarantina di minuti, più arzillo che mai, senza la giacca a code, ed ha ripreso a dirigere come nulla fosse, portando in porto l’impresa. Tutto è bene ciò che finisce bene!     
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Una bella Donna, devo dire, grazie alla verve del Direttore, alla sicurezza dell’Orchestra, dove gli ottoni hanno ben risposto alle difficili sollecitazioni, e alla splendida prova del Coro di Andrea Faidutti.

Quanto agli interpreti, Dmitry Korchak e Michael Spyres erano i due tenori che impersonano i rivali Uberto(Giacomo) e Rodrigo. Korchak ha mostrato bella voce squillante, forse ancora da… maturare con studio ed esperienza, ma la sua è stata una prestazione assolutamente apprezzabile. Spyres, già visto e udito qui lo scorso anno come un sontuoso Baldassare (nel Ciro) ha confermato le sue grandi doti, sciorinando la grande ampiezza della sua estensione, che scende fino a note da… basso, e la potenza del suo canto aperto (era l’unico, fra parentesi, a cantare senza lo spartito sotto gli occhi). Fra i due, una vera gara a sparare DO acuti, nel terzetto con Elena del second’atto!  

La protagonista Elena era Carmen Romeu: che ha svolto più che dignitosamente il suo compito, con qualche piccola sbavatura sulle note basse.

Chi ha trionfato è la travestita (ma solo… virtualmente) Chiara Amarù: un’efficace (o un efficace?) Malcom, la cui aria Ah si pera è stata accolta da un autentico tripudio.

Simone Alberghini, già Melcthal nell Tell di questi giorni, ha cantato la parte di Duglas con discreta sicurezza, senza peraltro entusiasmare nella sua aria Taci, lo voglio.

Mariangela Sicilia e Alessandro Luciano avevano le due parti di contorno (Albina e Serano) che cantano per lo più recitativi accompagnati, nel second’atto. Entrambi reduci da apparizioni in questo ROF (lei come apprezzabile Elvira nell’Italiana, lui come il cattivone Rodolphe nel Tell) hanno svolto adeguatamente i loro compiti.

Quanto ai contenuti, Zedda si è limitato a tagli più che giustificati (dato anche il tipo di esecuzione): così sono stati cassati, nel primo atto, la Scena IV (recitativi di Albina e Serano) e l’inizio della Scena VIII (recitativo di Serano e Malcom, prima dell’entrata di Duglas); nel secondo il recitativo di Uberto, dopo la cavatina d’entrata, e la Scena IV (recitativi di Giacomo e Duglas) con soppressione tout-court del personaggio di Bertram.

Archiviato, con molte luci e qualche ombra (ma è naturale…) questo ROF-34, già qui ci si prepara al 35, con la prima-ROF dell’Aureliano.

22 agosto, 2013

ROF XXXIV: ancora sul Tell di Vick

 

Torno brevemente sull’allestimento del Tell per chiarirne la natura - sovversiva e fondamentalmente umiliante del capolavoro rossiniano - analizzando più in dettaglio un solo ma significativo esempio.    


Si tratta proprio della primissima scena dell’opera, che subito ci dà l’idea dell’assurdità della concezione registica e dell’irrispettosità con cui Vick tratta l’originale.

Cosa ci dice il testo? Paesani e paesane sono intenti ad adornare le dimore delle nuove tre coppie che si sposeranno. Versi che esprimono serenità e amor di Dio. E la musica? Un dolce Ländler in 3/8, SOL maggiore.

Poco più in là, il pescatore chiama la sua amata per una gita in barca: il cielo è sereno e promette una bella giornata. Musica? Una cullante barcarola in 6/8, DO maggiore (compreso il DO acuto del tenore).

A turbare questo scenario pressocchè idilliaco ecco, dopo la prima strofa del pescatore, intervenire Tell: il suo commento, con la musica che vira - attenzione! - a DO minore, esprime tutto il disagio e il cruccio del bravo patriota al vedere i suoi concittadini che vivono una vita quasi spensierata, mentre la loro patria è sotto il giogo straniero.

Un contrasto davvero lancinante - e non solo per Tell, ma anche per lo spettatore - mirabilmente scolpito in musica da Rossini.

Ora, che ci propina quell’ideologo vetero-comunista che risponde al nome di Graham Vick?

La vista di un campo di lavori forzati, con i poveri svizzeri costretti da aguzzini nazisti a lavorare la terra con le mani, o a portare scarpe appese alle orecchie (la Nike in Bangladesh?)

E poi la scena del pescatore, mostrata come una… messa in scena di regime, con tanto di fondali finti, barchetta sospesa ed oscillante nel vuoto e cinepresa che documenta il tutto ad uso e consumo degli sfruttatori stranieri.

Quindi abbiamo: popolo fisicamente vessato e perciò perfettamente cosciente della sua dura condizione; e popolani vendutisi all’occupante che si prestano, per due lire o anche per nulla, a fingere scene di vita idilliaca. 

Cioè: l’esatto contrario dell’originale!

Di conseguenza, anche l’esternazione di Tell perde qui totalmente di significato, pratico ed estetico (hai detto niente!)

Capito che bella interpretazione? E così continuerà per l’intera opera: Vick ha semplicemente stravolto lo scenario originale, in barba ai versi e soprattutto alla musica del grande Gioachino, per proporci il suo scenario, volto a convincerci che il sistema in cui viviamo (e da cui lui ricava pingui parcelle!) è merdoso e schifoso.

Ora, che la sua sia un’operazione proditoria, lo ammette lui stesso quando, in un’intervista, confessa candidamente che la prima volta che andò in teatro a vedere il Tell se ne uscì dopo il primo atto, completamente annoiato!

Ecco: da uno che si annoia ad ascoltare Rossini, cosa vogliamo pretendere?


21 agosto, 2013

ROF XXXIV: Guillaume Tel…lenin!

 

In una giornata a dir poco autunnale (pioggia insistente e max 18°… ma oggi sta tornando l’estate) l’Adriatic Arena ha ospitato ieri sera (anzi… pomeriggio) l’ultima rappresentazione di Guillaume Tell.


Palazzetto stracolmo di pubblico che ha decretato un autentico trionfo allo spettacolo: o perlomeno alla componente musicale; quanto all’allestimento, i buh e le sonore disapprovazioni al termine della seconda scena del terz’atto (il Pas de Soldats) hanno fatto chiaramente capire come non sia stato propriamente gradito (ma ci torno fra poco).

Dicevo della parte musicale, di buon livello, pur non toccando, a mio modesto avviso, vette di eccellenza assoluta.

JD Florez, il più atteso alla prova, ha mostrato di essere all’altezza del compito e mi è parso più sicuro rispetto alla prima ascoltata in radio: evidentemente due recite in più gli sono servite per completare il… rodaggio. Si conferma comunque un gran professionista, che sa garantire sempre il risultato: per lui lunghissimi applausi a scena aperta. Certo, come attore non è un gran che, forse perché concentra tutto se stesso sul canto (e come dargli torto!)

Con lui bene ha fatto Marina Rebeka, che a dispetto di una certa metallicità negli acuti ha sciorinato una prestazione più che positiva. Insieme i due hanno meritato un autentico trionfo dopo il duetto del second’atto.   

Anche Amanda Forsythe mi ha fatto miglior impressione rispetto alla prima: non ha urlato troppo gli acuti e soprattutto ha più che dignitosamente esposto la sua non facile (e spesso tagliata) aria di Jemmy del terz’atto.

Meritevoli anche Veronica Simeoni come Hedwige, Simon Orfila nei panni di Walter e Simone Alberghini nella parte breve ma importante di Melcthal.

Un Gesler passabile era Luca Tittoto, voce piuttosto cavernosa, peraltro adatta al truce personaggio. 

Celso Albelo ha fatto onestamente la sua parte, inclusi i due DO che gli son venuti un po’ meglio che alla prima.
 
Il Rodolphe di Alessandro Luciano ha appena la mia sufficienza: voce poco passante priva di espressione. Un filino meglio di lui ha fatto Vojtek Gierlach nei suoi due ruoli di contorno. 

Tell? Beh, Nicola Alaimo ha la prestanza fisica (fin troppo abbondante!) dello svizzerotto tutto patria, casa e chiesa. Quanto alla voce, già sopra il RE tende ad ingolarsi e a produrre schiamazzi più che suoni rossiniani. In complesso una prestazione discreta ma non certo da ricordare nella storia.

Il Coro di Andrea Faidutti ha meritato ampiamente le ovazioni ricevute alla fine, che hanno anche accolto l’Orchestra e il suo Direttore stabile, che si conferma profeta-in-patria: il suo è un Tell assai misurato, poco incline alle enfasi e alla retorica, più religioso che eroico, mi verrebbe da dire.
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Ed ora eccoci a Graham Vick.

Il quale ha cucinato un autentico minestrone (ma di quelli proprio indigesti, però) in cui ha buttato quasi a caso, e con dosaggi strampalati, gli ingredienti più diversi e perfino inconciliabili, tipo mescolare curry e tartufo in un risotto, ecco: ti viene che è proprio ‘na schifezza.

Intanto siamo subito avvertiti (dal pugno chiuso sul siparione bianco-rosso) che ci sarà lotta di classe: siamo in Svizzera a novecento iniziato (cineprese a manovella) poi a novecento avanzato (il proiettore super-8 con cui Arnold guarda i filmini di quando era bambino) e però, invece dei banchieri che sfruttano, più o meno direttamente, l’immigrazione, ci sono finti austriaci che opprimono gli operosi contadini elvetici. Notare: gli occupanti son dotati di mitra, i locali di… balestre.

Certo, ci sono espliciti ed appropriati richiami alla terra e al lavoro (meno ai suoi frutti: nessuna traccia di emmenthal, né di orologi, in Svizzera, toh!) mescolati però a becere denunce dell’odierno sfruttamento minorile (le scarpe della Nike in Bangladesh? e perché non la UnionCarbide in India, già che ci siamo?) La prima scena dell’opera è emblematica: mentre libretto e musica ci presentano gente che accudisce serenamente alle proprie incombenze, Vick ci mostra persone vessate da aguzzini nazisti in campi di lavoro forzato. Ma forse lui la musica nemmeno l’ha ascoltata, altrimenti avrebbe capito che evocava tutt’altro. 

Insomma, Vick finge di confondere (dico finge perché non può essere così stupido da far confusione per davvero) una lotta di liberazione nazionale con la lotta di classe tout-court. Quindi bandiere e guardie rosse, neanche fossimo nella Russia del ’17. Sarebbe come presentare la Resistenza italiana al nazifascismo esclusivamente come una fase della rivoluzione proletaria internazionale: per carità, dentro la Resistenza c’erano anche (ed erano magari maggioranza relativa) i rivoluzionari dal pugno chiuso, ma quel movimento fu molto di più e di diverso dalla pura lotta di classe.

Vicende come la scena-madre della mela (tipiche rappresaglie contro innocenti) sono del tutto estranee a fenomeni di lotta di classe, e invece perfettamente plausibili in scenari in cui si confrontano quasi a livello personale un potere assoluto e la resistenza di un popolo (Fosse Ardeatine, Marzabotto e altri simili fatti ne sono testimonianza). Così pure l’uccisione di un monarca (o di un suo rappresentante, come nel caso di Gesler) non è assolutamente un atto tipico della lotta di classe, ma di fenomeni di irredentismo o al massimo di anarchismo. E la vittoria finale, nel Tell, è quella di un popolo che riconquista libertà e indipendenza dal giogo straniero, per tornare – in uno spirito assolutamente conservatore, per nulla rivoluzionario o sovversivo – alle sue antiche tradizioni e consuetudini minacciate dall’oppressore straniero; non è certo l’arrivo del sol dell’avvenir che Vick ci propina con lo scalone rosso alla fine. Fenomeno, il primo, ben presente nel frangente storico in cui Rossini compose l’opera, dove invece il secondo era ben di là da venire. (Ma di tutto ciò, al regista-narcisista, nun glie ne po’ ffrega’ dde meno!)

Quanto ai dettagli, davvero insopportabile - perché precisamente motivato da odio di classe e non da spirito patriottico – il trattamento che Vick ci propone degli occupanti austriaci: in particolare nelle scene del terzo atto, infarcite di gratuite violenze e di siparietti-porno di bassa lega. Qui Vick trasforma una delle parti più intense dell’opera (dove la musica fa convergere mirabilmente aspetti drammatici e sereni) in puro avanspettacolo scollacciato da teatrino underground. Non per nulla il pubblico ha buhato sonoramente, purtroppo coinvolgendo nella contestazione anche i musicanti e i danzatori, non solo incolpevoli, ma anzi meritevoli di applauso.       
 
E che dire dei cavalli di cartapesta del second’atto? Che ci voleva ricordare qui Vick? Le cariche della Lady-di-ferro contro i minatori in sciopero? Tanto erano nobili e appropriati i due destrieri dallo stesso Vick impiegati nella sua Bolena, tanto sono gratuiti i dodici che riempiono qui la scena, e dei quali uno (quello bianco, su cui era salita Mathilde) ritroviamo all’inizio del terz’atto con la testa mozzata, forse come simbolo della nascente rivoluzione proletaria guidata da Arnold…

E che dire dell’efferatezza gratuita di cui il regista riveste in egual misura (excusatio-non-petita?) oppressi ed oppressori? Che si materializza nelle due scene parallele: della gara di tiro che Jemmy vince mozzando di netto la testa di un manichino rappresentante l’occupante; e della fine del vecchio Melcthal, prima linciato e poi appeso precisamente come il manichino di poco prima.

Ecco, per dire dove portano le idee di chi vuole a tutti i costi coniugare l’impegno professionale con il proprio vincolo ideologico: rappresentare il Tell di Rossini e propagandare convinzioni politiche comuniste!

Insomma, ancora una volta (era già successo con il Mosè del 2011, in altro scenario) Vick manipola l’originale - in modo, per me almeno, inaccettabile -  per piegarlo alle sue concezioni politiche e al suo obiettivo maieutico, aspetti del tutto assenti (e direi proprio deliberatamente) nel testo e soprattutto nella musica del Tell.

Quindi, siamo alle solite: c’è una musica, composta per rappresentare ed evocare un certo scenario, che viene impiegata dal regista come colonna sonora per supportare il suo proprio scenario, che poco o nulla ha a che fare con l’originale. Nobbuono…

Dopodichè, essendo Vick un grande uomo di teatro, è garantito che il suo spettacolo sia di alto livello e in sé (basta dimenticarsi l’originale, che problemi ci sono?) persino coinvolgente e godibile.

Peccato che quello del regista albionico – ma questa è solo una quisquilia, una pinzillacchera! – sia un prodotto adulterato. Sì, lo ripeto fino alla nausea, proprio come spacciare una Lacoste, o un Rolex, o un VanGogh contraffatti. (Quindi anche questa volta un premietto penso che lo abbia di sicuro, smile!)
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Lo spettacolo sarà ripreso dal Regio di Torino il prossimo maggio; stesso allestimento, ma per il resto… tutto diverso, a cominciare dalla lingua (versione italiana di Bassi) e poi: via i balletti, altro cast, orchestra, coro e direttore (Noseda). Si vedrà…