affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

04 maggio, 2012

Orchestraverdi – concerto n°31


Il 31° concerto della stagione vede ancora sul podio Claus Peter Flor, che dirige un programma, come dire… religioso, in un Auditorium - ahinoi - un po' troppo ricco di poltrone vuote.

Benjamin Britten era certamente (già da giovane, ben prima dell’ultima guerra) un tipo che viveva, diciamo così, ehm, ai limiti del regolamento, almeno per benpensanti, bigotti e patrioti del Regno Unito: omosessuale e obiettore di coscienza, hai detto niente! Bene, nel 1940, in piena guerra e col Giappone sull’orlo di accoppiarsi con l’Asse per mettere al mondo RoBerTo, costui riceve nientemeno che da parte del Governo di Tokio un invito (esteso a personaggi come Richard Strauss, per dire…) a comporre un brano musicale per celebrare la ricorrenza dei duemilaseicento anni dalla fondazione dell’Impero del Sol Levante. E lui cosa gli propina, per una simile festosa circostanza? Un Requiem!!!

Roba da provocare un incidente diplomatico (e ciò è accertato che avvenne) ma forse anche – chi lo sa? – da far decidere i gialli a spedire di lì a poco un’allegra brigata di bombardieri e siluranti dalle parti di Pearl Harbor… Solo una quindicina d’anni più tardi, e con gli yankee saldamente in control a Tokio, il nostro potrà tranquillamente dirigervi il suo regalo per i giapponesi, cui nel frattempo erano stati forniti, e in abbondanza, seri (e nucleari) motivi per pregare sui loro morti.

Cupi e sordi colpi di timpano aprono l’opera, creando un’atmosfera precisamente da funerale. È il biblico Lacrymosa che incede – Andante misurato - col passo pesante di un cantilenante mortorio; che dopo un pesantissimo passaggio, ancora con i timpani a scuotere l’aria, si perde, quasi su un fievole RE maggiore. Il successivo Dies Irae è una specie di Scherzo (Allegro con fuoco): una danza della morte più che la spaventosa evocazione dell’ira divina, con le trombette e i corni che sembrano lanciare sberleffi più che maledizioni, mentre archi e percussioni paiono suonare una carica da arrivano-i-nostri! Finchè il tutto termina in una specie di buco nero… Il conclusivo Requiem Aeternam (Andante molto tranquillo) sembra imparentarsi con un qualche Adagio di Mahler… un sereno indirizzo a chi sta riposando, dovunque egli sia. Nobilissimo il crescendo che porta alla consolante chiusura.

Opera interessante, non certo da catalogare fra i capolavori, che Flor e laVerdi interpretano comunque con grande concentrazione ed efficacia.

Segue poi la Nona di Anton Bruckner. Musica scritta in onore nientemeno che del Buon Dio! Da parte di un uomo profondamente anche se quasi ingenuamente religioso, che ormai sentiva vicino il momento di presentarsi al cospetto del Creatore, e voleva arrivarci portando con sé l’opera sua più grande. La chiamata arrivò un tantino troppo presto, e così il devoto organista di Sankt Florian potè presentarsi all’appello con tre movimenti compiuti, più i soli abbozzi del Finale, scritti su 184 fogli di musica, l’ultimo dei quali vergato il giorno stesso della sua dipartita: 11 ottobre, 1896.

Quindi musica composta in prossimità della morte e, dalla falce di questa, troncata prima del completamento, proprio come era accaduto quasi 150 anni addietro a Die Kunst der Fuge di Bach, o come accadrà una quindicina d’anni dopo alla Decima di Mahler.

Personalmente – mettendomi nei panni di Bruckner (smile!) – sono propenso a vedere questa sinfonia come una specie di Divina Commedia. Mi spiego. Bruckner sapeva che questa sarebbe stata la sua ultima sinfonia, poiché mai avrebbe osato andare oltre il fatidico nove di Beethoven (e per restare entro quel limite ne aveva addirittura cestinate due, di sinfonie…) L’aveva dedicata a Dio (più in alto di così osar non si puote…) e doveva essere appunto – credo io – l’estrema sintesi di un lungo e travagliato percorso esistenziale, una specie di salvacondotto che lo accompagnasse dalla terra al cielo.

E come una sorta di prologo-in-terra mi immagino l’iniziale Feierlich.Misterioso: la presentazione della meta da raggiungere e la presa d’atto del faticoso cammino e dei tanti ostacoli che si parano davanti all’Uomo che si accinge all’immane impresa. E quindi la chiamata a raccolta di tutte le forze (musicali) disponibili. Cui segue l’Inferno dello Scherzo, una cosa per l’appunto demoniaca, dove guizzano fiamme e dove schiere di dannati marciano tenuti a bada da diavoli armati di forconi, o si danno a spiritate danze a ritmo di walzer! Ecco quindi il Purgatorio dell’Adagio, dove si comincia ad intravedere un poco di luce, lassù, in fondo ad un tunnel ancora occupato da sofferenze e da peccati da espiare. E infine il Paradiso del Finale (qui purtroppo però non ci basta più nemmeno l’immaginazione…) dove non a caso Bruckner, nei suoi schizzi, pare richiamarsi al TeDeum, del quale viene citato il famoso inciso che scende di un’ottava, passando per il quinto grado, come qui, nello schizzo della Coda, dove contrappunta un motivo di corale:


E sulla base di quest’ultima congettura, oltre che di supposte volontà di Bruckner, Ferdinand Loewe – uno dei discepoli-arrangiatori-adulteratori del Maestro e delle sue opere – in occasione della prima esecuzione della sinfonia (1903) appiccicò abbastanza arbitrariamente proprio il TeDeum ai tre movimenti compiuti. Cosa che per fortuna si è smesso di fare da quando – avendo la coppia Loewe-Schalk tolto il disturbo e con esso i millantati diritti sull’opera - Haas e Orel prima, poi Nowak e infine Redlich hanno potuto presentare una seria edizione della parte della sinfonia completata dall’Autore. Accertando allo stesso tempo che i corposi schizzi del Finale – che qualcuno (vedi qui) ha tentato di ricomporre per farne qualcosa di eseguibile - tutto lasciano intuire tranne la volontà di Bruckner di importarvi di peso il suo preesistente TeDeum.
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Dopo l’esordio da nona beethoveniana (ma senza la quinta vuota, solo il RE in tutte le voci dell’orchestra) otto corni e due trombe espongono con solennità il primo tema, che sfocia in questa stupefacente perorazione dei primi quattro corni:

Si passa qui dal RE minore (tonalità d’impianto) a MIb maggiore, quindi MIb un’ottava sopra, poi ecco, spiccando il volo, arriviamo ancor più in alto, al DOb maggiore la cui triade è pesantemente sottolineata dai corni. Da qui si scende fino al SOLb due ottave sotto, per risalire al MIb, quindi scendere al REb e alla sua sensibile DO. Come si vede, un percorso spettacolare, ma quanto mai contorto e dagli esiti ancora incerti.

Una transizione in crescendo porta poi ad una nuova perorazione: il secondo tema, una possente ottava discendente RE-RE (minore) poi ancora un’altra (LA-LA) e quindi l’appoggio provvisorio sul MIb; da qui risalita alla dominante LA (violini e corni sforano sul SIb) e quindi i due secchi accordi dominante-tonica che chiudono sul RE maggiore! Ancora una volta: grandi orizzonti raggiunti attraverso faticosi percorsi.

Un nuovo periodo di transizione, caratterizzato da un sommesso pizzicato degli archi e da brevi incisi negli strumentini, porta al terzo tema (Langsamer, più lento), un cantabile in LA maggiore - dove troviamo una chiara reminiscenza dell’Adagio della settima - che si ripete subito dopo e poi sfocia sul LAb dove oboe e clarinetto anticipano una forma invertita del quarto tema, che viene poi esposto (Moderato) dagli archi, arpeggiando sulla triade di RE minore; il tema si sviluppa poi come un sofferto procedere, con una punta sulla dominante e poi un’adagiarsi fra mediante e sopratonica; la sua reiterazione sfocia però ancora in un passaggio in DOb maggiore, un vero squarcio di luce, sottolineato da un largo gruppetto dei corni, attorno alla dominante SOLb. Che per poco diventa tonica, prima che una serie di arpeggi modulino alla relativa MI minore e da qui, per ascesa di un semitono, al sorprendente (ma assolutamente canonico, secondo le regole della forma-sonata) FA maggiore che sommessamente chiude l’esposizione.    

Sviluppo e ricapitolazione sono quasi un tutt’uno, poiché vi si mescolano manipolazioni dei quattro temi - trattati con variazioni e  modulazioni - e riprese degli stessi, magari in diverse tonalità. Sul RE minore di impianto chiude il gigantesco movimento una Coda che ripropone inizialmente il salto di ottava RE-RE del secondo tema, poi vi prendono il sopravvento gli ottoni (la tromba in particolare) che portano alla stentorea chiusa, con gli appoggi di MIb sull’accordo di quinta vuota di RE minore.  

Lo Scherzo (mosso, vivace) inizia con note tenute degli strumentini e un pizzicato degli archi che pare proprio introdurre uno scenario infernale; che infatti si materializza presto – così come la tonalità di RE minore - in un martellante motivo esposto ad intera orchestra (par di vederci i Nibelunghi schiavizzati da Alberich!):

È seguito da uno squarcio di apparente gaiezza, con l’oboe che intona un motivo in LA maggiore, staccato, imitato poi dal flauto, ma non v’è proprio nulla di bucolico in tutto ciò (come accadeva magari in altri scherzi di Bruckner) e infatti una successiva progressione ci riporta al martellante tema principale, lungamente sviluppato fino alla classica fermata sul RE minore (anche qui l’accordo è solo tonica-dominante). Il Trio (Schnell, rapido) è nella lontana tonalità di FA# maggiore, ed ha una parte sempre mossa e spiritata, seguita da una un filino più calma, ma sempre in un clima poco rassicurante. Lo Scherzo viene ripreso in toto per chiudere il movimento, quindi in RE minore.

L’Adagio.Langsam,feierlich è nella distante tonalità di MI maggiore (la stessa dell’Adagio della settima, dove però rispettava rigorosamente la tonalità d’impianto, oltre ad essere posto subito dopo il movimento iniziale). Si apre con il famoso salto ascendente di un’ottava aumentata (SI-DO), di cui Mahler si ricorderà al momento di aprire l’ultimo movimento della sua nona (dove sarà di un’ottava giusta, LA-LA):
 
La caduta cromatica DO-SI-LA# ci ricorda inevitabilmente il wagneriano Tristan, e la cosa non deve essere proprio casuale: siamo ancora in uno scenario di sofferenza, in cui appare però ben presto uno squarcio di luce, di speranza: ed è ancora Wagner a ispirarlo, laddove tromba e primi violini espongono un tema solenne e maestoso, in RE maggiore, che ricorda appunto… la Spada del Ring (quanti significati e allusioni si porta dietro!):

Ma poi sale anche più in alto, quasi fosse un Dresden-Amen, proprio come a cercare… il Paradiso? 

Un secondo tema compare poco dopo, a piena orchestra, su accordi in fortissimo dove su un fondo di dominante di SI (i FA# di archi, tromboni, corni e flauti, i MI e DO# degli oboi e i SOL# di clarinetti, tromboni, fagotti e viole) si innestano rapidi incisi delle trombe, che salgono dal SI al MI, passando per il DO#, con un effetto invero straniante, poiché lascia la tonalità sospesa fra tonica MI e sopratonica FA# (dominante della dominante).

Dopo che il FA# è calato al FA naturale, una transizione nei corni e nelle quattro tubette wagneriane (due lente discese che pare Bruckner avesse etichettato come il suo addio-alla-vita) portano all’esposizione del terzo tema, nobilissimo e cantabile, in LAb maggiore:

È seguito da un controsoggetto in SOLb maggiore, che poi modula enarmonicamente a FA#, col che si chiude l’esposizione.

Come per il movimento iniziale, anche qui sviluppo e ripresa si incastrano fra loro, con il ritorno dei temi, variamente manipolati, finchè si giunge alla Coda, una cosa assai simile a quella – invero stupefacente – che chiude l’Adagio dell’ottava. Un arpeggio dei corni precede le ultime 5 battute, dove corni, tubette, tromboni e tuba, con radi accordi in pizzicato degli archi, mettono il sigillo a questo – ahinoi incompiuto – testamento spirituale.

Io ritornai da la santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinovellate di novella fronda,
puro e disposto a salire a le stelle. 
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Per l’occasione Flor ha disposto l’orchestra alla tedesca (bassi a sinistra, secondi violini al proscenio, sulla destra). In più ha raggruppato al centro-sinistra corni, tubette, tuba e tromboni, isolando le trombette in alto a destra, accanto ai timpani. Scelta per me efficacissima.

Ed in effetti l’esecuzione di Flor e dell’Orchestra è stata letteralmente stre-pi-to-sa! Un primo movimento tenuto con una solennità spinta al limite dell’umana sopportazione (in senso positivo, sia chiaro!); uno Scherzo dove il tema principale pareva arrivare direttamente da un girone dantesco, mentre il Trio creava atmosfere irreali, stranianti; e l’Adagio conclusivo dove l’anelito all’assoluto usciva da ogni nota degli archi e dal caldo suono delle tubette e dei corni.

Un’emozione indescrivibile, unica e memorabile. Peggio per gli assenti…


Prossimamente torna la Direttora Xian con un altro robustissimo programma.

03 maggio, 2012

Riecco alla Scala la Toscaccia di Bondy, un pochino ricondizionata


Forse perché sono ancora da ammortizzare i costi dell’allestimento (altre serie ragioni non se ne vedrebbero, perlomeno…) la Scala ripropone anche in questa stagione la deplorevole Tosca di Luc Bondy, che già fece i suoi danni poco più di un anno fa. E, a differenza di allora, è pure inserita nel programma in abbonamento, così – avendola già pagata – un abbonato non può esimersi dal risorbirsela (d'altronde sarebbe azione quanto mai disdicevole, da parte dell’abbonato medesimo, deleteria per la promozione dell’opera lirica, nonchè punitiva verso un amico, prestargli la tessera d’abbonamento per l’occasione, smile!)

In realtà qualcosa di buono nel frattempo è accaduto poichè, essendo il regista svizzero contumace, in questa ripresa la brava Lorenza Cantini fa del suo meglio per smussare, se non proprio per cancellare del tutto (cosa impossibile) le sue principali efferatezze, in specie quelle del secondo atto. Insomma: una produzione che resta semplicemente sconcia, ma non più da codice penale (ri-smile!)

Per le prime due rappresentazioni si è ripetuto un copione ormai quasi obbligato al Piermarini: buh e grida di vergogna alla prima e poi quasi un trionfo alla seconda, oltretutto col cast alternativo. E anche certe reazioni sono state fedeli a quel copione: chi ha assistito alla seconda recita (e non alla prima) crede di aver la prova provata che l’insuccesso di quella fosse opera dei soliti sabotatori di professione; chi ha assistito alla prima (e non alla seconda) si dice certo che il successo di quest’ultima sia da ascriversi all’ignoranza del pubblico bue. Insomma: dispute da bar-sport, ma proprio di quelli che espongono il cartello vietato l’ingresso ai cani e alla logica

Insomma, eccomi puntuale in prima galleria a risentirmi (guardando il meno possibile…) questa straordinaria espressione del genio italico, una storia tutta fuoco e passioni come di più e meglio non potrebbe uscire dallo scenario della Roma papaloide di fine ‘700, mirabilmente descritta con gli strumenti musicali di fine ‘800.

Devo dire che, date le premesse, mi aspettavo di molto peggio. Invece devo ammettere che si è trattato di una prestazione complessiva tutto sommato sopra la sufficienza (certo non si parla né di dieci, né di lodi!)  

Di Luisotti si dice sia un esperto pucciniano: non so di preciso cosa significhi, ma devo dire che la sua direzione mi è parsa equilibrata (gli perdono qualche eccesso di fracasso in alcuni momenti topici) e rispettosa di chi sta sul palco a cantare. Con lui anche l’Orchestra mi è parsa suonare dignitosamente, inclusi i sempre criticati ottoni.

Martina Serafin è stata una Tosca per nulla disprezzabile (suo l’unico applausetto a scena aperta, dopo un Vissi d’arte peraltro non memorabile). Qualche problema, mi è parso, di intonazione sugli acuti, ma in complesso una prestazione onorevole.

Marcelo Álvarez non ha fatto rimpiangere per nulla – alle mie orecchie perlomeno – il bel Jonas della scorsa edizione: voce ancora sicura e soprattutto senza interventi di naso e gola, così caratteristici del commerciante crucco.

Su George Gagnidze (Scarpia) andrebbe stabilito se: a) lui canta male perché costretto dalla regìa a digrignare continuamente i denti e strabuzzare gli occhi, oppure se: b) lui digrigna i denti e strabuzza gli occhi perché non sa cantare (smile!)

Deyan Vatchkov era già stato un discreto Angelotti lo scorso anno, e mi pare abbia confermato quella prestazione.

Il sagrestano di Alessandro Paliaga ha fatto il suo dovere, facendosi almeno udire chiaramente fin su al loggione. Altrettanto non mi sentirei di dire per Massimiliano Chiarolla (uno Spoletta dimesso). Davide Pelissero (Sciarrone) ed Ernesto Panariello (carceriere) hanno ripetuto le loro oneste prestazioni, come nella precedente edizione. La voce in lontananza del pastore era di Elena Caccamo, che la locandina online del teatro ignora bellamente, insieme ai cori di Casoni.

Alla fine moderati applausi per tutti, con una punta (toh!) proprio per Gagnidze!

Insomma, mettiamola così: se non si fosse nell’indiscusso tempio della lirica (come recita con grande modestia la pubblicità Rolex e come ripete ogni giorno il modestissimo Lissner) si potrebbe persino tornare a casa soddisfatti.

28 aprile, 2012

Rinaldo torna in campo a Reggio Emilia


Dopo le recite di Ravenna e prima di quelle di Ferrara, ecco la ripresa al Teatro Valli del Rinaldo in una produzione firmata PierLuigi Pizzi. Figlia di quella che proprio al Valli riportò l’opera in Italia nel 1985, e poi presentata anche alla Scala-Arcimboldi nel 2005. E come là, è sempre Ottavio Dantone a dirigere questo classico esemplare di opera del barocco magico, ma qui con la sua Accademia Bizantina. Opera che lo scorso dicembre avevamo ascoltato – in forma concertante – eseguita da laVerdi barocca all’Auditorium di Largo Mahler. 

Opera somma, figlia del recitar-cantando, mamma del bel-canto e nonna di Wagner! Di cui la messinscena di Pizzi ci restituisce tutta la freschezza, la nobiltà e la raffinatezza. Dove anche i personaggi e le scene più truci sono trattati e presentati – precisamente nello spirito dell’originale - con grande senso estetico, grande misura e soprattutto grande poesia. Sappiamo che in queste opere la trama – per quanto paludata (da Tasso, nella fattispecie) – non è che un mero supporto per musica e canto (si racconta che i testi delle opere di Händel venissero scritti sulla musica già composta, e non viceversa! e come il Rinaldo in particolare sia infarcito di imprestiti da altre composizioni) e quindi è sacrosanto che siano musica e canto ad essere messi al centro dell’attenzione.

È proprio ciò che fa Pizzi con la sua messinscena: gli interpreti addirittura non si muovono (meglio: vengono mossi come pedine su una scacchiera, appollaiati su alti trespoli, o su giganteschi cavalli, o dentro a navicelle, quasi a mostrarsi nella loro ieraticità immateriale) nè si toccano, ma si limitano, appunto, a cantare le stupende arie (i recitativi secchi sono ridotti al minimo in questo allestimento). Anche tutto l’armamentario magico, che era funzionale ai gusti e alle aspettative dell’epoca, non viene certo riproposto oggi in modo pedestre (il che non avrebbe senso) ma con un misto di sorriso e di garbata ironia e soprattutto con grande buon gusto.

Insomma, un modo intelligente e assolutamente moderno di presentare opere come questa, senza bisogno di snaturarne i contenuti o di distrarre lo spettatore con invenzioni gratuite. Non per nulla Pizzi è stato – con Dantone - il più osannato alla fine dello spettacolo, che dopo 27 anni di onorata carriera ancora mostra di essere pienamente vivo e vegeto (domanda tendenziosa: quanti degli allestimenti intelligenti dei registi di avanguardia saranno ancora riproposti e osannati in questo modo nel 2039?)   

Sul fronte musicale, i tagli e gli aggiustamenti ci sono, non sono pochi né indolori (purtroppo!) ma l’approccio della coppia Pizzi-Dantone è tutto sommato simile a quello della coppia originale Hill-Händel, che ad ogni recita modificavano, tagliavano o aggiungevano qualcosa a seconda dello scenario di interpreti, pubblico e teatro.

Sparisce così addirittura Eustazio, che non sarebbe propriamente un personaggio minore, godendo di ben 5 arie (2+2+1 nei 3 Atti)! Però almeno una delle sue arie (Siam prossimi al porto) viene trasferita al fratello Goffredo, così non si butta e… rimane comunque in famiglia (smile!) Per il resto, le principali manipolazioni sono: espunte quattro arie del suddetto Eustazio, tre di Goffredo, due di Rinaldo e una di Argante. Poi spostata dal primo al second’atto Cara sposa (Rinaldo), anticipata Abbruggio, svampo e fremo (Rinaldo) prima dell’aria di Almirena (Lascia, ch’io pianga) e posticipato il duetto Armida-Argante del finale a dopo l’aria di Almirena (Bel piacere e godere).

Così l’intera opera – suddivisa in due blocchi, atto I e poi II-III – non supera di molto le due ore di durata netta, contro le almeno 2h 45’ di un’edizione standard. Peccato perché si perde davvero della grande musica…

Quanto al sesso, gli interpreti - in penuria di castrati (smile!) - sono quasi tutti al loro posto, tranne il Rinaldo en-travesti e il Goffredo, en-travesti al quadrato(!)

Proprio all’ultimo momento viene meno il-la protagonista: Marina De Liso deve dare forfait e viene sostituita da Delphine Galou. La quale fa evidentemente del suo meglio, date le circostanze, ma certo non può inventarsi una voce che non ha (parlo soprattutto dell’ottava bassa, poco udibile anche dalle prime file). Per lei applausi di stima per l’abnegazione. L’Armida di Roberta Invernizzi ha mostrato più le doti di temperamento da vera maga, che quelle canore (smile!) dove ha invece lasciato a desiderare con urlacchiate poco… händeliane. Bene invece Maria Grazia Schiavo nei panni di Almirena. Su un livello (per me) più che accettabile Krystian Adam (Goffredo), Riccardo Novaro (Argante) e Antonio Vincenzo Serra (Mago). Completano dignitosamente  il cast William Corrò (Araldo) e Lavinia Bini (Donna e Sirena in un colpo solo!)

Di alto livello la prestazione dell’ensemble di Dantone, composto da autentici virtuosi e guidato in modo impeccabile dal Direttore.

Encomiabili infine le prove dei non-addetti-al-canto: le furie-sirene Cristina di Paolo e Adriana Ilardi e la squadra di bravissimi movimentatori dei trespoli che reggono protagonisti e mostri assortiti.  

Insomma, un bellissimo spettacolo e una bella serata, che il pubblico del Valli (qualche buco qua e là…) ha accolto con minuti e minuti di ovazioni.

27 aprile, 2012

Orchestraverdi – concerto n°30


Il malese-di-adozione Claus Peter Flor torna sul podio per un programma dal contenuto non proprio consueto, tutto dedicato a musiche di fine settecento e di carattere piuttosto, ehm… leggero.

Si inizia con una delle tante Serenate mozartiane, la K239. Anticipando una trovata che 10 anni dopo svilupperà nel Don Giovanni (con le tre orchestrine che suonano insieme)  Mozart  la strutturò per due complessi, precisamente due quartetti: uno – il principale, col contrabbasso al posto del violoncello - che propone le melodie (e da solo suona il Trio) e l’altro - che fa quasi solo da accompagnamento e crea effetti stereofonici - di struttura classica, ma con aggiunta di timpani! (per questo il brano è noto come Pauken-Serenade.) La tonalità è quella tipica mozartiana per questo genere di musica: RE maggiore.
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Contrariamente alle altre serenate mozartiane, che sono più corpose, contenendo fino a 9-10 movimenti (escludendo i trii) questa ne presenta solo 3. Come accadeva non di rado, viene introdotta da una Marcia (cui ben si addice la presenza dei timpani) costituita da due sezioni, ripetute. Nella prima troviamo un’introduzione, invero marziale:

seguita da due temi, il primo in RE (ripetuto) che sbocca sulla dominante LA, su cui udiamo il secondo tema, costituito da due motivi. In questa sezione è sempre il quartetto principale a guidare, mentre l’altro lo supporta saltuariamente.

La seconda sezione presenta un nuovo motivo in LA, sempre nel primo quartetto, interrotto qui per due volte dal secondo con interventi puramente ritmici, in pizzicato, e timpani in primo piano. Poi il primo quartetto, seguito a ruota dall’altro, propone un ponte modulante per tornare all’introduzione e al tema iniziale (ora non ripetuto) in RE, alla cui tonalità si adegua anche il secondo, a chiusura del Maestoso.

Ecco poi un Menuetto (+ Trio) in RE maggiore (3/4). La struttura del Menuetto è assai semplice: tema (da ripetere) poi motivo secondario che lo reintroduce, dopo breve intervento del solo secondo quartetto (anche questa sezione da ripetersi).

Il Trio – eseguito dal solo primo quartetto - è nella sottodominante di SOL maggiore e consta di due sezioni, da ripetersi. Nella prima viene presentato – dal primo violino, contrappuntato dal secondo con rapide terzine - un tema che sale da tonica a dominante e di lì ancora su fino a toccare la dominante superiore, per poi rapidamente ridiscendere per tornare da dove era partito. La seconda sezione inizia con un motivo in RE, che tosto modula al SOL dove viene ripresentato il tema iniziale. La riproposizione del Menuetto chiude il movimento.

In conclusione ecco un Rondo, 2/4 in RE maggiore, di struttura piuttosto articolata. Inizia con un Allegretto in 5 sezioni (le prime 4 col ritornello) dove il tema ricorrente è esposto subito dal primo violino:

Nella seconda sezione troviamo un breve motivo, che si chiude su una cadenza (che tornerà spesso) di accordi fra sensibile e tonica, eseguita dalle due orchestrine insieme, e che resta sospesa (corona puntata) dopo il DO#:


In questa sua prima apparizione è seguita dal tema principale. La terza e la quarta sezione presentano un nuovo tema e un suo controsoggetto. Nella quinta troviamo la seconda comparsa della cadenza tonica-sensibile, seguita dal tema principale.

Ora, abbastanza sorprendentemente, ecco una sezione (3/4, SOL) di 10 battute in Adagio. È il solo primo quartetto a suonarla, conferendole un carattere elegiaco e intimistico. Si passa poi in Allegro (2/4) sempre in SOL maggiore con un nuovo, lungo tema – ondeggiante fra sopratonica e dominante – eseguito e poi sviluppato prevalentemente dal primo quartetto, che viene bruscamente interrotto dai timpani e dal secondo, con un marziale arpeggio. Il quale culmina sul LA, dominante del RE su cui torna il tema principale, seguito dal motivo della seconda sezione e dalla cadenza tonica-sensibile e ancora dal tema principale. Tornano i motivi della terza e quarta sezione, sempre seguiti dalla cadenza e dal tema principale.

Qui il primo quartetto sembra però avere un’esitazione, emette piccole note in pizzicato e poi – unico caso nell’intera serenata – fa da accompagnamento al secondo quartetto (il timpanista tace) che riespone – adesso in RE maggiore, canonicamente – il tema che avevamo udito in SOL all’inizio dell’Allegro.  
 
Ecco ora l’ultima delle apparizioni della cadenza tonica-sensibile, a 14 battute prima della chiusa. Di solito – e così è accaduto anche ieri sera - si approfitta della pausa per introdurre una cadenza solistica dei timpani, in omaggio all’insolita presenza dello strumento. In questo caso (ad esempio qui a 4’02”) a me pare di vederci la finestra della dedicataria della serenata che si spalanca per dar luogo ad una pioggia di oggetti non proprio complimentosi (smile!); dopodiché i serenatori si danno una scrollatina agli abiti, riespongono il tema principale e chiudono come da contratto la loro esibizione…
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Qui in realtà il secondo complesso è formato da una corposa porzione degli archi de laVerdi – disposti per tutto il concerto in configurazione alto-tedesca - anche se Flor ne tiene sempre assai basso il volume per non coprire il quartetto principale (le prime parti dell’Orchestra) che è dislocato davanti a lui, al proscenio. Ciascuno dei solisti ha anche modo di esibirsi in mini-cadenze nel Rondo, prima dell’ultima dedicata ai timpani. Esecuzione davvero impeccabile, che scatena applausi convinti.

Ora arriva al proscenio – avendo così modo di mostrare anche il suo gran fisico da modella (!) - la bravissima prima arpa dell’Orchestra Verdi, Elena Piva, per cimentarsi con un Concerto in RE maggiore composto – qualche anno dopo la serenata mozartiana - da Haydn per uno strumento a tastiera (clavicembalo o pianoforte). In effetti la sonorità dell’arpa richiama da lontano (pur essendo assai più morbida e meno… metallica) quella del clavicembalo - in fin dei conti sono entrambi strumenti a corde pizzicate! - e ben si adatta a questa brillante partitura.
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Haydn qui non cerca complicazioni particolari: nell’iniziale Vivace gli basta un tema per cavarsela da par suo:

Poi lo impiega per il passaggio sulla dominante LA, quindi lo sviluppa – con veloci quartine di semicrome del solista - modulando anche alla relativa SI minore… insomma con una sola idea ci costruisce l’intero primo movimento! Che si chiude dopo una cadenza del solista.

Stessa economicità di risorse per il centrale Un poco adagio, 3/4 in LA maggiore. Il tema principale, di una disarmante semplicità, pari alla bellezza, dopo essere stato introdotto dall’orchestra, viene esposto dal solista:

Quindi viene sviluppato – con l’impiego di terzine di semicrome e note delicatamente ribattute - in una poetica sezione centrale nella dominante MI, prima di tornare sul LA per la ripresa. Anche qui è una cadenza solistica a precedere la chiusura del movimento.

Chiude il concerto un Rondo all’ungherese, Allegro assai, 2/4 in RE maggiore. È il solista ad esporre per primo il tema principale, poi imitato dall’orchestra:

Anche qui Haydn non si smentisce e costruisce il Rondò (A-A’-B-A-C-A) con elaborazioni continue di questo tema. Dapprima modulando, tramite SI minore, alla dominante LA maggiore, dove viene sviluppato dal solista con veloci quartine di semicrome e diverse ulteriori modulazioni (MI, DO) prima di tornare al LA. Ecco poi una sezione in RE minore, dove il tema è ancora variato, con pesanti interventi dei corni (tonica-dominante) prima di tornare in RE maggiore. Altro episodio nella relativa SI minore prima del definitivo ritorno alla tonalità d’impianto.
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Grandissima la prestazione della solista, che padroneggia da par suo una parte ostica, a volte impervia (l’arpa non è una tastiera!) ed è accolta da scroscianti applausi.

Ma per lei non finisce qui, poiché dopo l’intervallo è ancora lei ad esibirsi, questa volta con il Mozart francese - come qualcuno ha battezzato François–Adrien Boieldieu (avvertenza importante per i francesisti-fai-da-te: il cognome non è, anche se ne ha tutta l’apparenza, una bestemmia!) - e il suo Concerto per arpa e orchestra, composto proprio all’alba del nuovo secolo e nel quale si sentono per la verità stilemi che – più che mozartiani – paiono anticipare il Paganini dei concerti per violino.

Andato perduto l’originale, ne sono state conservate solo alcune parti (arpa, per fortuna!, violini primi e contrabbassi) presso il Conservatorio di Bruxelles. Così il concerto ha dovuto essere, per così dire, ricostruito. Fino a pochi anni fa circolava solo la versione di Carl Stueber (pubblicata nel lontano 1939 da Ricordi) poi negli anni ’90 ne è stata approntata una dal compositore e musicologo Marc-Olivier Dupin e dall’arpista Marielle Nordmann, pubblicata nel 1999 da Billaudot. Quest’ultima versione presenta una particolare cadenza del finale e propone - ma non impone di certo - un organico orchestrale classico completo: flauto, oboe, clarinetto, fagotto, corno, tromba, timpano, archi a 5; quella di Stueber – usata qui - è forse più mozartiana, escludendo clarinetto, tromba e timpani. Esistono anche esecuzioni con orchestre da camera, senza fiati. Ma sono dettagli tutto sommato marginali, dato che il concerto è incentrato sulla parte solistica, e dove i tutti si limitano all’esposizione iniziale e poi a collegare le diverse sezioni.  
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L’Allegro brillante in 4/4 tagliato (che occupa più della metà del concerto) è nella classica forma-sonata, ma con sviluppo assai ridotto. L’orchestra, dopo 8 battute marziali introduttive, presenta inizialmente i due temi, in DO e SOL maggiore rispettivamente, i quali vengono poi ripresi dall’arpa solista:


La quale li arricchisce con veloci quartine di semicrome inframmezzate a terzine di crome: l’esposizione è assai più corposa rispetto a quella orchestrale, soprattutto nel secondo tema che viene sviluppato assai, anzi affiancato da un nuovo soggetto, da cui esso riparte poi modulando alla relativa MI minore. Il ritorno a casa passa attraverso un’altra relativa minore (LA): quella del DO di impianto, dopodiché la ripresa ripresenta entrambi i temi in quest’ultima tonalità.

Segue un breve Largo in DO minore, 4/4. Sono solo 26 battute, dove l’arpa, introdotta dall’orchestra, espone una melodia dolce, principiante con un arpeggio di ottava, ricca di increspature. L’atmosfera pare quasi beethoveniana (a me richiama alla mente l’Andante con moto del 4° concerto dell’op.58…) Segue una sezione di 8 battute in DO maggiore, molto più mossa, per poi tornare al minore, con 4 battute di quasi-cadenza del solista. 

Le quali introducono il Rondeau, Allegro agitato (4/4) in DO minore. La forma è piuttosto semplice: A-B-A-C-A, con le sezioni sempre ripetute (più o meno variate). Il soggetto principale è costituito da una frase che sale (prima al SOL, poi al MI) per discendere al DO e da un controsoggetto - ripetuto due volte – che si limita a salire da DO a LAb prima di tornare alla tonica:

L’orchestra risponde con cadenze marziali, che paiono anticipare Paganini, come detto. I soggetti B e C sono esposti nelle due relative: MIb maggiore il primo, DO maggiore il secondo, che lascia spazio anche ad una cadenza virtuosistica, che precede e introduce la chiusa ancora in DO minore.
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Anche qui, straordinaria la prestazione di Elena Piva, letteralmente portata in trionfo alla fine e che, per nulla stanca dopo il doppio massacrante impegno, regala anche un bis!

Chiude il concerto un ritorno a fine ‘700 con la Sinfonia cosiddetta degli addii di Haydn, ascoltata qui più di un anno fa con Adam Fischer. Si potrebbe anche chiamare la sinfonia dello sciopero, benché il parallelo fra il bonario e accomodante Josephus e la irriducibile pasionaria Camusso suoni assai improbabile (smile!)

La sceneggiatura è sempre la stessa, con il palco al buio e i lumi sui leggii che alla fine vengono via via spenti dagli orchestrali che se ne vanno alla spicciolata: il tutto sempre fatto con un certo buon gusto e senza parodia.

Bella l’ultima immagine degli strumentisti che rientrano e si schierano tutti al proscenio per ricevere, col Direttore, il meritato applauso del (non oceanico) pubblico.

Per il concerto n°31 resterà sul podio Flor, ma con un programma sontuoso.

20 aprile, 2012

Orchestraverdi – concerto n°29


Brahms è al centro dell’appuntamento settimanale de laVerdi. Sul podio Aziz Shokhakimov, una specie di Battistoni uzbeko (smile! hanno la stessa età… ma pare che nessuno si chieda da chi sia raccomandato!)

Il quale Aziz (un nome che richiama alla mente personaggi peraltro assai poco raccomandabili…) apre il concerto con la Tragische Ouvertüre (anche qui: un nome, un programma!) Che principia con due poderosi accordi sulla scala di RE minore: dominante/tonica – sopratonica: solitamente si cita l’incipit del beethoveniano Coriolan come riferimento ambientale del brano; personalmente tendo a sentirci di più quello del Manfred del grande mentore, sponsor ed amico Schumann.

Di certo non esiste un preciso soggetto letterario dietro a questo lavoro che – nella più classica applicazione delle teorie Hanslick-iane sulla musica che deve rispondere esclusivamente a se stessa e solo in se stessa trovare ragion d’essere – ci presenta un Actus tragicus di carattere puramente speculativo. Questa piange, mentre quell’altra ride pare dicesse Brahms alludendo all’Akademische Fest-Ouvertüre, composta quasi contemporaneamente nell’estate del 1880: quella peraltro era nata dietro stimoli extramusicali e conteneva persino precisi riferimenti ambientali (Gaudeamus Igitur…)
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La Tragische ha una struttura riconducibile a quella di un movimento in forma-sonata, pur con parecchie libertà. Vi si possono comunque individuare le tre classiche sezioni (Esposizione – Sviluppo – Ricapitolazione) seguite da una Coda. Dopo i due pesanti accordi che la aprono, l’esposizione presenta i due canonici temi: il primo nella tonalità di base (RE minore) e il secondo nella relativa FA maggiore.

Il primo è a sua volta scomponibile in tre motivi: uno ascendente da dominante a dominante, con ricaduta su sopratonica; un secondo che scende da sopratonica a dominante, ricadendo ancora sulla sopratonica sottostante; il terzo che è un ritmo di marcia con increspature trocaiche:


Il tema viene subito ripetuto a piena orchestra e poi ulteriormente sviluppato da nuovi motivi in archi e fiati (derivati da quelli principali) e chiude su una pesante riproposizione degli accordi di apertura. Una transizione lunga e calma – sulle quinte vuote di fagotti  e corni – vede impegnati gli oboi in lente ma brevi scale ascendenti, poi tromboni e tuba che fanno il loro apparire, insieme all’ottavino: tutti richiamano l’intervallo di quarta degli accordi iniziali. L’atmosfera muta quindi al FA maggiore, per l’ingresso del secondo tema (nell’ipotesi Manfred, una fugace apparizione di Astarte?) dove non è difficile scorgere tracce della serena, pastorale seconda sinfonia:

La serenità peraltro non dura molto, e nel suo successivo evolversi il tema subisce diverse modulazioni, con presenza di figurazioni trocaiche e successioni di accordi, caratteristiche di molti sviluppi brahmsiani. Un ritorno del primo tema porta alla conclusione dell’esposizione, sui due pesanti accordi che l’avevano aperta.

Lo sviluppo inizia sommessamente, sul rullo del timpano, con le prime due sezioni del primo tema, negli archi. Dopodichè è la terza sezione (marziale) – in tonalità LA minore - che viene a costituire la parte più corposa dello sviluppo, occupandolo praticamente tutto. Suonata a tempo assai lento (la metà rispetto all’Allegro ma non troppo iniziale) prima dagli strumentini, poi dagli archi, poi da tutta l’orchestra, ha proprio l’aspetto di una marcia faticosa (qualcosa di simile a quella dei briganti nel terz’atto di Carmen!) Viene sottoposta a diverse modulazioni lungo il circolo delle quinte (LA-MI-SI-FA#) e, tramite una lunga scala discendente, sfocia in modo assai drastico nella ricapitolazione.  

Questa inizia con le quarte ascendenti e discendenti negli strumentini e nei violini, mentre gli archi bassi ricordano – dapprima in SI minore, su richiami dei corni - la prima sezione del tema principale. Si torna al RE minore d’impianto, sempre con spezzoni del primo tema negli archi e con i fagotti a creare un’atmosfera piuttosto pesante. Che miracolosamente muta in gloria, con un grandioso corale dei corni in RE maggiore, supportati da tromboni e tuba, che ricorda da vicino il finale della prima sinfonia:

Applicando i sacri canoni della forma-sonata, ecco che il secondo tema (nell’esposizione apparso in FA maggiore) ricompare adesso nelle viole, adeguandosi (volente o nolente, smile!) all’imperante RE. Il tema è ripreso dai fiati, poi si torna a RE minore, con gli scatti di ottave discendenti in archi e strumentini, contrappuntate da ottave ascendenti nei corni. Poi ancora il secondo tema, che compare in SOL minore, prima del passaggio alla coda.  

Qui ancora il primo tema viene esposto in sequenze ascendenti, a partire dal FA# minore, dagli archi bassi e fagotti, poi ecco gli accordi iniziali, quindi la sezione marziale del tema anche negli ottoni. Ancora il primo tema, fortissimo in RE minore, in tutti gli archi, poi ribadito, a velocità dimezzata, dai fiati. Ora l’atmosfera si fa rarefatta, e spezzoni del tema principale compaiono ancora negli archi bassi, supportati subito dai fiati. Una lunghissima scala discendente che scende dai flauti giù giù fino ai fagotti sembra far svanire il tutto nel nulla.

Ma d’improvviso, ecco gli archi (a partire dai medio-bassi) scatenare scale ascendenti su cui i fiati innestano il motivo marziale del primo tema. Che dopo 5 reiterazioni – a distanze accorciantesi – porta ai cinque pesantissimi accordi – l’ultimo tenuto, su corona puntata – dell’intera orchestra.
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Qualche piccola indecisione dei corni all’inizio non ha danneggiato più di tanto l’esecuzione, che il capelluto Aziz ha diretto con veemenza. Lui, come molti giovani, è assai esuberante, ha un gesto apparentemente sporco, a volte si agita gratuitamente, insomma: cerca di attirare l’attenzione su di sé… come sta facendo, a quanto pare, da quando aveva 6 anni!
  
La parte centrale della serata è però tutta di Silvia Colasanti (di cui già nel novembre 2009 laVerdi aveva ospitato il Canto d’Atropo per violino ed orchestra): si tratta di una giovane compositrice di cui siamo i primi in assoluto ad ascoltare – roba da raccontare ai nipotini! – il Concerto per violoncello. Il quale ha ben due sponsor: l’Orchestra Verdi, che lo ha commissionato, e il solista lituano David Geringas, classe 1946, che ne è stato l’ispiratore.

Cosa racconteremo ai nipotini? Per metterli a loro agio potremo pontificare che …il linguaggio possiede un’innegabile inclinazione eidetica… con un carattere ipotipico… e plasticità iconiche… di iconicità sonora… che aggiunge un nuovo lessema… che rammemora gli elementi figurali… con un moderato ductus agogico (strasmile!… e grazie a Guido Barbieri, mannaggia  a lui, e a ciò che ha scritto sul programma di sala!)  

A parte le battute, un pezzo assolutamente digeribile, segno che i vari Stockhausen e Cage non hanno poi fatto danni irrimediabili alla nostra civiltà musicale (!)

Infine il pezzo forte della Prima di Brahms, già ascoltata qui dalla bacchetta di Zhang Xian poco più di un anno fa. L’orso uzbeko, che la dirige a memoria, deve per forza metterci del suo valore aggiunto (sennò che ci sta a fare su quel podio?) così si  inventa subito un insopportabile rallentando (da battuta 9) che avrà fatto rivoltare l’Autore nella tomba. Poi, sempre per distinguersi dall’anonima folla dei direttori, fa venire quasi sempre in primo piano anche ciò che dovrebbe stare in background, a fare da riempitivo. Nel Finale, l’Allegro non troppo, ma con brio assomiglia vagamente alla marcetta dei sette nani, tutti impettiti e rigidi come baccalà (smile!)

Insomma, come parodia non c’è male. Ma i professori mostrano di essere formidabili anche nel suonare le parodie! Così si meritano grandi ovazioni i vari Amatulli, Ciapponi, Mologni, Stocco, Magnani, Santaniello e Grigolato. Quanto al simpatico Aziz, temo che Brahms lo stia rincorrendo per chiedergli i danni (e ri-smile!)

Prossimamente protagonisti l’arpa, serenate e commiati.

18 aprile, 2012

Un po' di Bach al giorno leva il medico di torno...


Ieri sera Jordi Savall è stato ospite, con il suo il suo ensemble di 6 strumentisti del complesso Les Concerts des Nations, del Teatro Valli di Reggio Emilia per una straordinaria esecuzione della bachiana Musikalisches Opfer.

Composta a Lipsia nel 1747 e dedicata al Re di Prussia Federico II il Grande, musicista lui stesso, che aveva proposto a Bach, durante una visita di questi a Potsdam, un tema da sviluppare in una fuga. Cosa che Bach fece in buona parte lì, sul posto e seduta stante, e che completò nel giro di qualche settimana a casa propria. Inviandone poi al sovrano una copia fatta appositamente stampare, e recante questa (apparentemente esagerata) esternazione:


O Sovrano il più benigno, è con la più profonda sottomissione che dedico alla Vostra Maestà un’Offerta Musicale, la cui parte più nobile è opera della Vostra stessa illustre mano…  

Oltre all’invenzione musicale, Bach mostra di possedere anche quella… letteraria, inventandosi per la speciale occasione un acronimo di Ricercare (l’antica forma di canto fugato che è impiegata due volte nella Opfer: Regis Iussu Cantio Et Reliqua Canonica Arte Resoluta (Tema ordinato dal Re e sue variazioni sviluppate secondo l’arte del canone).

La strabiliante abilità di Bach nell’arte del contrappunto e della fuga (Die Kunst der Fuge seguirà di poco la Opfer e sarà il suo estremo lascito) emerge ad ogni piè sospinto. Insieme alla stupefacente padronanza dei procedimenti codificati due secoli prima dai fiamminghi, di cui abbiamo un semplicissimo ma pregevole esempio nel primo dei Canones diversi super thema regium:


Il tema – parte alta della figura - è scritto su un solo rigo, ma definisce sia la voce principale che quella in imitazione, come ci dicono i simboli di chiave, accidenti e tempo posti alla fine del brano in immagine speculare. Ciò significa che la voce in imitazione deve procedere a gambero, dalla fine all’inizio, in contrappunto con quella principale. Il tutto, trasportato su due righi, appare come mostra la parte inferiore della figura. Dove si ha la precisa immagine delle due linee melodiche che si incontrano a metà del cammino, e da lì prendono strade opposte! Che la sovrapposizione delle due voci dia luogo ad un risultato musicalmente non solo plausibile, ma mirabile, è cosa che lascia di sasso! (Qui una strepitosa spiegazione visiva!) E gli altri canoni sono di complicazione (criticità di decifrazione) e di risultato estetico ulteriormente elevati a potenza! Il quinto dei Canones diversi (Per tonoschiude l’esposizione del tema su un tono intero al di sopra di quello di partenza e quindi potrebbe essere ripetuto all’infinito continuando a percorrere le ottave per toni interi. Normalmente si esegue un giro completo, quindi si ripete il tema per 6 volte (DO, RE, MI, FA#, LAb, SIb) chiudendo quando si arriva sul DO un’ottava sopra.
  
La sequenza dei brani è oggetto di dispute, poiché non ci è arrivato un corpus unico originale dell’opera, ma componenti separate. Per la verità un’edizione completa fu presentata già nel 1747 dallo stampatore Johann Georg Schübler, che raggruppava i brani in tre capitoli (uno con i ricercari, gli altri due con i canoni). Tuttavia si è storicamente accettata quella proposta da Alfred Dörffel (Bach Gesellschaft Ausgabe, 1885) che è stata usata, per dire, per le ormai storiche incisioni di Richter, Harnoncourt e Leonhardt. La stessa sequenza è proposta da Hans Gal per l’edizione Bosey, che in più aggiunge una numerazione generale dei brani, o gruppi di brani, da 1 a 9. Tale sequenza è stata giustificata di recente (1980) dagli studi di Ursula Kirkendale, che sostiene sia stata decisa da Bach seguendo nientemeno che i principi della Institutio Oratoria di Quintiliano (che Bach effettivamente conosceva).
  
Savall struttura invece la sua Offerta in modo assai personale (e molti lo criticano per questo, ma già 40 anni prima di lui Karl Münchinger si era preso analoghe libertà) rispetto alle tradizionali versioni pubblicate ed eseguite. Lo specchietto che segue riassume le principali differenze fra l’edizione di Dörffel e la struttura di due esecuzioni di Savall, quella registrata da tempo su CD, ed ascoltabile sul tubo e quella eseguita ieri. La colonna di sinistra riporta i brani nella sequenza di Dörffel, cui ho aggiunto la numerazione di Gal, usata poi come riferimento nelle due colonne di Savall:



La presentazione del tema regio (che viene anteposta da Savall al Ricercare a 3, suonato come di consueto dal clavicembalo, e che inizia già di suo con l’esposizione del tema) è affidata al Flauto traverso, chiaro omaggio allo strumento prediletto dal regale dedicatario, che aveva come maestro il massimo flautista del tempo, tale Johann Joachim Quantz.

Il Ricercare a 6 viene ripetuto ed è collocato in modo da chiudere due immaginarie parti della Opfer, mentre il lunghissimo Trio viene anticipato e posto praticamente al centro dell’opera. Nella presentazione dei Canoni, talvolta Savall fa eseguire inizialmente il tema da un singolo strumento, e poi via via introduce le altre voci (per poi magari farle progressivamente tacere) animandone con ciò ulteriormente l’atmosfera.

Altre peculiarità di questa esecuzione sono le ripetizioni dei da-capo nei canoni: per tradizione si tende ad eseguire due volte la sezione intera e una terza volta la parte della sezione fino alla pausa (corona puntata, o altro punto di cadenza conveniente). Savall invece esegue assai più ripetizioni, a volte fino a cinque. Inoltre, nel canone Per tonos lui esegue il tema per sette volte (ripetendolo anche sul DO superiore e… ritoccando la chiusa, per restare sul DO).

Il tutto, aggiungendosi alla doppia presentazione del Ricercare a 6, alle due versioni del quarto dei Canones diversi e del Quaerendo invenietis, porta il tempo di esecuzione abbondantemente oltre l’ora, rispetto ai circa 45-50’ delle interpretazioni che si attengono alla struttura tradizionale.  

L’ensemble – oltre allo stesso Savall che suona due diverse viole da gamba, grande e piccola – comprende altri sei strumentisti di: clavicembalo (Pierre Hantaï), flauto traverso (Marc Hantaï), due violini (Riccardo Minasi e Mauro Lopes Ferreira), violoncello (Balázs Máté) e violone (Xavier Puertas).  

Una parentesi sull’altezza dei suoni. Le esecuzioni come questa sono fatte con strumenti d’epoca, o comunque accordati sul diapason (Kammerton) dei tempi di Bach, che era attorno ai 415Hz, circa un semitono più basso dell’attuale (440Hz). Ciò fa sì che il DO (nella cui tonalità è espresso il Thema regium) suonato da quegli strumenti equivalga ad un SI emesso da strumenti moderni. Se si ascoltano tutte le registrazioni fatte con strumenti d’epoca (o surrogati), come quelle citate di Harnoncourt e Leonhardt, ma anche quella dello stesso Savall (così come l’esecuzione di ieri) si può notare quel fenomeno. Invece il citato Münchinger, impiegando un’orchestra da camera moderna, suona l’Opfer con l’altezza del DO di oggi (che Bach prenderebbe per un DO#!) 

A parte la disposizione dei brani, su cui si può eccepire, l’esecuzione è stata davvero eccelsa, in un teatro quasi esaurito dove non si sentiva volare una mosca (salvo qualche isolata… espettorazione da primavera bagnata). Peccato che i bis abbiano un po’… guastato l’atmosfera: ancora ancora il Bach della seconda suite (minuetto e badinerie) ma il resto era proprio alieno al clima della serata!

C’è chi sostiene – e con solidi argomenti, derivati dalla minuziosa analisi della partitura, confrontata con altre della sterminata produzione bachiana – che l’Opfer, dietro l’apparenza laica (la dedica al Re Federico, che oltretutto non era certo uno scrupoloso osservante) celi in realtà contenuti altamente e profondamente religiosi (affini del resto alla personalità dell’Autore): l’Offerta sarebbe l’Offertorio liturgico, il Re sarebbe quello dei Cieli, nel Ricercare a 6 si ritroverebbe un riferimento criptato ai 10 Comandamenti, e altri simili indizi.

Mah, che la matrice sia laica o religiosa, una cosa è certa, almeno per me: ascoltare questa musica (soprattutto se suonata come si deve) ti porta in paradiso, qualunque cosa si voglia intendere con quel termine!