affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

16 aprile, 2011

La (solita?) Turandot alla Scala





Ieri sera alla Scala quarta rappresentazione di Turandot, già miracolosamente passata indenne dalla prima di domenica scorsa (questa sì che è una notizia, smile!)

Opera che ha fatto nascere luoghi comuni e leggende metropolitane e soprattutto la ricorrente domanda: ma che finale fanno? Un po' come accade per Boris (l'ur? quale ur? il primo o il secondo? quello di Rimsky? no, di Shostakovich… anzi no, di Lamm) oppure la Carmen (edizione Guiraud o Oeser? no no, Didion… o forse Smith!) o ancora il Tannhäuser (di Dresda o Parigi? ah sì, quello di Parigi rivisto a Vienna) e così via investigando.

Questa - diretta da Gergiev - è una Turandot tradizionale, nel senso di statisticamente più eseguita: quella con il finale II di Franco Alfano (Alfano chi? l'ammazza-processi di Berlusconi? smile!) E per una semplice ragione: è l'edizione ufficiale di Ricordi. Gli altri finali (compreso l'Alfano I) sono difficili da recuperare e quindi proposti solo da qualche intraprendente Festival, o da iniziative più o meno velleitarie. E dire che ci sarebbe una versione che metterebbe tutti d'accordo!

La produzione è nuova, firmata da Giorgio Barberio Corsetti. Nulla di cerebrale (per fortuna, aggiungo io!) ma anche nulla di particolarmente eccitante. La caratteristica saliente è la mobilità, ma non delle persone, bensì delle cose. Case, ponticelli, palazzi che salgono e scendono senza particolare motivo, forse soltanto per tenere in esercizio i martinetti del sottoscena, ad evitare che arrugginiscano con l'inattività (smile!) In compenso, quando sarebbe servito, ad esempio a far scendere Turandot verso Calaf nella scena degli enigmi, nessun meccanismo viene impiegato e tutto si svolge rasoterra. Dopo l'intervento degli anni scorsi, il fondo-scena del Piermarini si è approfondito di parecchio, ma i registi dovrebbero ricordare che invece gli spettatori sono sempre là dove erano dalla fine del 1700: e che, dalla terza fila di palchi, il nuovo fondo-scena non si vede. Quindi a che serve proiettarci immagini, se un terzo dell'uditorio non le vede?

C'è anche un'idea portante (?!) in questa regìa, che è quella di natura onirica: Calaf si sta solo sognando tutto, e alla fine dorme beato con la benedizione di Turandot&C, contenti di avergli animato la notte dopo una difficile digestione… Orpo!

Vengo alla musica: Gergiev dirige come fosse un russo (smile!) movimentando un po' le cose con qualche fracasso, ma dovendo per la più parte tenere volume basso, affinchè qualcosa di ciò che è cantato in scena arrivi alle nostre orecchie (non parlo dei cori di Casoni, che sanno benissimo come farsi sentire!)

Berti e Guleghina per la verità di voce ne hanno a sufficienza. Il primo se la cava senza infamia e senza lode, mentre la seconda – per me – merita un'ampia insufficienza: stacca appena discretamente i suoi DO acuti, ma per il resto canta (si fa per dire) un incomprensibile grammelot (o forse era proprio cinese antico?) con voce sgradevole e animalesca.

Molto meglio la Kovalevska, una Liù più che decente, che mi è parsa la migliore della serata. E con lei Spotti, che non ha demeritato come Timur.

Chi ha fatto ridere sono Ping, Pang e Pong, e su tutti il Ping di Veccia, che forse qualcuno nelle prime tre file di platea sarà anche riuscito a sentire. Ma pure Casalin e Bosi non hanno scherzato: nel terzetto del second'atto, pur essendo al proscenio, pareva che cantassero immersi in un acquario (o forse erano proprio sul fondo del laghetto blu dell'Honan?)

Anche il povero Ceron, Imperatore per l'occasione, ha faticato a farsi sentire, ma almeno lui ha l'attenuante di essere stato collocato dal regista più vicino al Castello Sforzesco che agli spettatori (a proposito di impiego scellerato del fondo-scena!) Sembra paradossale, ma il prezzemolo Panariello (qui nei panni del Mandarino) ha fatto una figura migliore.

Alla fine nessuna uscita singola (ahi, ahi, coda di paglia?) salvo quella dei due Maestri, giustamente, credo io, acclamati.
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Post scriptum
Che si continui a presentare il finale posticcio e abborracciato di Alfano-Toscanini (conseguenza, del resto, della totale inconsistenza del libretto) è cosa spiegabile soltanto con il degrado della nostra civiltà: il pubblico pagante – oggi cinese in quota rilevante, guarda caso - vuole il lieto fine (ma sarebbe altrettanto contento di un finale macabro, con Calaf decapitato dalla glaciale principessa) e va perciò accontentato, a costo di rigirare per la millesima volta il coltello nella polvere del grande Giacomo. Se n'è accorto persino il regista, che ha fatto salire un terrapieno fra Puccini e Alfano, precisamente su questa pagina, che è anche l'ultima pagina della Turandot autentica:



Il resto, esattamente 60 pagine (402-461) dell'ultima edizione Ricordi (2000) è invenzione di Alfano, oltretutto depurata (da Toscanini&C) di molti improbabili wagnerismi che l'autore di Sakuntala ci aveva infilato, credendo così di interpretare la volontà di Puccini. Ma potrebbe eseguirsi quello – a sua volta vagamente tristaniano, sempre per via di un appunto scritto da Puccini sul 17° dei 23 fogli lasciati sul comodino del letto di morte - di Luciano Berio; o anche quello della zelante americana Janet Maguire; o persino l'ultimo – la Cina è vicina, toh! - di Hao Weiya. Ma perché – già che ci siamo - non commissionarne uno nuovo di zecca al nostro grande Mozart contemporaneo, Giovanni Allevi? E se è difficile mettersi nei panni di Puccini, non c'è proprio nessuno che si provi almeno a mettersi in quelli (postumi) di uno Zandonai o di un Ravel, da più parti indicati come i musicisti più adeguati a compiere l'impresa?

In realtà, la verità è una e dovrebbe ormai essere chiara a tutti, e prenderne atto risolverebbe alla radice il problema del finale: la Turandot è opera che finisce con Liù perché Puccini – o più probabilmente il suo subconscio – aveva preso atto che così dovesse ineluttabilmente accadere. E infatti fino all'ultimo – pur avendo buttato giù parecchi schizzi – il compositore non fece che cincischiare, e con infinita pena, attorno ad un finale che non gli veniva proprio, fra continui rimpalli di responsabilità con i suoi librettisti e laceranti dubbi sulla consistenza drammatica ed estetica del lieto fine e soprattutto della sua necessaria premessa: l'inopinata ed improvvisa virata di 180° nell'atteggiamento di Turandot.

Dunque: Turandot, per 2 atti e mezzo su 3 (i 5/6 dell'opera!) ci appare come una donna (anzi, una ragazzina) fondamentalmente e congenitamente cattiva. Nel primo atto non canta una sola sillaba, ma il suo pollice verso nei confronti del principino di Persia ci basta ed avanza per inquadrarne la sbifida personalità. Nel second'atto perde la tenzone di sapienza con Calaf e, invece di accettarne il verdetto e le relative conseguenze, magari adducendo la solita, ipocrita scusa: lo faccio per dio, non per piacer mio (smile!) va a piagnucolare dal padre, reclamando l'annullamento della prova! Sbeffeggia a tal punto il vincitore Calaf da ottenerne, perso per perso, una prova d'appello (la scoperta della di lui identità). Nel terzo atto la carognaggine della principessa rasenta addirittura l'efferatezza, allorquando Turandot emana un editto che impone a tutti i suoi sudditi – pena la morte, quisquilie! - di scoprire per lei il nome del principe; e i tre porcellini offrono a Calaf escort in eccesso a quante circolano nelle residenze del nostro pluri-prescritto PM, per cercare (inutilmente) di convincerlo a rinunciare al meritato trofeo.

Ebbene, dopo che ha dovuto constatare il proprio completo fallimento, la nostra simpaticona assiste al sacrificio di Liù (scena che muoverebbe a pietà persino Osama bin Laden!) e invece di aprire gli occhi sulla realtà e sulla forza dell'Amore (col che il quadro finale avrebbe sì, allora, una sua piena e nobile giustificazione) rimane ancora e sempre impassibile e sprezzante (statuaria, senza un gesto né un movimento) al punto tale che lo stesso innamorato pazzo Calaf le si avventa contro apostrofandola con Principessa di morte! Principessa di gelo!

Ora ricapitoliamo, manca solo un sesto di opera da completare – tutto il resto è già perfettamente strumentato, e da mo' - ma ancora non si vede il benché minimo spiraglio che possa plausibilmente giustificare il voltafaccia della principessa e il suo miracoloso finale scongelamento: tutt'altro, lei è sempre più ibernata e incarognita! Che fare, una volta scartata la possibilità offerta dal sacrificio di Liù? Inventarsi un filtro magico à la Tristan (era forse questo cui voleva alludere l'appunto di Puccini?) oppure far comparire lo spettro dell'ava Lo-u-Ling che convinca Turandot che non tutti i maschi sono poi così vomitevoli come quel pipistrello che l'aveva violata?

Ecco, in questa situazione, i librettisti del sempre più infastidito Puccini non sanno che pesci pigliare né proporgli - di scongelante - nulla di più e di meglio che una bella ingroppata (stra-smile!) Con la frigida cattivona che – praticamente fatta segno di un mezzo-stupro da parte di Calaf - sbrodola un ridicolo Che è mai di me? e pare convincersi a cedere, arrivando ad ammettere che lei, in fondo, si era già un pochino innamorata fin dal primo incontro. Ma poi torna a rinchiudersi a riccio e ordina a Calaf di andarsene, visto che ha ottenuto – fare sesso con lei? - ciò che desiderava. E così abbiamo questa ulteriore strampalata manfrina, con lui che le rivela il nome, lei che pare volerlo carognescamente buggerare coram-populo, come avesse vinto una gara regolare, e infine la sorpresa (ma per favore…) della dichiarazione d'amore che consente la chiusa in gloria e magna pompa.

E Puccini, secondo voi, era uno disposto ad accettare questo guazzabuglio, oltretutto dopo il poco onorevole precedente della Fanciulla? Forse preferì davvero togliere il disturbo, prima di fare una penosa figuraccia.

Al proposito mi pare fulminante questa considerazione che Michele Girardi ha proposto nella sua introduzione all'Opera, comparsa sul programma di sala de LaFenice, pochi anni orsono: …un compositore che non voleva morire artisticamente, per non morire fisicamente, avendo scelto una principessa frigida per comunicarlo a tutto il mondo.

Però fu proprio la frigidezza della principessa a creare l'ultimo problema – irresolubile, e perciò fatale - della sua vita. Ma per ragioni di bassa cassetta ci si continua invece a propinare il finale da avanspettacolo, della serie: dì la verità che hai goduto, zoccola!

Ecco perché, esalato il MIb di archi e ottavino, personalmente preferirei che il Direttore posasse la bacchetta, come fece alla prima assoluta proprio Toscanini, pentitosi (per poi contro-pentirsi il giorno dopo) di aver avallato un misfatto.
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15 aprile, 2011

L’OrchestraVerdi porta l’Apocalisse a Monza


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Niente paura: non si tratta di un'azione di commando anti-lega. Ma di un concerto straordinario a scopo benefico de laVerdi che ieri, nel Duomo di Monza e sotto la bacchetta dell'autore, ha eseguito l'oratorio Apokàlypsis di Marcello Panni. Opera presentata per la prima volta a Spoleto per il Festival del 2009. Qui il prezioso video-RAI di quella serata.

Stessi interpreti principali – voci recitanti - anche ieri: Andrea Giordana e Sonia Bergamasco. Orchestra priva di archi, ma arricchita di assai insolite percussioni. Oltre al Coro di Erina Gambarini, le voci bianche (rossocrociate!) di Brunella Clerici e i quattro solisti Carola Gay, Giuliana Scaccabarozzi, Massimiliano Tarli e Marco Calabrese.
 
 
Immancabile e preziosa la presenza del Cardinale-musicologo Gianfranco Ravasi (la musica non descrive, evoca: davvero da incorniciare!) selezionatore dei testi giovannei, ad introdurre le due parti dell'Oratorio. Che tende a cogliere, dell'apocalittica visione del mondo di un cristiano del primo secolo - perseguitato come tutti i cristiani da Domiziano e internato a Patmos - gli aspetti positivi, e specialmente il messaggio di speranza che vi è – magari un po' cripticamente – contenuto. Visione e messaggio perfettamente appropriati anche per questo nostro mondo di inizio di terzo millennio, che per molti versi sembra ben avviato a riprodurre alcuni fenomeni che caratterizzarono quello di 2000 anni or sono (della serie: la storia non insegna proprio nulla, smile!)

Le due parti dell'Oratorio sono suddivise in sette quadri (4+3) per una durata totale di meno di un'ora. La prima parte contiene un quadro introduttivo, in cui Giovanni – al secolo Andrea Giordana – presenta se stesso per presentarci la sua visione; sono flauti e clarinetti a dettare una specie di motto (un motivo che parte dal RE# per scendere, quasi cadendo, sul SI naturale, e di qui in una specie di baratro rappresentato dal sordo rutto della tuba). Preceduto dai tromboni bassi, che contrappuntano il motto con una sorta di corale in SOL, entrano le voci bianche a supportare il grido di Giovanni che annuncia la gloria di Cristo.
 
 
Ora Giovanni narra della voce di tromba che a Patmos lo ha chiamato e invitato a scrivere la sua testimonianza: e i quattro solisti contrappuntano sinistramente le parole dell'Apostolo, invitato a scrivere il suo Libro, da inviare alle sette Chiese dell'Asia Minore.
 
 
Qui inizia la sequenza dei settenari: per prime le sette lettere. L'opera accenna a due di esse, la prima ad Efeso, alla cui lettura segue nel coro e negli ottoni un pesante pedale di DO. L'ultima lettera riguarda Laodicea, la tiepida (ti vomiterò dalla mia bocca!) anche qui sostenuta da coro e ottoni, oltre alle percussioni, con una cupa melodia che spazia da DO a FA, chiudendo a REb.

Si passa poi al terzo quadro: i sette sigilli del libro della Vita. Introdotto da un martellante ritmo di percussioni, risentiamo il motto iniziale (RE#-SI) che accompagna la sfida dell'Angelo a chi saprà infrangere i sigilli. Ed ecco che, sull'annuncio dell'impresa – compiuta dal leone di Giuda - l'incipit del motto sale di tre semitoni, al FA#.

All'arrivo dell'Agnello che aprirà i sigilli i cori cantano in suo onore l'inno nuovo, in un diatonico LA maggiore. Subito dopo, le voci bianche, che rappresentano gli Angeli, accompagnate qui dalla cornamusa, e poi tutti i cori intonano la seconda parte dell'inno, in un solare SOL maggiore!

Spezzati i sigilli, la macchina del tuono (l'agitazione di una semplice lamiera appesa ad un trespolo) e le due ruote giganti accompagnano la liberazione dei quattro cavalli (bianco-potere, rosso-guerra, nero-fame, verdastro-morte) che imperversano come flagelli dell'Umanità.

E infine – alla rottura del settimo sigillo - ecco un corno naturale (LA-RE) rappresentare le sette trombe che annunciano cataclismi (invero… apocalittici). Il terzo dei quali è la stella Assenzio che cade sulla terra e inquina e avvelena le acque del pianeta e i suoi abitanti.

Ma da ultima, la settima tromba annuncia il regno di Dio; e qui fa il suo teatrale ingresso Sonia Bergamasco, che attraversa parte della navata per raggiungere la sua postazione. Narra l'apparizione della donna incinta minacciata dal drago dalle sette teste, il satana che viene poi precipitato sulla terra dagli angeli di Michele. E la gioia per la vittoria di Cristo è intonata da una delle soliste, ancora con accompagnamento di cornamusa e ottavino, su una leggera melodia in RE maggiore, che chiude la prima parte dell'Oratorio.

Dopo la ricomparsa di Monsignor Ravasi per introdurla appropriatamente, ecco la seconda parte. Che inizia con una quarta materializzazione del fatidico numero sette: le sette coppe dell'ira divina. Riudiamo qui il motto iniziale (RE#-SI) che fa da pedale al racconto dei due recitanti, contrappuntato dagli ottoni e dal coro con linee melodiche indipendenti, a creare via via consonanze e dissonanze, mentre un ostinato martellare di tamburo prepara l'arrivo dei sette flagelli, ancora sostenuto dalle percussioni, macchina del tuono inclusa. Il quadro si chiude sul lugubre suono dei gong.

Il sesto quadro presenta la condanna e la caduta di Babilonia. La fine della città, grande quanto degradata (si tratta in realtà di Roma…) è qui simbolizzata da un motivo in RE, cantato dal coro su versi in lingue diverse, caratterizzato da un ritmo che pare un misto di samba e reggae, quasi a sbeffeggiare la fallace ed effimera potenza della città - che ridendo e scherzando andava incontro alla propria catastrofe - ora colpita dalla punizione divina. Alcuni schianti, in FA, dei corni sottolineano la disperazione di coloro che con Babilonia avevano fornicato ed ora la vedono ridotta in cenere. Una campana riprende quel FA e introduce l'ultimo quadro: la nuova Gerusalemme, la speranza che pare qui agitarsi languidamente nella melopea del clarinetto, che chiude l'Oratorio.

Ecco un'opera che mostra come ancor oggi si possa fare della musica, e del teatro anche, di alto livello e di seri contenuti. Meriterebbe di certo più pubblicità ed esecuzioni. Complimenti quindi a tutti coloro che ce l'hanno fatta conoscere ed apprezzare dal vivo.
 
 
Per quanto riguarda laVerdi, per Pasqua torna Bach con una grande Passione.
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12 aprile, 2011

Pappano e una grande Cecilia alla Scala


Ieri sera i santi romani della Cecilia, guidati da Antonio Pappano, sono stati ospiti della Scala per un Concerto benefico, a favore della CRI. Teatro non propriamente esaurito, ma questa volta gli assenti hanno avuto decisamente torto.

Qualcuno forse ricorderà che esattamente un anno fa una analoga visita già programmata da tempo (con la Seconda mahleriana in locandina) venne inopinatamente cancellata per non disturbarne un'altra, evidentemente considerata di priorità superiore (parlo del forestale ritorno di Abbado). Poi il destino (o qualcos'altro, per chi non gradisce gli eufemismi) ci mise lo zampino e così i milanesi, dalla possibilità di ascoltare due Auferstehung interpretate a breve distanza di tempo dalla prima orchestra italiana (guidata da un italo-albionico immigrato in Italia) e dall'orchestra del primo teatro italiano (guidata da un italiano che l'ha abbandonata da tempo per emigrare fra i crucchi) si ritrovarono con un pugno di mosche.

Ecco, la visita di ieri era una specie di risarcimento per il danno subito. E che risarcimento, accipicchia. Schumann-Brahms, un'accoppiata tanto classica quanto corposa, due cosucce proprio da niente: la Quarta e il Requiem!

Con Schumann si ha subito l'idea del valore di questa Orchestra (disposta precisamente secondo il layout tradizionale tedesco, violini secondi al proscenio e archi bassi al centro-sinistra) compatta in ogni sezione, suono chiaro, pulito e senza sbavature (gli ottoni hanno subito modo di mettere in mostra le loro qualità) e del suo Direttore, il cui gesto può magari sembrare goffo, ma dev'essere assolutamente efficace, a giudicare dai risultati. Una Quarta tirata tutta d'un fiato, con punte di diamante nella Romanza, con oboe e primo violino in bella evidenza, e nello strepitoso Presto conclusivo, dove il suono sale progressivamente dagli strumenti bassi (strepitosa qui la prestazione di contrabbassi e violoncelli) a quelli alti, come una serie di ondate successive.

Dopo l'intervallo arriva anche il coro di Ciro Visco, in uno con i solisti Rebecca Evans e Peter Mattei, per deliziarci con il brahmsiano Ein Deutsches Requiem. Le cui note hanno risuonato ieri a Milano dopo aver riempito di sé sabato e domenica l'Auditorium di Renzo Piano, prima di tornarvi ancora questa sera stessa.

Un Requiem tedesco: Brahms in effetti lo pensò come Una specie di Requiem; e nemmeno tedesco, ma semplicemente… umano! Che l'ispirazione musicale sia venuta da Bach non stupisce affatto (Mendelssohn aveva ormai resuscitato il grande Johann Sebastian) ed è stata ammessa candidamente dallo stesso Brahms, che rivelò di aver preso spunto per i temi del primo e secondo brano da un famoso corale di Bach, normalmente individuato come Wer nur den lieben Gott (quello della cantata BWV93). Il motivo è però rintracciabile prima ancora in un'altra cantata, la BWV27 (Wer weiss, wie nahe mir mein Ende?):

Quest'ultimo testo si avvicina fra l'altro in modo assai chiaro a quello del N°3 del Requiem: Herr, lehre doch mich, dass ein Ende mit mir haben muss.

La radice dello stesso tema si trova anche nel famoso Inno dell'Imperatore, musicato da Haydn in un quartetto e oggi Inno nazionale tedesco. E Brahms la richiamerà ancora vagamente, nel suo secondo concerto per pianoforte.

E non c'è dubbio che Brahms abbia anche pensato a Schumann (che aveva incluso un Requiem nei suoi incompiuti programmi): è stato già notato il richiamo ad un passo del Paradies und Peri nella seconda sezione del N°2:


Ma il momento (per me) più emozionante dell'intero Requiem è (nel N°3) il passaggio dal Nun, Herr, wes soll ich mich trösten (Adesso, Signore, con chi mi debbo consolare?) - ripetuto in piano dopo essere stato gridato in fortissimo - al canone di Ich hoffe auf dich (Io ripongo la mia speranza su di te). È il passaggio da una domanda angosciosa, quasi sconfortata, alla speranza – appunto - nel Creatore:
E che introduce la successiva fuga di proporzioni gigantesche, su Der Gerechten Seelen sind in Gottes Hand (Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio).

Ma a proposito di fughe colossali, come non restare colpiti ed ammirati da quella, in SIb maggiore, principiante con Die erlöseten des Herrn (I redenti dal Signore) che chiude il N°2. E poi da quella in DO maggiore, che conclude il N°6: Herr, du bist würdig zu nehmen Preis und Ehre und Kraft (Signore, tu sei meritevole di ricevere elogio e onore e potenza). Veri e propri monumenti eretti ad imperitura gloria di una stagione della civiltà musicale occidentale, anzi mitteleuropea, che non ha (for the time being) uguali al mondo.

Si è giustamente scritto che il Requiem brahmsiano è distante le mille miglia da quelli cattolici, tutti incentrati sul tremendo - e assai poco divino, diciamolo chiaramente - Dies Irae (ecco, se Dio è soggetto all'ira… ma che c. di dio è?) e non per nulla nel N°6 Brahms musica versi del tutto lontani dalla liturgia cattolica:

Poichè la tromba suonerà,
e i morti saranno resuscitati
incorruttibili,
e noi saremo trasformati.
Allora si adempirà
la parola, che sta scritta:
La morte è divorata nella vittoria.
Morte, dov'è il tuo aculeo?
Inferno, dov'è la tua vittoria?

(Peccato che Lutero non ce l'abbia fatta a valicare le Alpi, smile!!!)

Ecco, musica come questa sa conciliare come null'altro fede e ragione, anelito al trascendente e orgogliosa rivendicazione delle straordinarie prerogative dell'Uomo. Merito di Pappano, Visco e dei loro eccezionali musicisti, oltre che degli impeccabili Evans-Mattei, di averci emozionato ancora una volta ascoltando questo capolavoro. Alla fine grandi ovazioni per tutti (con qualche isolata disapprovazione per il solo Pappano? Forse c'era qualcuno dai gusti troppo raffinati o dal cuore troppo freddo…) Certo è che alla Scala non capita spesso di ascoltare musica a questi livelli.

08 aprile, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 30


Per l'appuntamento del concerto n°30 abbiamo un trio di Autori e composizioni di fine '800. Sul podio il 47enne John Gunnar Rafael Storgårds, che si aggiunge alla nutrita falange dei direttori finnici che vanno oggi per la maggiore.

E in omaggio alla sua Suomi, ecco l'antipasto di Sibelius: l'OP.16, riscritta per tre volte, dalla prima versione del 1894 fino a quella del 1903, chiamata Vårsång (Canto di primavera) in FA maggiore. È il periodo in cui il Sibelius trentenne comicia a farsi largo come compositore e soprattutto viene gratificato di un generoso vitalizio statale, che gli permetterà poi di vivere più che decentemente, fino alla venerabile età di 92 anni, a carico del pantalone finnico, in cambio di qualche pretenziosa ed anacronistica sinfonia e di musiche di circostanza. E chiamalo stupido!

La Vårsång è una lunga melopea, aperta dall'esposizione del tema principale, in FA:


Che poi viene sviluppato, con moderate modulazioni, per il resto del brano; e che sembra volerci trasmettere sensazioni che si provano al cospetto di un ampio e solitario paesaggio, quando la natura si risveglia dal torpore invernale; fino ad esplodere nel suo pieno fulgore, in fff, con abbondante scampanìo, su una modulazione napoletana a RE bemolle. Nella quale tonalità l'incipit del tema si fa risentire, piano, un'ultima volta, prima del ritorno a FA maggiore per la trionfale, quanto pesante ed enfatica chiusa.

Vien da chiedersi perché il burbero Jean abbia rinunciato ad impiegare l'arpa (o se ne sia dimenticato…) in un pezzo così lirico. Che dura circumcirca 7 minuti, e di questo siamo tutti grati a lui. Oltre che al suo connazionale direttore e soprattutto agli orchestrali de laVerdi, per averci sapientemente indorato la pillola.

Il verdiano residente Radovan Vlatkovic arriva poi ad interpretare il Primo Concerto per Corno, composto da un Richard Strauss non ancora diciottenne, e dedicato originariamente al paparino Franz Joseph, esimio cornista a Monaco, oltre che feroce anti-wagneriano (dal che si deduce che il mago di Lipsia dai cornisti pretendesse assai!) Però anche il giovine Richard, che wagneriano lo diventerà solo più tardi, non scherza di sicuro con il solista, a cominciare dagli accidenti messi in chiave; nell'Andante centrale sono il massimo possibile: sei, LA bemolle minore (e nella sezione centrale: 5 diesis, MI maggiore!)

Il corno è di sicuro uno degli strumenti più affascinanti (oltre che difficili da suonare) e il concerto di Strauss richiede invero doti virtuosistiche fuori dal comune. Qui una fulminante guida all'esecuzione - proposta da un professore che oggi occupa il posto del dedicatario del concerto - che presuppone l'impiego del moderno corno a pistoni in FA (ai tempi di Strauss, che lo ha prescritto in partitura per il solista, era una novità) con valvola di bypass a SIb.

Vlatkovich è a sua volta un'autorità e proprio sul concerto di Strauss lo vediamo qui impegnato come titolare di master-class.

Già nel tema dell'Allegro si distingue distintamente il piglio deciso, quasi weberiano, del futuro creatore di cosucce quali il Rosenkavalier:
A proposito: se Sibelius fu un mangia-pane-a-tradimento, va detto che anche Strauss fu un uomo venale come pochi: si battè ferocemente per il riconoscimento dei diritti d'autore (con quelli di Salome si costruì la sontuosa villa a Garmisch) e non scrisse una sola nota senza averci prima costruito attorno un profittevole business-case. Però, accidenti, lui aveva qualche dono di natura che all'alcolizzato finlandese faceva totalmente difetto!

Tornando al nostro corno, l'Allegro si chiude con due arpeggi degli strumentini che, senza soluzione di continuità, vengono ripresi dai violini per introdurre l'Andante, come detto in LAb minore, dove il corno sembra voler farci sognare, e poi in MI maggiore, un passaggio più eroico, prima del ritorno del tema iniziale.

L'attacco del Rondò finale ci riporta allo spirito originario dell'Allegro:


Chiude una strepitosa stretta (con bravura) fino alla discesa dominante-tonica che suggella il tutto.

Il grande Radovan è autore di una prestazione eccezionale: legati pulitissimi, note tenute perfettamente in piano, virtuosismi mozzafiato. Insomma, una cosa grande. E come bis ci regala questa cosuccia che Rossini scrisse nientemeno che per 4 corni!

Infine la Prima di Mahler, sinfonia che sta diventando più eseguita dell'Eroica, a conferma che l'Autore, quando diceva (così dicono) il mio tempo verrà, ci credeva sul serio. Nel quadro del programma di divulgazione mahleriana, l’opera è stata analizzata, prima del concerto, da un puntuale intervento di Cesare Fertonani.

A differenza del rivedere per la 50a volta Indovina chi viene a cena, dove uno ormai non solo ricorda i dialoghi a memoria, ma sa anche perfettamente prevedere l'increspatura di sopracciglia di Spencer Tracy quando scopre la verità… ascoltando per la 50a volta questa sinfonia uno può sempre porsi domande epocali (aggettivo oggi in voga, smile!) del tipo: ma il LA iniziale, Dellingshausen&C lo faranno proprio con tutti gli armonici, o se ne mangeranno una parte? E poi il Direttore farà il ritornello del primo movimento, ri-passeggiando sui prati di buon mattino, o tirerà dritto, per sopraggiunti crampi ai garretti (o allo stomaco)? E la Viviana sarà in vena come al solito per centrare come un cecchino tutti quei RE-LA dei timpani, disseminati in modo paranoico nelle ultime 12 battute del primo movimento? E fra-martino-campanaro sembrerà davvero una filastrocca (come sostengono debba essere alcuni soloni mahleriani) o un serio tema da sinfonia, come molti direttori tendono a presentarlo? E i corni nel finale - si accettano scommesse - quante stecche faranno?

Insomma, la musica è (quasi) l'unica delle arti dove ogni volta si deve ricostruire da zero (meglio: dall'arida carta) l'opera che il compositore aveva immaginato e poi trascritto imperfettamente (molto imperfettamente) su quell'arida carta. E questa è la sua croce-delizia, oltre che fonte di reddito per addetti-ai-lavori (critici in prima fila) o pretesto per semplici tifosi che abbisognano di argomenti per discussioni da bar… o da blog (smile!)

Qualche citazione sul Titano da giudizi (di incisioni) di un famoso critico albionico:

Kubelik ci tirava fuori il grottesco, l'assalto al cielo, il romantico.
Horenstein aveva un gran senso dello spazio e aggiungeva mistero.
Walter, nel terzo movimento, riconosce l'elemento parodiante, ma va ben oltre: mescolandovi un pizzico di tragedia per rendercelo ancor più significativo.
Nel Trio dello Scherzo, Barbirolli riesce a rimanere a pochi passi dal manierismo e l'effetto è quello di un commento ironico su ciò che immediatamente precede e ciò che seguirà.
Bernstein, nello Scherzo, non sa resistere a deliri ed esagerazioni che questa musica non può sopportare: cerca di farla troppo mondana e il risultato è affettazione.
Quello di Chailly è un approccio romantico, ma non tale da portarlo a manierismo, né ad auto-indulgenza.
Con Boulez, nel progredire del primo movimento si ha una reale sensazione che ogni suono venga nuovamente vagliato e affinato, ma mai a spese di lirismo ed espressione naturale.
Solti ci propina solo ciò che sta in superficie, null'altro.
Tilson-Thomas è ammirevole per come capisce quando essere serio e quando no.
Muti vede il secondo movimento solo come un piacevole insieme di danze. Forse lui qui è troppo poco raffinato per scavare sotto la crosta.

Se lo dice lui… Ma poi siamo sicuri che quelle incisioni non siano state editate in qualche modo, prima di uscire in CD? Comunque, dovendo proprio scegliere a chi dei citati interpreti Storgårds si sia avvicinato di più, io direi a Tilson-Thomas (smile!) A parte gli scherzi, il nordico Direttore mi è parso piuttosto rilassato nei tempi, salvo poi prendere brusche quanto eccessive accelerazioni in qualche momento topico (ad esempio le conclusioni dei movimenti, terzo escluso). Non sempre perfetto il bilanciamento del suono, con linee secondarie (degli ottoni, per lo più) venute troppo spesso, e a sproposito, in primo piano.


Insomma, una lettura piuttosto anonima e non accuratissima, mi è parso (ma forse, chissà, è l'effetto-sazietà della 50a audizione); peccato perché invece l'orchestra ha suonato splendidamente, meritandosi un gran trionfo.


Orchestra che adesso si prepara alla Pasqua (che sarà all'insegna di Bach) con un'Apocalisse fuori programma e fuori sede.
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05 aprile, 2011

Chailly con Mahler alla Scala


Ieri sera Riccardo Chailly è tornato sul podio della Filarmonica scaligera per proporci la (celebre?) Settima Sinfonia di Gustav Mahler. Musicologi, analisti, editori ed esegeti non si sono mai accordati su quale sia la tonalità di impianto del primo movimento: c'è chi dice MI minore (sono i più, e lo conferma la locandina cartacea) e chi invece propende per SI minore (quest'ultima è effettivamente la tonalità dell'incipit). Forse è per questo che il sito della Filarmonica ha tagliato la testa al toro e, per accontentare tutti, ha salomonicamente indicato RE minore. Meno male che almeno il minore è rimasto (smile!) Vero è che almeno un movimento (il terzo dei cinque) è effettivamente in quella tonalità.

Nella romanzata sequenza delle sinfonie del boemo, questa sarebbe una di quelle dove l'eroe (perché attenzione: c'è sempre un eroe come protagonista, siamo ancora nel romanticismo, sia pure tardo, chiaro?) in qualche modo risorge, o si purifica, o si reincarna, o magari semplicemente chiede scusa per essersi suicidato (ma solo per finta!) nella sinfonia precedente.

Così la seconda porta al camposanto l'eroe uscito faticosamente vittorioso - nella tenzone contro il temibile fra-martino-minore - dalla prima; ma nella terza l'eroe salito al cielo impara ad ascoltare la natura, i prati, gli animali, le campane e, ovviamente, dio; nella quarta l'eroe – sempre da morto – prende in giro un po' tutti, compresa la morte medesima e il paradiso; ma nella quinta risorge e, dopo aver per la verità rischiato di ri-morire subito (a Venezia, smile!) torna più vivo e in carne che mai; poi però nella sesta si martella per tre volte (sadico!) i coglioni e ne esce distrutto, finito, annichilito e polverizzato.

Ecco, a questo punto bisogna spiegare all'ascoltatore che quella era tutta una finta, un'affettazione; insomma: una roba tardo-tardo-tardo (3 martellate, per l'appunto) romantica; e come tale da non prendersi troppo sul serio. A trasmettere tale messaggio è finalizzata la settima, una sinfonia prosaica, con passeggiate notturne - allietate da chitarre e mandolini, una cosa a metà fra la Ronda di Rembrandt e la Ritirata di Boccherini - e walzeroni sguaiati, insieme a scimmiottature di maestri-cantori. Insomma, la parodìa della parodìa. Ma per l'apoteosi si dovrà ancora aspettare l'ottava, dove il nostro eroe dalle mille morti e millanta vite verrà finalmente attratto in alto dall'eterno femminino (ma questo eterno femminino cosa aspetta, di grazia, ad attirare in alto – e non nei sotterranei del bunga-bunga - il nostro amatissimo PM? strasmile!)

Dopodichè, a forza di gridare al lupo al lupo, per Mahler la vita si farà maledettamente dura per davvero; e serissime assai saranno di conseguenza le sue tre ultime opere.

Ma torniamo alla settima e soprattutto a come ce l'ha propinata il Riccardone per interposti Trepper. Quello di Chailly mi è parso un approccio à la Klemperer-tardo, in particolare nel primo movimento, piuttosto strascicato. Le Nachtmusiken avevano caratteristiche più soporifere che sognanti. Lo scherzo un po' troppo in punta di piedi, nemmeno fosse un menuetto… E il Rondò ha solo in parte riscattato una prestazione così-così, inquinata anche dai soliti incespicamenti degli ottoni, nessuno escluso (no, forse la tuba). Il migliore è stato l'addetto ai timpani (smile!):


Il pubblico ha comunque voluto premiare tutti, e va bene così…
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01 aprile, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 29



Riecco Wayne Marshall sul podio per un altro programma assai …pesantuccio.

L'apertura è dedicata a Bohuslav Martinů e al suo Concerto per due pianoforti. Martinů fu compositore tanto prolifico (15 opere, 6 sinfonie, 14 balletti!) quanto poco è ancora eseguito: certo assai meno dei connazionali Janacek o, peggio ancora, Dvorak e Smetana… (Tuttavia al Massimo di Palermo si darà fra poco la prima italiana di The Greek Passion.)

Scritto nel 1943, poco dopo l'emigrazione in USA (dove il 5 novembre fu eseguita la prima da Genia Nemenoff e Pierre Luboschutz – dedicatari virtuali dell'opera - con la Philadelphia di Ormandy) il Concerto ha una struttura (ed anche un'orchestra) tradizionale, con i classici tre movimenti: 1. Allegro non troppo 2. Adagio 3. Allegro; e soprattutto è saldamente ancorato alla tonalità (RE minore-maggiore, SIb minore, SIb maggiore) anche se le digressioni sono all'ordine del giorno.

Alle tastiere dei due pianoforti contrapposti, privi di coperchio e sistemati dietro il podio, siedono Jennifer Micallef e Glen Inanga: lei maltese, lui nigeriano (e poi dicono che a Malta prendono i migranti a fucilate, smile!) formano da tre lustri coppia fissa nelle sale da concerto di tutto il mondo. E mostrano anche qui il loro perfetto affiatamento, con un'esecuzione convincente, nei vivaci movimenti estremi, come nelle sommesse cadenze dell'Adagio. Ci regalano anche un bis, in cui fa capolino il mio babbino caro, forse in omaggio alla dolce attesa della bella Jennifer.

Il piatto forte della serata è costituito dai Carmina Burana di Carl Orff. Chissà se la scelta è stata fatta per approfittare della presenza sul palco dei due pianoforti (smile!) prescritti anche dalla partitura del compositore tedesco. Il quale - in pieno nazismo, di cui ancor oggi si fatica a capire se fosse vagamente simpatizzante o semplicemente tollerante - musicò testi venuti alla luce in un monastero medievale benedettino (oggi di proprietà dei salesiani di DonBosco, ma impiegato nella seconda guerra mondiale come scuola-ufficiali della Wehrmacht!) Nome tedesco Benediktbeuern, dove il beuern starebbe, pare, per abitazione, casetta. In latino fa bura (che significa tutt'altro: un componente dell'aratro) da cui il titolo dei testi medievali e dell'opera di Orff.

I testi, che hanno carattere prevalentemente goliardico, spesso scurrile e/o blasfemo (un'anteprima della moderna Ifigonia in Culide, smile!) sono più di 300, suddivisi in alcuni gruppi principali (morali e satirici, amatori, libatori e ludici) e sono scritti prevalentemente in lingua latina (assai maccheronica) ma anche alto-tedesca e con tracce di provenzale. Orff ne ha musicati 24 (il primo ripetuto alla fine) in prevalenza provenienti dalla sezione amatoria – anche se ha evitato accuratamente i passi più… osé - e raggruppati e posti secondo una sequenza che non rispetta quella (del resto astrusa) dei manoscritti. (In appendice una mappa di corrispondenza fra i testi di Orff e l'originale).

Musicalmente si tratta di una vera e propria mappazza di non facile digeribilità, in quanto vi manca totalmente (e volutamente, peraltro) qualunque contrappunto. C'è invece un continuo incedere per brutali, rozze ed arcaiche armonie, o sgradevoli unisoni, come ci chiarisce da subito la prima pagina del manoscritto:


Per nostra fortuna c'è anche qualche squarcio lirico, come il famoso richiamo primaverile di oboi e flauti:


O come l'Omnia sol temperat (n°4) del baritono, o l'orchestrale Tanz (n°6). O ancora i due interventi del soprano ai numeri 17 (Stetit puella) e 21 (In trutina).

Non mancano le difficoltà per i solisti. Ad esempio, al n°12 (Olim lacus colueram) il tenore deve salire per ben tre volte al RE acuto (a meno che non si trinceri dietro il minuscolo 8 posto sotto la chiave di violino, smile!):

Al n°15 (Amor volat undique) il soprano dovrebbe (uso il condizionale) tenere un RE centrale per ben 28 semiminime, che a metronomo 96 (e con una misura pochissimo ritardando) significano più o meno 18 secondi: una bella apnea!

Al n°16 (Dies, nox et omnia) il baritono deve salire addirittura al SI acuto:


Naturale che lo faccia in falsetto (anche se la partitura in questo caso nulla dice…)

Infine, al n°23 (il brevissimo Dulcissime) il soprano deve a sua volta scalare il RE acuto, al termine di una non facile cadenza, tutta in legato:


I tre solisti erano: il soprano Maureen Brathwaite, che ha mostrato una bella voce calda e si è disimpegnata benissimo anche nelle parti più difficili cui è chiamata; il controtenore David Allsopp, che non ha dovuto virare al falsetto, perché ce l'ha incorporato (smile!) e il baritono Carmelo Corrado Caruso, che invece ha regolarmente falsettato al n°16 e per il resto si è disimpegnato più che discretamente.

Bravissimi sia l'Orchestra (trombette in gran spolvero, chiamate a passaggi davvero impervi) sia i Cori di Erina Gambarini (grandi) e Maria Teresa Tramontin (piccoli).

Alla fine gran trionfo per tutti e, dopo ripetute chiamate, il pubblico reclama il bis. Che viene concesso da Marshall, a condizione che anche il pubblico canti (!?) Ma senza i testi proiettati sugli schermi, il Fortuna è ricantato solo dai cori, il che è tutto sommato una… fortuna. Persino musica come questa un minimo, ma proprio minimo, di rispetto lo merita.

Torneremo in pieno tardo-romanticismo con il concerto n°30.
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Fortuna Imperatrix Mundi
1. O Fortuna (Carmina moralia et satirica - De avaritia – 17)
2. Fortune plango vulnera (Carmina moralia et satirica - De avaritia – 16)

I

Primo vere
3. Veris leta facies (Carmina amatoria – 138.1-2-4)
4. Omnia sol temperat (Carmina amatoria – 136)
5. Ecce gratum (Carmina amatoria – 143)

Uf dem anger

6. Tanz
7. Floret silva nobilis (Carmina amatoria – 149)
8. Chramer (Supplementum – 16 – Maria Magdalena)
9. Reie
    Swaz hie gat umbe (Carmina amatoria – 167a)
    Chume, chum geselle min (Carmina amatoria – 174a)
    Swaz hie gat umbe (Carmina amatoria – 167a)
10. Were diu werlt alle min (Carmina amatoria – 145a)

II

In Taberna
11. Estuans interius (Carmina potoria – 191.1-5)
12. Olim lacus colueram (Carmina amatoria – 130.1-3-5)
13. Ego sum abbas (Carmina potoria – 222)
14. In taberna quando sumus (Carmina potoria – 196)


III
Cour d'amours
15. Amor volat undique (Carmina amatoria – 87.4)
16. Dies, nox et omnia (Carmina amatoria – 118.5-6-2)
17. Stetit puella (Carmina amatoria – 177.1-2)
18. Circa mea pectora (Carmina amatoria – 180.5-6-7)
19. Si puer cum puellula (Carmina amatoria – 183)
20. Veni, veni, venias (Carmina amatoria – 174)
21. In trutina (Carmina amatoria – 70.12a-12b)
22. Tempus est iocundum (Carmina amatoria – 179.1-2-4-7-5-8)
23. Dulcissime (Carmina amatoria – 70.15)

IV

Blanziflor et Helena
24. Ave formosissima (Carmina amatoria – 77.8)

Fortuna Imperatrix Mundi

25. O Fortuna (Carmina moralia et satirica - De avaritia – 17)
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Fool’s day



Trascrizione verbatim di una chat che ha avuto luogo (o avrà luogo, fa lo stesso) su un famoso blog, durante una diffusione in streaming, da una famosa OperaHouse, di un celebre melodramma italico.

Scriventi sulla chat:
Gioberta, Natalino, Salieri, Fontanella, Venerdi, Maddalena, Destri

Chat:

G: solito pubblico: guardate quella signora tutta ingioiellata!
N: il direttore sembra piuttosto inquieto: che abbia le emorroidi?
S: l'accordo di apertura pareva una pernacchia
N: il primo violino ha l'unghia del mignolo troppo lunga
G: con quelle unghie da pornostar, poi
F: secondo me ha solo una caghetta bestiale
V: solita solfa
S: ho già capito che è un battisolfa
F: ma potrebbe anche essere sifilide
V: non sento alcun calore mediterraneo
M: sono riuscita a collegarmi solo adesso, colpa di quel merdoso i-provider
S: quello porta di sicuro sfiga
N: io invece sento brividi di freddo
G: meno male che la sinfonia dura poco
N: occhio che il soprano entra subito
M: a giudicare dall'ultimo accordo, ha il parkinson
S: ma questa l'avrà studiata la parte per almeno mezza giornata?
V: per come è stata stuprata, dura fin troppo
D: scusate il ritardo
N: più che battisolfa, a me pare un quadrupede
M: avrà dato un'occhiata allo spartito sì e no mezz'ora prima
D: la cigna era tutta un'altra cosa
V: sì, proprio una bestia
G: che ne dite dell'aids?
N: oggi comanda il marketing, non la voce
S: un maiale, direi
M: anzi, forse solo un quarto d'ora
G: il tenore sul passaggio fa ridere
S: in qualunque teatro di provincia lappone cantano meglio
F: scusate, ero andato un attimo in bagno
V: lo streaming sembra buono
M: no, fa cagare proprio
D: regia cerebro-demenziale, al solito
N: il baritono è sponsorizzato dalla gdd
V: vorrei essere lì per mandarli a cagare tutti
F: ho fatto solo pipì
G: anche qui è perfetto
D: http://youtube.com/battistini_1904_cavatona/watch?v=hg9ThyHSf3p
M: hanno uno stock di pastrani ddr da smaltire
S: a samarcanda a quest'ora i buh si sprecherebbero
N: sul si bemolle il soprano pareva un topo squartato
G: scusate, ero al telefono con la suocera, acc…
M: dammi retta, quella è proprio un'associazione a delinquere
F: la cabaletta del tenore pareva dove sta zazzà
S: a timbuctu non arriverebbero di sicuro a fine-serata
D: qui da squartare è il baritono
N: certo, battistini…
F: un coniglio scuoiato vivo
G: novità?
D: in scena c'è anche una topolino anteguerra
S: quella dove schipa nel '42 aveva infilato un si finto
M: appunto, un quadrupede
V: ossequi alla suocera
N: e pensare che ha il microfono fra le tette
F: anzi, pareva una gatta in calore
D: e dire che battistini non lo cagava nessuno
S: il teatrino di schwetzingen al confronto sembra il marinski
N: no, guarda che era nel '39
G: ho perso qualcosa di importante?
M: fanno incidere cd anche alle rane
V: io la mia la friggerei viva
F: quella lì, il garcia la mandava a battere
S: fra poco il finale, preparate i pomodori
V: non toccatemi battistini
M: con apicella al bunga-bunga?
F: le forchette non sa cosa siano
G: io ho qui un sacco di coltelli
V: molto meglio schipa
S: meglio ancora l'atomica
N: caricate… puntate
D: battistini sta cagandosi addosso nella tomba
S: mirate prima al tenore, mi raccomando
M: e hanno il coraggio di applaudire
G: qualcuno ha registrato?
D: notte a tutti
V: fortunati loro che non c'ero io sul posto
N: perché, vuoi morire due volte?
F: pubblico bue
G: ne ho persa metà, come faccio a scrivere la recensione?
S: a viggiù li portavano via tutti d'urgenza con i pompieri
M: adesso metto su un 78 giri con pertile
V: vado, mi sta venendo la dissenteria
S: la stessa della settimana scorsa, va sempre bene
F: questa è la morte del teatro lirico
G: quello con la stignani?
N: no, con la neurodeliri
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30 marzo, 2011

Pappano alla Scala per la CRI



Lunedi 11 aprile Antonio Pappano e gli accademici di Santa Cecilia si esibiranno alla Scala in un concerto benefico a favore della Croce Rossa Italiana, Sezione femminile.

In programma la Quarta di Schumann e il Requiem brahmsiano.

Qualcuno ha voluto preparare un breve video promozionale: la musica che si ascolta è sì un Requiem diretto da Pappano con S.Cecilia, ma è quello di Verdi. Come diceva quel tale? Tanto per la precisione
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Ultimi Vespri al Regio di Torino

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Se ne riparlerà nel 2061. Chissà se il signore qui sopra sarà ancora lì ad accogliere gli spettatori dei Vespri del 200°. O se invece a quel tempo sarà in atto – a Torino - un nuovo, vero vespro, protagonista una popolazione a maggioranza islamica in rivolta contro l'occupante cinese. Una cosa è certa: io non sarò là a godermi né l'uno, né l'altro spettacolo…

Coccarde, bandierine, siparioni tricolori, inno nazionale cantato dal pubblico con la mano sul cuore… e soprattutto lezioni di italianità e di impegno civile impartite dal marketing del 150°. Tutto in smobilitazione, compreso l'allestimento che, fuori dal brodo retorico delle celebrazioni in cui era stato concepito, e dall'atmosfera patriottarda della diretta-TV (a proposito di TV-spazzatura, smile!) appare oggi ancor più insensato e offensivo. Chissà come lo prenderanno ad Oslo, o se a Lisbona Livermore metterà in scena la Giovanna de Guzman ambientandola ai tempi di Salazar (ri-smile!) Intanto qui pare non l'abbiano presa troppo bene, a giudicare dalla netta maggioranza (70-30) dei commenti pubblicati sul sito del Teatro. Peccato davvero perché si lascia una macchia sul lodevole impegno di un'Istituzione che oggi come oggi è la migliore in Italia (ah oui, monsieur Lissner) dal punto di vista del livello complessivo della gestione.

Ma mettiamoci sopra una pietra e abbassiamo le palpebre: in teatro si è tornati a suonare e cantare – ieri per l'ultima volta nella stagione – I Vespri di Verdi. Opera difficile, controversa, incompresa, equivocata e tradita fin dal suo nascere (e per mano nientemeno che del suo Autore!) Opera francese, per genere, libretto e produzione. Composta da un non-francese, come innumerevoli altre da rappresentarsi nel tempio parigino. Grand Opéra, appunto, e non solo per i 30 minuti di balletto rigorosamente collocati, come da regolamento, nel terzo atto (mica nel primo, come fece quel villanzone presuntuoso di Wagner, giustamente ricompensatone con il licenziamento in tronco).

Opera in seguito stravolta, per poter transitare indenne dalle dogane di casa nostra: quelle amministrativo-censorie (altro titolo, altra ambientazione) e quelle estetiche (via i balli, e non certo per penuria di ballerine, ma di autarchici Jockey Club, smile!) Però Verdi è Verdi, anche quando tradisce le proprie creature, trasformando un Grand Opéra in un Ernani (non dico in un Trovatore, ma poco ci manca). E possiamo ancora godercelo – qui a Torino ad occhi rigorosamente chiusi - se chi dirige, suona e canta lo fa come hanno saputo fare Noseda, l'orchestra, il coro e i cantanti, ancora ieri sera.

Il mio concittadino Kapellmeister non si è smentito ed ha padroneggiato alla grande una partitura ostica e, come detto, di non facile approccio, stanti le sue origini e vicissitudini: salvo che nella sinfonia (un gioiellino di per suo conto, dove sono giustificate) non si sono sentite enfasi o esplosioni bandistiche (più adatte ai Vêpres che ai Vespri) mentre sono uscite al meglio (grazie anche agli interpreti) tutte le innumerevoli sfaccettature psicologiche e i caratteri dei diversi personaggi. Orchestra con grande equilibrio fra le sezioni; strumentini su tutti, se proprio devo dare un premio speciale: come non ricordarli nello strepitoso coro del finale terzo! A proposito del quale, il minimo che può capitare è che ne esca uno sguaiato berciare di alpini al termine di una delle loro enologiche feste: qui invece, una cosa proprio grandiosa, ma dal puro lato estetico.

Il forfait della Radvanovsky dopo la sola prima ha caricato sulle spalle di Maria Agresta tutte (meno una) le restanti recite di Elena. A volte sono colpi del caso come questo che fanno la fortuna di un cantante. Ma bisogna anche e soprattutto essere dotati e bravi, per poter cogliere la palla al balzo. E la ragazzona ha confermato di avere doti naturali e bravura acquisita evidentemente in anni di duro studio. La sua provenienza dalla categoria mezzo le dà (pare a me) quella solidità e robustezza di impianto necessaria a ruoli come questo. Brava anche nel far trascolorare col canto la sua personalità, da nobile gelida e vendicativa, a donna sinceramente (ma non per Livermore) innamorata. Un paio di urletti non bastano a scalfire la sua prova.

Di Gregory Kunde si è giustamente scritto che non ha l'età (non solo anagrafica) per il ruolo di Arrigo. In compenso ha esperienza da vendere, e soprattutto deve sapere perfettamente come amministrare le proprie risorse per arrivare in fondo senza farsi massacrare da una parte davvero micidiale. Il tocco del RE acuto in falsettino in chiusura dell'incontro con Elena nell'ultimo atto è solo la simpatica ciliegina su una torta assai ben cucinata.

Il cattivone-paterno Monforte di Franco Vassallo è stato (forse) l'unico della compagnia ad essere piuttosto bistrattato dalla critica nei giorni scorsi. Dico però che il mio palato lo ha sopportato senza reazioni di rigetto, quindi non gli darò di certo l'insufficienza (né l'ha data il pubblico, anzi!) anche se non ci ha risparmiato qualche bercio da osteria. Bravo lui, con Kunde, nel duetto del terzo atto.

Ildar Abdrazakov impersonava il patriota-terrorista Procida. Voce sontuosa e piglio da vero brigatista pronto a tutto, fin troppo (smile!) Alla fine il trionfatore è stato proprio lui.

Tutti gli altri (Russo, Ferrari, Lanza, Stier, Olivieri, Mease Carico, Aimé) meritevoli di stima e approvazione. Claudio Fenoglio è ormai una certezza come conduttore dello splendido Coro.

Bene, qui chiudo la mia personale stagione 10-11 al Regio: Boris, Parsifal, Vespri. Dimenticando Livermore e qualche velleità russa di troppo, un tris da leccarsi i baffi!