affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

19 marzo, 2011

I Vespri Siciliani secondo il dottor Stranamore



1. La Polizia italiana è una forza straniera di occupazione.

2. La strage di Capaci fu opera della Polizia italiana.

3. La vedova del caposcorta di Falcone si è invaghita di un figlio illegittimo di Provenzano.

4. L'attuale Parlamento Italiano è incostituzionale.


Beh, come lezioncina per il 150° non è davvero male.

Post-scriptum: la conduttrice di RAI-Storia ci ha informato che l'autore del libretto è tale Victorien Sardou.
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18 marzo, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 27



Torna all'Auditorium il simpatico (e soprattutto bravo!) John Axelrod, con un programma di quelli da collezione popolare, o da inserto+CD del quotidiano di turno.

Prima di cominciare, si dedica il concerto al martoriato Giappone e si suona – e canta, in platea – l'Inno di Mameli. L'orchestra è schierata (come accade sempre più spesso) con i contrabbassi in fila frontale, fra percussioni e ottoni. Viole al proscenio. Il Konzertmeister Santaniello torna per l'occasione all'antico look con capelli stirati e codino.

Poi Axelrod attacca lo straussiano Don Juan, la prima di sette (o nove, se si includono la Sinfonia Domestica e Eine Alpensinfonie, o dieci, se ci si aggiunge anche Aus Italien) composizioni che sono etichettate con il termine poema sinfonico. Termine che era stato coniato da Liszt per definire della musica puramente strumentale, ma ispirata ad un programma letterario (di solito). Strauss usò invece il termine Tondichtung (letteralmente poema in suoni) per sottolineare come il programma poetico fosse per lui soltanto uno stimolo per l'espressione, in suoni appunto, dei propri sentimenti, e non lo spunto per una descrizione in musica di fatti/personaggi di natura materiale. (Quanto ciò sia coerente con opere come Ein Heldenleben, o peggio ancora come la Sinfonia Domestica, sarebbe da discutere.)

Ispirato al poema di Nikolaus Lenau, il Don Juan di Strauss sprizza esuberanza, vitalità, perenne ricerca dell'ideale femminino spinta – oltre l'erotismo - fino all'eroismo. Mirabili sono gli intermezzi amorosi, i corteggiamenti e gli abbandoni che vi sono disseminati (l'oboe di Emiliano Greci è strepitoso nel descrivere la principale love-scene, in SOL). Romantica fino all'estremo la conclusione dell'esistenza dell'eroe: quasi un tristaniano suicidio, sottolineato dal dissonante FA naturale delle trombe, poi dei corni, che cade sul MI, la tonalità del Don, che a sua volta va scemando, prima da maggiore a minore, per trovare pace sul MI all'unisono (archi in pizzicato, controfagotto, tromboni, tuba e timpano) delle due conclusive semiminime.

È curioso notare come la composizione (606 misure) sia tutta in tempo alla breve (2/2) eccetto cinque singole battute: la 30 (in 3/4) la 433 e 440 (3/2) la 507 (2/4) e la 542 (3/2). Axelrod ne cava fuori tutta l'energia e la cantabilità, ben coadiuvato dall'orchestra, dove gli ottoni sono chiamati ad imprese titaniche. A proposito, è sempre emozionante ed impressionante l'emergere improvviso del tema eroico del Don:



Ieri peraltro i corni mi sono sembrati, come dire, un po' trattenuti da Axelrod, mi sarei aspettato più grinta ed… eroismo! Comunque il pubblico non ha fatto di certo mancare applausi convinti.

Benedetto Lupo si siede quindi al pianoforte per suonarci il Primo Concerto di Franz Liszt. Pezzo che è stato al centro di altri due programmi sinfonici contemporanei lunedì scorso: suonato da Barenboim con la Filarmonica diretta da Wellber alla Scala e da Boris Berezovskyi con la Santa Cecilia diretta da Pappano (quest'ultimo concerto è stato trasmesso in streaming). Il Primo di Liszt ha l'incipit forse più enfatico e drammatico che sia mai stato scritto:



È un concerto davvero innovativo (per quei tempi): oltre ad avere una forma ciclica, con temi che tornano variati nel corso della composizione, vi si trovano indicazioni agogiche inconsuete, quali: grandioso, strepitoso, quasi Arpa! Addirittura ci sono parti che sembrano orchestrate per Triangolo obbligato (guardando la ripresa dal Parco della Musica si noterà che il percussionista era dislocato al proscenio, proprio a fianco del solista, in veste di vero e proprio concertante…)

Benedetto Lupo sa essere contenuto, pacato e sognante nell'iniziale parte solistica – che sembra una cadenza - del Quasi adagio; per il resto non lesina di certo gli effetti, anche i più plateali, nelle volate a rotta di collo, come nei poderosi passaggi con scale di ottave, mostrando tecnica eccezionale (non scalfita da qualche piccola imprecisione) e suscitando l'entusiasmo del pubblico.

Dopo l'intervallo torna ancora Lupo nella lisztiana Totentanz, questo Dies Irae trasformato in una specie di ballata infernale (Danse macabre ne è il sottotitolo). Concetto subito e perfettamente inquadrato dall'introduzione, dove il RE minore del canto gregoriano, esposto da fiati e archi è inquinato dai SOL# e SI naturale di pianoforte e timpani, che letteralmente satanizzano il Dies Irae con un'orgia di tritoni. Fino ad esplodere – battuta 11 – in quel terrificante accordo di tutta l'orchestra (solista escluso) che sembra far materializzare davanti ai nostri occhi Belzebù in persona. Chi pensava che Berlioz – nel suo incubo sabbatico - avesse raggiunto il limite, qui deve ricredersi (molto più tardi peraltro anche tale Rachmaninov, col Dies Irae, ne combinerà di cotte e di crude).

Lupo non si tira indietro (si guarda bene dall'accorciare il pezzo, come pure suggerito dall'Autore) né cerca di indorarci la pillola: usa il pianoforte proprio come strumento a percussione e lo strapazza per benino. (Dopo due pezzi come questi di Liszt mi sa che lo strumento necessiti di ore e ore di riaccordatura, smile!) Alla fine si merita il gran trionfo che il pubblico gli tributa per lunghi minuti.

Si chiude tornando a Strauss, con la Suite del Rosenkavalier, un piatto francamente un tantino stomachevole, come trangugiare in tre soli bocconi un'intera Sacher. Strauss va perdonato, perché si limitò ad acconsentire (ma aveva poca scelta, alla fine del 1944!) alla cottura di questo raffazzonato minestrone, fatta in USA da Artur Rodziński. Così la si prende come un'appendice tardiva del concerto di capodanno, e via con gli applausi (che ovviamente si meritano in pieno Axelrod e soprattutto i professori!)

Per l'appuntamento n°28 ci sposteremo decisamente nel XX e XXI secolo! Ma prima ci sarà una parentesi patriottica: domenica 20 il Presidente di tutti gli italiani (non quell'altro che piace soprattutto ad evasori fiscali, puttanieri e piduisti, e della cultura se ne fa un… bunga-bunga) sarà in Auditorium per celebrare, con l'Orchestra e il Coro de laVerdi, i 150 anni di Unità d'Italia.
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11 marzo, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 26


Siamo nell'anno di Mahler, e il ciclo prosegue con la Quinta Sinfonia, diretta da Xian Zhang e degnamente introdotta, nell'ambito del meritorio ciclo di conferenze sulle sinfonie del boemo, da un intervento di Maurizio Corbella, eclettico musicista-musicologo-compositore-attore-ed-altro-ancora.

Ma come prologo abbiamo un pezzo assai poco eseguito, e non solo perché venuto alla luce nel 1989 (la caduta del muro però non c'entra…) Si tratta di Rendering, opera che Luciano Berio ricavò da abbozzi di Schubert per quella che avrebbe potuto essere la sua decima sinfonia in RE maggiore. Molti di noi hanno in mente il motivo dell'Allegro finale, per essere da anni impiegato come sigla di un container di Radio3:


Qui una registrazione di Eschenbach. Questa (supposta) sinfonia è stata anche completata da Brian Newbould, che ha dedicato una vita a ricostruire opere di Schubert a partire da schizzi e abbozzi. Qui la sua versione diretta da Marriner.

La peculiarità di Rendering consiste nel singolare approccio con il quale Berio ha affrontato l'impresa di portare alla luce la sinfonia. A differenza di Newbould, che si è messo nei panni di Schubert e ha prodotto un lavoro compiuto, ma ovviamente apocrifo (un po' come il suo compatriota Derick Cooke si comportò con un'altra Decima, quella di Mahler) Berio ha invece evitato di comporre à la Schubert, ed ha riempito i tasselli mancanti al mosaico del manoscritto originale con proprie e perfettamente distinguibili tessere (in cui c'è del materiale schubertiano) che di volta in volta sfumano da Schubert verso Berio (atonalità, dissonanze, suono della celesta) e viceversa. Insomma, non ha completato, né ricostruito, ma ha appunto portato alla luce ciò che Schubert ci ha lasciato, non solo rendendo udibili le parti originali, ma mostrandoci chiaramente anche le lacune che l'ormai quasi moribondo compositore non fece in tempo a colmare. Insomma, un approccio a sua volta non poco narcisistico, se si vuole, ma almeno originale. (Personalmente trovo insopportabile la ricostruzione di Newbould.)

Si è ampiamente notato come l'atmosfera dell'Andante abbia un sapore mahleriano: e certo da Schubert il boemo prese innumerevoli spunti. Ma a me colpisce anche il secondo tema dell'iniziale Allegro maestoso, in LA, che sembra un germoglio da cui sboccerà quasi 30 anni dopo il primaverile Winterstürme:


(Certo Wagner nulla poteva sapere di quello schizzo schubertiano, ma la somiglianza balza all'orecchio, anche nell'armonizzazione.)

Delicata e misurata l'interpretazione di Zhang, che fa proprio emergere le tracce di Schubert da una specie di nebbiolina beriana.

Ecco poi la Quinta di Mahler, eseguita anche nella stagione scorsa (con Damian Iorio). Ieri è sembrata uscire irrobustita dalle mani di Zhang. Che evidentemente sta lasciando sempre di più sull'orchestra la sua precisa impronta interpretativa. Lo Scherzo e l'Adagietto (lentissimo, ma mai sdolcinato) mi son parsi al limite dell'eccellenza, ma tutta la sinfonia è uscita in modo splendido, negli insiemi e nelle parti solistiche, la tromba di Caruana e il corno di Ceccarelli in testa a tutti. Insomma, un'esecuzione di quelle che ti lasciano davvero qualcosa dentro.

Prossimamente ancora romanticismo, maturo e …tardo.
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09 marzo, 2011

Più bunga-bunga, meno Vespri

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Death in Venice, Life (?) in Scala



Death in Venice (ieri alla sua positiva seconda, dopo una prima filata via altrettanto liscia, a giudicare dall'ascolto di Radio3) è la quintessenza di un teatro musicale che mai e poi mai avrebbe potuto e potrebbe giustificare l'esistenza dei loggioni (termine da intendersi in senso antropologico e non catastale; tipo le curve degli stadi calcistici, per capirci).

 
Neanche la fantasia più sfrenata potrebbe immaginare il formarsi – sull'oggetto: come interpretare Britten? - di tifoserie e fazioni nemmeno lontanamente parenti di quelle accanite e ringhiose che si sono ancora di recente affrontate sul selciato antistante il Piermarini. Vi immaginate una diatriba tra chi loda la purezza dei declamati dell'Aschenbach di turno (di 16 o 18 o… 34 note senza indicazione di lunghezza) e chi lamenta che il direttore non ha fatto emergere con pienezza estetica la putridità dei canali della Serenissima? Anche il rilievo dato nella circostanza da giornali, siti e blog è quello che, nello sport, si riserva ad un concorso ippico (magari con telecronaca di Alberto Giubilo, riding-cap in testa, ai tempi) o a una partita di polo (smile!) Eppure si tratta di un esordio assoluto dell'opera alla Scala…

 
Dove il pubblico (ieri occupante non più del 75% dei posti disponibili, e ciò vorrà pur dir qualcosa…) ha ascoltato in silenzio, ha applaudito solo dopo che l'addetto alle luci ha aperto l'interruttore generale dell'elettricità del teatro – come si fa altrimenti a sapere se l'atto è finito? – e ha dato mostra di aver gradito lo spettacolo con applausi durati parecchi minuti (anche perché i solisti del coro di Casoni e le altre comparse – decine di persone – si sono presentati alla spicciolata, smile!) Poi se n'è tornato a casa – non pochi anticipando il rientro già all'intervallo, per la verità - come dopo una messa dei morti, felice per aver fatto un fioretto quaresimale e con lo spirito sollevato perché la prossima messa sarà celebrata solo fra un mese o più ancora. Domanda: quanti rinnoverebbero l'abbonamento, se il cartellone prevedesse 10 opere di questo tipo?

 
A questi risultati porta il progresso. Eh sì, perché ascoltando la famigerata Tosca, chiunque non può non ficcarsi in testa almeno i tre volgarissimi accordi che aprono l'opera, e poi ricollegarli al volgarissimo Scarpia, visto che tornano regolarmente ogni volta che lo sbifido siculo aleggia nei paraggi. E pazienza se uno ignora che fra le note estreme dei tre suddetti accordi c'è la distanza del diabolus… Col Britten di Death in Venice la cosa è un pochino più ardua. Perché anche qui c'è – per dire, ed è solo un esempio – un Leit-motiv principale (se così si può chiamare) dell'opera, ma decifrarlo non è propriamente facile, meno ancora riscoprirlo nel seguito, per collegarlo ad eventi, stati d'animo e così via.

 
Compare per la prima volta accompagnando il verso d'esordio del Viaggiatore, che è il primo di sette diversi personaggi interpretati dallo stesso cantante (basso-baritono); personaggi che rappresentano in qualche modo le forze dionisiache che dapprima intaccheranno, quindi mineranno e infine distruggeranno l'apollinea irreprensibilità di Aschenbach. Il viaggiatore misterioso è in realtà un serpente tentatore (nel racconto di Mann, nemmeno parla) che stuzzica la curiosità e poi l'irrefrenabile desiderio dell'attempato scrittore con la promessa di meraviglie svelate (Marvels unfold). Lo canta sulle note RE-DO-MI-RE#:

Il quale Aschenbach, dopo aver cercato di ignorare lo straniero, cade invece preda dell'irresistibile desiderio (sudden desire for the unknown) che vorrebbe tener celato al pubblico (il quale deve ignorare la fonte d'ispirazione dell'Artista!) ma che traspare impietosamente dal suo stesso canto, precisamente mutuato da quello del viaggiatore, RE-DO-MI-RE#:

(Tanto per complicare le cose, il declamato di cui sopra può essere tagliato – Britten consenziente – e tagliato viene in questa produzione). Il tema ha effettivamente un che di arcano, non è per nulla rassicurante. Infatti presto le meraviglie e l'ignoto si manifesteranno per qualcosa di assai poco meraviglioso e di molto tristemente conosciuto: il colera! È la musica – basta cercare con pazienza - a spiegarcelo inequivocabilmente, attraverso la tuba, che espone il tema (RE-DO-MI-MIb) all'inizio del secondo atto, dopo che il barbiere si è lasciato sfuggire la verità; e poco dopo attraverso i corni, che lo innalzano di una terza maggiore (FA#-MI-SOL#-SOL) e subito dopo di una terza minore (FA-MIb-SOL-FA#) sulle domande del perplesso Aschenbach:

Ed ancora riascoltiamo il tema sulle parole che Aschenbach, girovagando per Venezia, legge sul Tagblatt, RE-DO-MI-RE#:

Cases of cholera! E il povero scrittore, che vede l'epidemia come una possibile minaccia alla sua prossimità con l'adolescente Tadzio (o, in alternativa, spera che faccia secchi tutti quanti, tranne se stesso e il suo amore) si vuole auto-convincere del contrario, cantando Ugh! rumors, rumors, rumors… ma proprio sulle note (trasposte) del nostro tema: dapprima LA-SOL-SI-SIb e poi (leggermente variato) DO-SI-RE-REb! La conferma definitiva ci viene dall'accompagnamento dei bassi al preoccupato e preoccupante resoconto sull'epidemia fatto dall'impiegato dell'agenzia di viaggi, ancora RE-DO-MI-RE#:

Ma tutto questo ancora è niente, poiché dovremmo nel frattempo aver scoperto che la malattia vera è quella che si annida nell'Io profondo di Aschenbach, ed è assai più insidiosa (e altrettanto mortale) dell'epidemia. Ecco perché il tema compare subdolamente in altre circostanze, ad esempio verso la fine del primo atto, dopo che lo scrittore ha rinunciato, impotente, ad approcciare Tadzio e riflette sul fatale desiderio: So longing passes back and forth between life and the mind. Con altezze diverse (LA-SOL-SI-LA#) il motivo sottolinea (in corni, arpa e viola) proprio le parole life and mind, la realtà e lo spirito, le due polarità (Dioniso-Apollo) fra cui si dibatte l'Io di Aschenbach. E subito dopo lo udiamo ancora, negli stessi strumenti, ma un semitono sotto, mentre Tadzio passa vicino allo scrittore inebetito e gli sorride (!) spogliandolo definitivamente di tutte le sue apollinee (e ipocrite?) difese e gettandolo in pasto a Dioniso. Il tema torna a farsi sentire, appena variato, all'inizio della seconda parte, nell'accompagnamento del pianoforte, quando il protagonista prende atto e razionalmente/esteticamente cerca di giustificare a se stesso quel suo I love you che nelle ultime battute della prima parte aveva indirizzato a Tadzio. E poi ancora, nelle tube, durante l'onirica orgia dionisiaca; e sempre nelle tube al momento in cui l'efebico polacchino soccombe al rude coetaneo Jaschiu nella zuffa sul bagnasciuga che precede l'epilogo.

 
Di questo passo potremmo anche scoprire che di una certa malattia dell'Artista aveva già trattato qualcuno, in un'opera musicale, addirittura 30 anni prima che Thomas Mann venisse al mondo: mettendo in parole e musica baccanali chèz Venus e severe tenzoni canore in quel di Turingia. E comunque, con tutto ciò avremmo solo esplorato la punta di un iceberg, figuriamoci! Aggiungiamo poi che parecchi interrogativi e lati oscuri dell'opera si possono chiarire solo dopo aver letto la novella di Thomas Mann che ispirò Britten-Piper: ad esempio che i risvolti omosex-pedofili della vicenda - pur tanto cari al compositore (come al sommo Luchino) e impiegati dal marketing teatrale per stuzzicare la curiosità morbosa dello spettatore verso una cronaca di turismo sessuale – sono solo una, e forse nemmeno la più importante, delle componenti del dramma; e che al fondo di Death in Venice - come di Der Tod in Venedig – c'è invece qualche problemino da nulla, filosofico-estetico-esistenziale, vecchio quanto il mondo.

 
Considerazioni per nulla nuove, queste, e presentate in modo assai più dotto e strutturato sul programma di sala, che però uno si dovrebbe studiare per bene prima di andare a teatro, invece di scorrerlo in fretta nei 5 minuti che precedono il via, o nei 10 di intervallo.

 
A proposito di programmi di sala, quello distribuito nell'occasione è al 70% scopiazzato – per gentile concessione - da quello che nel 2008 venne meritoriamente prodotto – ed è disponibile in web - dalla Fenice di Venezia. Incluso il libretto con la traduzione di Renato Pontiggia, ma senza la preziosa esegesi di Daniele Carnini (a pag.41 del citato programma) che qui viene indicato, come revisore del testo, con il nome di Davide Carnivi (ma è solo un imperdonabile errore di stompa, o c'è dietro qualcos'altro?)

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La produzione viene da Londra (E.N.O.) dove nel 2007 ottenne un successo (non incontrastato peraltro) di critica. L'allestimento di Deborah Warner prevede scene minimaliste, ma proprio per questo assai adatte a gestire i frenetici andirivieni Lido-Venezia; ci sono abili giochi di luci per trasmettere sensazioni ed emozioni; efficaci i movimenti delle masse e dei singoli; encomiabili i danzatori della scuola dell'Accademia scaligera e su tutti il Tadzio di Alberto Terribile. Personalmente mi sento invece di censurare l'eccessiva caricaturizzazione di Aschenbach, presentato fin dall'inizio non solo come un individuo in preda a dubbi di natura intellettuale e a vaghe inquietudini da crisi di ispirazione artistica, ma anche come un personaggio in uno stato di permanente crisi epilettica, sempre sospettoso, scontroso e in guerra con tutti e tutto. Insomma, viene così a mancare quel drammatico crescendo che caratterizza il percorso dello scrittore verso l'abisso.

 
John Graham-Hall (a parte la citata e discutibile caratterizzazione attoriale) ha mostrato di padroneggiare assai bene il ruolo sul lato vocale: efficace espressione e chiarezza e profondità del suono. All'opposto (mi è parso) Peter Coleman-Wright, eccellente nel proporre i sette ruoli – e diversissimi – in cui è impegnato; ma un po' meno sul piano vocale, dove ha faticato a penetrare gli ampi spazi del Piermarini. Meglio di lui l'Apollo di Iestyn Davies. Fra gli altri interpreti minori citerei Jonathan Gunthorpe, l'efficace impiegato dell'agenzia di viaggi e Anna Dennis, la venditrice di frutta. Da elogiare incondizionatamente il coro di Casoni, che qui è chiamato, oltre che a cantare, anche a dare corpo e volto alla varia umanità che circola in albergo e in città.

 
Edward Gardner deve essere uno che sa come gestire un'orchestra, a giudicare dagli applausi arrivatigli dal teatro, ma più ancora dalla buca!
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04 marzo, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 25



Gran concerto con Xian Zhang, che si cimenta con un programma tardo-romantico.

Orchestra ipertrofica (salvo che per Ciajkovski) con i contrabbassi schierati in linea sul fondo, davanti alle percussioni e dietro ai fiati.

L'antipasto è il Capriccio Spagnolo di Rimsky, un classico brano adatto a rompere il ghiaccio e mettere il pubblico di buon umore. Il compositore russo lo trasse da una raccolta di musiche popolari spagnole, Ecos de España (da cui il titolo corretto di Capriccio su temi spagnoli) di José Inzenga y Castellanos. L'Alborada, che è presente due volte (1° e 3° brano) in tonalità diverse (LA e Sib) viene da un canto di pastori che salutano il mattino. Le Variazioni (2° brano) provengono dall'asturiana Danza prima (danza serale). La Scena e canto gitano (n°4) viene dall'Andalusia, con le sue caratteristiche note diminuite (secondo, sesto e settimo grado della scala). Chiude in bellezza il Fandango asturiano con un travolgente Presto, che scatena l'entusiasmo.

Fasciata in un lungo scarlatto, arriva poi - per deliziarci con il Concerto per violino di Ciajkovski - Arabella Steinbacher. Che nulla ha da invidiare – a mio modestissimo avviso – con il Leonidas Kavakos ascoltato nello stesso impegno settimane fa con Gergiev alla Scala. Bando alle sdolcinature, che fecero scrivere ad Hanslick di musica che puzza (e più recentemente ne hanno fatto musica che invita al drink) la bella Arabella, e Zhang con lei, ci propongono un Ciajkovski con un profumo di aria fresca, asciutto e nervoso. Gran trionfo per la violinista crucco-nipponica, che ci regala anche un bis (Ysaye?)

Si chiude con lo Zarathustra e la sua fin troppo bistrattata (extra-moenia, non certo qui, eseguita in modo eccellente) introduzione delle trombette all'astro nascente, simbolo della Natura. Un ascoltatore naif (tutti noi lo siamo stati almeno una volta) si immagina che lo sfolgorante inizio non sia, appunto, che l'inizio, e che il suo fulgore debba tornare, necessariamente e addirittura ingigantito, nel corso e soprattutto alla fine del brano. Eh no, qui siamo in piena filosofia, e l'inizio non è in realtà che una luminosa alba alla quale necessariamente seguirà un tramonto, non certo un'alba ancor più luminosa… parola di Nietzsche (che peraltro non aveva inventato nulla, ma aveva magari creduto di interpretare Anassimandro da Mileto). Certo, nel centrale episodio del Convalescente il tema viene riproposto, ma quasi con tracotanza e perfino indisponenza, con tutti gli ottoni (2 tube incluse) in un pesantissimo fff. Poi tornerà – e da ultimo proprio alla fine – quasi come un'impersonificazione dell'apeiron.

Nel lungo cammino dell'Uomo c'è spazio per la religione, e non sarà un caso che - proprio nell'iniziale Von den Hinterweltlern (gli abitanti del mondo trascendente) - Strauss ci infili un paio di riferimenti liturgici, Credo e Magnificat:
L'opera si chiude con una specie di braccio di ferro – dove però, attenzione, le due contrapposte mani si stringono con forza suprema - fra gli accordi in tonalità di SI e di DO (quanta simbologia si portano dietro, e quanta musicale e filosofica distanza):
E quando pare che sia la prima – l'Uomo, lo Spirito - ad avere il sopravvento, ecco che la seconda, la Natura (l'apeiron?) si riprende l'ultima parola, per quanto appena appena esalata: in pizzicato, violoncelli e contrabbassi ne ripercorrono, due volte, il tema iniziale (l'ascensione DO-SOL-DO) e infine, dopo l'ultimo accordo di SI maggiore dei flauti col primo violino sulla dominante FA# superacuto, chiudono, sempre in pizzicato, con tre DO gravi:

In una sala da concerto (magari non accade ascoltando in cuffia un CD) queste note, in tripla p, si rischia di perderle del tutto, se non si sa a priori che ci sono. E comunque l'orecchio nostro fatica assai a distinguere, nel grave, un DO da un SI: e chissà se non fosse proprio questo ciò che Strauss voleva…

Convincente sotto ogni punto di vista l'approccio di Xian Zhang, coadiuvata da una prestazione davvero rimarchevole dell'orchestra (prestazione purtroppo sfregiata da un paio di défaillances della tromba nella seconda parte del Convalescente, quella che porta al Tanzlied: cose che capitano, evidentemente) che le ha meritato un grande successo.

Ancora Zhang per il prossimo appuntamento con Mahler.
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03 marzo, 2011

Il Naso di Shostakovich ritrovato a Reggio Emilia



Dopo avere occupato per 5 giorni consecutivi la scena al Regio di Parma, è transitata da Reggio Emilia – ieri e ieri l'altro - questa edizione del Naso di Shostakovich, opera ispirata al racconto un po' demenziale di Gogol.


Si tratta della ripresa della produzione russa del 1974 (che fu in pratica la riproposizione dell'Opera in URSS dopo l'oblìo in cui vi era caduta). Nel racconto di Gogol si possono cercare e ipotizzare i significati più disparati, da quelli politico-sociologici a quelli freudiani e sessuali. Insomma, qui ci sarebbe ampio spazio non solo per cervellotiche, ma forse anche per interessanti invenzioni da Regietheater… invece Boris Pokrovskij si tenne con i piedi per terra, limitandosi a presentare, più o meno fedelmente, ciò che troviamo scritto nel libretto.

 
Il quale si rifà genericamente al racconto originale, introducendovi peraltro piccole o grandi varianti, quali: il prologo iniziale con la rasatura di Kovalev, il ripristino della scena alla Cattedrale Kazansky (al posto dei Grandi Magazzini, su cui Gogol era stato in pratica costretto a ripiegare per ragioni di censura) e soprattutto la nuova e lunga scena (settima, prima del terzo atto) della movimentata cattura del naso - episodio che nel racconto di Gogol rimane (letteralmente) avvolto nella nebbia e per nulla descritto nei dettagli - per la quale furono impiegati degli spezzoni di altre opere dello scrittore. Infine, nella chiusa, proprio prima dell'ultima esternazione di Kovalev, Pokrovskij inserisce di sua iniziativa una serie di battute recitate dai diversi protagonisti e mutuate quasi alla lettera dall'ultimo paragrafo del racconto di Gogol, dove lo scrittore presenta una specie di giustificazione surreale dei surreali avvenimenti appena narrati.

 
La scena è spoglia e il sipario è sempre aperto: ai lati i costumi dei vari personaggi, appesi ad attaccapanni, sul fondo una pedana con cancellate che servono da siparietto. Rudimentali oggetti (casse, tavolini, sedie, materassi) sono portati e rimossi di volta in volta per supportare l'azione, e sfruttando i tempi dei diversi interludi (presumibilmente previsti in origine proprio in concomitanza con i cambi di scena): quello di percussioni, fra la passeggiata di Iakovlevich e il risveglio di Kovalev; il galop che descrive l'uscita di Kovalev sulla Nevsky Prospekt; quello fra la scena al giornale e la scena a casa di Kovalev (dove Ivan suona la balalaika). In alcuni casi si sfrutta anche la platea - dai lati della quale emergono alcuni personaggi che salgono in scena – ed anche un palco, dal quale un ufficiale di polizia risponde alle richieste di Kovalev. Teatrale anche l'ingresso per il terzo atto del Maestro Vladimir Agronskij, dopo l'intervallo: arriva dal fondo della platea, percorre l'intero corridoio centrale e scende sul podio accolto da due ufficiali zaristi, che richiudono gli sportelli dietro di lui.

 
Spettacolo che scorre davvero senza un attimo di respiro. Ben reso il quartetto delle lettere (Kovalev-Jariskin / Podtotchina-figlia) grazie all'uso sapiente delle luci. Insomma, una produzione tradizionale e gradevole, che merita i complimenti per tutta la compagnia, il Teatro Musicale da Camera di Mosca, fondato proprio da Boris Pokrovskij (scomparso a 97 anni nel 2009).

 
Anche sul piano musicale, note positive: per la piccola orchestra, fatta in pratica da solisti (pochi i raddoppi di strumenti, e solo negli archi) e per gli interpreti (la compagnia ha presentato, sia a Parma che a Reggio, due diversi cast, alternandoli ogni sera). Shostakovich prescrive prevalentemente un canto straniato, come lo sono in fondo tutti i personaggi della vicenda, che paiono sempre recitare la grottesca parodia di se stessi.

 
Il pubblico (aveva occupato sì e no il 60% dei posti del teatro, ahinoi) ha mostrato di gradire, gratificando la compagnia di calorosi applausi.

 
Quel che è certo è che, di fronte ad opere come questa, sarà difficile che si creino tifoserie e fazioni di melomani, come per una qualunque Tosca (smile!)
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02 marzo, 2011

Globalizzazione

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Questo avveniristico edificio…
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è un teatro d'opera... 

costruito in Cina...

progettato da una donna...

che vive a Londra...

ma che è nata a Baghdad.
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01 marzo, 2011

George Prêtre con la Filarmonica


Ieri sera il venerabile George Prêtre – farà le 87 primavere a ferragosto - è tornato a dirigere i Filarmonici in un concerto che ha accostato Cesar Franck ad Ottorino Respighi. Per l'occasione è stato insignito del titolo di Socio onorario dell'Associazione, essendo stato fra i primi a dirigere l'Orchestra dopo la sua nascita, nell'ormai lontano 1982.

Del compositore belga è stata eseguita la (relativamente) celebre Sinfonia in RE minore. Che è del 1886-88, quindi coetanea, tanto per fare qualche esempio nel campo sinfonico, della Quinta di Ciajkovski, dell'Ottava di Dvorak, della Terza (quella con l'organo) di Saint-Saens e della Prima di Mahler. Poi, nel mondo della musica a programma, di Aus Italien di Strauss, di Sheherazade di Rimsky. Ed anche del Requiem di Fauré. Ma l'incipit della sinfonia viene direttamente dalla Walküre (atto II, scena IV):


Poi, sempre nel primo movimento, ci sono più o meno chiare tracce di Tristan, a dimostrazione che la rivoluzione wagneriana aveva davvero contagiato l'intero pianeta musicale. Quanto alla ciclicità della forma, con i temi dei primi due movimenti che ritornano, variati, nell'ultimo, non era certo una novità, ma anzi una vera e propria moda (in senso positivo) dell'epoca, come testimoniano ampiamente le contemporanee opere di Ciajkovski e Mahler.

La struttura del primo tempo (assai lungo, quasi 20') è in forma sonata liberamente interpretata: il tema iniziale in RE minore viene esposto in tempo Lento, poi riesposto in Allegro non troppo. Quindi il processo (Lento-Allegro) è ripetuto, ma innalzando la tonalità a FA minore. A questo punto Franck presenta un nuovo tema, in FA maggiore, che sfocia nella famosa perorazione:

 Segue poi un complesso sviluppo, sempre in RE minore e FA maggiore (dove appunto par di sentire vaghe reminiscenze tristaniane) che mette in contrasto i due temi, e che sfocia in una spuria ripresa: il primo tema è esposto in Lento e FA minore da tromboni e tuba, poi in Allegro dagli archi in MIb minore. Ancora una divagazione del primo tema, in SOL minore, poi il secondo entra in RE maggiore. Si torna a RE minore per la coda, ma la conclusione è abbastanza imprevedibile: con la cellula iniziale del primo tema esposta in SOL minore, per tre volte, a sfociare imperiosamente nell'accordo finale di RE maggiore, accentato sulla mediante FA#.

Prêtre ne dà una lettura proprio severa, tempi sempre contenuti e quelle cupe sonorità tedesche che molti avevano criticato all'apparire del lavoro.

L'Allegretto – qui Prêtre depone la bacchetta sul leggìo della spalla e dirige a mani nude - principia in SIb minore, con il delicato tema del corno inglese:
 Cui segue un'altra, lunga melodia in SIb maggiore, prima del ritorno del corno inglese, in minore, con il primo tema. Ecco poi un intermezzo mosso, in cui archi e fiati si scambiano frammenti del tema, ma poi emerge improvvisamente – eccellente qui Prêtre nello stacco - dai clarinetti un tema nuovo, in MIb maggiore, denso di cromatismo:


Tema ripreso e ampiamente sviluppato dagli archi. Torna il primo tema, ancora nel corno inglese, dapprima in SOL minore, poi nuovamente in SIb minore, come all'inizio; poi si mescola ancora con il secondo, fino alla chiusa in SIb maggiore.

Protagonisti qui il corno inglese di Renato Duca, ben spalleggiato dal corno di Roberto Miele: saranno i primi, alla fine, ad essere chiamati da Prêtre per un applauso individuale.

Il Maestro risfodera la bacchetta per attaccare da par suo il terzo ed ultimo (!) movimento, che si apre con un tema a dir poco velleitario, esposto da fagotti e violoncelli, in RE maggiore, sul deciso tremolo degli archi, dopo 5 secchi accordi dei fiati:
Tema che fa da impalcatura a questa specie di forma-sonata, seguito dal secondo, più dolce cantabile, in SI maggiore, esposto dalle trombe, con accompagnamento delle cornette e di tromboni e tuba:


Ripreso poi dagli altri strumenti, fino all'ingresso, in SI minore, del tema dell'Allegretto, esposto dal corno inglese e dai legni, cui subentra ancora il dolce cantabile, ora però più pesante, in tutta l'orchestra.

Si ricapitolano i temi principali, con modulazioni in diverse tonalità (LAb, SOL). Ancora il tema dell'Allegretto fa capolino in SI minore nell'oboe, poi il tema principale del finale riemerge, in RE maggiore, ma quello dell'Allegretto - sempre in SI minore - riesplode tracotante. Siamo davvero ad un gigantesco put-pourri dove tutto viene, proprio wagnerianamente, ricapitolato: torna, in SIb, il secondo tema del primo movimento, poi anche il primo che lo contrappunta.

Finalmente si insinua il tema del finale che porta alla conclusione, che ribadisce, qui in modo adeguatamente preparato, e non improvvisato, l'epilogo del primo movimento, con tanto di FA# a spiccare nel positivo accordo di RE maggiore.

Applausi intensi, ma forse non proprio deliranti, per questa sinfonia che evidentemente fatica ancora a farsi largo nella considerazione del pubbblico.

Dopo l'intervallo (con siparietto di caccia al tesoro sul palco: qualche parte mancante?) eccoci a Respighi, con i primi due dei tre poemi sinfonici romani, composti a distanza di anni, fra il 1916 e il 1928. Dapprima Fontane di Roma, in cui subito appare nei secondi violini - ad introdurre il tema debussyano negli oboi - una vaga reminiscenza mahleriana:


Sono le prime battute di Der Einsame im Herbst, ambientato, guarda caso, nei pressi di un laghetto, di cui si ode il lento sciacquìo, che rimanda al tenuo sgocciolare della fontana di Valle Giulia. Seguono due sezioni mosse, con lo squarcio di luce del sole che inonda il Tritone di prima mattina, e poi la fantasmagoria di zampilli e cascatelle di Trevi. Si chiude con il tramonto di Villa Medici, languido quanto lo specchio d'acqua della circolare fontana, e scandito dai rintocchi (ben 29!) della campana.

Prêtre, che ha diretto ancora senza bacchetta, fa appena in tempo a lasciar cadere le braccia, che subito dal loggione parte qualche battimano: lui ne resta quasi sorpreso, poi gira la sola testa verso le prime file di platea… infine fa alzare il pacchetto dei legni, per gratificarlo del giusto riconoscimento, prima di girarsi per raccogliere l'applauso, ora scrosciante, di tutto il teatro.

Riprende poi la bacchetta per chiudere con Pini di Roma. Introdotti dal corno inglese e dal primo fagotto, colla punteggiatura dei corni, che intonano – a Villa Borghese - la popolaresca Oh quante belle figlie madama Dorè:

E non è la sola filastrocca che compare in questo quadro d'apertura; poco dopo ecco infatti un paio di giro-girotondo, il primo introdotto da archi e fiati a canone, il secondo da oboi e clarinetti:

Che viene ripetuto più volte, fino a sfociare nel lugubre passaggio presso le Catacombe, con il suo sghembo intermezzo in 5/4, pieno di note ribattute.

Nei Pini del Gianicolo, proprio alla fine (ultime 10 battute e mezza) è previsto che canti un usignolo vero: no, non è in gabbia ed in penne ed ossa, oltretutto ci vorrebbe anche l'ammaestratore a corredo, per dargli l'attacco giusto… In partitura è segnato come una registrazione su nastro (ai tempi gli mp3 potevano essere, al massimo, dei moschetti) con tanto di codice articolo, per chi ne volesse acquistare una copia:

Spesso lo si scimmiotta con qualche richiamo da quaglia, più che da usignolo (smile!) come qui a 6':39".

Nel conclusivo I Pini della via Appia, dopo un lungo assolo del corno inglese, compaiono le sei buccine, specie di enormi unicorni che accompagnavano le marce delle legioni romane. Respighi – che ne prevederà tre anche in Feste Romane - prescrive in partitura dei flicorni (2 soprani, 2 tenori e 2 bassi); qui sostituiti da due trombe, due tubette e due tromboni. Sul martellante ritmo di timpani e gran cassa, sono loro a portare all'enfatico epilogo dell'opera.

Gran trionfo per Maestro e Professori. Dal loggione piovono verso il podio tulipani in quantità (uno centra in pieno la capoccia del direttore!) Che per ringraziare dell'accoglienza ci regala un suo classico bis: Entr'Acte et Barcarolle da Les Contes d'Hoffmann. E nessuno meglio di lui sa come porgerlo per toccare le corde più sensibili dell'ascoltatore!