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30 novembre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.9

Ricorre il 200° anniversario della nascita di Anton Bruckner (4/9/1824) e l’Orchestra Sinfonica di Milano gli dedica un concerto diretto da Lucas Macias Navarro che, essendo nato e cresciuto e divenuto famoso come oboista – fu tra i fondatori dell’Orchestra Mozart con Abbado - apre la serata interpretando e dirigendo il Concerto per oboe e orchestra in Do maggiore K 314 di Mozart.

[Il brano verrà poi da Mozart trasposto in RE maggiore per il flauto; e il terzo movimento fornirà (in SOL maggiore) il supporto musicale ai versi Welche Wonne, welche Lust di Blondine nel second’atto del Serraglio.]

Il Concerto fu registrato da Lucas per l’appunto con l’Orchestra Mozart e Abbado, in una delle ultime fatiche del sommo Claudio! E ieri sera anche qui abbiamo potuto apprezzare la tecnica sopraffina del musicista spagnolo, che ha divorato come noccioline le interminabili volate di semicrome che costellano il Concerto, nei movimenti esterni.

Nella cadenza dell'Adagio ha anche fatto (come a 5’50” nel secondo video con Abbado) un simpatico omaggio a… Elvira Madigan! E poi ha voluto premiarci con un bis insieme all’Orchestra con l’Adagio dal bachiano Oratorio di Pasqua.

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Il pezzo forte della serata è quindi la Prima Sinfonia di Bruckner, originariamente composta nel 1866 a Linz, quindi riveduta a Vienna fra il 1877 e il 1884, e infine nel 1889-91 (eseguita qui).

Bruckner fu perennemente insoddisfatto delle sue composizioni, ma in particolare delle Sinfonie, un genere che considerava il massimo banco di prova per un compositore. Per tutta la vita continuò a studiare, oltre che insegnare, armonia e contrappunto e, dopo ogni nuova rivelazione che lo studio gli portava, correva a introdurne gli effetti nelle sue opere, anche a distanza di anni e anni.

Per dire del rispetto che Bruckner aveva per la forma sinfonica, basta ricordare che, prima di completare questa Sinfonia in DO minore, ne aveva già composte (attorno al 1863) ben due, interamente o in parte: la Sinfonia in FA minore, rimasta allo stadio di lavoro di scuola (Schularbeit 863, come l’Autore scrisse sulla prima pagina del manoscritto) e quella in RE minore, che Bruckner riprese in mano molti anni dopo, lasciando però sulla prima pagina del manoscritto il temine inequivocabile di ungultig, invalido, senza valore, affibbiando alla Sinfonia il bizzarro N°0 (Nullte).

Miglior fortuna toccò a questa prima, che Bruckner fece eseguire a Linz - con un’accoglienza più stupefatta che ostile - nel 1868, per poi rivisitarla, ormai stabilitosi a Vienna, negli anni 1877-84 (questa è nota come versione Linz). E finalmente, stimolato dal famoso Direttore Hans Richter (propenso ad eseguirla in quella veste) la sottopose ad accurata revisione (oggi nota come versione Vienna) reputata necessaria per poter, a suo dire, rendere presentabile al raffinato pubblico viennese questa sua sguattera insolente (kecke Beserl)!

E in effetti la versione 1889-91, pur conservando intatta la struttura e il contenuto dell’originale, vi rimuove parecchie delle spigolosità e stranezze che l’avevano resa poco digeribile al pubblico di Linz, anche se autorevoli musicologi (fra cui i curatori Robert Haas e Leopold Novak in testa) reputarono che proprio l’originale sia da preferirsi, appunto per il suo carattere di… sfrontatezza.

L’iniziale Allegro principia rigorosamente in forma-sonata, con il primo tema in DO minore, maschio e imperioso, seguito dal secondo (canonicamente nella relativa MIb maggiore) delicato e un po’ decadente; ma gli ascoltatori di Linz nel 1868 probabilmente si stropicciarono gli occhi orecchi quando, al posto del da-capo dell’esposizione si ritrovarono fra i piedi un terzo tema, tracotante, nei tromboni!

L’Adagio in LAb maggiore è un’oasi nobile, culminante nella grandiosa perorazione finale, che non può non suscitare l’emozione dell’ascoltatore. E lo Scherzo – che anticipa nel piglio quelli di successive sinfonie - propone un tema che ricorda quello mozartiano della K550, ma anche lo Schubert della Quinta.

Il Finale infuocato è certo il movimento più innovativo e – come capita a tante innovazioni – anche il più ostico da digerire. Alternando, a mo’ di Rondo, passaggi davvero faticosi e sofferti, con un contrappunto eterodosso, a gloriose perorazioni. inclusa l’ultima in DO maggiore, davvero sesquipedale, che forse non basta a fare da… alka-seltzer!

Lucas, come molti Direttori che vengono dal cuore dell’Orchestra, non cerca il gesto appariscente (che spesso sfocia nel… gigionesco) ma guida il gruppo con sobrietà unita a precisione, oltre a dimostrare (dirigendola a memoria) di avere con questa Sinfonia una dimestichezza assoluta.

Meritatissimi quindi gli applausi per lui e per tutti i suonatori (fiati in primis).    

  

24 novembre, 2024

Tjeknavorian da camera al Gerolamo.

Come riscaldamento in vista del concerto del pomeriggio, il Direttore Musicale e sette componenti della sezione degli archi dell’Orchestra Sinfonica di Milano si sono ritrovati questa mattina al Teatro Gerolamo di Milano per offrirci due celebri lavori della letteratura cameristica del primo e del tardissimo ‘800.

L’ensemble era così composto (tra parentesi i ruoli in Orchestra):

Violini:

   Emmanuel Tjeknavorian
   Luca Santaniello (spalla)
   Klest Kripa (violini II)
  
 Marco Capotosto  (violini I)

Viole:

   Miho Yamagishi (prima parte)
   Cono Cusmà Piccione 

Violoncelli:
   Tobia Scarpolini (prima parte)
   Giulio Cazzani 

Il primo brano in programma era la versione originale (1899) di Verklärte Nacht di Arnold Schönberg, che prevede un sestetto d’archi (2+2+2); quindi qui sono rimasti dietro le quinte i violini di Kripa e Capotosto. 

In questo mio commento, scritto nel 2023, si può leggere una succinta analisi del brano fatta dallo stesso Schönberg nel 1950. E come scrive l’Autore, è un brano che si può ascoltare anche senza conoscerne il testo letterario ispiratore (pure leggibile nel citato commento e che potrebbe benissimo essere assunto a manifesto dai movimenti anti-patriarcato di oggi) ma proprio come musica pura (e sublime, aggiungo io…)

E così ce l’hanno proposta i sei magnifici de laVerdi, trascinati dall’ispiratissimo Tjek!

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A seguire, andando a ritroso di 65 anni nel tempo (1825) ecco Felix Mendelssohn e il suo Ottetto per archi, composto a soli 16 anni! Sulla prima pagina del manoscritto (in alto a destra) Mendelssohn vergò l’acronimo L.e.g.G. cioè Lass es geling, Gott (Lascialo prosperare, Signore):

Ci sentiamo atmosfere protoromantiche: Felix era ammiratore – arci-ricambiato! - di Goethe, cui era stato presentato, quando aveva soli 12 anni, come un super-Mozart. Pare che l’ispirazione per lo Scherzo sia venuta al ragazzino dall’ultima quartina di versi che chiude il Sogno della notte di Valpurga (nella prima parte del Faust):


ORCHESTER (Pianissimo)
Wolkenzug und Nebelflor
Erhellen sich von oben.
Luft im Laub und Wind im Rohr,
Und alles ist zerstoben.

L'ORCHESTRA pianissimo

Cortei di nubi e veli di foschia
dall'alto si rischiarano.
Un soffio tra le foglie, canne smosse,
e tutto si dilegua.

Vi si respira la stessa atmosfera che di lì a pochi mesi pervaderà anche l’Ouverture dello shakespeariano Sogno.

Mendelssohn – sappiamo del suo amore per il barocco (e… non-solo-Bach) - cita nel finale anche Händel (dall’Halleluja del Messiah):


Le parole (…e regnerà per sempre e sempre…) paiono proprio la conferma del citato auspicio posto in calce alla prima pagina della partitura!

Ebbene, oggi siamo tornati indietro di 200 anni, ospiti di casa Mendelssohn per uno dei tanti momenti di musica che vi si tenevano: senza bisogno di chiudere gli occhi, abbiamo proprio visto il ragazzino Felix Emmanuel, felice come una pasqua, suonare con l’ensemble di famiglia il suo Ottetto nuovo di zecca!

Insomma, un ennesimo miracolo della musica! Che ha eccitato i 200 ospiti della Casa del Gerolamo ad un autentico tripudio per D’Artagnan e i sette moschettieri! 


23 novembre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.8

Ancora il Direttore Musicale sul podio di Largo Mahler. E ancora con un concerto di quelli di una volta, e immerso nel più profondo romanticismo! Auditorium ancora preso d’assalto, con illustri presenze (cito solo lo scaligero Sovrintendente con signora…) e la diretta su Radio3 introdotta dal navigato Bossini.

L’antipasto che Tjeknavorian ci propone (se ne è vista un’anticipazione nella scorsa puntata di Splendida cornice su RAI3) è opera di Felix Mendelssohn, la sua Ouverture zu den Hebriden (Fingals Höhle) composta a cavallo dei primi anni 30 dell’800 dopo un viaggio in Scozia. È in effetti un micro-poema-sinfonico (10’ sì e no) il cui soggetto è l’ambiente naturale di quelle isole scozzesi (che ispireranno poi la Terza Sinfonia) e in particolare di Staffa (con le sue imponenti colonne basaltiche che incorniciano la grotta marina) sul quale si innesta la spuria leggenda del guerriero Fingal (Fionn mac Cumhaill) preteso padre di Ossian e fiero nemico di invasori vichinghi e romani.

In Appendice qualche nota sulla struttura del brano, che il Tjek ci ha offerto con leggerezza proprio mendelssohniana, mettendone in risalto i contrasti, ma senza mai eccedere in facili eccessi enfatici.

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Arriva ora un altro poco più che ragazzo, il 23enne Daniel Lozakovich, svedese di nascita, ma di genitori migranti dall’est, Bielorussia e Kirgizistan, quindi fulgido esempio di globalizzazione dal volto umano, ecco!  

Ci suona il tormentato Concerto per violino di Robert Schumann, opera composta quasi allo scadere dell’avventura terrena del genio di Zwickau, definita da molti un concerto maledetto, anche a causa dell’eccesso di circostanze reali (il sequestro dei manoscritti da parte del deluso e scettico dedicatario Joachim) e di invenzioni romanzate (apparizioni di Schumann in sedute spiritiche) che si sono diffuse relativamente alla sua composizione e poi alla sua riscoperta, come avevo succintamente ricordato anni fa in occasione della precedente esecuzione qui all’Audtorium.

Certo, che il lavoro sia partorito da una mente disturbata è cosa difficile da negare: se si esclude il centrale Langsam, basta osservare la ossessiva riproposizione di frasi musicali lasciate a metà, o di cadenze che… non cadono mai (specie nel finale). Ma, se eseguita con la giusta ispirazione, è un’opera che merita di essere rispettata ed apprezzata.

E devo dire che il giovanissimo Daniel, che con il giovane Emmanuel ha un solido legame di amicizia, ha proprio raggiunto l’obiettivo, distillando il meglio da questo Schumann tanto bistrattato. Proprio nella polacca conclusiva (mi) ha convinto del tutto, a partire dal tempo tenuto, che molti suoi colleghi snobbano come insopportabilmente lento e trasformano in… Ciajkovski!

E ovviamente le sue eccezionali doti tecniche hanno poi fatto il resto, garantendogli un urgano di applausi che lui ha ricambiato, osservato e ammirato dal Direttore sedutosi fra le viole, con una sensazionale Ballade di Ysaÿe.

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La chiusura era riservata a Franz Schubert e alla sua piccola Sinfonia in DO. Così amichevolmente chiamata per distinguerla da quel mostro, sempre in DO, che va sotto il nome di grande.

Schubert, sommo liederista e camerista, difficilmente sarebbe passato alla storia solo grazie alle sue sinfonie. La cui debolezza principale – oltre al fatto di essere, come minimo le prime tre (ma possiamo arrivare anche a questa…) lavoretti scolastici di uno che era poco più che un ragazzino - si annida sempre nel primo movimento, quello che, da Haydn in poi, e massimamente con Beethoven, dà l’impronta a tutto il lavoro.

E il primo tempo deve essere in forma-sonata; e la forma-sonata richiede tassativamente la presenza di (come minimo) due temi: il primo di carattere maschio (eroico, imperioso) e l’altro  (femmina,  contemplativo, elegiaco) che devono prima presentarsi, poi provare - se ci riescono - a convivere, ma in ogni caso devono confrontarsi e magari addirittura affrontarsi e scontrarsi, per poi concludere miracolosamente la pace con la quale il secondo tema entra nella casa del primo (proprio come una moglie entra, patriarcalmente, in quella del marito).

Ebbene, al giovane Schubert sinfonista mancava proprio la capacità non di inventare dei piacevoli temi (e ci mancherebbe!) ma di trovarli ed accoppiarli con le caratteristiche richieste da quelle regole del gioco. Nei primi tempi delle sue sinfonie i due temi sono quasi sempre neutri (né completamente eroici, né completamente elegiaci: né-carne-né-pesce, si potrebbe malignamente insinuare) e quindi il compositore fatica assai a creare le condizioni per farli muovere e vivere all’interno della forma canonica. 

Questo limite si manifesta puntualmente anche nella sesta sinfonia, che si apre con ben 30 battute di un solenne Adagio (proprio à la Haydn) che serve ad introdurre l’immancabile Allegro. Il quale però soffre della mancanza di stacco, di conflittualità (potremmo dire) fra i due temi, cui non basta certo differenziarsi per la tonalità (DO-SOL) per creare quell’atmosfera particolare che è l’essenza dei primi tempi di sinfonia:

La scarsa distanza fra le personalità dei due temi (il secondo pare più un controsoggetto del primo) ha come conseguenza l’atrofizzazione dello sviluppo, poi compensata da una corposa ricapitolazione seguita infine da una coda pretenziosamente enfatica.

Nei movimenti centrali (Andante e Scherzo-Trio) la vena melodica di Schubert va a nozze; poi il Finale è ancora una volta assai ricco (pur se monotono la sua parte) con una coda in cui compare anche un protervo Beethoven: un chiaro preludio a quello della futura grande.

Il riservato Tjek, che deve avere tutta la biblioteca di partiture ben ordinata nella sua folta… capigliatura, con questo Schubert non ha lesinato nemmeno la retorica e l’enfasi che aveva controllato assai nei primi due brani.

Ne è uscita un’esecuzione che ha trascinato il pubblico all’entusiasmo, sfociato in applausi ritmati che il Direttore ha trasferito ai suoi ragazzi, davvero in stato di grazia.

E domenica mattina, come sgambatura di preparazione in vista della replica del concerto del pomeriggio, il Tjek e sette magnifici archi dell’orchestra saranno al Teatro Gerolamo per deliziarci ancora con Mendelssohn e Schönberg!   

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Appendice. Le Ebridi.

Il breve brano è in Allegro moderato, in forma-sonata e vi campeggiano due temi principali: il primo in SI minore, piuttosto mosso, quasi agitato, è subito esposto da fagotto, viole e celli in tre ondate successive dell’alzarsi della marea, con armonizzazione di Si minore, poi RE maggiore, poi FA# minore (come a scalare la triade di SI minore) creata da violini, clarinetti e flauti:

Appare una seconda idea, derivata dal tema, che viene ripreso dai violini, ancora seguito dalla seconda idea. Ora abbiamo un corposo ponte basato su varianti del primo tema, che ci porta ad una distensione dell’atmosfera, culminante nell’esposizione del secondo, più calmo e sereno, quasi uno squarcio di mare in bonaccia… affidato a celli e fagotto, canonicamente nella tonalità di RE maggiore:

Lo riprendono tosto i violini, poi una cadenza chiude l’esposizione e il primo tema ricompare per dare inizio ad un grandioso sviluppo, caratterizzato dal risuonare di fanfare e poi da un ripetuto e stentoreo richiamo dei fiati (che siano il ricordo delle eroiche imprese di Fingal in quelle acque?) Il secondo tema e poi il primo (questo portato in tonalità maggiore) sembrano preparare un’apparente calma che però presto si trasforma in un’atmosfera agitata, caratterizzata dall’irruzione (sul primo tema esposto con ritmo marziale) che progressivamente porta ad un climax che ricorda epici scontri e battaglie marine.

Ma anche il trambusto si attenua rapidamente. Siamo quindi alla ricapitolazione: il primo tema torna portandosi dietro reminiscenze guerresche, poi si calma lasciando spazio al secondo, che riappare, canonicamente in SI maggiore e romanticamente ampliato.

Ma ancora c’è tempo (…Animato) per un ultimo e trionfale sfogo del primo tema, in mezzo a folate di vento e squilli di tromba. Poi tutto si chiude in pianissimo, con i due temi che si riuniscono, proprio in una stessa battuta, la terz’ultima: il primo nel clarinetto, sul FA#, il secondo nel flauto, sul SI, la quinta vuota che oboi e archi ripetono in pizzicato


16 novembre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.7

Finalmente Emmanuel Tjeknavorian arriva sul podio dell'Auditorium da Direttore Musicale! Dopo aver diretto (15 settembre scorso) il Concerto inaugurale alla Scala, si cimenta oggi con un programma di impaginazione tradizionale.

Pubblico foltissimo e con nutrita rappresentanza di teen-agers, il che fa sempre bene al morale, ecco!

Concerto aperto da un brevissimo, ma notissimo, brano di Hector Berlioz, la Marche hongroise, nota anche come Marcia di Rákóczi, valoroso nobile magiaro che capeggiò, all’inizio del 1700, i moti di ribellione contro gli Asburgo.

La storia della composizione è abbastanza bizzarra, come lo stesso Autore ebbe a ricordare assai coloritamente nelle sue Mémoirs (secondo volume, Terza lettera a Humbert Ferrand). Vi troviamo un riferimento dettagliatissimo a questo brano: esso viene composto in un battibaleno a Vienna, nel febbraio del 1846, alla vigilia della partenza per la tappa ungherese del tour del compositore nei territori dell’Impero asburgico.

Dunque, arrivato dopo incredibili peripezie (esondazioni del Danubio, avventuroso viaggio in carrozza e rischi di annegamento) nella capitale magiara (Pest, ai tempi non ancora gemellata con Buda...) il compositore ha in programma un concerto al locale Teatro, e non gli par vero di infilarci, come bis di chiusura (fa sempre le cose in grande, il nostro!) la sua freschissima trascrizione del motivo musicale più popolare laggiù (come poteva essere in Francia la Marsigliese…) 

Alla vigilia però emergono serie preoccupazioni: il timore che l’iniziativa possa essere fraintesa e contestata dal pubblico perché accusata di lesa-maestà… Il caporedattore di un influente giornale di Pest si fa consegnare la partitura e ne trae un giudizio non proprio lusinghiero, criticando in particolare l’assenza di passaggi in fortissimo, come si attenderebbe il pubblico ungherese, patriottico come pochi.

Berlioz non si perde d’animo, rinforza l’orchestrina del Teatro con strumentisti della Filarmonica e chiude il concerto con la Rákóczi. Miracolo! La marcia ha un successo di portata storica, il pubblico va addirittura in delirio, la interrompe più volte con manifestazioni di giubilo, in un fracasso da stadio! Berlioz deve ripeterla e alla fine viene letteralmente portato in trionfo, promosso sul campo eroe nazionale. Persino un vecchio e malandato patriota corre ad abbracciarlo, lodando la Francia e i suoi sentimenti rivoluzionari!

E non per nulla la Rácóczy, ricordo di una sua grandiosa impresa, venne poi infilata da Berlioz alla fine della Prima Parte de La damnation de Faust, appositamente ri-ambientata in Ungheria!

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Il vulcanico Tjek la dirige con piglio davvero garibaldino, meritandosi applausi calorosi. L’unico appunto che mi sento di fare non ha nulla di musicale, ma di… logistico: quando il concerto è aperto da un breve brano orchestrale seguito da uno con il pianoforte, di norma la tastiera è già messa in posizione, con il coperchio ovviamente abbassato, così da evitare un intervallo supplementare. Purtroppo, ieri ciò non è avvenuto (sono certo che si poteva trovare comunque il modo di non sacrificare due violini e due celli). 

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Un poco più che ragazzino (22 anni) che però è già affermatissimo in giro per il mondo, il viennese (come Tjeknavorian, con il quale fa regolarmente coppia anche in concerti cameristici) Kiron Atom Telian, si siede alla tastiera per suonarci un altro celebre brano, il Primo Concerto di Chopin.

La sua è stata una prestazione davvero stupefacente: dopo aver pazientemente atteso che l’Orchestra sciorinasse i temi dell’Allegro maestoso, lui ha attaccato lo strumento quasi con ferocia, scolpendone mirabilmente le prime due battute; poi è stato tutto un crescendo di passione e ispirazione. Nella centrale Romance ci ha dato una lezione di puro rubato chopiniano, portandoci come in un sogno metafisico. Nel Rondo finale poi ha tirato fuori tutta la sua tecnica trascendentale, sempre ben assecondato dall’Orchestra, che il Tjek ha gestito con discrezione, scatenandola solo nei tutti dove la tastiera tace.

Grande entusiasmo per questa coppia cinquantenne (28+22) di musicisti e in particolare per il mingherlino Kiron, che non ci ha lasciato senza un bis, e già che c’era ne ha fatti due, completandoci così una salutare indigestione di Chopin: Studio oceanico e Mazurka in SI minore! 

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La serata si è chiusa nel nome di Brahms-il-progressivo. Così ebbe a definirlo un compositore – Arnold Schönberg - che dai primi anni del ‘900 aveva, a detta di tutti, preso strade letteralmente agli antipodi di quelle percorse dall’ottocentesco, burbero amburghese.

Nel 1935 Schönberg, di cui ricorrono i 150 anni dalla nascita, forse per prendersi un po’ di… vacanze dai suoi viaggi musicali piuttosto, ehm, faticosi… si divertì ad orchestrare il Primo Quartetto con pianoforte di Brahms.

Togliendo di mezzo, per prima cosa, proprio il pianoforte!

A parte gli scherzi, la scelta di Schönberg ha un senso ben preciso, proprio relativamente all’attributo di progressista da lui affibbiato a Brahms. Poiché il Quartetto in questione è un’opera nella quale un Brahms ancora giovane (28 anni) introduce elementi di grande modernità e innovazioni al limite del… consentito, quanto a rispetto delle forme codificate.

Così nel primo movimento la forma-sonata è interpretata con libertà al limite della dissacrazione: tre temi, ardite concatenazioni tonali, sezioni assai poco equilibrate (esposizione pletorica, sviluppo e coda finale limitati quasi al solo primo tema…); l’Intermezzo è una specie di Scherzo-con-Trio, dove il da-capo dello Scherzo viene seguito da una reminiscenza del Trio per concludere il movimento; nell’Andante con moto, dopo le dolci melodie che lo aprono e lo chiuderanno, ecco un’imprevedibile irruzione di un motivo in ritmo puntato, dal piglio maschio e militaresco; e anche lo scatenato Rondo finale è di struttura assai eterodossa.

E poi, Brahms comincia qui ad impiegare quella che diventerà una caratteristica peculiare delle sue composizioni: la perenne rielaborazione di micro-strutture sonore, sottoposte ad una specie di continua variazione, per creare figurazioni nuove ma allo stesso tempo richiamanti quelle originali: insomma, un continuo sviluppo!

Schönberg non cambia una sola nota di Brahms, ma si permette invece di intervenire su agogica e dinamica, oltre ovviamente (avendo a disposizione un’intera compagine tardoromantica) a distribuire alle diverse sezioni dell’orchestra le frasi musicali e l’accompagnamento in modo assai libero.

In questa fulminante presentazione dell’originale e della sua… copia il Direttore e violinista Joshua Weilerstein arriva a definire il risultato ottenuto da Schönberg come la Sinfonia n°0 di Brahms! E in effetti anche chi ha dimestichezza con il Quartetto fatica quasi a riconoscerlo, in questa lussureggiante veste di cui lo ricopre l’orchestratore!

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Il Tjek ha tutta la partitura in testa e l’ha diretta con il suo gesto signorile (proprio viennese verrebbe da dire…) trascinando l’Orchestra, evidentemente sempre più in sintonia con lui, ad una prestazione davvero maiuscola, accolta da ripetute chiamate con battimani ritmati. E venerdi prossino il nostro torna con un programma che più romantico non si può!

09 novembre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.6

Dopo il Requiem verdiano, ecco un’altra specie di requiem occupare l’intero programma del concerto dell’Orchestra Sinfonica di Milano. Trattasi della cupa e funerea Sinfonia n° 11 (1957) di Dmitry Shostakovich.

Sul podio dell’Auditorium esordisce uno yankee dal cognome italico, Case Scaglione, 42enne texano (da Houston, dove per combinazione la Sinfonia fu eseguita in prima americana da Stokowski nel 1958). Dopo aver fatto gavetta in USA (fra l’altro è stato Direttore assistente alla prestigiosa NY Philharmonic) è approdato in Europa, dove è attualmente Direttore – dal 2019 - dell’Orchestre Nationale de l’Ile de FranceIl suo nome si aggiunge così a quelli di Xian, Axelrod, Treviño e de la Parra, la pattuglia di Direttori di scuola americana che negli ultimi anni hanno calcato con successo il podio di Largo Mahler.

Il lavoro fu sollecitato a Shostakovich dalle Autorità sovietiche per rievocare i 40 anni della Rivoluzione d’Ottobre, ma il compositore (che in gioventù già vi aveva dedicato la Seconda Sinfonia… e solo più tardi le dedicherà la 12ma) preferì mutarlo nel ricordo di quella che va sotto il nome di prima Rivoluzione russa, quella del 1905, come recita il sottotitolo dell’opera.

Rivoluzione che in realtà altro non fu se non la brutale e sanguinosa repressione di una pacifica dimostrazione di proletari (operai e contadini) rei soltanto di voler presentare allo Zar Nicola II una petizione dove si chiedeva al sovrano di alleviare le sofferenze del popolo, legate a guerre e perduranti carestie. Repressione che certo aprì la strada al formarsi del movimento propriamente rivoluzionario che portò all’Ottobre 1917. Ecco, di questo antefatto e delle prospettive da esso create tratta programmaticamente il lavoro.

Come altre composizioni di Shostakovich, anche questa ha sollevato dubbi, discussioni e controversie a causa di presunti suoi reconditi significati, soprattutto a livello politico. Si tenga presente che il padre del compositore, Dmitry Boleslavich, nel 1905 si trovava proprio in mezzo alla folla di pacifici dimostranti caricata dai cosacchi dello Zar Nicola II, scampando miracolosamente al massacro. E al figlio, nato l’anno seguente, non mancò di fare dettagliati resoconti di quei luttuosi fatti.

Ecco perché il lavoro - venuto alla luce quando ancora non si era spenta l’eco dello sferragliare dei cingoli dei tank sovietici nelle vie di Budapest - con i suoi espliciti riferimenti alle violenze dell’esercito zarista contro i manifestanti del 1905 fu (ed è ancor oggi) inevitabilmente interpretato anche come sotterranea condanna dei fatti di Ungheria. Ma il regime sovietico del disgelo fece finta di nulla (o di non capire…) e insignì il compositore del Premio Lenin!

I quattro classici movimenti (da eseguire sempre con… attacca) in cui si articola la Sinfonia recano altrettanti sottotitoli, tali da farli assimilare quasi a tappe di un poema sinfonico, che evocano precisamente, come da sottotitoli apposti dall’Autore, il prima, il durante, e il dopo di quella sanguinosa giornata.

Vi compaiono, citati più o meno alla lettera, molti (almeno nove) canti popolari russi di fine ’800 – inizio ‘900, riferibili a rivolte e speranze delle masse proletarie. Certo, a noi non russi che ne ignoriamo l’esistenza e il significato possono anche dire poco, ma la maestria con cui Shostakovich li impiega produce sempre un effetto musicale straordinario.

1. La Piazza del Palazzo (…d’Inverno, SanPietroburgo; Adagio): siamo in un’atmosfera algida e spettrale, in cui pare di avvertire il disagio e il malcontento del popolo che, affamato da guerre e carestie, si è dato appuntamento quel fatale 9 gennaio (22 per il nostro calendario) divenuto famoso come Domenica di sangue, per implorare lo Zar ad ascoltare il suo lamento.

Inframmezzati da squilli di trombe e corni che evocano il sopraggiungere delle forze dell’ordine, abbiamo la citazione di tre canti popolari russi dell’epoca pre-bolscevica: Ascoltate, Il prigioniero, e Signore, abbi misericordia di noi.     

2. Il 9 Gennaio (Allegro): rievoca lo sviluppo di quella giornata, citando nella prima parte brani dai Poemi su canti rivoluzionari, già musicati da Shostakovich anni addietro: O Zar, nostro piccolo padre, e poi Scopritevi il capo

Il suono cresce progressivamente, quasi a descrivere l’ammassarsi (a ondate successive e sempre più esaltate) nella piazza della folla che aspetta invano un riscontro dallo Zar, che invece aveva già abbandonato il Palazzo, temendo il peggio, e ordinando ai servizi di guardia di disperdere la manifestazione. È un’ondata musicalmente evocata da un tempo ternario, che ben rappresenta l’ondeggiare di questa eterogenea massa di poveracci.   

Dopo un ritorno del tema che aveva aperto la Sinfonia, eccoci quindi all’evocazione del massacro perpetrato dai cosacchi sugli inermi dimostranti, presi vigliaccamente a fucilate, inclusi bambini saliti sugli alberi e ammazzati come piccioni (!)

Su un tempo binario, tipicamente marziale, i tamburi militari sottolineano l’arrivo dei soldati; poi si odono i colpi secchi delle armi da fuoco, ma anche suoni martellanti, che ricordano lo spaventevole procedere di mezzi corazzati (il che fa effettivamente pensare alla Budapest del 1956…) Finita la carneficina, restano sulla neve i corpi e il sangue di morti e feriti e il tema di apertura della Sinfonia suggella mestamente l’uscita di scena dei militari, accompagnati dai rulli dei tamburini e da due ultimi, spettrali squilli di tromba. . 

3. Memoria eterna (Adagio): è un nobile Requiem, che rende onore agli innocenti caduti (Voi cadeste da vittime, tratto da una marcia funebre per gli operai) sotto i colpi di un potere assoluto e affamatore; un altro inno, Ah, la parola Libertà, occupa la parte centrale del movimento e la marcia funebre ritorna per concluderlo.

È abbastanza chiaro che si tratti di un omaggio a tutte le vittime della violenza di regimi autoritari, monarchie assolute che siano, o… repubbliche socialiste (e non).   

4. Segnale d’allarme (Allegro non troppo): squilli di ottoni prefigurano l’avvento della futura Rivoluzione del 1917! Dopo un ritorno di O Zar, nostro piccolo padre si incontrano qui il canto Vendetta, tiranni e un altro canto anti-zarista, significativamente di origine polacca (Canto di Varsavia)…  Infine torna, dapprima dolente nel corno inglese, Scopritevi il capo. Che poi, immenso ma per nulla trionfalistico, chiude la Sinfonia.

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Il simpatico Scaglione ne ha tratto un risultato entusiasmante. Il suo gesto è essenziale e preciso, i tempi scanditi con chiarezza ed appropriatezza, mantenendo sempre un perfetto equilibrio fra le varie sezioni, cosa affatto semplice in una partitura come questa, dove fiati (ottoni in particolare) e soprattutto percussioni e timpani la fanno da padroni.

E a proposito di timpani, che sono impegnati per l’80% del tempo, la mitica Viviana non li ha proprio risparmiati, mettendone a dura prova la resistenza e l'integrità: forse perché sa che, anche grazie ad un sostanzioso e generoso contributo di amici dell’Orchestra, già dal prossimo concerto potrà inaugurare le cinque caldaie nuove di zecca appena arrivate in Largo Mahler!

Ma davvero tutti si sono superati e il pubblico è andato letteralmente in delirio, come non capitava da parecchio tempo.

 

01 novembre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.5

Questa settimana l’Orchestra Sinfonica e Coro Sinfonico di Milano propongono, come in ogni stagione che Dio ci manda, uno dei loro (tanti) cavalli di battaglia: il Requiem di Verdi! Per l’occasione Auditorium finalmente affollatissimo.

Concerto dedicato doverosamente alla memoria di Romano Gandolfi, mitico Direttore del Coro della Scala e co-fondatore, proprio 5 lustri orsono, della compagine corale de laVerdi, con la quale un paio di volte guidò il Requiem anche dal podio!

Quartetto vocale (per me) oltre le aspettative, con il soprano Maria Teresa Leva sugli scudi, una prestazione chiusa davvero in bellezza con un Libera me da incorniciare, nelle accorate invocazioni, come negli impervi passaggi della fuga, superati di slancio.

La turca germanizzata Deniz Uzun ha mostrato voce solida e ben proiettata: pregevoli le sue Liber Scriptus e Recordare (con la Leva) e il Lux aeterna (con Corrado).

A dispetto della chiamata all’ultima ora, il tenore Francesco Demuro ha benissimo meritato: da ricordare il suo Ingemisco.

Last-but-not-least, Adolfo Corrado, trentenne basso, di cui sono da apprezzare le due parti solistiche (Mors stupebit e Confutatis) in aggiunta ai passaggi di insieme.

Il Coro di Massimo Fiocchi Malaspina ha festeggiato come meglio non si poteva le sue nozze d’argento con l’Orchestra.

Lascio da ultimo Michele Gamba. Dopo lunga gavetta, a 41 anni si sta ora imponendo sia nel teatro musicale che nel sinfonico come un personaggio di grande spessore: ieri lo ha confermato con l’autorevolezza con cui ha domato questa impervia e multiforme partitura, nella gestione delle proterve irruzioni del Dies Irae, come nell’approccio al complesso Offertorium. Data la sua consuetudine con la musica del ‘900 mi è parso che abbia dato dell’opera un’interpretazione asciutta e severa, evitando facili eccessi melodrammatici. L’Orchestra, che del Requiem ha maturato esperienze fin dagli anni di Chailly e Gandolfi, da parte sua lo ha assecondato alla grande.

Alla fine, entusiastica accoglienza per tutti i Musikanten, con applausi ritmati e diverse chiamate: il pubblico non ne voleva proprio sapere di alzarsi e così Gamba ha dovuto prender per mano la spalla Dellingshausen e portarselo via come un bambinello…