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27 aprile, 2023

Pagelle sulla Lucia scaligera targata Oropesa-JDF/Chailly-Kokkos

La quinta (su 8) rappresentazione di Lucia di Lammermoor è andata in scena ieri sera alla Scala, in un teatro ben lungi dall'esaurito.

Tradita la prima per rispetto a… Rachmaninov, ho quindi iniziato l’approccio a questa nuova produzione attraverso lo streaming-on-demand di RaiPlay, che (ancora per pochi giorni, parrebbe) mette la recita del 13 aprile a disposizione del pubblico. (Nel frattempo è comparsa la registrazione anche su youtube, finchè qualcuno non reclamerà…) Come spesso accade, la ripresa televisiva dà assai di più (e non sempre meglio?) di ciò che si vede in teatro, soprattutto grazie alle angolazioni di ripresa e ai primi piani. 

Parto quindi dalla regìa, che in un’opera come questa conta (ad esagerare) per 20 su 100, rispetto alla musica, per dire che Jannis Kokkos ha fatto il minimo sindacale (ma per lui il salario minimo è un filino più alto degli stratosferici 9€ all’ora che tuttora si negano qui da noi…) limitandosi a coprire i personaggi con abiti contemporanei, il che ce li rende però ancor più antipatici e ridicoli, diciamolo francamente: volendo darci un riferimento all’attualità avrebbe potuto ambientare la vicenda fra le bande del Bronx (tipo West Side Story, per dire) visto che il soggetto è una scopiazzatura di Romeo&Juliet (con tanto di alias di Frate Lorenzo…)

E a proposito di scopiazzature, mi viene in mente la grande scalinata di Brockhaus-Svoboda del 2012, nella produzione del circuito lombardo; per il resto, trovate abbastanza bambinesche: animali di cartapesta – incluso un ramicornuto cervo -  assortiti qua e là e improbabili statue da Cimitero Monumentale… Insomma, una regìa inconsistente, che il loggione alla prima aveva disapprovato assai, e a ragione, mentre ieri sera è stato un filino più clemente (o talmente disinteressato, data l’assenza del regista alle uscite finali, da risparmiare anche sui buh…)

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I suoni - ancora una volta, e come sempre, se emessi come si deve! – hanno solo parzialmente rivalutato questa produzione.

Merito al 60% almeno di Direttore, buca e coro, davvero irreprensibili per ricercatezza di tempi, di suono, di sfumature e di pathosIl restante 40% se lo devono dividere i protagonisti, ai quali mi permetto di assegnare il premio di produzione nelle seguenti quote:

10% Lisette Oropesa (Lucia) [voce calda e morbida, acuti pennellati, agilità virtuosistiche, buona recitazione anche se un po’ contratta]

9% Boris Pinkhasovich (Enrico) [bella sorpresa, voce importante, sicura ed efficace presenza scenica]

7% JDF (Edgardo) [queste sue escursioni extra-rossini non (mi) convincono, fatta salva la sua grande professionalità e la voce ancora abbastanza integra; che però al loggione arrivava a malapena (la glassharmonica si sentiva di più!)]

5% Carlo Lepore (Raimondo) [ha fatto il possibile per non far rimpiangere Pertusi]

4% Giorgio Misseri (Normanno) [in proporzione al peso dei ruoli, all’altezza di JDF]

3% Leonardo Cortellazzi (Arturo) [minimo sindacale per lui]

2% Valentina Pluzhnikova (Alisa) [incoraggiamento per l’accademica]

Primo e terzo atto complessivamente discreti, il secondo francamente meno, con la punta di diamante dell’opera (il sestetto) passato via senza emozione.

Alla fine qualche bravo! per Oropesa, Pinkhasovich, Florez, Chailly e coro; applausetti per i restanti. Regista, come detto, non presentatosi. In tutto forse 7-8 minuti, poi tutti a nanna.

In conclusione, che dire? Maliziosamente: dovremmo ringraziare il Covid per averci risparmiato di sorbire questa passabile minestrina come cenone di un SantAmbrogio? 

23 aprile, 2023

laVerdi 22-23. 27 (Rach4/4)

Il programma dell’ultima giornata del Rach-Festival era totalmente dedicato al compositore russo, presentando in pratica le ultime due opere cui Rachmaninov lavorò prima della morte (1943).

Il Concerto n.4 per pianoforte e orchestra in Sol minore op.40 era stato ideato a ruota del Rach3 (anni ’10-’15) se non ancor prima… ma poi ripreso e completato solo nel 1926; quindi revisionato una prima volta nel 1928; e infine, sottoposto ad altre sostanziose modifiche nel 1941. Fu l’ultima fatica del compositore, seguita di poco alla penultima, le Danze sinfoniche op.45 che hanno completato questa interessante rassegna offertaci da laVerdi.

Sulle intricate vicende del Concerto e sulle principali differenze fra la seconda versione del 1928 e quella definitiva del 1941 ho già pubblicato su questo blog un tormentone ora disponibile qui, quindi non mi dilungo oltre. Caso mai può essere di qualche interesse confrontare le tre versioni ascoltando la terza e ultima dal grande Benedetti Michelangeli, la seconda da William Black e la prima da colui che l’ha incisa per primo dopo la riesumazione nel 2000. Si noteranno così le differenze di durata: 25’, 29’, 31’, a dimostrazione del progressivo smagrimento cui l’Autore sottopose la partitura.

Romanovsky, che ha comprensibilmente presentato la versione 1941, evidentemente deve ancora prenderle tutte le misure, se è vero che si è portato lo spartito sul leggio, e al suo fianco anche l’aiuto gira-pagine. Ma ciò non significa che la sua interpretazione non sia stata eccellente, quanto meno lui è riuscito a renderci questa partitura meno ostica e indigeribile di quanto non rischi di essere: purtroppo, se gli ingredienti del manicaretto sono di qualità mediocre non c’è cuoco che possa cavarne un piatto da leccarsi i baffi, ahinoi.

Ma il pubblico dell’Auditorium – stracolmo anche oggi pomeriggio - lo ha comunque premiato per… l’abnegazione, riservandogli poi un trionfo in ringraziamento per questo autentico regalo che ci ha fatto in questi ultimi 10 giorni. Ci auguriamo di rivederlo (e soprattutto… risentirlo) al più presto. Oggi intanto si è congedato con due sontuosi bis: Rachmaninov e un oceanico Chopin.
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Si è chiuso con il canto del cigno di Rachmaninov, le Danze sinfoniche. Sono proprio un bigino di tutta la precedente produzione del russo trapiantato in USA. E quindi, a chi Rachmaninov piace, piacciono assai. I tre movimenti dovevano avere anche dei sottotitoli - mezzogiorno, tramonto e sera, poi non pubblicati – che peraltro non sembrano propriamente rispecchiati sul pentagramma. 

L’organico orchestrale comprende anche il sax contralto, che impreziosisce il primo dei tre movimenti, oltre al pianoforte e ad una corposa batteria di percussioni.

 

Il primo dei tre brani ha una struttura macroscopicamente tripartita, con le sezioni esterne più mosse dove si ode il tema principale della danza, nervoso e insistito:

La sezione centrale è invece di carattere intimistico e vi spiccano gli interventi della morbida voce del sax contralto:


 

Il secondo brano è praticamente un Walzer, piuttosto tetro e spettrale, sul tipo, per intenderci, dello Scherzo (Schattenhaft) della Settima mahleriana. Il motivo principale è esposto nella prima parte del brano da corno inglese e oboe:


Una seconda sezione è più languida nel ritmo, ma sempre cupa, poi riprende fino alla fine questa specie di danza macabra.


Il terzo e conclusivo brano si apre, dopo un’introduzione lenta, con un Allegro vivace che presenta una danza nervosa e sincopata, che passa da una sezione all’altra dell’orchestra. Segue una transizione lenta e misteriosa, con sonorità cupe del clarinetto basso, con la musica che poi progressivamente si acqueta. Riprende infine l’Allegro vivace dove, dopo l’introduzione dell’oboe e alcune fanfare delle trombe, udiamo distintamente il Dies Irae (una vera fissazione di Rachmaninov) che introduce il caotico finale.

  

Che dire? Che il povero (si fa per dire… certo non dal punto di vista economico, ma purtroppo da quello estetico) Rachmaninov abbia cercato – in extremis, per darsi una patina di modernitä - di scimmiottare gli stilemi (da lui prima sempre vituperati) di uno Stravinsky o di un Prokofiev? O che ormai sentisse, magari nel subconscio, l’avvicinarsi del traguardo riservato a tutti noi? Come interpretare sennò il trito (per lui) riferimento al Dies-Irae che la fa da padrone alla fine dell’ultimo brano? 

    

Insomma, quest’ultimo lavoro, insieme al drastico maquillage operato al 4° concerto, sembra forse testimoniare di una tremenda presa di coscienza di una vita… sprecata? Beh, in quegli stessi anni, o poco dopo, tale Richard Strauss, pur distrutto dalla caduta di tutti i suoi ideali e mortificato dal processo di denazificazione, ci lasciava cosucce tardoromantiche quali Metamorphosen e Vier letzte Lieder… non so se mi spiego!


Ma queste note poco elogiative per il compositore non vanno ovviamente estese agli interpreti, che ancora una volta si sono superati per compattezza, precisione, affiatamento e per qualità di suono.  

21 aprile, 2023

laVerdi 22-23. 26 (Rach3/4)

Il programma della terza giornata del Rach-Festival (praticamente sold-out!) accosta al Concerto del compositore russo uno dei lavori più noti ed eseguiti di Edward Elgar, le Enigma Variations op.36, del 1898-99.

In esso il musicista albionico si divertì a ritrarre musicalmente gli amici, personaggi più o meno noti della buona società britannica, ed anche sé medesimo (!) attraverso una serie di 14 variazioni su un tema, che sarebbero ulteriormente legate ad un più ampio tema, che le percorre tutte: e quest'ultimo tema costituirebbe l'enigma cui fa riferimento il titolo. Da più di un secolo c'è chi si è scervellato per trovare la soluzione: God save the Queen (oh sorry, H.M. Charles III) the KingAuld Lang Syne (il nostro Valzer delle candele) furono proposte all'autore, che negò fossero la risposta giusta e così lui si portò il segreto nella tomba.

Ma il concorso è continuato negli anni: nel 1976 un musicologo olandese, Theo van Houten, decriptò una frase che Elgar aveva scritto per il programma di sala della prima esecuzione: So the principal theme never appears. Dato che il compositore amava i giochi di parole, la frase si può leggere anche così: So the principal theme - never - appears, quindi il tema in questione potrebbe aver qualcosa a che fare con il termine never. E guarda caso, il più antico canto patriottico albionico, Rule Britannia, contiene la parola never musicata da Thomas Arne precisamente con le prime note riprese da Elgar per il suo tema:

Altri indizi – e pure complicatissime elucubrazioni - portano a soluzioni diverse, peccato che Elgar non possa più confermare o smentire. 

Di sicuro la più famosa delle variazioni, spesso eseguita singolarmente, come bis nei concerti, è la n°9, intitolata Nimrod, un grande Adagio in MIb maggiore, dove il tema viene esposto con molta nobiltà, in un continuo crescendo dall'iniziale ppp al ff della finale perorazione, chiusa poi di nuovo in pp. È un grande momento che supera esteticamente lo stesso finale, piuttosto enfatico e scontato.

Variazione controversa per quanto riguarda l’agogica, che l’Autore prescrive con indicazione metronomica di 52 semiminime al minuto. Essendo in tutto costituita da 43 misure in 3/4 (=129 semiminime) e in assenza di variazioni (salvo il ritenuto sulle ultime 4 misure) se ne deduce matematicamente che la sua durata dovrebbe essere (espressa in decimali) di 129:52= 2,48 minuti, cioè circa 2’30”. Orbene, se ascoltiamo questa registrazione del 1926, con l’Autore sul podio, riscontriamo che il brano dura da 12’02” a 14’49”, cioè 2’47”, appena di poco più lento rispetto al metronomo. Ma se ascoltiamo tutte le principali esecuzioni (youtube ne è affollato) scopriamo che nessuna sta sotto i 3’, ma di norma ci si avvicina o si superano i 4’. Il record lo detiene Lenny Bernstein che fa suonare la BBC Symphony (con la quale per la verità aveva un po’ di ruggine…) addirittura a 5’15”, ben più del doppio più lento rispetto al metronomo di Elgar! (NB: Flor l’ha suonata attorno ai 4’, seguendo quindi il solco di quella che ormai è diventata tradizione interpretativa, con la quale personalmente tendo a discordare.)

Infine, c’entra qualcosa quest’opera con Rachmaninov? Mah, dal punto di vista degli anni della composizione, e se è vero che Elgar – come il russo – era tentato a quel tempo di abbandonare la musica… allora starebbe meglio a fianco del Rach2… oppure c’è qualche enigma nascosto (magari all’insaputa di Rachmaninov) anche nel Rach3? 

Beh, comunque sia è sempre un piacere ascoltarla, se poi chi la suona è un’Orchestra di prim’ordine!
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Eccoci quindi al famigerato Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra in Re minore op. 30, nel quale possiamo vedere qui impegnato il nostro beniamino Alexander allorquando (2001) si rivelò come stella nascente nel pianismo internazionale. Come ho suggerito in questo precedente scritto, le difficoltà del concerto sono più che altro di natura per così dire… atletica (dato il quasi continuo impegno del solista, cui sono riservate pochissime pause di respiro) che non tecnica.

Una delle tante curiosità che suscita l’ascolto del Concerto riguarda la cadenza del movimento iniziale, invero massacrante, di cui Rachmaninov ha lasciato (scritte in partitura) due diverse versioni, che riguardano peraltro solo la prima parte della cadenza: la principale è forse più virtuosistica, mentre l’altra (indicata come ossia) è più lunga, massiccia e severa.

Ebbene, Romanovsky, nella citata esecuzione del 2001 al premio Busoni, eseguì la cadenza principale (si ascolti la parte specifica fra 10’32” e 11’25” del video). Più recentemente (2019) a Seul Romanovsky ha invece eseguito la seconda (da 10’22” a 12’04” in questo video). Che ha scelto anche ieri sera.

Inutile dire della sua interpretazione, invero strepitosa, coadiuvata da un’orchestra che lo ha supportato nel migliore dei modi. L’oceanico pubblico dell’Auditorium (davvero, nonostante il nubifragio che ha flagellato Milano) è andato letteralmente in visibilio, tributandogli una lunghissima standing ovation, che lui ha ricambiato con due bis: una versione pianistica (in DO# minore) di Vocalise e il Momento Musicale n°4.

16 aprile, 2023

laVerdi 22-23. 25 (Rach2/4)

Il programma della seconda giornata del Rach-Festival fa precedere il Secondo Concerto dalla versione orchestrale degli Études-Tableaux, predisposta da Ottorino Respighi nel 1929 in risposta ad un’iniziativa del vulcanico Koussevitsky che aveva chiesto a Rachmaninov di orchestrare per la BSO alcuni dei brani delle due opere pianistiche (la 33 del 1911 e la 39 del 1916).

Ne è uscita questa raccolta di 5 Studi, così selezionati da Rachmaninov e messi da Respighi in sequenza concordata con l’Autore:

La mer et les mouettes (Il mare ed i gabbiani) – (Op.39, n°2)

La foire (La fiera) – (Op.33, n°6)

Marche funèbre (Marcia funebre) – (Op.39, n°7)

La chaperon rouge et le loup (Cappuccetto Rosso e il lupo) – (Op.39, n°6)

Marche (Marcia) – (Op.39, n°9)

Mah, forse qui c’è troppo Respighi… sono convinto che altro effetto avrebbe fatto l’esecuzione di Romanovsky al pianoforte!
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Ecco quindi il di gran lunga più famoso ed eseguito Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra in Do minore op. 18.

Opera nata proprio all’inizio del XX secolo (1900) a valle di una stagione davvero penosa per Rachmaninov, dalla quale uscì proprio sfornando questo lavoro che gli darà, oltre a grande notorietà, anche il carburante per tutta la sua successiva attività di compositore e soprattutto di concertista.

Concerto che da sempre ha sollevato discussioni fra i critici (meno nel pubblico, di norma entusiasta, va detto) dove si distinguono i giudizi lusinghieri sull’ispirazione e la vena melodica, e quelli invece negativi, se non stroncanti, che ci vedono null’altro che un comodo riflusso di Rachmaninov verso canoni estetici superati e contenuti di fin troppo facile presa sull’ascoltatore. Ho personalmente inquadrato l’origine e le principali caratteristiche del Concerto in uno scritto consultabile qui.     

Romanovsky lo ha già eseguito numerose volte (qui lo vediamo a Seul 9 anni orsono) e anche oggi ha sciorinato tutte le sue straordinarie qualità tecniche ed interpretative. Questa partitura comporta facili rischi di scivolate sul miele o sulla marmellata, ma il nostro ha saputo dosare alla perfezione gli ingredienti del manicaretto; forse (ma non è colpa sua) in alcune parti del primo movimento Flor non ha bene dosato le dinamiche, finendo per coprire il suono del pianoforte. Straordinario invece l’Adagio, dove Romanovsky è stato davvero ispirato. Travolgente poi il finale.

Pubblico (Auditorium praticamente preso d’assalto, oggi pomeriggio) in delirio e chiamate a ripetizione, ricambiate da due bis (il primo sempre Rachmaninov).

Giovedi prossimo il Rach3

14 aprile, 2023

laVerdi 22-23. 24 (Rach1/4)

Claus Peter Flor (oggi Direttore Emerito dell’Orchestra Sinfonica di Milano) e Alexander Romanovsky (39enne ukraino trapiantato a Bologna…) hanno ieri dato il via al Rach-Festival, che propone (fino a domenica 23/4) l’integrale dei 4 Concerti pianistici di Sergei Rachmaninov (più altre sue e non sue composizioni).

Il programma della prima giornata è aperto da due lavori di autori francesi contemporanei di Rachmaninov, lavori che hanno in comune il fatto di essere nati per il pianoforte a 4 mani e di essere poi stati trascritti per l’orchestra. Meno stretti sono i loro legami con il Concerto di Rachmaninov: la cui versione originale è di poco posteriore al lavoro di Debussy, mentre quello di Ravel è coevo addirittura del Rach3. Ma anche la versione definitiva del Rach1 non parrebbe influenzata dalle opere dei due compositori francesi.  

Ascoltiamo quindi per prima la Petite Suite in 4 movimenti che Claude Debussy compose nel 1889 per pianoforte a 4 mani, ispirandosi (per i primi due brani) a poesie di Paul Verlaine. Solo 8 anni più tardi sarà un allievo di Ernest Guiraud (quello che aveva… bistrattato la Carmen) di nome Henri Büsser a trascrivere la Suite per grande orchestra.

Seguono poi i Cinq pièces enfantines, che recano il titolo Ma mère l'oye (raccolta di poesie di Charles Perrault che ispirano i due primi pezzi) e che Maurice Ravel compose nel 1909 per pianoforte a 4 mani e orchestrò nel 1910, per poi ampliare a balletto nel 1912.
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Questo antipasto è servito più che altro a mettere in evidenza la distanza fra le avanguardie francesi e la… retroguardia russa rappresentata da Rachmaninov e dal suo Concerto n.1 per pianoforte e orchestra in Fa diesis minore op.1.

Di cui si è eseguita (come ormai quasi sempre accade) la versione definitiva approntata dall’Autore nel 1917, ben 26 anni dopo la stesura originale del 1891. Una mia breve storia ed esegesi della composizione, inclusi alcuni riferimenti alle novità introdotte dalla versione definitiva, è consultabile a questo link.  

Romanovsky la affronta con gran cipiglio, martellando sulla tastiera le poderose terzine in ottava a due mani che coprono le battute 3-8 del Vivace di apertura. Poi mette tutta la sua sensibilità nel presentare i due temi (espressivo e cantabile) che innervano l’esposizione. Ispirata la lunga cadenza che porta alla chiusura.

Lo spirito romantico del concerto viene mirabilmente interpretato da Romanovsky nell’Andante, condotto con nobile semplicità… a dispetto del relativo appesantimento apportato da Rachmaninov in questa versione agli interventi dell’orchestra.

Anche l’Allegro vivace conclusivo, come rimaneggiato nel 1917, acquista una brillantezza piuttosto… gratuita, ecco. Romanovsky fa del suo meglio perché la voce del pianoforte non venga troppo oscurata dai rumorosi interventi dell’orchestra.

Alla fine grande apprezzamento per lui (e per tutti, ovviamente) ricambiato da ben due bis: il primo e più famoso Preludio di Rachmaninov (in DO# minore, op.3 n°2, che si riverbera anche nel Concerto appena ascoltato) e poi il 12° Studio dell’op.8 di Scriabin, nella bizzarra tonalità di RE# minore! 

Domenica il Rach2. 

08 aprile, 2023

laVerdi 22-23. 23

Come da tradizione ormai super-consolidata il Concerto pasquale dell’Orchestra Sinfonica di Milano è occupato (ad anni alterni) dalle due Passioni bachiane. In questo 2023 è toccato quindi alla più famosa e monumentale delle due: la Matthäus-Passion. Che per la verità è stata eseguita dall’Ensemble strumentale e vocale laBarocca, guidato dal fondatore Ruben Jais (General Manager e Direttore Artistico della Fondazione) e dal Maestro del coro Luca Scaccabarozzi, cui si è aggiunto il Coro di Voci Bianche di Maria Teresa Tramontin.

Sul palco c'erano in tutto: le due orchestre (previste da Bach) di 20 e 19 strumentisti; le 24 voci dell’Ensemble vocale e (per la prima parte) le 30 ragazzine delle Voci Bianche.

Rispetto alla precedente edizione (2019, poi ci furono i 2 anni di black-out Covid) sono tornati due dei sei solisti principali: il tenore Bernhard Berchtold (Evangelista) e il contralto Nicholas Tamagna. Cui si sono aggiunte quest’anno le voci soliste principali di Johannes Held (basso, Gesù), Katja Stuber (soprano), Martin Platz (tenore) e Renato Dolcini (basso). Il solista alla viola da gamba era Juan Manuel Quintana.

Le restanti sei voci soliste secondarie sono state affidate a elementi dell’Ensemble Vocale: Caterina Iora (soprano, Ancilla II), Joanna Klisowska (soprano, Ancilla e Uxor Pilati), Maria Chiara Gallo (contralto, Testis I), Baltazar Zuniga (tenore, Testis II), Dario Previato (basso, Petrus, Pontifex II e Judas) e Piermarco Vinas (basso, Pontifex I e Pilatus).

Definire strepitoso il successo della serata è ancora poco: Auditorium più popolato rispetto agli ultimi appuntamenti e letteralmente entusiasta della prestazione di tutti. Ciò che personalmente apprezzo della direzione di Jais è il grande equilibrio dei tempi: lui riesce sempre a stare entro o poco più delle tre ore nette di musica, il che testimonia dell’approccio asciutto ed essenziale a questo capolavoro bachiano. Mille miglia distante da certe esagerazioni retoriche che trasformano Bach in Wagner, come questa di Klemperer che la tira per 3 ore e 3/4 (!?) col passo di… Parsifal.

Insomma, una bella occasione per elevarsi al di sopra delle miserie quotidiane.  

05 aprile, 2023

La Napoli settecentesca trionfa alla Scala

Dopo La Calisto della penultima stagione, la Scala prosegue nel suo revival settecentesco con una proposta assai interessante, un’opera comica in dialetto napoletano. Si tratta di Li zite ngalera (no, non è Giorgio Bracardi…) che un musicista dal nome piuttosto impegnativo aveva composto per il Teatro dei Fiorentini di Napoli, specializzato nel repertorio leggero (quasi un secolo dopo vi sarà di casa anche Rossini, prima di passare, con l’opera seria, al SanCarlo). 

Piermarini con qualche vuoto all’inizio, poi ampliatosi assai nell’intervallo, ma chi è rimasto fino alla fine ha applaudito e ovazionato tutta la troupe per almeno 10 minuti buoni!  

L’allestimento è curato da Leo Muscato (già distintosi qui proprio con Rossini per un Barbiere, che tornerà a settembre) che è anche autore della preziosa traduzione italiana (eh sì, ad uso e consumo di noi polentoni del nord, soprattutto) del libretto di Bernardo Saddumene.

Soggetto che si presta, per sua natura, oltre che per le consuetudini dell’epoca, a incursioni nell’area che oggi è d’attualità sotto il termine LGBTQ+… Non solo abbiamo parti en-travesti per così dire tradizionali (femmine – tipicamente contralti, ma qui anche soprani e controtenori - che impersonano maschi e maschi – tenori - che impersonano femmine) ma anche travestimenti in senso proprio (femmine che si travestono da maschi) il che eleva a potenza le occasioni e i pretesti per creare equivoci di ogni sorta. Basti osservare come al centro del plot ci siano tre voci di soprano: una femmina (Belluccia) travestita da maschio (Peppariello) che tenta di riconquistare l’amore di un maschio (Carlo, femmina en-travesti) che sua volta concupisce un’altra femmina (Ciommetella) la quale si innamora perdutamente della travestita Peppariello: insomma, uno strepitoso triangolo, che ovviamente si presta ad ogni sorta di situazione… ehm equivoca, con piccanti doppi-sensi e salaci sottintesi.

Soggetto che presenta poi aspetti sui-generis (in territorio comico invece che drammatico) di pièce-à-sovetage (Belluccia-Peppariello tipo Leonore-Fidelio). Il tutto in uno scenario percorso da patetiche gare fra maschi frustrati che si contendono l’unica femmina passabile del circondario (a sua volta frustrata per la mancata cattura della femmina-maschio di cui sopra); e velleitari tentativi di un’attempata femmina (cantata da un tenore) per guadagnarsi i favori di quegli stessi maschi frustrati!

Immancabile il lieto fine, dove l’Autorità superiore dismette miracolosamente la sua ira punitiva per perdonare figlia e futuro genero e concedere a tutti l’auspicato, gratificante futuro… in galera, appunto.

Quanto alla musica, Vinci fa maledettamente sul serio, per rigore e austerità, mantenendosi sempre su un piano nobile, e mai scadendo nel frivolo e nel disimpegnato. Andrea Marcon la interpreta con gusto e raffinatezza, guidando i 21 barocchisti scaligeri, rinforzati da 9 elementi de La Cetra Barockorchester e sedendo lui stesso al cembalo.
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Muscato ambienta l’intera opera in un albergo e dintorni, le cui diverse zone, stanze e lobby sono costituite da mini-scenari (di Federica Parolini) che, traslando dalle quinte di destra verso quelle di sinistra o viceversa, e magari combinandosi, di volta in volta mettono in primo piano gli ambienti delle diverse scene. Un velario scende spesso per mettere in primo piano ciò che accade al proscenio.

Simpaticamente appropriati i costumi di Silvia Aymonino e assai efficaci le luci manovrate da Alessandro Verrazzi. Undici mimi contribuiscono ad animare alcune scene, tipo l’arrivo della galera del padre di Belluccia, carica di turchi e schiavottelle.  

Insomma, un’ambientazione simpatica e intelligente, che valorizza in pieno il dipanarsi dell’apparentemente complicata vicenda. Meritati quindi gli applausi e le ovazioni che hanno accolto alla fine tutto il team registico.
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Detto già della pregevole prestazione di Direttore e strumentisti (incluso lo zufolo che ha fatto per lunghi tratti il verso del pappagallo in gabbia) resta da lodare in blocco il cast delle voci.

A partire da quelle di soprano protagoniste del triangolo: lo svettante Carlo di Francesca Aspromonte, la sdoppiata Belluccia-Peppariello di Chiara Amarù e la frustrata Ciommetella di Francesca Pia Vitale. Memorabile e strepitosa la scena del loro terzetto dell’atto II.

Il controtenore Raffaele Pe ha strappato applausi per la sua prestazione – non solo canora, ma attoriale – nei panni di Ciccariello, questa specie di Cherubino ante-litteram.

L’altro controtenore Filippo Mineccia ha autorevolmente dato forma al personaggio di Titta, che alla fine viene gratificato dall’amore della tanto inseguita Ciommetella.     

Alberto Allegrezza ha prestato la sua voce, en-travesti, alle velleità amorose dell’attempata Meneca, sfoggiando per di più anche le sue doti di specialista al flauto dolce!

Il terzo pretendente (con Carlo e Titta) a Ciommetella è il navigato Antonino Siragusa, che ha messo la sua squillante voce tenorile al servizio del barbiere Col’Agnolo. Il garzone di Meneca, nonchè cuoco, Rapisto, è stato efficacemente impersonato da Marco Filippo Romano, solida e penetrante voce di basso-baritono.

Filippo Morace ha fatto la sua bella figura nei panni – peraltro quantitativamente ristretti - del Capitano di galera Federico Mariano, mentre il suo aiutante-tirapiedi Assan aveva la voce dell’altro basso, l’accademico Matias Moncada. L’altra accademica, Fan Zhou, se l’è cavata bene nei panni della schiavottella, cui è riservata una breve aria nel finale.
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Come detto, trionfale accoglienza per tutti e per ciascuno, a riprova della validità di questa coraggiosa proposta del Teatro milanese.
 

01 aprile, 2023

laVerdi 22-23. 22

Il 22° Concerto della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano – che vede il ritorno sul podio di Maxime Pascal - è interamente occupato da un’opera di rarissima esecuzione, che si ripresenta qui in Auditorium (per la seconda volta) dopo esattamente 13 anni: si tratta di Turangalìla di Olivier Messiaen. [La pronuncia corretta prevede l’accento sulla ì, essendo il nome formato dall’unione di due parole sanscrite: Turanga-Lila.]

Opera che definire bizzarra è ancora poco: è infatti chiamata Sinfonia (in 10 movimenti!) ma potrebbe benissimo essere un Poema Sinfonico o una (post-)moderna e ipertrofica Suite, oppure un Doppio Concerto per due tastiere (pianoforte e onde Martenot) o un Divertimento oppure una Messa sacro-profana o anche (perché no…) una simpatica quanto irriverente Passacaglia Accozzaglia! Insomma, un bell’esemplare di UMO (Unidentified Musical Object). In proposito, ecco come la definiva – entusiasticamente quanto causticamente, in un fulminante, enciclopedico pamphlet del 2001 – l’indimenticabile Alberto Arbasino:

È una smisurata supersinfonia per moglie, cognata, elettrodomestici "anni Quaranta", strumenti etnici, e l'intero cosmo. Irresistibile.

Ma Messiaen era – dobbiamo credergli? - del tutto serio quando la compose (nel 1946-48, su commissione della BSO di Koussevitzky) e quando la spiegava al popolo con dovizia di particolari scrivendo, in un programma etico, di scontro barbarie-amore e di trionfo della gioia, in mezzo ad una natura popolata da uccelletti di ogni specie; e lasciandoci una sua dettagliata analisi musicale, dove elencava 4 temi ricorrenti nell’opera, oltre a quelli specificamente caratteristici di ciascuno dei 10 movimenti. [Qui un mio personale collage di queste sue note ricavato a suo tempo da un video online oggi purtroppo non più accessibile.]

Beh, conoscere in dettaglio e proprio dalle sue stesse parole ciò che l’Autore ha concepito è già un bel passo avanti verso la comprensione della sua opera… dopodichè sta alla sensibilità di ciascuno di noi di darne un giudizio estetico. Oggi la Sinfonia gode di alta reputazione un po’ ovunque, ma soprattutto in Francia (per ovvie ragioni… sovraniste) e in USA (per via del battesimo colà celebratosi). Da noi?

Ricordo come fosse ieri come, in quell’ormai lontano 2010, ad ogni chiusura di movimento ci fosse qualcuno che se ne andava tomotomo-cacchiocacchio e come, alla conclusione super-enfatica del n°5 (metà esatta del cammino) fosse scoppiato un grandioso e liberatorio applauso, accompagnato da cappotti e pellicciotti da indossare e permesso, scusi, di molti frettolosi di andarsene a casa o in pizzeria, immaginando finito il concerto (in effetti Lenny Bernstein, che aveva diretto la prima, normalmente a quel punto faceva un intervallo in piena regola). Insomma, non proprio quello che si definirebbe un trionfo…

Ecco, ieri le cose sono andate decisamente meglio: nessuna evasione prematura, né fuggi-fuggi alla fine, ma rigoroso silenzio in tutti i 9 intervalli fra i movimenti e alla fine applausi scroscianti per tutti: il giovane ma autorevole Maxime Pascal, il bravissimo Luca Buratto al pianoforte e la specialista alle onde Cécile Lartigau, a cui vanno doverosamente aggiunti i nomi di Vittorio Rabagliati e Carlotta Lusa alle altre due tastiere.

Ma tutta la compagine, ieri davvero ipertrofica, con i 68 (!!!) archi prescritti da Messiaen (neanche Strauss…) ha mostrato di che pasta è fatta: solo aver il coraggio di affrontare e poi riuscire a domare una partitura simile è un titolo di merito sul quale non si può discutere.

Quanto al giudizio sull’opera, ciascuno darà il suo. Personalmente la trovo interessante, non certo un capolavoro. Che tuttavia ogni 13 anni (se eseguita come ieri) ha comunque il diritto di farsi risentire.