intime gioje

chiuder la prigione e buttar la chiave

29 aprile, 2022

laVerdi 21-22. Concerto 27


Ancora il Direttore Musicale sul podio dell’Auditorium per offrirci una colossale serata-Mozart: le ultime tre Sinfonie!

Un trittico che Mozart compose nell’estate del 1788 a Vienna, destinato a restare (purtroppo) come suo estremo lascito nel genere sinfonico. Una sinfonia dal carattere tragico (la K550, in SOL minore) incastonata fra due (K543, in MIb maggiore e K551, in DO maggiore) caratterizzate da grande luminosità, ottimismo e fede incrollabile.

Nonostante l’origine (temporale) che le accomuna, la presentazione congiunta delle tre sinfonie non è proprio cosa di tutti i giorni. Qui mi permetto di segnalare una preziosa esecuzione olandese su strumenti d’epoca, con diapason a 430 Hz, che permette - ad orecchi ben allenati - di apprezzare la sottilissima differenza (in meglio!!!) di suono rispetto alle esecuzioni su strumenti moderni con diapason innalzato di almeno un quarto di tono, a 440 Hz.

Una curiosità di questo trittico, composto proprio di getto in soli due mesi (da giugno a metà agosto) riguarda l’organico orchestrale, che presenta alcune interessanti differenze fra le tre sinfonie, come schematizzato qui sotto: 

strumenti

K543

K550 (1/2)

K551

flauti

1

1

1

1

1

1

1

1

1

1

1

1

oboi

 

 

 

 

2

2

2

2

2

2

2

2

clarinetti

2

2

2

2

-/2

-/2

-/2

-/2

 

 

 

 

fagotti

2

2

2

2

2

2

2

2

2

2

2

2

corni

2

2

2

2

2

2

2

2

2

2

2

2

clarini (trombe)

2

 

2

2

 

 

 

 

2

 

2

2

timpani

x

 

x

x

 

 

 

 

x

 

x

x

Oltre agli archi (non indicati nella tabella) che sono ovviamente sempre presenti nella classica configurazione (il quartetto di Violini I, Violini II, Viole e Celli+Bassi) gli unici strumenti che suonano sempre, in tutti i 12 movimenti delle tre sinfonie, sono il flauto (sempre solo) i fagotti e i corni. Oboi e clarinetti sono invece in alternativa, tranne che nella versione aggiornata della K550, dove convivono. Peculiare è poi l’assenza totale di clarini e timpani (che tacciono sempre anche negli Andanti) nell’intera K550, forse in omaggio al suo carattere dimesso e riservato.  

Flor (che ha eseguito la K550 con i clarinetti) ha anche raddoppiato (in specifici passaggi) l’unico flauto prescritto da Mozart.

È stata una vera maratona, anche perchè il Direttore ha rispettato tutti i da-capo, inclusi quelli degli Andante, dei finali, e persino quelli delle riprese del Menuetto dopo il Trio! Si è permesso qualche (opportuna e mai invasiva) iniziativa a livello di agogica, mentre ha mantenuto le dinamiche sempre su livelli leggeri, settecenteschi, appunto.

Il pubblico, meno folto rispetto ai più recenti appuntamenti, ha mostrato però di apprezzare questa ardita proposta, che si può ben definire una scommessa vinta.

22 aprile, 2022

laVerdi 21-22. Concerto 26

Il Direttore Musicale fa il suo ritorno sul podio - in un Auditorium preso d’assalto da frotte di giovani e giovanissimi !!! - per una nuova offerta basata sulla premiata coppia Mozart-Beethoven, dei quali si presentano però composizioni non proprio eseguite ad ogni piè sospinto.

Del sommo Teofilo ascoltiamo infatti un’opera tanto preziosa quanto poco presente nei cartelloni delle grandi Orchestre, la Serenata K 361, nota con l’apocrifo sottotitolo di Gran Partita, che impegna (a parte il contrabbasso) una compagine di soli 12 fiati (in 6 coppie): la cosiddetta Königliche-Kaiserliche Harmonie voluta nel 1782 dall’Imperatore Giuseppe II (2 oboi, 2 clarinetti in SIb, 2 corni in FA e 2 fagotti) arricchita da 2 corni di bassetto in FA e 2 corni in SIb.

Tanto incerte sono le informazioni sulle origini e sulle prime esecuzioni dell’opera, quanto certissime e unanimi sono invece le espressioni di ammirazione di tutta la critica (e dei musicofili) nei confronti di questa musica, considerata uno dei vertici dell’arte mozartiana.

Si tratta in effetti di un’opera monumentale (circa 50’ di durata) articolata in 7 movimenti nei quali Mozart sfrutta a fondo ogni possibile prerogativa degli strumenti e realizza ogni possibile colore dei relativi impasti.

1. La Serenata è aperta da un corposo movimento in forma-sonata monotematica, tonalità SIb maggiore. La introduce un Largo di 14 battute che si chiude sospeso sull’accordo di dominante; cui segue l’esposizione in Allegro molto del tema principale il cui incipit qualcuno ha scoperto essere la possibile reminiscenza (tonalità inclusa) dalla terza scena di un’opera di François-André Danican Philidor, intitolata Le maréchal ferrant, che verosimilmente Mozart aveva conosciuto durante il suo viaggio e soggiorno a Parigi:

Dopo 10 battute di transizione ecco il tema riproposto - sottilmente variato! - sulla dominante FA, cui seguono due motivi di chiusura, sempre sul FA. L’esposizione viene riproposta da-capo ed è seguita dallo sviluppo, che presenta due diverse varianti del tema e il breve motivo di chiusura.

Ecco poi la ricapitolazione, con il motivo presentato in SIb - secondo le regole - anche alla seconda entrata, come pure i due motivi di chiusura. Una coda in cui ricompare fugacemente il tema, seguito dal secondo motivo di chiusura dell’esposizione, pone fine al movimento.

2. Ecco ora un Menuetto (primo dei due) strutturato simmetricamente (quasi uno stringato Rondo) come Menuetto - Trio1 - Menuetto - Trio2 - Menuetto. Sia Menuetto che Trii sono in due sezioni, ripetute. La tonalità del Menuetto è SIb maggiore, quella e dei due Trii rispettivamente MIb maggiore (sottodominante) e SOL minore (relativa).

3. Segue poi il brano più famoso dell’opera, un Adagio in MIb maggiore nel quale si racconta (vedi il film di Schaffer) che Salieri udisse nientemeno che... la voce di Dio!

4. Qui abbiamo il secondo Menuetto, in SIb maggiore, che ha la stessa struttura del precedente, con due Trii, in SIb minore e FA maggiore.  

5. Ecco ora la Romanze, che si presenta con una struttura A-B-A (più una coda). É un Adagio in MIb maggiore che incastona un Allegretto in DO minore, che poi si riporta al SIb, dominante del MIb per la ripresa dell’Adagio.

6. Thema mit Variationen. Il tema è in Andante, SIb maggiore ed è un auto-imprestito mozartiano, dal Quartetto con flauto K171 (K285b): il quale a sua volta si richiamava ad Haydn (Sinfonia 47):

É seguito da 6 variazioni (tutte in SIb maggiore, eccezion fatta per la IV, in minore) che danno modo a Mozart di sfruttare mirabilmente ogni possibile prerogativa di ciascuno strumento e delle combinazioni di atmosfere sonore che se ne possono ottenere.

7. É un Rondo in Allegro molto, in SIb maggiore. Il motivo del ritornello è derivato per auto-imprestito da una giovanile Sonatina in DO per piano a 4 mani, la K19d:

Una conclusione davvero indiavolata e strepitosa, che non può non suscitare nel pubblico ovazioni quasi deliranti.

E così è stato puntualmente anche ieri sera, dopo una prestazione davvero di assoluta eccellenza, in una cornice simpaticamente settecentesca, con il Kapellmeister seduto su una poltrona avvolgente e circondato dai 13 strumentisti in questa configurazione:

Direttore che ha scandito gli ultimi accordi emergendo dalla poltrona e imbracciando... il leggìo! Accoglienza a dir poco trionfale.
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La seconda parte della serata è dedicata al beethoveniano Triplo Concerto, l’Op.56, la cui ultima comparsa qui in Auditorium risale a più di 5 anni orsono, quando ad interpretarlo erano stati due alfieri de laVerdi (Santaniello-Grigolato) più il grande Cominati(In quell’occasione mi ero anche permesso di proporre questa sintetica analisi del brano.)

Oggi vi sono impegnati Francesca Dego al violino, Edgar Moreau al cello e Filippo Gorini alla tastiera. Devo dire che mi è parsa una prestazione un filino contratta all’inizio e per tutto il primo movimento, dove anche Flor mi ha dato l’impressione di evitare i contrasti privilegiando un accompagnamento fin troppo discreto. Poi già nel Larghetto le cose sono assai migliorate e il Rondo ha chiuso in bellezza (in particolare ho personalmente apprezzato la sezione centrale).

Lunghi applausi anche qui e così i tre si congedano con il terzo tempo (Duett, Langsam und mit Ausdruck) dalla Phantasiestücke op.88 di Schumann.

16 aprile, 2022

Arianna torna - col trucco rifatto - alla Scala

Dopo quasi esattamente tre anni è tornata a Nasso alla Scala la straussiana Ariadne, che fu accolta da un buon successo nel 2019 nella produzione targata Wake-Walker / Welser-Möst.

Oggi però l’allestimento è quello di Sven-Eric Bechtolf e sul podio va quel Michael Boder che si fece le ossa proprio in Italia (a Firenze sotto le ali di due autorevoli chiocce: Muti e Mehta).

Curiosamente le vicissitudini di questa produzione ricordano da vicino quelle che caratterizzarono la nascita e la vita dell’opera medesima, sulle quali si è scritto e detto quasi tutto (anch’io ho presuntuosamente dato un modesto contributo). E così è successo che Bechtolf abbia in un primo tempo (estate 2012, centenario della prima assoluta di Stoccarda) allestito l’opera a Salisburgo nella versione originale del 1912 e poi, qualche mese dopo e successivamente nel 2014 a Vienna, abbia impiegato lo stesso allestimento (opportunamente riadattato) per proporre la seconda (e definitiva) versione dell’Ariadne (Vienna, 1916).

Della produzione di tre anni fa sopravvivono oggi due importanti superstiti: la grande Krassimira Stoyanova (Ariadne) e l’altrettanto famoso quanto bravo Markus Werba (Maestro di musica).

Bechtold ambienta il soggetto ai tempi della composizione, come si deduce principalmente dai costumi (di Marianne Glittenberg) prima ancora che dalle scene (del di lei marito Rolf) e la cosa, oltre che non nuova, è anche sensata e convincente. Efficaci sempre - in particolare nel finale - anche le luci curate da Jürgen Hoffmann.

Il regista fa entrare in scena (ovviamente solo come comparse) il Maestro di musica e, ancor più corposamente, il Compositore, anche nell’Opera, oltre che nel Prologo, e lo fa a buon titolo, sia per vivacizzare alcune scene (vedi il lungo assolo di Zerbinetta, che il Compositore en-travesti accompagna virtualmente alla tastiera e alla quale passa premurosamente fogli di spartito per i gorgheggi che precedono il famoso Als ein Gott kam jeder gegangen) ma soprattutto per introdurre mirabili tocchi di filosofia di vita, per così dire. Ecco che alla fine, prima che il sipario cali, vediamo il Compositore riunirsi alla soubrette, evidentemente a sancire un sodalizio esistenziale già prefigurato al momento del loro incontro-scontro nel Prologo.

E, a proposito di rapporti fra esseri umani e fra artisti, e fra vita reale e teatro, ecco un altro colpo di Bechtolf da vero maestro: dopo la loro ascensione finale verso... le stelle, Bacchus e Ariadne, che la finzione teatrale di Hofmannsthal e la sbudellante musica di Strauss hanno miracolosamente e sublimemente unito in modo indissolubile, escono di scena da parti opposte, in aperta lite fra loro, a testimoniare dei comportamenti miserevoli che i due hanno nella vita reale, già intravisti nel Prologo, allorquando ciascuno dei due cercava egoisticamente di far tagliare la parte dell’altro/a.

Ma direi che tutta la recitazione è stata curata con la massima attenzione, anche ai dettagli, e questo si applica alla parte esclusivamente parlata del Maggiordomo, come a quelle dei quattro amanti di Zerbinetta, del Maestro di danza e - nell’Opera - delle tre ninfe. In sostanza, un allestimento di gran pregio che, dopo i precedenti successi all’estero (e a livello di DVD...) meritava proprio di essere proposto anche qui da noi.
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Michael Boder per me (forse un po’ meno per il pubblico, che gli ha riservato applausi di circostanza) ha guidato bene la smagrita orchestra dei Trepper, creando la giusta atmosfera low-profile (ma high-quality) che caratterizza questa partitura straussiana, ricca di raffinatezze quanto parca di slanci eroici.

A proposito di eroismi, l’Heldentenor che qui incarna Bacchus, il sessantenne Stephen Gould, ci ha messo tutto il fiato che ancora gli resta (e non è poco... oltretutto per una parte relativamente contenuta) anche se proprio l’ultimo SIb lo ha ghermito alla bell-e-meglio (in pratica: un’acciaccatura sul LAb). Per lui successo di stima, più che trionfo.

Chi ha trionfato sono le due protagoniste femmine-femmine: la Krassimira Stoyanova ha confermato le sue qualità e la sua capacità di immedesimazione nel ruolo della donna abbandonata; quanto alla Erin Morley, la sua è una Zerbinetta accattivante, brillante ed anche patetica quando serve, poi i RE e i MI acuti li ha strappati con la massima sicurezza, il che le ha garantito un lungo applauso a scena aperta. Entrambe accolte alla fine da meritate ovazioni.

La femmina-maschio era Rachel Frenkel (cui subentrerà la titolare Koch per le prossime recite): prestazione che definirei più che dignitosa, in una parte di per sè difficile, più Singspiel che canto...  

Bene anche le altre tre rappresentanti del gentil sesso (Caterina Sala, Svetlina Stoyanova e Olga Bezsmertna) le ninfe che accompagnano la povera Ariadne dalla disperazione alla finale trasfigurazione, dapprima con accorata partecipazione, poi con cullanti ed eteree melodie.    

Ora resta solo da dire degli altri... maschi: su tutti ovviamente Markus Werba, che mette la sua voce rotonda e passante, ma anche la sua grande disinvoltura scenica, al servizio della figura un po’ anguillesca del Maestro di musica. All’altezza della parte il Maestro di danze Norbert Ernst, efficaci i quattro amanti di Zerbinetta: su tutti, data la parte più corposa, l’Arlecchino di Rafael Fingerlos, ma bravi anche Jinxu Xiaho, Jongmin Park e Leonardo Navarro a completare il quartetto in monopattino. Oneste le prestazioni dei restanti tre della compagnia: Hyun-Seo Davide Park, Paul Grant e Sung-Hwan Damien Park.
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In conclusione: spettacolo godibilissimo e di gran pregio, che personalmente affianco ad altre proposte di ottimo livello di questa stagione scaligera della ripresa post-Covid.

13 aprile, 2022

laVerdi 21-22. Concerto 25

Siamo sotto Pasqua ed immancabile ecco arrivare una delle Passioni bachiane. Anno pari, quindi tocca, alternandosi con la Matthäus- alla Johannes-Passion. L’Orchestra è laBarocca, guidata dal suo fondatore Ruben Jais.

Quest’anno il Direttore Artistico (e General Manager) della Fondazione ha introdotto, credo proprio per la prima volta, una novità nel contenuto dell’opera: eseguendo la (seconda) versione del 1725 anzichè quella del 1724, sempre adottata in precedenza e quasi sempre impiegata in pubbliche esecuzioni o registrazioni, essendo ritenuta la più authoritative, visto che Bach negli anni successivi (fra il 1730 e il ’40) sostanzialmente vi ritornò.

Le principali differenze sono 5:

1. Il Coro (1) di apertura (O Mensch, bewein dein Sünde groß) rimpiazza Herr, unser Herrscher;

2. l’Aria (11+) del Basso (Himmer reiße, Welt erbebe) rimpiazza (forse doveva seguire) il Corale (11) Wer hat dich so geschlagen;

3. l’Aria (13) del tenore (Zerschmettert mich) rimpiazza Ach, mein Sinn;  

4. L’aria (19) del tenore (Ach windet euch nicht so) rimpiazza l’Arioso Betrachte, meine Seel’;

5. il Corale (40) di chiusura (Christe, du Lamm Gottes) rimpiazza Ach, Herr, laß dein’ lieb’ Engelein.

Differenze che non intaccano la mirabile struttura generale dell’opera, anche ieri splendidamente eseguita dai complessi strumentali e vocali di Jais e dai 10 solisti (di cui 4 componenti del Coro) che sono stati lungamente applauditi e acclamati da un pubblico come sempre assai folto in queste, purtroppo rare, occasioni.

Prima della replica in Auditorium del Venerdi Santo, la Passione sarà eseguita come ormai da tradizione (proprio questa sera) nella religiosa cornice del Duomo di Milano.

09 aprile, 2022

laVerdi 21-22. Concerto 24

L’appuntamento di questa settimana vede sul podio dell’Auditorium il 37enne Maxime Pascal, tornato qui dopo due anni per dirigere un concerto di musiche del ’900 e dello... ‘000 (che gli vanno assai a genio, a giudicare dal suo repertorio).  Auditorium tornato allo scarso affollamento: non si può suonare ogni settimana la coppia Mozart-Beethoven... ma certo il programma odierno è, per così dire, per stomaci forti, ecco.

È Silvia Colasanti ad aprire la serata con un suo brano orchestrale del 2007, Cede pietati, dolor - Le anime di Medea, un titolo quanto mai attinente alla tragica attualità. [A proposito, al nostro super-Mario è scappato il classico lapsus freudiano draghiano, quando ci ha chiesto di scegliere fra la pace e il condizionatore acceso... mentre anche i sassi capiscono che - caso mai - è la guerra che rischia di spegnerlo, il nostro condizionatore, e insieme a lui il 40% della nostra economia, fabbricanti d’armi esclusi.]

Il brano, come lascia intuire il titolo, è ispirato da un verso della Medea di Seneca, parole pronunciate da lei pochi attimi prima di trucidare i figli: un ultimo spiraglio di umanità, prima dell’efferato delitto:  

Perché esiti, anima mia? Queste lacrime, perché mi bagnano il volto? Di qua l'odio, di là l'amore, mi strappano, mi dividono, perché? Opposte correnti mi rapiscono, nella mia incertezza. Rabbiosi venti si fanno guerra spietata, flutto contro flutto si scatena, il mare ribolle e non ha sbocco: è così, proprio così, che il mio cuore è sconvolto. L'ira dà il bando alla pietà, la pietà all'ira. Rancore, cedi alla pietà.

I 12 minuti del brano evocano efficacemente lo stato d’animo disturbato di Medea: ondate di un mare in tempesta si abbattono sugli scogli, deboli spiragli di luce e di calma vengono regolarmente cancellati da nuovi uragani. Alle due estremità del brano pare di sentire un’atmosfera di DO, alla fine c’è una sospensione attorno alla dominante (MI-FA-SOL-SI); ma poi ecco lo schianto che fa presagire il peggio.

É un peccato che quest’opera si possa soltanto fruire live: non (mi) risulta esistano incisioni, a meno di qualche... pirata. Di sicuro anche qui il pubblico l’ha accolta con palese apprezzamento. 
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Segue poi un brano di rarissima esecuzione, il Concerto per violino e strumenti a fiato di Kurt Weill, compositore noto soprattutto per il suo sodalizio con il più celebrato Bertold Brecht. Ad interpretarlo è la 45enne Patricia Kopatchinskaja, dimostrazione vivente che dalla sottosviluppata Moldova non emigrano qui da noi esclusivamente premurose badanti, ma anche artisti di gran valore e di straordinaria umanità.

Il concerto è del 1924, catalogato quindi nella prima stagione della produzione di Weill, prevalentemente orientata allo strumentale, cui seguì quasi soltanto musica per il teatro (la cui perla è la Dreigroschenoper) e poi, in USA, per Broadway e Hollywood.

Oltre al violino solista e ai fiati sono in realtà previste in partitura anche alcune percussioni e pure i contrabbassi, i quali ultimi hanno funzione prevalente di supporto al ritmo, ma saltuariamente anche di protagonisti della melodia.

Come le - e anche più delle - altre composizioni strumentali del primo Weill, il Concerto si caratterizza per l’innovazione della forma (che pochissimo ha a che spartire con quella classica) e soprattutto per la spiccata atonalità, che ricorda il primo Schönberg e ha riflessi mahleriani e pure straussiani. Weill non abbracciò il nascente serialismo, anche se nel Concerto troviamo molte linee melodiche costituite da successioni di 9-10-11 note diverse della scala cromatica.

Un’interessante analisi delle caratteristiche del Concerto (e di altre tre composizioni strumentali di Weill immediatamente precedenti ad esso) si trova in questa tesi di laurea di 50 anni fa. Il primo movimento anzichè la classica forma-sonata presenta una struttura più vicina forse al rondò: A-B-C-B’-D-E-A’, e in esso compaiono non meno di 10 diversi temi! Il secondo movimento - più tonale - si articola in tre parti distinte: Notturno-Cadenza-Serenata. Il terzo si presenta con un saltarello e si spinge ancor più verso riferimenti tonali, chiudendo su una figura dominante-tonica di FA maggiore.      

La vulcanica Patricia si impegna al massimo (lo spartito tenuto sotto gli occhi testimonia che il brano non è proprio un suo... cavallo di battaglia, e direi comprensibilmente) ma la sua tecnica sopraffina non basta a fare di un onesto prodotto un capolavoro, ecco.

Comunque ci addolcisce la... pillola con un bis in combutta con il clarinetto del mitico Fausto Ghiazza
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Infine la Musica per archi, percussioni e celesta di Bela Bartók, del 1936, commissionata al compositore dal direttore d’orchestra e magnate rossocrociato Paul Sacher per la sua Orchestra da camera di Basilea.

Gli studiosi che hanno analizzato minuziosamente la tecnica compositiva di Bartók ci dicono come - accanto alle ricerche sulle musiche popolari del suo Paese, ma anche di Paesi balcanici e mediorientali (Turchia, ad esempio) - il compositore ungherese abbia anche impiegato tecniche derivate dalla matematica (che sappiamo fin dai greci avere con la musica legami indissolubili). Fra queste si cita ampiamente l’uso della Serie di Fibonacci e del concetto di Sezione aurea. Ed è proprio il brano eseguito qui che viene citato come esempio di tali impieghi, che vanno dall’uso di intervalli (per melodia e armonia) rappresentati esclusivamente da numeri presenti nella Serie del matematico Pisano (1-2-3-5-8 semitoni, cioè seconda minore, seconda, terza minore, quarta e sesta minore) alla suddivisione di un brano musicale in sezioni i cui numeri di battute siano parte della suddetta serie.

Testimonianza di ciò sarebbe (Ernö Lendvai, 1955) la struttura del primo movimento (Andante tranquillo) suddivisibile in sezioni che si estendono fra le battute 1-5-13-21-34-55-89, tutti numeri della serie incriminata. Questa osservazione è peraltro già stata mesa in dubbio (ad esempio da Gareth E. Roberts, 2012) in quanto affetta da inaccuratezze (banalmente: le battute sono 88 e non 89!) e forzature.

Ciò che invece è interessante di questo primo movimento è la sua forma peculiare: trattasi infatti di una Fuga caratterizzata da una successione di entrate delle diverse voci (inizialmente 5) che si muovono alternativamente sul circolo delle quinte: le entrate pari (2-4-6...) successive all’iniziale LA, passano a MI, poi a SI, quindi a FA#, a DO#, a LAb e infine a MIb (distante quindi un tritono dalla nota di partenza); quelle dispari (3-5-7...) si muovono invece verso il basso, quindi vanno al RE, poi al SOL, al DO, al FA, al SIb e infine al MIb, dove avviene il ricongiungimento con l’ultima delle voci ascendenti e si ha il climax del movimento. Da qui inizia il cammino inverso, caratterizzato dall’inversione dell’incipit del tema originale e del percorso sul circolo delle quinte: partendo dal MIb le entrate pari scenderanno a LAb, poi a DO#, quindi a FA#, SI, MI e finalmente a LA, mentre le dispari saliranno al SIb, FA, DO, SOL, RE per arrivare al LA su cui il movimento si chiude come si era aperto.

Come si vede, una struttura a dir poco ingegneristica (in realtà con qualche piccola... trasgressione alla regola che tralascio di citare) che, sommata all’intrinseca severità della forma (le barbare stranezze fiamminghe, copyright Camerata dei Bardi) può effettivamente rendere questo movimento assai ostico, per non dire indigeribile. Per curiosità, la celesta entra con i suoi liquidi arpeggi solo sulle battute 78-81.

Il secondo movimento è invece un Allegro in forma-sonata, uno scherzo indiavolato nel quale fa capolino anche un particolare strumento percussivo: il pianoforte. Come scrisse l’Autore: la tonalità di base è DO e quella secondaria è la dominante SOL (sacri canoni). Lo sviluppo ripresenta anche (in inverso) il tema della Fuga del primo movimento e poi anticipa quello del movimento conclusivo. La ripresa è in tempo (3/8) diverso da quello (2/4) dell’esposizione.

Segue poi il terzo movimento (Adagio, in FA#) a struttura ad arco, o palindrome (A-B-C+D-B-A). É introdotto da 5 battute dove è protagonista lo xilofono, che ribatte un FA naturale su un ritmo di... Fibonacci: 1-1-2-3-5-8-5-3-2-1-1! Ciascuna delle 4 sezioni riprende la corrispondente sezione del tema della Fuga del primo movimento. Celesta, arpa e pianoforte creano atmosfere notturne, quasi spettrali. Ancora gli acuti tocchi di FA naturale dello xilofono chiudono sul FA# tenuto delle viole e due sommessi colpi in DO dei timpani.

Il quarto movimento (Allegro molto, in LA) presenta non meno di 7 temi, strutturati in 4 sezioni, la penultima delle quali (prima del ritorno del tema principale) ripresenta, trasfigurato, il tema iniziale della Fuga. Un secondo pianoforte si aggiunge ad arricchire il volume di suono. Dopo alternanza di passaggi convulsi e più calmi, si chiude in un esilarante LA maggiore.

Pascal dispone pianoforte (solo uno) celesta e arpa proprio davanti a sè, come prescrive del resto la partitura; gli archi, che Bartók divide praticamente in due diverse orchestre, sono invece disposti in modo quasi tradizionale.

Esecuzione direi impeccabile, accolta da meritati applausi per Direttore e suonatori.