apparentamenti

consulta e zecche rosse

29 settembre, 2020

Falsi miti (?) - 2

Riprendo il discorso partendo dal concetto, caro a Roberta Pedrotti, della coerenza in sè dello spettacolo proposto dal regista, che sembrerebbe (almeno così mi pare di interpretare) condizione sufficiente per promuovere un allestimento di opera lirica.

La mia personale convinzione - già anticipata nella puntata precedente - è invece che la coerenza in sè sia condizione necessaria, ma appunto non sufficiente per dare la sufficienza allo spettacolo. E che il proliferare di allestimenti coerenti in sè ma incoerenti con l’oggetto sottostante stia ormai inducendo nello spettatore un tipico fenomeno di dissociazione, qui intesa come separazione in compartimenti stagni (o in piani paralleli) fra la fruizione della componente suoni (testo+musica) e quella della componente immagini (appunto, la scena); ciascuna delle quali viene fruita (e quindi giudicata) di per sè, e non all’interno di un insieme organico, così come concepito dall’Autore (o Autori) nel quale le due componenti si compenetrano necessariamente per creare un oggetto di forma compiuta.

Pensiamo a ciò che accade ad uno spettatore che assiste per la prima volta ad un’opera della quale non ha alcuna (o ha solo superficiale) conoscenza; magari presentata in una lingua a lui sconosciuta, quindi di non immediata decifrazione. Quali saranno le sue reazioni? Egli naturalmente tenderà a dissociare i due piani: cioè apprezzerà (se apprezzabili secondo i suoi gusti) i suoni che raggiungono le sue orecchie; e separatamente apprezzerà (se apprezzabile secondo il suo gusto) ciò che raggiunge i suoi occhi. Anche volendo, gli sarebbe oggettivamente difficile cogliere, e men che meno giudicare, la coerenza fra i due piani.

Ecco, l’atteggiamento che in quello spettatore ignorante è un fenomeno riflesso, cioè non cosciente, conseguenza naturale della sua stessa ignoranza, e quindi pienamente comprensibile e perfino giustificabile, nello spettatore informato ed esperto rischia sempre più spesso di diventare l’approccio cosciente alla fruizione dello spettacolo. Che viene giudicato separatamente nelle sue due componenti, e non nella sua organica totalità. Così si spiegano giudizi positivi (a volte trionfalistici) di allestimenti che hanno soddisfatto (separatamente) l’orecchio e l’occhio dello spettatore, anche quando invece mancano in tutto o in parte l’obiettivo della coerenza fra le due componenti dello spettacolo.

Naturalmente questa incoerenza non è mai casuale, ma è sempre determinata da una precisa e programmatica scelta (il Konzept, come lo si definisce in Germania, patria del Regietheater) del responsabile dell’allestimento: il regista. Ruolo che ha assunto via via sempre maggior importanza (e visibilità) proprio perchè, evolvendosi, ha ampliato a dismisura il suo raggio d’azione: da puro portatore in scena (interprete) di un oggetto dato, a decifratore (lo scavo cui allude Pedrotti) di aspetti nascosti nell’oggetto originale. Le ragioni di tale fenomeno sono molteplici: si va dalla constatazione della pochezza o della totale inattualità dei testi (i libretti) delle opere da mettere in scena (questo si applica per lo più al melodramma ottocentesco); alla pretesa di estrarre dal soggetto originale, per farli assurgere a pilastri della proposta teatrale, aspetti più o meno importanti o anche marginali che possano però far emergere chiari riferimenti all’attualità politica, sociale, filosofica, religiosa, estetica (ne sono esempio le tante interpretazioni del Ring wagneriano); alla tecnica consistente nel de-strutturare il soggetto originale per poi impiegarne alcune componenti per ricostruirne un altro con caratteristiche diverse se non addirittura contrastanti con quelle dell’originale medesimo. All’uopo, nel tempo la figura del regista è stata affiancata da quella del Dramaturg (uso il termine crucco) responsabile di suggerire al regista potenziali aspetti nascosti nel testo e meritevoli di essere valorizzati e messi in primo piano.

Insomma, il rispetto del testo originale (sul quale, non andrebbe mai dimenticato, è stata composta la musica) è diventato quasi un optional, il che può trovare consenziente qualche spettatore preparato, magari sempre in cerca di nuovi... stimoli purchessia, quando assiste per l’ennesima volta alla messinscena di un titolo conosciuto a menadito; ma che rischia di diventare deleterio proprio per lo spettatore naif o neofita, indotto a fare una conoscenza distorta dell’opera cui ha assistito.

Oggi la stessa critica musicale (e mi pare che la Pedrotti condivida) ha accettato come dato di fatto questa situazione, tanto da proporre una categorizzazione degli allestimenti di opere: fra quelli che raccontano la storia originale e quelli che raccontano un’altra storia. Attribuendo quindi piena legittimità anche ai secondi, purchè siano per l’appunto coerenti in sè.

Naturalmente qui non parlo di storia come di pura trama, ma come di sostrato concettuale dell’opera e - più in dettaglio - di natura di ambienti, personaggi e azioni che ne costituiscono il corpo.

Comincio a far qualche esempio per non cadere nel pedantesco. Oltre a Michieletto, propongo Graham Vick che, insieme al regista veneto, è uno dei beniamini di Roberta Pedrotti, che lo cita più volte nel suo saggio.

Di cosa tratta Un ballo in maschera? Della prosaica storia di un personaggio importante che si fa trascinare dalla sua esuberanza e finisce male. Il protagonista è un’altissima autorità (il Re di Svezia, nientemeno, all’origine... poi diventato un Governatore di Sua Maestà Britannica, per ragioni di censura) al quale l’infatuazione adultera per la moglie del suo fedelissimo plenipotenziario e l’eccesso di trasporto verso il suo popolo giocano un brutto scherzo, che lo porta a lasciarci le penne. Che l’ambientazione sia nella Svezia del testo originale, o nel Massachusetts di un secolo addietro come nel libretto verdiano, fa assai poca differenza, poichè i due macro-socio-e-psico scenari si assomigliano assai (un sovrano e un’emanazione di un sovrano che vivono la stessa vicenda).

Damiano Michieletto (2013) mette in scena l’opera alla Scala. La ambienta nel Massachusetts, precisamente come da copione. Poi però, nel lodevole intento di rendere il soggetto attuale, cioè più immediatamente vicino alla nostra contemporaneità, sposta i tempi dell’azione al giorno d’oggi, durante la campagna elettorale per l’elezione del Governatore dello Stato. Ahi ahi, qui cominciano i guai, poichè la storia di un Governatore che si deve far rieleggere al termine di una campagna elettorale - dove stratagemmi e colpi bassi fra i candidati si sprecano - sta precisamente agli antipodi di quella del testo originale, dove Riccardo ha un’investitura che gli viene dall’alto, non da una maggioranza (anzi minoranza, in termini assoluti) della popolazione: non sto a tediarvi oltre - salvo che proprio non lo vogliate - sulle mille e sostanziali differenze (a livello sociale, psicologico, comportamentale) fra i due scenari. In sostanza, qui si racconta - e assai bene, per carità - un’altra storia, coerente in sè. Domanda: la musica e il testo ci fanno scopa lo stesso?


Questo esempio è catalogabile sotto la casistica attualizzazione del soggetto originale. In sostanza il regista intende far sì che l’opera parli a noi del terzo millennio, e non ai nostri trisavoli di metà ‘800. Ora, si può concedere che i tempi cambino, che l’approccio dello spettatore si evolva, che freni censori e inibitori siano via via caduti, rendendo possibile oggi raccontare verità che 150 o più anni fa erano tabù e potevano essere trasmesse soltanto previo camuffamento e senza fare espliciti riferimenti all’attualità (di quei tempi). Ma credo francamente che questo atteggiamento (del regista moderno) faccia un torto all’intelligenza di autori e pubblico, sia quello dell’epoca di creazione delle opere che quello attuale.

Ammesso infatti che l’intento di Verdi fosse quello di mandare al pubblico messaggi, per così dire, di natura socio-politica o di costume, e che fosse costretto, dalle usanze e dalle censure di allora, a farlo ricorrendo a soggetti ambientati in altri tempi (al passato, tipicamente) e non immersi nell’attualità, potremmo spiegare il successo dell’opera solo in due modi: a) essa era così immediatamente e superficialmente coinvolgente tanto da essere apprezzata anche senza essere capita dal vasto pubblico; ma allora non si vede perchè ciò non possa funzionare anche oggi (della serie: prima la musica...); b) il camuffamento funzionava perfettamente, essendo il pubblico abbastanza intelligente da individuare il messaggio dietro l’inattualità della presentazione; il che ci farebbe concludere che i nostri trisavoli fossero assai più scafati di noi, se noi abbiamo bisogno del regista attualizzatore per decifrare il messaggio che si cela dietro l’inattualità del soggetto!

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Vengo ora al Mosè in Egitto. Opera su soggetto biblico: alle vicende narrate nel Vecchio Testamento il librettista Tottola aggiunse solo la trama amorosa Osiride-Elcia (speculare alla futura Ismaele-Fenena di Verdi) per necessità squisitamente melodrammatiche (altrimenti tenore e soprano dovevano fare davvero quaresima) ma anche drammaturgiche (giustificare le richieste di Osiride al padre per trattenere gli ebrei). Andrebbe sempre ricordato che l’opera fu espressamente composta per la Stagione di Quaresima nella Napoli del 1818: quindi programmaticamente a sfondo religioso e a scopo di meditazione e raccoglimento; politica? ideologia? nulla di tutto ciò, ed è precisamente la musica a stabilirlo.

Graham Vick (2011) mette in scena l’opera al ROF. La ambienta nel Medioriente del ‘900, mostrandoci gli ebrei compiere azioni terroristiche in serie (le piaghe che Dio manda sull’Egitto) per conquistare la libertà. È quindi la storia - fedele come un documentario giornalistico - della nascita dello Stato d’Israele, con gli attentati al King David, la strage a Deir Yassin, e con Mosè (sembra BinLaden, ma è in realtà Jabotinsky) che canta Dal tuo stellato soglio imbracciando un Kalashnikov; e giù giù fino ai giorni nostri. Proposta assolutamente coerente in sè, e realizzata con la proverbiale maestria del regista albionico. Domanda: la musica e il testo ci fanno scopa lo stesso?

Qui siamo in presenza di una diversa, e assai più ardita (io aggiungo: subdola) forma di attualizzazione: si prende spunto dal soggetto originale (la vicenda biblica del popolo ebraico che cerca di sfuggire alla cattività egiziana - con continui riferimenti a fatti miracolosi) per presentare, impiegando testo e musica di Rossini, vicende delle quali noi siamo stati testimoni, avvenute più di un secolo dopo la creazione dell’opera e caratterizzate da fatti tutt’altro che miracolosi. Il risultato è che la colonna sonora (Rossini si deve rassegnare) sia del tutto inadeguata a supportare lo spettacolo...

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La donna del lago. Romanzo storico, Walter Scott, una donna che si serba fedele al suo innamorato di modeste origini, resistendo faticosamente alla tentazione di accettare le profferte di un altro sincero innamorato, uno sconosciuto che alla fine si scopre essere nientemeno che... il Re. Il lieto fine, arrivato dopo innumerevoli peripezie, certo non deve far pensare ad un racconto di Harmony, ma è ciò che il testo racconta.

Damiano Michieletto (2016) la mette in scena, ancora al ROF. E inventa letteralmente un’altra storia, immaginando ciò che avviene dopo il lieto-fine. Rivisitando quindi l’intera vicenda con il senno di poi, rappresentato dalla presenza quasi costante in scena dei due personaggi uniti in matrimonio nel lieto-fine dell’opera, ma con sulle spalle 20 anni in più e le esperienze del matrimonio. E siccome è matematico che anche le unioni più stabili incontrino nel tempo crisi e ripensamenti, ecco che tutta la vicenda oggetto del testo originale viene inquinata dalle ombre che arrivano dal futuro (!) Anche qui: lo spettacolo è ben curato, a parte qualche... imitazione; e soprattutto è coerente in sè. Ma torna, impietosa, la domanda: la musica e il testo ci fanno scopa lo stesso?

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Ecco ora Semiramide. Pochi dubbi che il cuore dell’opera sia, toh, Semiramide! In caso contrario Rossi (e Rossini, convinto da lui) avrebbe titolato: Arsace, ovvero la vendetta di Ninia... o qualcosa di simile. La sbifida regina di Babilonia (su di lei e sui suoi liberi costumi sono scorsi fiumi d’inchiostro) è il personaggio chiave dell’opera e ideale per chi voglia occuparsi - anche nel teatro musicale - di casi clinici da affidare alle cure di Freud o di... Basaglia. Rossini ovviamente ci mette le sue note a corredo, il che rende immortale un testo (Rossi non ce ne voglia) che avrebbe avuto di suo morte prematura.

Graham Vick vi si cimenta al ROF del 2019. Chi è il protagonista, secondo lui? Mica certo Semiramide (buoni tutti...) No no, è appunto Arsace, quello della vendetta di Ninia, che Vick mette al centro del suo Konzept, lui e la sua vendetta. Vendetta che prende quindi il posto della sacrosanta giustizia divina, della quale nel testo di Rossi si fa tramite il talebano Oroe. Spettacolo ovviamente coinvolgente, dato il mestiere del regista. A costo di essere molesto, chiedo: la musica e il testo ci fanno scopa lo stesso?

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Non c’è bisogno, credo, di precisare che gli esempi di cui sopra sono, appunto, esempi, che ho tratto da un insieme ben più ampio di produzioni dei due registi citati. E non mi sogno certo di generalizzare all’insieme ciò che si applica ad una parte (piccola o grande che sia) delle loro produzioni, come di quelle di ogni altro regista in circolazione. Di Michieletto mi limito a citare, come prove a discarico, la sua Scala di seta (ROF) e le sue Nozze di Figaro (Fenice). Di Vick il recente Die tote Stadt (Scala), la Bolena a Firenze e l’ormai storico Moïse al ROF.

Dovessimo esaminare tutte le produzioni di Carsen, Guth, Herheim, DeAna, Loy, Bondi, Bieito, McVicar, Martone e così via troveremmo cose buone e meno buone. É su quelle meno buone (anche se magari tutte coerenti in sè) che mi sento di eccepire, per le ragioni addotte. E infine ribadisco la mia impressione: che la crescente enfasi posta sulla messinscena induca sempre più lo spettatore (ma anche il critico) a giudicare separatamente ciò che arriva all’occhio da ciò che arriva all’orecchio, dando troppo spesso peso prevalente alla prima componente e mettendo in secondo piano la coerenza con la seconda.

Ciascuno a questo punto può giudicare se il fenomeno sia da guardare di buon occhio, come un progresso della civiltà, o invece da considerarsi regressivo (della serie O tempora, o mores...) 

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(2. fine)

27 settembre, 2020

Falsi miti (?) - 1

Roberta Pedrotti è tornata sullo spinoso argomento delle regìe del teatro musicale, prendendo lo spunto dal dibattito (in particolare quello ospitato da Corrado Augias su Repubblica) seguito alla discussa rappresentazione romana estiva del Rigoletto inscenato da Damiano Michieletto.

In un lunghissimo post (quasi un saggio) la mia illustre conterranea (lei viene da Lumezzane, io dalla vicina Tavernole) ribadisce il suo convinto sostegno alle regìe moderne (uso questo improprio aggettivo) in disaccordo con ciò che lei definisce falsi miti, che vengono presi in considerazione per essere poi regolarmente (e legittimamente, s’intende) smontati. Andiamo con ordine, capitolo per capitolo.

I registi nuovi divi?

Qui Pedrotti introduce l’argomento con considerazioni francamente lapalissiane: il teatro musicale è teatro e quindi necessita - da che mondo è mondo - di regista, scenografo, costumista, addetto alle luci e coreografo. Musica e testo letterario sono un tutt’uno dell’opera, che quindi abbisogna dei diversi addetti-ai-lavori per vivere compiutamente: ai registi va concessa quindi la stessa dignità ed importanza che si riserva da sempre ai Musikanten; e se si accetta il fenomeno del divismo per questi ultimi, non si vede perchè stigmatizzarlo per i primi.

La Pedrotti liquida poi come inconsistente e stucchevole il porsi l’eterna domanda: prima la musica o le parole?

Faccio umilmente osservare che è normalissimo (proprio in questo periodo ne siamo testimoni) eseguire opere in forma di concerto (musica senza teatro) mentre mi è ignoto che si siano mai messi in scena testi di libretti d’opera senza l’accompagnamento della musica composta su di essi. Così come non è raro che al musicista venga richiesto di comporre musiche di scena per accompagnare rappresentazioni di testi di prosa. E vorrà pur dir qualcosa...

Arbitrio e libertà

Qui Pedrotti cita un passaggio della lettera di Flores D’Arcais ad Augias, dove ci si chiede se non si debbano porre limiti al regista (per evitarne gli arbitrii) esattamente come non si accetta che il Direttore cambi le note scritte o la strumentazione sulla partitura. La Pedrotti argomenta che la definizione stessa di arbitrio sia affetta da presunzione di colpa e (direi giustamente, in linea di principio) si domanda dove sia e chi stabilisca il confine fra arbitrio e libertà. Poi aggiunge: “che un'interpretazione sia o meno da considerarsi tale [un arbitrio] non lo potremo discutere prima che [l’arbitrio] sia stato perpetrato”. Quanto agli interventi sulla musica, ricorda altrettanto correttamente che tagli, aggiustamenti, trasposizioni e interventi più o meno estesi sulle partiture se ne son sempre fatti e sono entrati in quella che si chiama tradizione (e/o prassi) interpretativa, oggi presa in considerazione persino da chi predispone le cosiddette edizioni critiche delle opere.

Vorrei qui cominciare a porre una questione di quantità e di qualità (di interventi fatti sulla lettera e sullo spirito dell’originale) anticipando un concetto caro a Marx: certe modificazioni quantitative - quando assumono dimensioni ragguardevoli - possono ingenerarne di qualitative... Interpretare in modo personale un’indicazione agogica o dinamica in partitura è cosa del tutto naturale (è addirittura un dovere, più che un diritto dell’interprete) ma trasformare un Largo in un Presto o un ppp in un fff significa snaturare del tutto l’oggetto della creazione artistica, e questo mi pare francamente un arbitrio, così come scambiare le parti fra la sezione degli archi e quella dei fiati dell’orchestra. Mentre interpretare un Allegretto come un Andante con moto, un f come un mf o limitare il vibrato degli archi mi parrebbe degno di massima comprensione.

Quanto al fatto che eventuali arbitrii non siano vietabili a priori, ma soltanto sanzionabili dopo che sono stati perpetrati e giudicati tali è un concetto del tutto condivisibile: è sempre a posteriori che si giudica qualunque atto umano, e la Legge non dice mai “é severamente vietato rubare”, bensì “chi ruba va in galera” (e dopo tre gradi di giudizio...) Nel nostro caso ciò che manca (o non viene di fatto applicato alle problematiche che stiamo discutendo) è un quadro normativo che stabilisca dove si configura l’eventuale reato (l’arbitrio) e quali siano le pene cui va incontro chi sgarra. Oggi si è molto più sensibili a garantire (giustamente) copyright e diritti consimili che non a difendere le opere da eventuali offese alla loro dignità-integrità. Anche perchè è oggettivamente abbastanza facile, per la giustizia, distinguere dagli originali un Rolex o una Lacoste o un VanGogh contraffatti, arduo invece stabilire se una messinscena del Trovatore si configuri come reato.

Della filologia

La Pedrotti resta sullo stesso terreno esaminando l’intervento del Prof. Enrico Malato, che scrive ad Augias, chiamando in causa la filologia: che diritto ha, l'interprete moderno di alterare, stravolgere un documento artistico storico?” Lei qui ha buon gioco a contestare la chiamata in causa dei filologi (che non fanno giurisprudenza!) e a replicare ancora una volta che, essendo l’interprete un anello necessario della catena di produzione dell’oggetto artistico che arriva al pubblico, è inevitabile che si debba assumere qualche responsabilità. Aggiunge poi testualmente: “Credo, invece, sia più rispettoso studiare a fondo un testo e assumersi anche il rischio di un'interpretazione ardita, se fondata e meditata, che puntare tutto sulla decorazione e l'usato sicuro senza andare oltre la convenzione.”

Non posso che ribadire il concetto che l’interprete ha il dovere, non solo il diritto, di lavorare sul testo scritto (parole e note) per rendercelo fruibile nel modo più efficace. In perdurante assenza di norme chiare in proposito, per contrastare possibili abusi si può solo auspicare che la Giustizia venga chiamata in causa da denunce (sporte da privati cittadini o da associazioni) che portino a sentenze che comincino a fare giurisprudenza, come si dice, creando un corpus giuridico di riferimento per tutta la materia. In caso contrario non resta che il diritto di critica, che ciascuno può esercitare in vari modi (dal disertare gli spettacoli incriminati, fino al boicottaggio non violento) e che può portare, nel tempo e se assume dimensioni di massa (ecco l’effetto quantità) a prosciugare le fonti a cui si abbeverano oggi i presunti vandali dell’arte.

Rispetto, cornice e quadro

Torna il riferimento a Flores d’Arcais e al Rigoletto michielettiano: il giornalista-scrittore afferma testualmente che “Rigoletto è quintessenziale che sia un “buffone”, costretto a far ridere anche quando colmo d’angoscia o dolore. Nel giostraio/servo tuttofare [quello di Michieletto, ndr] questa polarità è impossibile”. Quindi par chiaro che Flores se la prenda, più che con quella ambientale, con la trasposizione delle caratteristiche esistenziali e psicologiche del personaggio: solo la professione (forzata) di buffone giustifica la schizofrenica polarità della psiche di Rigoletto, essendo egli pagato per far ridere gli altri (Cortigiani, vil razza dannata...) pur vivendo sotto l’incubo di incombenti catastrofi a casa propria. Nella psiche di un giostraio questa polarità diventa piuttosto gratuita (un giostraio è tutto fuorchè un buffone di corte, fino a prova contraria).

Ma Pedrotti svia furbescamente, sia pur fugacemente, il discorso sull’ambientazione spazio-temporale, e qui ovviamente va a nozze, poichè le è facile sostenere che la Mantova del 1500 fu solo un trucco escogitato per aggirare la censura. Poi torna sul personaggio per esprimere concetti assodati: a Verdi interessava lo scavo psicologico di Rigoletto, un po' meno la sua gobba e nulla del tutto l’abbigliamento e il cappello a sonagli. E porta ad esempio positivo la regìa di Pizzech (Parma e poi Bologna) che toglie a Rigoletto la gobba, ma gli conserva in pieno lo status di mente dissociata fra sporco-lavoro e affetti privati.

Ancora Pedrotti si rifugia in un terreno comodo, quello della presentazione esteriore (scene e costumi) dove le è facile argomentare contro le sedicenti pretese filologiche di chi reclama elmi, corazze, trine e merletti, fondali dipinti e foglioline di cartavelina... E irridere chi pensasse di tornare alla fruizione del teatro di qualche secolo fa.

Infine, cita ancora Flores d’Arcais per confutare il parallelo fatto dallo scrittore fra regista e traduttore, sostenendo (giustamente) che il traduttore si limita a rendere fruibile il testo a chi non conosce la lingua originale.

In realtà Flores esprimeva un concetto ben diverso, anzi un timore: che succederebbe se il traduttore, invece di limitarsi a tradurre, si inventasse, o manipolasse sostanzialmente, la storia? E questo è precisamente il punto cruciale dell’intera diatriba: che succede se il regista, svolgendo la sua attività necessaria a renderci fruibile l’opera, ne manipola il contenuto?    

Quel minuetto a Palazzo Te

È Nicola Piovani ad essere qui preso di mira, a fronte di un suo intervento ancora presso Augias, nel quale avanzava un’oggettiva e aperta provocazione: se si ambienta Rigoletto ai giorni nostri, è ridicolo far cantare Duca e Lady Ceprano sulle note di un Perigordino, più appropriati alla circostanza sarebbero una Lambada o un brano rock, con tanto di chitarre elettriche e batteria...

Pedrotti si dichiara stupefatta della banalità della provocazione, e subito reagisce con ferma determinazione: obiettivo di Verdi era di evocare in modo efficace una situazione drammaturgica ben precisa, lo stacco fra il volgare festino e l’approccio sdolcinato e suadente del Duca, che la Lady deve rifiutare controvoglia. E il Perigordino serve perfettamente alla bisogna, anche se è una danza che era del tutto sconosciuta ai tempi dei Gonzaga, essendo venuta di moda due secoli dopo, quindi un chiaro falso storico.

Giusto, ma si potrebbe obiettare che è diverso retrodatare una moda (una danza, nella fattispecie) e invece attualizzarla: la prima operazione è inconsapevolmente accettata, poichè noi tendiamo ad appiattire il passato (secolo XVI o XVIII fa lo stesso, è sempre roba antica, almeno nel terreno che stiamo esaminando) mentre la seconda viene istintivamente rigettata perchè percepita come bizzarra, assurda, illogica, demenziale (proprio perchè fuori-tempo) quindi incompatibile con la supposta seriosità del teatro (musicale e non). Faccio anch’io una provocazione: immaginiamo che Verdi - censura e querele permettendo - ambientasse l’opera (col Perigordino, indicato precisamente nel libretto) invece che presso i Gonzaga del 1500, a Palazzo Litta nel 1850... Come avrebbe reagito il pubblico milanese? Con applausi convinti o con feroci sghignazzate?

Conclude Pedrotti: “Creare sulla scena una struttura logica, non importa quanto irrealistica, ma in sé coerente.” Beh, la coerenza in sè è una condizione necessaria. Ma rischia di non essere sufficiente se vien meno la coerenza con l’oggetto originale, realistico o irrealistico che sia.

Apparenza, sostanza, professionalità

Qui Pedrotti reclama serenità di giudizio e abbandono di posizioni pregiudiziali: si valuti di volta in volta il risultato, senza bocciature (ma io aggiungo anche: senza promozioni) aprioristiche. Perfetto.

Segue un invito ad apprezzare la professionalità dei registi e a non denigrarli a priori come soggetti frustrati che cercano realizzazione di sè usando mezzucci e malafede. Invito da accogliere senza se e senza ma. Personalmente sono convinto, avendoli visti alla prova dei fatti, che i nomi che la Pedrotti cita, ed altri ancora (salvo pochi opportunisti e ciarlatani) siano personaggi di assoluto valore (vengono per lo più dalla prosa) che conoscono ogni aspetto del teatro e sanno perfettamente come costruire spettacoli coerenti in sè. Come ripeto, spesso non basta.

Giovani e futuro 

Pedrotti chiude il suo saggio ribadendo la sua incrollabile fiducia nel teatro musicale, legata alla presenza e all’attività di operatori (si parla in primo luogo proprio dei responsabili dell’allestimento) che siano in grado di dargli continuamente nuova linfa vitale. L’innovazione come processo continuo e inestinguibile (“naturale condizione dell'arte, che si evolve, si rinnova, riflette su se stessa”) e non come specchietto per le allodole utile solo per attirare a teatro qualche giovane in più.

Parole sante, ma - posso sbagliare - mi pare di cogliere una certa freddezza, non dico indifferenza, verso la produzione di nuove opere (invocata dallo stesso Michieletto) a favore della continua riproposta del patrimonio consolidato (fino al secolo scorso?) “La traviata o La bohème hanno una forza eterna di capolavori in grado di parlare a tempi diversi attraverso interpreti diversi, in abiti diversi, di rimanere se stesse mostrando ogni volta nuove sfumature, nuovi volti, nuove chiavi di lettura, a essere eterne e inesauribili, se vogliamo leggerle nel profondo”. Già: rimanere se stesse...

Conclude Pedrotti invitando ad abbandonare:categorie manichee iscritte sulle tavole della presunta e pretesa corretta rappresentazione dell'opera lirica”. Qui non posso che concordare.

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Qualche mia considerazione aggiuntiva... alla prossima puntata.

(1. continua)


26 settembre, 2020

La contagiata Traviata scaligera

Ieri sera alla Scala penultima recita della Traviata contagiata. La mia seconda esperienza scaligera del post-lockdown è stata - dal punto di vista ambientale - ancor più deprimente della prima: perchè, oltre alla negativa impressione che ti fa una sala semideserta, ho potuto anche fare l’esperienza di un intervallo. Che tristezza il foyer popolato da fantasmi che si aggirano tenendosi a distanza, e soprattutto che atmosfera spettrale, con le mascherine che non solo celano i volti, ma mettono la sordina alle voci, così pare di stare in un istituto per muti...  

La rappresentazione di un’opera in forma di concerto è una rarità in Scala (in passato è accaduto più che altro in casi di contrattempi organizzativi) e va lodata comunque l’organizzazione che ha predisposto un semi-scenico più che accettabile. Poi i frac dei maschi e gli abiti da ricevimento delle cantanti (firmati D&G) erano abbastanza coerenti con parecchi degli ambienti presenti nel libretto.

Certo, le regole di distanziamento hanno reso alcune scene piuttosto paradossali: il povero Alfredo, per dire, è dovuto restarsene impotente a due metri dalla sua Violetta morente (è andata meglio a Mehta che, alla fine, con la scusa di farsi sorreggere dalla Rebeka, ne ha approfittato per quasi abbracciarla e baciarla!)

Ecco, Mehta, uomo dalle nove vite: cammina a stento, ma quando si siede sullo sgabello del podio pare abbia 30 anni, tanto secco, preciso ed efficace è rimasto il suo gesto. La sua è stata una direzione apparentemente rilassata, senza grandi slanci retorici, un Verdi suonato à-la-Mozart potrei dire con una battuta. (Teniamo presente che l’orchestra è praticamente confinata in fondo all’enorme scena del Piermarini, il podio del Direttore è ben al di là del proscenio nella configurazione con buca, e tutti suonano sullo stesso piano, niente rialzi come nella configurazione per concerto; ciò che arriva in sala... ve lo lascio immaginare.)

Con Mehta trionfa l’altro giovanissimo della compagnia, tale Leo Nucci, un tipo che promette bene e farà carriera di sicuro! Lui poi, oltre a cantare come 50 anni fa, sa ancora correre con la leggerezza di un levriero...   

Marina Rebeka merita un voto più che discreto: 18 mesi fa non aveva proprio fatto un figurone, ma oggi devo dire che è progredita (non solo per il famigerato MIb) e il pubblico l’ha gratificata - con Leo e Zubin - di applausi a scena aperta e ovazioni finali... con sordina!

Dell‘Alfredo del carioca Atalia Ayans mi limito a dire che potrà sempre far meglio... Tutti gli altri al loro posto, ecco. Il coro di Casoni era relegato al lati e al fondo della caverna, quindi bravi ad aver fatto arrivare i suoni fino alla platea (e spero anche più su...)

Che dire, in conclusione: accontentarsi, dati i tempi che corrono, è come minimo doveroso... ma è dura davvero!

25 settembre, 2020

laVerdi 20-21. Concerto n°1

Dopo il concerto inaugurale alla Scala, Claus Peter Flor ha aperto la prima parte della stagione 20-21 con una novità per laVerdi: eseguire la Quarta di Mahler nella versione cameristica di Klaus Simon del 2007, la qual cosa consente di rispettare le regole anti-Covid. Il musicista tedesco (nativo del Bodensee, Lago di Costanza) seguendo le orme dell’opera avviata negli anni ’20 del secolo scorso da Erwin Stein, ha già prodotto versioni cameristiche di ben sei delle nove sinfonie mahleriane (mancano all’appello - per ora? - le ipertrofiche 2-3-8). E a fine ottobre Flor ne eseguirà in Auitorium anche la trascrizione della Prima.

Simon prevede un ensemble di 14 strumentisti:

- 5 fiati: Flauto (anche Ottavino); Oboe (anche Corno inglese), Clarinetto in SIb (anche in LA e basso in SIb); Fagotto; Corno in FA;
- 2 percussionisti: Glockenspiel, Triangolo, Sonagli, Piatto sospeso, Piatti, Tam-Tam, Grancassa;
- Armonium (o Fisarmonica);
- Pianoforte;
- Quintetto d’archi.

Rispetto a Mahler, oltre allo smagrimento, nell’orchestra di Simon mancano le trombe, i clarinetti in DO e MIb, il controfagotto, i timpani e l’arpa. Armonium e pianoforte compensano queste assenze. Simon ha licenziato anche una versione estesa, che irrobustisce in particolare il pacchetto degli archi, portandolo dal nudo quintetto a 20 elementi (6,5,4,3,2).  

Chi fosse interessato ad esplorare i dettagli di questa versione cameristica della Sinfonia e dei problemi interpretativi ed esecutivi che presenta, può trovare ottimi spunti in questo scritto di JungHwan Kwon, il quale ne dà anche l’applicazione pratica, alla testa dell’Orchestra da Camera dell’Università dell’Arizona.

Un’esecuzione di alto livello è questa che viene da Israele, artefici gli strumentisti dell’ensemble cameristico Israel Soloists di Kfar Saba. E poi questa - per me la più interessante - dei canguri dell’Omega Ensemble (senza Direttore!) Ecco l’esempio di un’esecuzione con l’ensemble allargato, con 20 archi (più un esecutore aggiuntivo ai clarinetti) registrata in Francia un paio di mesi fa, proprio in era Covid. Infine è da lodare la prestazione dei giovani foggiani del Conservatorio Umberto Giordano, in una configurazione... ibrida (12 archi, 2 corni, niente clarinetto basso e fisarmonica al posto di armonium).

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Flor ha impiegato la versione estesa di Simon, ma è andato oltre, schierando 24 archi (6,6,5,4,3). In più ha anche aggiunto 3 fiati, raddoppiando oboe (corno inglese), clarinetto (basso) e corno; ha poi aggiunto un percussionista. In totale quindi 37 elementi. Se ne dovrebbe dedurre che il Direttore si sia posto l’obiettivo di avvicinarsi per quanto possibile alla versione originale di Mahler, più che di farci apprezzare quella di Simon. La quale scelta rischia però di... farci restare in mezzo al guado. Visto che si tratta di un’occasione (speriamo!) irripetibile, personalmente avrei preferito ascoltare la versione base di Simon che, almeno a giudicare dalle registrazioni disponibili in rete, ci permette di apprezzare (se non addirittura di scoprire) dettagli che con l’orchestra allargata (parlo proprio degli archi) spesso si perdono, nascosti nel pieno degli strumenti. Magari Jais - anche per ammortizzare l’investimento - potrebbe metterla in cantiere in qualche concerto delle stagioni collaterali.

Sala con alcuni posti vuoti, al di là di quelli inaccessibili causa virus, ma pubblico assai ben disposto. Flor nei primi due movimenti si prende alcune libertà agogiche (alle mie orecchie) eccessive: è vero che Mahler stesso aveva battezzato questi pezzi come Humoresken, cioè di carattere umorale, spensierato, disimpegnato, ma poi ne ha fatto una sinfonia in piena regola... Poi però il Ruhevoll - preceduto da una pausa per ri-accordare gli strumenti e far entrare sul palco Anna Lucia Richter, è stato quasi da manuale. Certo l’esplosione che ci fa balzare dal SOL al MI maggiore 40 battute prima della chiusura, con questi mezzi comunque ridotti non è la bomba atomica che dovrebbe essere, ma date le circostanze ci accontentiamo. Flor ci attacca subito il conclusivo Sehr behaglich, dove la giovane e bella Anna Lucia ha sfoggiato una voce veramente appropriata alla bisogna: timbro acuto e penetrante, perfetto per questo Lied fanciullesco, non a caso a volte affidato ad una voce bianca.

Flor va addirittura oltre le prescrizioni di Mahler (morendo, non affrettare!) e tiene le ultime tre battute (il MI grave, riservato ai contrabbassi e - in mancanza dell’arpa - al pianoforte) per un tempo interminabile. Poi il pubblico può abbandonarsi ad un liberatorio applauso. Ripetute chiamate e battimani ritmati a chiudere in bellezza la serata.

21 settembre, 2020

laVerdi riparte dalla Scala

Continuando, pur in tempi di virus, una tradizione ormai consolidata, laVerdi si è presentata ieri sera alla Scala per quello che solitamente è il concerto di apertura della nuova stagione (della quale in realtà per il momento si conosce soltanto la prima parte, fino a fine 2020, poi... si vedrà). 

Sul podio il Direttore Musicale Claus Peter Flor con un programma di musiche di inizio ‘900 di due autori nativi del vicino est europeo, Gustav Mahler (Jihlava, Boemia) e Leoš Janáček (Hukvaldy, Moravia):

Due musicisti che ebbero rapporti assai diversi con l’establishment musicale (e anche politico!) della mitteleuropa: Mahler pienamente integrandovisi, Janáček cercando una via artistica legata profondamente alle radici della sua terra, e propugnando (proprio con Taras Bulba) la lotta di liberazione di quella che diverrà la futura Cecoslovacchia dal dominio austro-ungarico.
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Il mio primo incontro con la Scala post-lockdown è stato abbastanza (ma anche prevedibilmente) straniante, fin dall’ingresso nel foyer e dall’accesso alla platea, rigorosamente guidati da maschere e percorsi obbligati. Anche qui il distanziamento fra gli spettatori crea del disagio psicologico, mentre appena un poco meglio vanno le cose sul palco, dove l’enorme disponibilità di spazio consente a laVerdi di schierare quasi l’organico standard. Tuttavia anche l’Orchestra intera è distanziata dal pubblico (resta deserto l’intero tetto della buca) e quindi il suono arrivato in sala non mi è sembrato per nulla ottimale.

Il concerto - tuttora le regole-Covid ne limitano la durata e vietano gli intervalli - si è aperto con il ciclo di 5 Lieder mahleriani su testi di Friedrich Rückert (per qualche breve nota rimando ad un mio vecchio post del 2012) proposti dalla quasi 58enne Petra Lang, nata come mezzosoprano ma col tempo salita di tessitura (e di fama) fino a... Brünnhilde e Isolde.   

La sequenza dei cinque canti (composti fra il 1901 e il 1902 con accompagnamento di pianoforte e successivamente orchestrati dall’Autore – salvo l’ultimo, strumentato da Max Puttmann) è lasciata alla scelta dell’interprete, dal momento che Mahler non diede precise indicazioni in proposito. La Lang ha optato per il seguente ordine, spesso proposto dalle voci femminili (fra parentesi quello cronologico di composizione):

a. Ich atmet' einen linden Duft! (2)

b. Liebst du um Schönheit (5)

c. Blicke mir nicht in die Lieder! (1)

d. Um Mitternacht (4)

e. Ich bin der Welt abhanden gekommen (3)

 
La Lang non mi è parsa propriamente al meglio della condizione: proprio nelle note più gravi, che da mezzosoprano di nascita dovrebbero esserle più congeniali, ha mostrato qualche logoramento, compensato dal mestiere e da un’apprezzabile sensibilità interpretativa. Flor ha trattenuto al massimo l’orchestra - già cameristica per volontà dell’Autore - accentuando il carattere intimistico e quasi crepuscolare di queste canzoni nella cui atmosfera Mahler sembra identificarsi in pieno. Applausi e un paio di chiamate hanno comunque gratificato l’esecuzione.
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Breve intervallo per far posto in palcoscenico a qualche sedia aggiuntiva, occupata ora dalle co-primeparti dell’Orchestra, entrate per accrescerne la potenza di fuoco di fronte alla rapsodia Taras Bulba (un esordio, per laVerdi). Trattasi in realtà di un poema sinfonico (da Gogol) in tre parti, ciascuna evocante vicende assai luttuose (con una spruzzata sentimentale): è il battagliero cosacco Taras che vede i due figli morire (uno per la verità lo fa secco proprio lui!) prima di essere a sua volta mandato arrosto dai suoi acerrimi nemici polacchi. Il patriota Janáček stravedeva per tutto ciò che sapeva di russo e così esaltò questo sanguinario condottiero come fosse un grande eroe, forse solo perchè anche lui ce l’aveva con i polacchi... (Chissà però se nel 1968 avrebbe esaltato la passeggiata in piazza SanVenceslao dei tank dell’eroico... Leonid Bulba Brezhnev!)

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Il racconto di Gogol (12 capitoli, terminato nel 1842) tratta delle imprese dei cosacchi della Seč - la comunità militare insediatasi a Zaporizzia, occupando la grande isola sul Dnepr - che nella prima metà del ‘600 si opposero alle invasioni turche e tartare e soprattutto alla dominazione polacca. In apertura del racconto Gogol ci presenta un loro condottiero, Taras, già in età matura (il più giovane dei suoi due figli ha ormai passato i 20 anni) nella propria casa nel momento in cui i due giovani (Ostap e Andrei) vi fanno ritorno avendo concluso il loro tirocinio in Accademia a Kiev. Taras non vede l’ora di aggregarli alla Seč e di portarli con sè sui campi di battaglia.  

Gogol non ci dà indicazioni geografiche precise sulla posizione della casa di Taras, ma abbiamo alcuni indizi che ci possono aiutare a localizzarla, almeno approssimativamente. Il primo ci informa che Taras, i due figli e la scorta di 10 uomini cavalcano nella steppa verso sud; poi sappiamo che - dopo un giorno e una notte passata all’addiaccio - il gruppo si trova ad attraversare un piccolo fiume, il Tatarka, affluente del Dnepr (quindi dalle parti dell’odierna Dnipro); infine, da lì impiegano quasi tre altri giorni per arrivare in vista della Seč di Zaporizzia. Da tutto ciò si può indurre che la casa di Taras fosse situata parecchio a nord della stessa Dnipro. Orbene, da quelle parti si trovano, guarda caso, luoghi assai cari a Gogol: il suo villaggio natale (Sorochyntsi) poi la cittadina di Mirgorod, che diede il nome alla collana di racconti di cui fa parte Taras, e infine Dikanka, altro teatro di storie gogoliane.

Nella mappa sottostante sono schematicamente rappresentati gli spostamenti di Taras nella narrazione dello scrittore russo:

1. Trasferimento di Taras con i due figli dalla loro casa alla Seč di Zaporizzia.

2. Restati a lungo inoperosi contro i turchi (avendo concluso un trattato di pace con il Sultano) i cosacchi di Zaporizzia, aizzati da Taras, trovano la giusta causa per muoversi finalmente alla guerra (loro attività prevalente) apprendendo delle continue soperchierie che gli occupanti polacchi (spalleggiati dai ricchi ebrei) stanno perpetrando nell’intera Ukraina. Così cominciano a risalire verso nord-ovest per liberare la loro terra, che consideravano venduta ai Polacchi con la creazione della Confederazione polacco-lituana. Dopo aver commesso atrocità di ogni genere arrivano infine presso Dubno (600 Km in linea d’aria da Zaporizzia) dove pongono l’assedio alla ricca città. Qui il giovane Andrei tradisce i suoi per amore di una bella giovane e nobile polacca conosciuta a Kiev, così non solo diserta, ma addirittura combatte contro padre e fratello, a fianco dei polacchi che cercano di rompere l’assedioÉ Taras in persona a punirlo a sangue freddo, con una pallottola in fronte. I polacchi dopo alterne vicende hanno la meglio sui cosacchi, riuscendo a far prigioniero Ostap. Invano il padre cerca di difenderlo, ma viene a sua volta ferito ed è salvato da un suo fedelissimo.

3. Mentre Ostap viene portato via dai polacchi, Taras ferito e ignaro della sorte del figlio maggiore viene ricondotto agli accampamenti della Seč di Zaporizzia, nel frattempo visitati dai nemici tartari.

4. Qui partecipa ad alcune scorribande contro i Turchi nel MarNero, ma è incapace di resistere al desiderio di conoscere il destino di Ostap. Così Taras si reca ad Uman (circa 300 Km in linea d’aria) presso un commerciante ebreo...

5. ...dal quale si fa trasportare (nascosto nel sottofondo di un carretto) fino a Varsavia (altri 600 Km in linea d’aria) dove immagina sia prigioniero il figlio. E infatti arriva giusto in tempo per assistere, mescolato alla folla, alla tortura e all’esecuzione di Ostap sulla pubblica piazza. Allora si fa avanti e grida alla folla esultante tutta la sua ira, promettendo vendetta.

6. (?) Non si sa come, ma riesce a sfuggire a linciaggio e cattura: Gogol ci racconta solo che Taras torna in Ukraina e si mette alla guida di un reggimento di cosacchi che - con altri sette, ciascuno forte di 12000 uomini - dà la caccia ovunque ai polacchi, che nella cittadina di Polonnoie sono costretti infine a capitolare e a promettere pace e libertà agli ukraini.

7. Ma Taras non accetta quella che considera un’ennesima resa e con i suoi seguaci marcia sulla Polonia, arrivando fino a Cracovia mettendo a ferro e fuoco ben 18 città e 40 chiese cattoliche.

8. I polacchi a questo punto impiegano tutte le loro forze armate e riescono a ricacciare indietro i cosacchi di Taras. Il quale - attardatosi a recuperare pipa e tabacco cadutigli dal cavallo, per non farli cadere in mano nemica! - viene catturato lungo il corso del Dnestr, presso l’attuale confine, quindi legato ad un albero e infine bruciato vivo, non prima di aver lanciato contro i nemici la sua profezia: la Russia dominerà il mondo! 

Quanto ai tempi dell’azione, Gogol ci dà solo vaghe indicazioni. Una abbastanza precisa riguarda l’assedio di Dubno, che avviene in luglio. Possiamo quindi posizionare l’inizio del racconto verso la fine di maggio (lo spostamento 2 non può durare meno di 30-40 giorni). Taras viene poi riportato a Zaporizzia (diverse settimane) dove si rimette in sesto (per almeno un mese e mezzo, racconta Gogol) prima di partire - presumibilmente quindi a fine settembre - per Uman (spostamento 4, fatto in una sola settimana, precisa Gogol!) e da qui per Varsavia (spostamento 5). Nella capitale polacca arriverà quindi non prima di novembre inoltrato. Qui abbiamo il black-out informativo, poichè Gogol non ci dà indicazioni su come e quando Taras sia tornato in Ukraina (spostamento 6?) e quanto tempo sia passato prima delle vicende di Polonnoie (ma ci sono di mezzo scorribande e battaglie contro i polacchi, quindi mesi e mesi...) Il blitz in terra polacca (Cracovia, spostamento 7) non può durare a sua volta meno di 30-40 giorni e una settimana trascorre (lo riporta Gogol, spostamento 8) prima della cattura e morte di Taras. Insomma, il tutto assomma a non meno di un anno. 

In preparazione al concerto, il Professor Fausto Malcovati, insigne russologo, ha tenuto una interessante conferenza trasmessa in rete, dove si inquadra la figura di Gogol nella storia della letteratura russa e - per le opere che ispirò - in quella della musica russa, da Musorgski a Shostakovich... e oltre.

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Orbene, da tutto questo po’po’ di avventure - ma Gogol ci infilò anche lunghe descrizioni di usi-e-costumi di quell’epoca - cosa cavò fuori il buon Janáček? Un grand-opéra di 4 ore à-la-Berlioz? Un ciclo di poemi sinfonici à-la-Smetana? No, tre movimenti di meno di 25 minuti, intitolati alla morte dei tre Bulba:

1. Il primo tratta dell’amore di Andrei per la bella nemica e della sua morte violenta.

2. Il secondo evoca i momenti della cattura di Ostap - e della successiva esecuzione.
3. Il terzo ricorda proprio la fine del condottiero, esaltandone lo spirito patriottico.

A differenza da quelli di Strauss, per dire, che impiegano sapientemente temi e motivi musicali per evocare - in modo per quanto possibile appropriato - ora le caratteristiche psicologiche e... somatiche dei personaggi, ora l’ambiente teatro delle loro avventure, questo di Janáček si ispira forse più a Liszt, cioè ad una concezione tendente, del soggetto ispiratore, a conservare solo pochi tratti salienti.
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Seguiamo la trama musicale in questa registrazione amburghese, facendoci aiutare dall’esegesi di Jaroslav Vogel, che raccolse informazioni di prima mano direttamente dalla voce dell’Autore.

Il primo movimento è incentrato sull’amore di Andrei per la bella polacca, e inizia (25”, Moderato quasi recitativo, con dolore) con un tema esposto dal corno inglese a rappresentare il desiderio del giovane per la donna amata, tema poi chiuso (54”) dall’oboe. Ora ecco (1’13”, Andante) la rocambolesca fuga di Andrei dal campo cosacco per penetrare attraverso un passaggio segreto nella chiesa cattolica della città assediata (a 1’25” si odono rintocchi di campana). A 1’39” ecco subentrare timore e apprensione che assalgono Andrei al suo ingresso nella chiesa, dove risuonano a due riprese le note di un organo sulla melopea dell’oboe; poi (2’36”, Allegro vivo) è Andrei ad affrettare il passo in cerca dell’amata. Con la quale si riunisce infine (3’30”, Adagio) accompagnato dal classico love-theme nell’oboe e poi (4’00”) nel clarinetto, tema che si sviluppa successivamente - in due ondate - con piglio sempre più incalzante (Un poco più mosso) come la passione (5’19”) che travolge i due amanti. Dopo una parentesi di calma (5’44”, Adagio e quindi Lento) appare (6’34”, Allegro) minacciosa e proterva, la figura di Taras, con il crudo inciso dei tromboni seguito dalle scosse degli archi bassi. Segue la battaglia che vede Andrei schierato contro il padre, dal quale viene raggiunto e accusato di tradimento. Andrei si sottomette, ma resta fedele (7’49”, Adagio) al suo amore anche di fronte all’estremo castigo comminatogli dal padre, che se ne va al galoppo (8’18”, Presto) lasciando il figlio morente (ultime due battute in Adagio)

Il secondo movimento ha a che fare con la morte di Ostap, ma il suo contenuto musicale è di ardua decifrazione (lo riconoscono musicologi ed esegeti, incluso lo stesso Vogel) riguardo all’attinenza con il soggetto letterario. Le prime 10 battute (8’54”, Moderato) ci presentano verosimilmente la figura del primogenito di Taras, con quattro apparizioni (in violini primi, secondi e viole) di un tema che sembra evocare una personalità austera, caratterizzata da forza di volontà e grande determinazione. Ecco (9’29”) un passaggio in Allegro che richiama evidentemente cavalcate e scontri bellici, cui segue (10’00”, tornando al Tempo I) la riapparizione (3 volte, in violini e archi bassi) del tema di Ostap. Riprende (10’28”, Vivo) la battaglia, ma subito Ostap viene sopraffatto e catturato, come testimonia (10’32”) lo schianto in orchestra. Il passaggio successivo (Moderato) è una vera e propria via-crucis, caratterizzata da una melopea di legni e archi che evoca con pesante mestizia (tema di Ostap negli archi bassi, poi nei legni) il lungo e penoso trasferimento del prigioniero da Dubno a Varsavia. Dove (12’43”, Vivo) c’è grande agitazione seguita da manifestazioni di tripudio popolare a suon di... mazurka, che scimmiotta il tema di Ostap. Il quale è portato verso il patibolo e il clarinetto in MIb ne raccoglie (13’36”) l’eroica resistenza alle torture e il disperato appello al padre. Il quale (13’54”) risponde, palesandosi alla folla dei polacchi e promettendo vendetta.

Il movimento conclusivo si apre (14’23”, Con moto) con un motivo guerresco (terzina arpeggiante e nota lunga) nei corni, che evoca la battagliera personalità di Taras. Gli esegeti non concordano sul significato di queste prime battute musicali: seguendo Vogel, immaginiamo Taras già legato all’albero e in procinto di essere bruciato, mentre ricorda il diletto figlio Ostap, accompagnato da un mesto e dolente motivo che si ripete in varie sezioni dei fiati, accompagnato da ondeggianti sestine degli archi e poi si conclude (16’07”, Maestoso) con un sereno REb maggiore. Ora sono i nemici polacchi ad inscenare (16’35”, Presto) un’irridente krakowiak, che si prende gioco del motivo di Taras. Ma ecco che l’inciso protervo del condottiero cosacco, già udito al momento di punire Andrei, si fa largo (16’57”) a sottolineare la soddisfazione di Taras che vede i suoi (17’14”) scampare alla cattura con una discesa forsennata conclusa gettandosi con i cavalli nel Dnestr. A 17’57”, Allegro, ecco ancora il motivo di Taras udito in apertura che riappare in corni e trombe con sordina e introduce un crescendo (18’26”) che porta infine alla Coda (19’00”) dove il motivo lamentoso di poco prima si trasfigura mirabilmente, chiudendo (20’08”, Maestoso) con cinque battute di enfatica introduzione al patriottico tema (20’36”, con interventi di campane e organo!) che chiude l’opera, con la morte di Taras trasformata in realtà in trasfigurazione, un’autentica beatificazione - in RE bemolle - dell’eroe tanto caro a Janáček.

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Flor qui ha tenuto tempi davvero degni di una cavalcata cosacca, credo abbia stabilito il record di durata minima del Taras. Non che la cosa debba fare scandalo, anzi... L’Orchestra ha risposto da par suo e il pubblico ha mostrato di apprezzare assai. Quindi, ecco Flor tornare sul podio quasi di corsa per un bis ancora più indiavolato (come da partitura...): l’Ouverture di Ruslan&Ljudmila di Glinka, che scatena l’entusiasmo generale.
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Ora l’appuntamento è per il 24 prossimo, con il ritorno in Auditorium, e ancora con il Mahler (smagrito pure lui!) di inizio ‘900.