Ieri si è aperto il 108° Festival di Bayreuth, con una nuova
produzione di Tannhäuser, di cui
sono responsabili due neo-assunti sulla collina, il diversamente giovane Valery
Gergiev e l’autenticamente giovane
Tobias Kratzer. Il quale ultimo ha
tenuto a precisare che il suo Konzept
non si focalizza tanto sul dualismo amore
sessuale o platonico, ma piuttosto sulla questione del ruolo dell’artista nella società (“Nella mia produzione vedrete il minimo
assoluto di pelle nuda nella storia dell’opera”). Beh, le intenzioni
sembravano condivisibili e devo dire che, avendo potuto vedere il risultato, non
sul posto, ma tramite lo streaming
bavarese (in teoria limitato al territorio crucco ma misteriosamente pervenuto
fin qui nel lombardo-veneto) mi sento di giudicare questa regìa (solo
apparentemente strampalata) con una certa benevolenza.
Ma intanto ci si chiedeva: ma quale
delle tre (minimo) versioni dell’opera si rappresenta? Quella originale di Dresda 1845; quella (a parte la lingua)
di Parigi 1861; o quella di Vienna 1875 (che è poi quella di Dresda con
l’Ouverture mozzata e con incorporazione del baccanale da quella di Parigi)? Beh, abbiamo ascoltato Dresda,
quindi con un Venusberg un filino... svaccato (inclusa la presenza di Gateau Chocolat
e del nano Oskar):
Durante
l’Ouverture un filmato (dei tanti che vengono proiettati nella parte superiore
della scena, per integrare ciò che si vede sul palco, che altrimenti
risulterebbe incomprensibile) ci aveva già mostrato l’uccisione di un
poliziotto e poi Tannhäuser e
Venus, con Gateau e Oskar in viaggio con una carretta Citroen (da Parigi a
Dresda?):
Il protagonista abbigliato da clown potrebbe rappresentare il Wagner (nello zaino ha proprio un suo spartito) che, sfuggito al grande-circo-barnum che non lo ha capito (e anzi non lo capirà proprio con il tristanizzato Tannhäuser, anche nel 1861) spera di trovar pace nell’anarchismo del Venusberg, ma poi sente il potente richiamo delle radici della cultura tedesca, rappresentate dalla gloriosa Wartburg, e colà decide di trasferirsi. Ma ecco che, allontanatisi dal Venusberg, sempre a bordo del furgone Citroen, dove si arriva?
Il protagonista abbigliato da clown potrebbe rappresentare il Wagner (nello zaino ha proprio un suo spartito) che, sfuggito al grande-circo-barnum che non lo ha capito (e anzi non lo capirà proprio con il tristanizzato Tannhäuser, anche nel 1861) spera di trovar pace nell’anarchismo del Venusberg, ma poi sente il potente richiamo delle radici della cultura tedesca, rappresentate dalla gloriosa Wartburg, e colà decide di trasferirsi. Ma ecco che, allontanatisi dal Venusberg, sempre a bordo del furgone Citroen, dove si arriva?
Ad un altro tempio, meta di moderni pellegrinaggi, tempio che - ironia della sorte - proprio Wagner innalzerà alla fine della sua carriera: il Festspielhaus!
L’idea di inserire aspetti della biografia
wagneriana nell’allestimento di una sua opera non è nuova, basti ricordare (ma
è uno dei tanti esempi) il Parsifal
di Herheim del 2008. Ma è un’idea
coerente con il Konzept del regista, tutto
imperniato come detto sulle problematiche della posizione dell’Artista nel suo
tempo. Dunque, il Wagner ancora giovane ritrova un ambiente solo apparentemente
accogliente (il nome di Elisabeth lo riempie di emozione) ma che si rivelerà (è
forse una sottile critica alla Bayreuth-dei
bidelli?) altrettanto gretto e imbalsamato di quello dal quale era fuggito
(atto secondo):
Mentre scorrono i preparativi per la
tenzone canora, dopo l’incontro di Tannhäuser con
Elisabeth (che mostra i postumi di una lunga ferita al braccio destro... mah)
vediamo fuori scena i suoi tre compari di avventura che si preparano ad un’azione
di commando per liberare l’amico:
E la stessa Venus, dopo aver sequestrato
e immobilizzato una delle quattro veline della cerimonia ed indossatone il costume,
entra in incognito nella teure Halle:
Nel backstage si preparano gli altri due
compari a fare irruzione in sala quando Tannhäuser
scandalizzerà l’universo con le sue blasfeme teorie sul Venusberg:
Ed ecco il quartetto degli svitati
appropriatisi del centro dell’attenzione:
A questo punto un addetto di scena solleva
la cornetta del suo telefono e pigia un tasto: risponde la tenutaria Kathi Wagner in persona, che a sua volta
compone un numero ben preciso, il 110 (sarebbe il 113 crucco) e nel filmato si
vede un intero parco-auto della Polizei
circondare il castello teatro, dove i sovversivi hanno esposto il loro
striscione (Frei
im Wollen - Frei im Thun - Frei im Geniessen) copyright Richard
Wagner:
Ci sarà qui un riferimento al Wagner
eroicamente presente sulle barricate di Dresda del ’48, inseguito poi da un
mandato di cattura internazionale...?
Condannato - nonostante Elisabeth - all’esilio
romano il reprobo Tannhäuser, portato via
in manette, Gateau Chocolat esibisce ostentatamente il moderno simbolo della
contestazione:
L’atto conclusivo
è ambientato ancora in un posto desolato, col Citroen disfatto e Oskar che si
ciba di pappa per gatti (che offre anche alla povera Elisabeth! colà in cerca
del suo Tannhäuser).
Vi arriva anche Wolfram, per consolare la povera ragazza:
E qui, prima della celeberrima Abendstern, ecco il fattaccio: Wolfram
chiede ad Elisabeth di accompagnarla a casa; ma lo fa dopo aver subdolamente indossato
pastrano colorato e parrucca arancione di Tannhäuser,
ritrovati nel lurido furgone. E così lei - sorpresa, caro Wagner, dì la verità
che non te l’aspettavi - invece di declinare gentilmente l’invito, ci sta! E si
sdraia nel cassone trascinando sopra di sè il poeta, per farci una sveltina! Mah,
qui francamente il regista mi pare abbia... deragliato, ecco (chissà se è
questo che ha fatto scattare un unico ma forte buh al calar del sipario... o era per Gergiev?)
Tannhäuser
finalmente ritorna, un filino malconcio, come da copione, ma sempre con lo
spartito (cresciuto molto di spessore!) nello zaino; va in cerca del Venusberg
e infatti ecco ricomparire anche Venus, ormai trasformata in terrorista della Baader-Meinhof. Wolfram cerca di
convincere Tannhäuser
a rinunciare a lei, che si prepara a scalare un traliccio evidentemente per fare
un attentato:
Come nel primo atto, è il nome di
Elisabeth che risveglia Tannhäuser di
soprassalto, e il corpo della ragazza (rimasto
nel furgone) viene trascinato fuori per farle il... funerale!
Tannhäuser viene redento e il filmato ce lo mostra mentre se ne va, sul Citroen
rimesso a nuovo, con la sua Elisabeth! Sembrano proprio due squattrinati giramondo,
tipo figli-dei-fiori di sessantottina
memoria, appena un po‘ imborghesiti.
Che dire? Come minimo che questa concezione
dell’opera ha una sua qual plausibilità, insomma un passo avanti rispetto alla
ridicolaggine del precedente allestimento di Baumgarten (quello dell’impianto che trasformava il burro in
merda...) Anche il pubblico (solitamente schizzinoso con le regìe genialoidi) pare
aver tutto sommato gradito: a parte lo stentoreo ma isolato buh finale (da condividere con Gergiev?) il team di
regìa ha solo (si fa per dire) collezionato qualche fischio in mezzo a molti
applausi.
___
Come
giudicare il burbero orso russo? Per me, una prestazione, quella di Valery Gergiev, di grande spessore,
almeno per gli aspetti che si possono valutare all’ascolto tecnologico: uno su
tutti, quello dell’agogica, che in Wagner è fondamentale. Poi l’Orchestra e il
superlativo Coro hanno fatto il resto. Per lui comunque un esordio non
trionfale, forse condizionato dalla fama di amico-di-Putin
del direttore.
La voce che più mi ha impressionato è
stata quella di Elisabeth, dell’esordiente a Bayreuth Lise Davidsen, corposa, intonata, senza sbavature, ricca di accenti
appropriati al personaggio. Un filino sotto la Venus di Elena Zhidkova, non sempre precisa nell’intonazione, ma che ha l’attenuante
dell’arrivo all’ultimo momento dopo l’incidente capitato alla Gubanova (che
dovrebbe rientrare già dalla prossima recita).
Bene, non benissimo, Stephen Gould, che comunque ha retto stoicamente
fino in fondo, senza morire nell’ultimo, massacrante Inbrunst im
Herzen, confermandosi Heldentenor
di prima grandezza. Altrettanto dicasi del Wolfram di Markus Eiche, che per la verità mi è parso più sicuro nei passaggi
del primo e secondo atto, che non nella Abendstern
(forse era... provato dalla, ehm, scopatina con Elisabeth inventata di sana
pianta dal regista!)
Rimarchevole
anche la prestazione di Stephen Milling,
autorevole Langravio, oltretutto dalla possente presenza scenica. Onorevoli gli
altri quattro cantori e il pastorello en-travesti della Konradi.
A tutti il pubblico ha riservato applausi e ovazioni.