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26 luglio, 2019

Tannhäuser a Bayreuth: buona la prima


Ieri si è aperto il 108° Festival di Bayreuth, con una nuova produzione di Tannhäuser, di cui sono responsabili due neo-assunti sulla collina, il diversamente giovane Valery Gergiev e l’autenticamente giovane Tobias Kratzer. Il quale ultimo ha tenuto a precisare che il suo Konzept non si focalizza tanto sul dualismo amore sessuale o platonico, ma piuttosto sulla questione del ruolo dell’artista nella società (“Nella mia produzione vedrete il minimo assoluto di pelle nuda nella storia dell’opera”). Beh, le intenzioni sembravano condivisibili e devo dire che, avendo potuto vedere il risultato, non sul posto, ma tramite lo streaming bavarese (in teoria limitato al territorio crucco ma misteriosamente pervenuto fin qui nel lombardo-veneto) mi sento di giudicare questa regìa (solo apparentemente strampalata) con una certa benevolenza.  

Ma intanto ci si chiedeva: ma quale delle tre (minimo) versioni dell’opera si rappresenta? Quella originale di Dresda 1845; quella (a parte la lingua) di Parigi 1861; o quella di Vienna 1875 (che è poi quella di Dresda con l’Ouverture mozzata e con incorporazione del baccanale da quella di Parigi)? Beh, abbiamo ascoltato Dresda, quindi con un Venusberg un filino... svaccato (inclusa la presenza di Gateau Chocolat e del nano Oskar):


Durante l’Ouverture un filmato (dei tanti che vengono proiettati nella parte superiore della scena, per integrare ciò che si vede sul palco, che altrimenti risulterebbe incomprensibile) ci aveva già mostrato l’uccisione di un poliziotto e poi Tannhäuser e Venus, con Gateau e Oskar in viaggio con una carretta Citroen (da Parigi a Dresda?):



Il protagonista abbigliato da clown potrebbe rappresentare il Wagner (nello zaino ha proprio un suo spartito) che, sfuggito al grande-circo-barnum che non lo ha capito (e anzi non lo capirà proprio con il tristanizzato Tannhäuser, anche nel 1861) spera di trovar pace nell’anarchismo del Venusberg, ma poi sente il potente richiamo delle radici della cultura tedesca, rappresentate dalla gloriosa Wartburg, e colà decide di trasferirsi. Ma ecco che, allontanatisi dal Venusberg, sempre a bordo del furgone Citroen, dove si arriva?


Ad un altro tempio, meta di moderni pellegrinaggi, tempio che - ironia della sorte - proprio Wagner innalzerà alla fine della sua carriera: il Festspielhaus! 


  
L’idea di inserire aspetti della biografia wagneriana nell’allestimento di una sua opera non è nuova, basti ricordare (ma è uno dei tanti esempi) il Parsifal di Herheim del 2008. Ma è un’idea coerente con il Konzept del regista, tutto imperniato come detto sulle problematiche della posizione dell’Artista nel suo tempo. Dunque, il Wagner ancora giovane ritrova un ambiente solo apparentemente accogliente (il nome di Elisabeth lo riempie di emozione) ma che si rivelerà (è forse una sottile critica alla Bayreuth-dei bidelli?) altrettanto gretto e imbalsamato di quello dal quale era fuggito (atto secondo):


Mentre scorrono i preparativi per la tenzone canora, dopo l’incontro di Tannhäuser con Elisabeth (che mostra i postumi di una lunga ferita al braccio destro... mah) vediamo fuori scena i suoi tre compari di avventura che si preparano ad un’azione di commando per liberare l’amico:


E la stessa Venus, dopo aver sequestrato e immobilizzato una delle quattro veline della cerimonia ed indossatone il costume, entra in incognito nella teure Halle:


Nel backstage si preparano gli altri due compari a fare irruzione in sala quando Tannhäuser scandalizzerà l’universo con le sue blasfeme teorie sul Venusberg:


Ed ecco il quartetto degli svitati appropriatisi del centro dell’attenzione:


A questo punto un addetto di scena solleva la cornetta del suo telefono e pigia un tasto: risponde la tenutaria Kathi Wagner in persona, che a sua volta compone un numero ben preciso, il 110 (sarebbe il 113 crucco) e nel filmato si vede un intero parco-auto della Polizei circondare il castello teatro, dove i sovversivi hanno esposto il loro striscione (Frei im Wollen - Frei im Thun - Frei im Geniessen) copyright Richard Wagner:


Ci sarà qui un riferimento al Wagner eroicamente presente sulle barricate di Dresda del ’48, inseguito poi da un mandato di cattura internazionale...?

Condannato - nonostante Elisabeth - all’esilio romano il reprobo Tannhäuser, portato via in manette, Gateau Chocolat esibisce ostentatamente il moderno simbolo della contestazione:


L’atto conclusivo è ambientato ancora in un posto desolato, col Citroen disfatto e Oskar che si ciba di pappa per gatti (che offre anche alla povera Elisabeth! colà in cerca del suo Tannhäuser). Vi arriva anche Wolfram, per consolare la povera ragazza:


E qui, prima della celeberrima Abendstern, ecco il fattaccio: Wolfram chiede ad Elisabeth di accompagnarla a casa; ma lo fa dopo aver subdolamente indossato pastrano colorato e parrucca arancione di Tannhäuser, ritrovati nel lurido furgone. E così lei - sorpresa, caro Wagner, dì la verità che non te l’aspettavi - invece di declinare gentilmente l’invito, ci sta! E si sdraia nel cassone trascinando sopra di sè il poeta, per farci una sveltina! Mah, qui francamente il regista mi pare abbia... deragliato, ecco (chissà se è questo che ha fatto scattare un unico ma forte buh al calar del sipario... o era per Gergiev?)

Tannhäuser finalmente ritorna, un filino malconcio, come da copione, ma sempre con lo spartito (cresciuto molto di spessore!) nello zaino; va in cerca del Venusberg e infatti ecco ricomparire anche Venus, ormai trasformata in terrorista della Baader-Meinhof. Wolfram cerca di convincere Tannhäuser a rinunciare a lei, che si prepara a scalare un traliccio evidentemente per fare un attentato:


Come nel primo atto, è il nome di Elisabeth che risveglia Tannhäuser di soprassalto, e il corpo della ragazza (rimasto nel furgone) viene trascinato fuori per farle il... funerale!


Tannhäuser viene redento e il filmato ce lo mostra mentre se ne va, sul Citroen rimesso a nuovo, con la sua Elisabeth! Sembrano proprio due squattrinati giramondo, tipo figli-dei-fiori di sessantottina memoria, appena un po‘ imborghesiti.


Che dire? Come minimo che questa concezione dell’opera ha una sua qual plausibilità, insomma un passo avanti rispetto alla ridicolaggine del precedente allestimento di Baumgarten (quello dell’impianto che trasformava il burro in merda...) Anche il pubblico (solitamente schizzinoso con le regìe genialoidi) pare aver tutto sommato gradito: a parte lo stentoreo ma isolato buh finale (da condividere con Gergiev?) il team di regìa ha solo (si fa per dire) collezionato qualche fischio in mezzo a molti applausi.
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Come giudicare il burbero orso russo? Per me, una prestazione, quella di Valery Gergiev, di grande spessore, almeno per gli aspetti che si possono valutare all’ascolto tecnologico: uno su tutti, quello dell’agogica, che in Wagner è fondamentale. Poi l’Orchestra e il superlativo Coro hanno fatto il resto. Per lui comunque un esordio non trionfale, forse condizionato dalla fama di amico-di-Putin del direttore.

La voce che più mi ha impressionato è stata quella di Elisabeth, dell’esordiente a Bayreuth Lise Davidsen, corposa, intonata, senza sbavature, ricca di accenti appropriati al personaggio. Un filino sotto la Venus di Elena Zhidkova, non sempre precisa nell’intonazione, ma che ha l’attenuante dell’arrivo all’ultimo momento dopo l’incidente capitato alla Gubanova (che dovrebbe rientrare già dalla prossima recita).

Bene, non benissimo, Stephen Gould, che comunque ha retto stoicamente fino in fondo, senza morire nell’ultimo, massacrante Inbrunst im Herzen, confermandosi Heldentenor di prima grandezza. Altrettanto dicasi del Wolfram di Markus Eiche, che per la verità mi è parso più sicuro nei passaggi del primo e secondo atto, che non nella Abendstern (forse era... provato dalla, ehm, scopatina con Elisabeth inventata di sana pianta dal regista!)

Rimarchevole anche la prestazione di Stephen Milling, autorevole Langravio, oltretutto dalla possente presenza scenica. Onorevoli gli altri quattro cantori e il pastorello en-travesti della Konradi. A tutti il pubblico ha riservato applausi e ovazioni.


19 luglio, 2019

Bayreuth 2019 alle porte


Fra una settimana riapre per la 108va volta il Festival di Bayreuth, che Wagner inaugurò con tre cicli del Ring nel 1876. Nella storia del Festival gli anni buchi furono quindi 36, legati (tranne i 9 del primo periodo bellico e post-bellico e i 6 del secondo dopoguerra) prevalentemente a difficoltà finanziarie, che per i primi 60 anni di vita interruppero spesso e volentieri la continuità della manifestazione. Dal 1951, anno della riapertura dopo la cosiddetta denazificazione, il Festival non si è più fermato, grazie a congrui finanziamenti pubblici e privati che ne garantiscono la sostenibilità. Nonostante tutto, la Direzione è rimasta costantemente nelle mani della famiglia Wagner, cui la Fondazione (Stiftung) ha continuato - non senza polemiche - a dare fiducia. Questa del 2019 sarà quindi la quarta edizione diretta in solitaria dalla pronipotina di Richard, la 41enne Kathi, che per i precedenti 7 anni, dopo la morte del padre (Fafner Wolfgang) aveva condiviso la responsabilità con la sorellastra maggiore Eva.

Perdurando il riposo sabbatico della Tetralogia (che tornerà con la produzione n°15 il prossimo anno) sono ancora 5 delle 6 opere (o drammi) extra-Ring - fra quelle considerate degne di rappresentazione nel tempio wagneriano - ad occupare il cartellone. All’Holländer subentra quindi un nuovo Tannhäuser, che si avvale della direzione di un neofita (per la collina) di eccellenza: Valery Gergiev. Permangono Lohengrin, Tristan, Meistersinger e Parsifal, con gli stessi Kapellmeister degli scorsi anni.

Fra essi si fa sempre più padrone del Festival tale Christian Thielemann, che salirà scenderà sul torrido podio per ben 13 volte (su 32) per dirigervi Lohengrin e Tristan. Con ciò consolidando il suo primato di direzioni (178, concerti inclusi) e distanziando ulteriormente il suo ex-tutor Barenboim (secondo, ma ormai fermo a 161). Il suo sodalizio con la tenutaria del baraccone tende ormai ad assomigliare a quello - materializzatosi negli anni d’oro del nazismo e conclusosi con la sua disfatta - fra il regista Heinz Tietjen e la pasionaria hitleriana Winifred Marjorie Williams-Klindworth (maritata Wagner).   

Ecco qui un prospetto storico (aggiornato al 2019) delle attività del Festival: 

titolo
rappresentazioni
stagioni
allestimenti
Parsifal
543
94
10
Ring (ciclo)
    (919)
86
14
    Rheingold
229


    Walküre
230


    Siegfried
229


   Götterdämmerung
231
  

Meistersinger
325
50
12
Tristan
250
49
11
Lohengrin
242
38
10
Holländer
238
40
10
Tannhäuser
226
36
  9
Walküre (isolata)
    3
      1


Come ormai in ogni teatro che si rispetti, anche qui all’ultimo momento si registrano due importanti defezioni: Ekaterina Gubanova (Venus) ha avuto un incidente in prova e sarà sostituita alla prima da Elena Zhidkova (si vedrà poi se potrà tornare per le restanti recite); Krassimira Stoyanova è a sua volta caduta in malattia, così la parte di Elsa verrà affidata a Camilla Nylung, che già si doveva sobbarcare il ruolo di Eva. Altri tre avvicendamenti riguardano KF Vogt, titolare di Walther, ma anche impegnato nelle prime tre recite come Lohengrin per poi far posto a Beczala; Anna Netrebko che a sua volta canterà le ultime due recite come Elsa; e Stephen Gould e Stefan Vinke che si divideranno equamente la parte di Tristan.

I wagneriti più incalliti che - come il sottoscritto - rinunciano al pellegrinaggio sulla verde collina, potranno parzialmente consolarsi con le diffusioni radiofoniche. L’italiota Radio3 si degna di propinarci la diretta della sola apertura (Tannhäuser, 25/7). 

I bavaresi della BR, oltre il 25, si collegheranno in diretta anche il 26 (Lohengrin) e l’1/8 (Tristan). 

I fedelissimi di Radio Clasica restano invece (quasi) imperterriti sul pezzo e diffonderanno 4 delle 5 prime (25, 26, 27/7 e 1/8, Parsifal escluso) sempre alle ore 16.

18 luglio, 2019

Un dittico per Maestri (e allievi) alla Scala


Ieri sera la Scala ha ospitato - in una sala con ampi spazi vuoti... - la penultima recita del dittico Salieri-Puccini, una delle tappe del Progetto Accademia, mirante a valorizzare le giovani risorse scaligere affiancandole a direttori e cantanti di prestigio. Così questo spettacolo bifronte ha avuto come garanti Adam Fischer sul podio e Ambrogio Maestri in palcoscenico.     

Prima la musica e poi le parole (lo scorso 6 luglio ebbe il suo debutto assoluto al Piermarini) è un Divertimento teatrale il cui soggetto per certi versi anticipa di 130 anni l’Ariadne di Strauss-Hofmannsthal: qui il mecenate di turno accorda pochi giorni a poeta e musico (in perenne disaccordo... filosofico) per approntare uno spettacolo di teatro musicale. Le due protagoniste (antesignane di Ariadne e Zerbinetta) sono una professionista di alto rango e una ruspante soubrette, che separatamente mettono in mostra le loro opposte prerogative, per poi cooperare ad un improbabile sincretismo estetico, con tanto di finale trionfalistico.

La produzione era affidata a Grischa Asagaroff, che si è avvalso di scene e costumi di Luigi Perego: la scena è occupata da suppellettili che ricordano enormi casse armoniche di strumenti ad arco, più un gigantesco contrabbasso-tuba e un clarinettone. Una minuscola spinetta serve al musico (Maestri) per accompagnare le due cantatrici. A sinistra fa da divano un enorme volume di poesie di Giacomo Leopardi, aperto sull’Infinito quando è in scena la cantante seria e sul Passero solitario quando subentra la cantante pop. (Chiedere al regista le recondite relazioni...)

Ramiro Marturana rivaleggia con il... Maestri nei battibecchi a sfondo estetico, mentre la ruspante Francesca Pia Vitale mi è parsa più efficace, vocalmente, della sostenuta Anna-Doris Capitelli (acconciata in stile Madonna). 

Adam Fischer, che viene dall’Ungheria degli Esterhazy, ha maneggiato con cura questo cammeo di Salieri che rivaleggia più con Haydn che con il rivale Mozart. All-in-all una proposta apprezzabile e apprezzata da questo pubblico, ehm... selezionato.
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Per Gianni Schicchi (qui una mia nota sul soggetto) Pereira ha importato da LosAngeles (dove lui mai fu sovrintendente, sia chiaro per i maliziosi...) la produzione 2008 che vide l’esordio di Woody Allen nella regìa d’opera.

La scena di Santo Loquasto ci mostra, sul classico quanto inflazionato panorama fiorentino, uno spaccato da ghetto del Bronx, fra strutture in ferro arrugginito e cavi stendi-biancheria. C’è anche la tecnologia sanitaria vintage, con tanto di bombole per la respirazione artificiale del... finto Buoso. Il quale è impersonato mimicamente da Fabio Vannuzzi che viene dislocato (morto) all’ingresso della sua (ormai ex-) casa quasi fosse un mendicante, cui il medico Spinellaccio e il notaio Amantio fanno l’elemosina (!)

A parte Maestri, che ovviamente non si discute, discretamente hanno fatto i due amanti Chuan Wang e Francesca Manzo (che si è presa il suo applauso di prammatica dopo il Babbino); bene la bisbetica Zita di Daria Chernyi. Ma tutti - inclusi Direttore e Orchestra - han dato il loro valido contributo alla riuscita piena dello spettacolo.

L’Accademia, dopo aver chiuso la stagione prima delle ferie, la riaprirà il 2 settembre con due inossidabili tutor: il Rigoletto Leo Nucci e Daniel Oren.

12 luglio, 2019

Da Atene a Ravenna per l’Amicizia


Una costante ormai del Ravenna-Festival è costituita da Le vie dell’Amicizia, un’iniziativa sorta nel 1997 per unire, in nome della musica, popoli e culture diverse, spesso purtroppo in conflitto fra loro. Quest’anno è la Grecia a gemellarsi a Ravenna nel nome di Beethoven.

Così martedi scorso il sublime richiamo alla fratellanza universale contenuto nella Nona sinfonia è risuonato nell’Odeo di Erode Attico, ai piedi della collina dell’Acropoli (RAI1 lo proporrà in differita il 5 agosto, 23:30):


Ieri sera è stato ripetuto nell’enorme spazio del PalaDeAndrè. Sempre protagonisti complessi strumentali e corali italo-greci, diretti dal padrone di casa Riccardo Muti. Si tratta di elementi dell’Orchestra Cherubini (la creatura del Maeschtre) e di ben sei orchestre greche, tutti guidati dalla spalla scaligera Francesco Manara. Il Coro Costanzo Porta (Antonio Greco) era integrato da elementi del Coro della Radio ellenica e della Municipalità di Atene (Stavros Beris). I quattro solisti erano Maria Mudryak, Anastasia Boldyreva, Luciano Ganci e Evgeny Stavinsky.

Palazzone affollato all’inverosimile e palcoscenico con un colpo d’occhio spettacolare, data la moltitudine di Musikanten che vi si sono stipati, con tanto di bandiere italiana, greca ed europea a sottolineare il carattere (anche) politico della manifestazione: 


E non per nulla prima della Nona, dalla quale è tratto l’inno europeo, sono risuonati (musica e parole) gli inni italiano ed ellenico (per quest’ultimo il primo violino greco Apollon Grammatikopoulos ha momentaneamente sostituito Manara sulla sedia della spalla). E alla fine Muti non ha perso l’occasione per un simpatico quanto caustico sfogo contro la sordità della nostra classe politica (ieri autorevolmente rappresentata dalla rodigina Presidente del Senato) di oggi ma anche di ieri, rispolverando la sua vecchia battuta sul dialogo fra Muti e... sordi. E rivendicando orgogliosamente  - pareva il pistolotto di Hans Sachs nel finale dei Meistersinger - all’Italia e all’arte italiana il posto di assoluto primo piano nella storia della musica occidentale!

Prima però aveva guidato quella pletora quasi straussiana di strumentisti provenienti da sette diverse orchestre (otto, se si include la Scala di Manara, colà assunto a suo tempo proprio da Muti) e i tre cori più i solisti con il piglio e l’autorevoezza di un capitano di lungo corso. Grande sostenutezza nell’iniziale Allegro non troppo; incedere martellante del Molto vivace dello scherzo; accorata religiosità dell’Adagio molto e cantabile; ferrea disciplina nel Presto, nel Recitativo e nell’attacco dell’Allegro assai (dove gli archi bassi si sono superati) e poi libero sfogo nel finale alle impervie arditezze cui sono chiamate le voci.

Inutile dire del successo a dir poco trionfale della serata.

04 luglio, 2019

Berlioz tempestosamente ricordato a Ravenna


Lo scorso 8 marzo, oltre che la stucchevole festa della donna (la quale poi per altri 364 giorni rischia che le facciano la festa per davvero...) ricorreva il 150° anniversario della scomparsa di tale Louis-Hector Berlioz. Pochi se ne sono ricordati e fra questi, meritoriamente, il Ravenna-Festival, che ha voluto dedicare alla memoria del vulcanico compositore il concerto di ieri sera, protagonista - noblessse oblige - la prestigiosa ONF, guidata dal suo Direttore musicale, Emmanuel KrivineConcerto funestato (forse Berlioz avrebbe detto arricchito!) dalle intemperanze di Giove pluvio, tonante e fulminante (come si vedrà). 

A Berlioz si è arrivati con un percorso retrogrado, iniziato da un autore che - almeno nell’immaginario collettivo - starebbe quasi agli antipodi del lunatico francese: Johannes Brahms, del quale abbiamo ascoltato le splendide Variazioni su un tema di Haydn, ultimo test attitudinale (1873) cui il burbero amburghese si sottopose in vista della sua tanto attesa e reclamata discesa in campo nell’arena sinfonica (1876). Insomma, una composizione che valse ad ottenere a Brahms il passaggio dell’esame (al pianoforte) con la severa Clara (Wieck, maritata Schumann) e a convincerlo a fare finalmente sul serio con la Sinfonia in DO minore.    

Il tema originario (Chorale in honorem St. Antonii, scritto per organico di banda) è quasi certo che non sia di Haydn: si è scoperto infatti che doveva essere un canto di pellegrini boemi ripreso da Ignatz Joseph Pleyel. Certo è invece che Brahms ne ha fatto un impiego magistrale: le otto variazioni che seguono l’esposizione del tema (tutte sempre nel SIb di impianto, cinque in modo maggiore e tre – 2-4-8 - in minore) ne sviluppano tutte le potenzialità, o ne derivano altri motivi a mo’ di reminiscenza. Nel Finale (tempo di passacaglia, ecco un altro chiaro richiamo al glorioso passato, ma anche anticipazione del futuro... quarta sinfonia!) Brahms inventa ancora una nutrita serie di (piccole) variazioni, su un motivo di basso ostinato di 5 battute, tenuto inizialmente (per 9 volte) dai soli contrabbassi, ma che poi passa ai violoncelli, alle viole e quindi emerge in primo piano nei corni e ancora (in minore) negli oboi, poi nei flauti e di nuovo nei corni, per tornare (in maggiore) a corni e violoncelli, prima della trionfale e conclusiva ripresa del tema.

Esecuzione mirabile dei nazionali di Francia, che si sono così meritati grandi applausi da un pubblico non proprio oceanico, ma più caldo del caldo asfissiante che gravava (fino a quel momento almeno) anche qui sulla riviera romagnola. Ma già qualche lampo penetrato dal plexiglas del cupolone faceva presagire il peggio.
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Per compiere l’avvicinamento a Berlioz, la prima parte della serata è stata completata dal sesto dei poemi sinfonici di Franz Liszt, Mazeppa, ispirato a Byron (1819) ma soprattutto a Hugo (1828) il cui poemetto è stampato in testa alla partitura. Il soggetto tratta delle vicissitudini di questo giovane ukraino (Ivan Stepanovič Mazepa-Koledinsky) che, avendo occupato il posto di un notabile polacco... ehm, nel di lui letto, fu legato nudo come un verme ad un cavallo alimentato ad alghe marine (!) e poi spedito via al galoppo. Morto per sfinimento il cavallo e moribondo lui, Mazeppa fu però rimesso in sesto da una banda di Cosacchi ed eletto a loro condottiero! Naturalmente c’è chi ci vede l’allegoria dell’Artista (sempre un po’... scapestrato) che vince ogni ostacolo per raggiungere nobili traguardi.

Ecco qui Gianandrea Noseda dirigerlo con la BBC Philharmonic (sua antica dimora).
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L’Introduzione è in 6/4, RE minore, e dopo uno schianto dell’orchestra che evoca il nitrito del cavallo che scatta via con Mazeppa in groppa, vi compaiono continue folate degli archi (il galoppo) e semiminime prima ascendenti e poi discendenti (le salite e discese percorse dal destriero nella sua folle corsa); si odono anche scoppi come di tuono e fulmine (o sono altri nitriti del cavallo imbizzarrito...) Insomma un’atmosfera da tregenda! Che a me ricorda irresistibilmente l’incipit di Walküre! E forse non è un caso che Wagner, già amicissimo (prima di diventarne genero) di Liszt, con il quale scambiava continuamente notizie su progetti e idee, si sia ispirato a Mazeppa (che era in gestazione a Weimar proprio quando Wagner vi transitò fuggendo da Dresda e diretto a Zurigo) per aprire la prima giornata del suo Ring. Che, fra l’altro, è nello stesso RE minore e in un tempo (3/2) simile, anche se a scansione diversa, a quello del poema sinfonico.

L’Introduzione è seguita (1’08”) da una lunga sezione, caratterizzata dal tema principale che evoca la cavalcata di Mazeppa, dapprima esposto dai tromboni, poi (2’10”) dalle trombe. Una transizione (3’22”) porta all’esposizione (3’37”) di una variante lenta del tema principale. Essa viene riproposta a 4’48”, e conduce poi attraverso un ponte di preparazione (5’26”) all’esposizione del tema principale in modo maggiore (5’45”) e con fiero cipiglio. A 6’19” il tema torna nei tromboni e successivamente (7’15”) negli archi. A 8’20” troviamo una lunga transizione, in cui compare (9’31”) smozzicato, l‘incipit del tema principale: è il momento della fine della corsa: cavallo e... soma si accasciano sfiniti.  

Ma sappiamo che Mazeppa viene salvato ed eletto a capo dai cosacchi. E a questo punto ecco la sezione conclusiva del lavoro, che Liszt aggiunse in un secondo momento e che può (secondo le indicazioni dell’Autore) anche essere eseguita separatamente da ciò che la precede! Si tratta della marcia tartara, aperta (10’24”) da fieri squilli di trombette, che consta a sua volta di due sezioni: la prima (11’10”) esposta a piena orchestra, dal carattere smaccatamente eroico, e la seconda (12’03”) che presenta un tema squisitamente orientale, nei legni, magari proprio cosacco... Il tutto viene ripetuto (12’46”) con formale da-capo.

A 14’21” il tema cosacco si appesantisce, assumendo caratteristiche quasi minacciose (15’06”) ma preparando così il trionfale ritorno (15’37”) del tema principale, in modo maggiore, che a sua volta conduce alla secca conclusione.
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Krivine non ha certo risparmiato enfasi e retorica (come del resto si addice a kermesse di questo genere) e altri segnali atmosferici hano tutto sommato contribuito a sceneggiare la... sceneggiata di Liszt, anche questa accolta da lunghi applausi.
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Fu proprio Franz Liszt, in un lungo scritto del 1855 (Berlioz und seine Harold-Symphonie) a magnificare la qualità della composizione che ha chiuso (rocambolescamente, per la verità) il concerto: Harold en Italie, propostoci dalla splendida viola imbracciata da Antoine Tamestit, che guarda caso si era esibito nello stesso brano con la Santa Cecilia (e Gardiner) proprio lo scorso marzo. Qui invece vediamo la Sinfonia eseguita meno di un mese fa dalla ONF con Krivine (a casa loro) e con la loro prima viola (Nicolas Bône) nella parte di Harold.

Le cronache (e le stesse Mémoirs del compositore) ci raccontano che l’opera fu in pratica commissionata all’inizio del 1834 a Berlioz da Niccolò Paganini, che desiderava così portare al pubblico le preziosità di una viola Stradivari recentemente venuta in suo possesso. Berlioz - come sempre esagerato - pensò ad una specie di cantata con orchestra, coro e viola solista intitolata Les derniers instants de Marie Stuart, e addirittura rese pubblica la notizia, prima di venire disilluso proprio da Paganini, che mai e poi mai si sarebbe abbassato a fare da comprimario in qualcosa di così sesquipedale. Berlioz per tutta risposta invitò allora la star internazionale a comporsi il concerto da sè! (Cosa che Paganini effettivamente farà, ma senza grande successo).

Così Berlioz si buttò a capofitto su Byron e sul suo Child Harold's Pilgrimage per trarne questa sinfonia-a-programma, presentata nel novembre 1834 con discreta fortuna. Qualche anno dopo un Paganini malmesso e totalmente afono (il figlioletto Achille gli faceva da portavoce) potè assistere ad un’esecuzione dell’Harold e ne rimase folgorato, arrivando ad inginocchiarsi ai piedi di Berlioz per baciargli la mano: 



L’indomani gli inviò una lettera comunicandogli di aver incaricato il barone Rotschild di erogargli 20.000 franchi, a testimonianza della sua grande stima e ammirazione. Chiusi pettegolezzi e dietrologie, veniamo al sodo.
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Così come la (di poco) precedente Fantastique, anche Harold (che è articolato in 4 parti) ha una sua idée fixe, un motivo che caratterizza l’ombrosa personalità del personaggio, e ritorna spesso e volentieri:

Dopo che una sua variante in minore è comparsa in tutti i legni (1’40”) lo ascoltiamo per la prima volta (3’29”) dalla viola solista - accompagnata dall’arpa - nell’Adagio (SOL maggiore) con il quale inizia il primo movimento, sottotitolato Harold aux montagnes. Scènes de mélancolie, de bonheur et de joie, che poi proseguirà in Allegro. Ebbene, seguendo la moda degli auto-imprestiti di cui Rossini (allora Roi de Paris) era un campione, Berlioz prende di peso il motivo da una sua composizione di un paio d’anni prima (l’Ouverture Rob-Roy, ispirata a Walter Scott) e precisamente dal centrale Larghetto, espressivo assai (da 4’25” a 8’20” nella citata esecuzione) pure in tonalità SOL maggiore, dove il tema è peraltro esposto dal corno inglese, sempre con l’arpa ad accompagnare. Berlioz sembrò quasi vergognarsi di questo imprestito: nelle sue Mémoirs si guarda bene dal citarlo, e in compenso ricorda l’Ouverture Rob-Roy come un ciarpame che lui stesso avrebbe dato alle fiamme (?!) dopo la prima deludente esecuzione a Parigi.

A 4’28” ecco il controsoggetto del tema principale, che chiude a 5’39”. Qui l’idée fixe viene riesposta dal solista, contrappuntata dai legni, dopodichè ecco arrivare (6’58”) il secondo tema, Allegro (siamo alla felicità e alla gioia...) esposto in orchestra, poi ripreso, dopo qualche esitazione (7’42”) dalla viola. A 8’22” appare un nuovo motivo, in funzione di cadenza (anch’esso preso da Rob-Roy, vedi a 2’53”) che porta (8’54”) al da-capo del secondo tema e della sua appendice, chiuso a 10’03” con l’inizio di un suo sviluppo assai articolato. A 11’14” riecco il motivo cadenzante, poi (11’47”) la viola espone una variante più tranquilla del tema, ripresa in orchestra. Dopo una pausa di riflessione, a 12’29” l’oboe esplode il motivo cadenzante, seguito dagli altri fiati; si fa largo un accenno di idée fixe, dapprima in orchestra (12’47”) e poi, dopo un vigoroso crescendo orchestrale (13’24”) anche nella viola. Ecco ancora (13’57”) il motivo cadenzante nei fiati e nella viola, che porta alla concitata conclusione.

Marche de pèlerins chantant la prière du soir (Allegretto, MI maggiore).  

Dopo un’introduzione (15’17”) caratterizzata da un sommesso dialogo dell’arpa con fiati e archi, spetta a questi ultimi (15’34”) esporre il tema di questo movimento di lenta e faticosa marcia. Tema che è completato da controsoggetti (fino a 16 varianti) che ne arricchiscono la struttura. A 16’32” ecco nella viola riapparire l’idée fixe di Harold, che è qui al seguito dei pellegrini in marcia: il suo canto si contrappunta infatti al tema principale. Tema che riappare (17’17”) negli archi, inframmezzato da terzine e quartine ribattute nei fiati. A 18’36” subentra un intermezzo (Canto religioso) dove alle note in corale di legni e poi archi si sovrappone la viola solista con un continuo arpeggio di ben 79 battute! A 20’05” sono i legni a riprendere il tema di marcia, rilevati poi dagli archi. Dopo alcuni reiterati SI di flauto e oboe, un ultimo arpeggio della viola chiude sul MI acuto.

Sérénade d'un montagnard des Abruzzes à sa maîtresse (Allegro assai, Allegretto, DO maggiore).

Il movimento è caratterizzato dalla presenza di due temi e dal riapparire dell’idée fixe. Su un ritmo di saltarello scandito dalle viole, subito (22’24”) attacca in ottavino ed oboe il primo tema scanzonato. A 23’04” ecco il corno inglese (evocando un’ocarina abruzzese) esporre il secondo tema, più languido e crepuscolare, in Allegretto. Ad esso si sovrappone (24’07”, è Harold che osserva...) l’immancabile idée fixe nella viola. Questa sezione si protrae a lungo, fino ad essere interrotta (26’28”) dall’impertinente ritorno del primo tema. A 27’02” torna protagonista il secondo tema, ma questa volta è la viola di Harold ad esporlo, mentre il flauto lo contrappunta con l’idée fixe! (insomma, Harold e il montanaro abruzzese si sono scambiati i ruoli...) Siamo in chiusura e (27’55”) ricompare fugacemente il primo tema, poi seguito dal secondo nella viola, che conduce alla sommessa cadenza finale.

Orgie de brigands. Souvenirs des scènes précédentes (Allegro frenetico, SOL minore).

L’ultima parte della Sinfonia si apre (28’59”) con una breve anticipazione (11 battute) del tema principale (l’orgia dei briganti). Dopodichè Berlioz imita la nona beethoveniana, proponendo reminiscenze dei tre precedenti movimenti, sempre esposte dalla viola (i... ricordi di Harold). Subentra dapprima un Adagio (29’13”, Souvenir de l’Introduction) dove la viola, accompagnata dal fagotto sul brusio degli archi, ci ricorda appunto l’atmosfera udita proprio all’aprirsi dell’opera. Riprende (29’42”) il tema orgiastico che poi (30’02”) lascia spazio alla seconda reminiscenza (Souvenir de la Marche des Pelerins, marcia che aveva occupato la seconda parte dell’opera). Altro fugace ritorno orgiastico, poi (30’17”) ecco la viola ricordare il tema languido del terzo movimento (Souvenir de la Serenade). Altro scoppio dell’orchestra e (30’36”, Souvenir du premier Allegro) si ripropone il secondo tema del movimento iniziale. Ancora l’orgia dei briganti e poi (31’05”, Souvenir de l’Adagio) ecco il tema di Harold, l’Idée fixe, tornare timidamente, quasi smozzicato.

Un progressivo crescendo orchestrale porta finalmente (32’02”) alla proposizione estesa del tema principale (anche qui troveremo reminiscenze di Rob-Roy...) L’esposizione è assai articolata: inizia in SOL minore, poi (32’49) vira alla relativa SIb maggiore; poi (33’30”) a SIb minore, con pesanti interventi (33’46”) di tromboni e tuba. A 34’08 ecco una transizione più calma ed elegiaca, che porta a chiudere l’esposizione. Questa viene però ripetuta (35’10”) senza sostanziali differenze. A 37’43” subentra una sezione di sviluppo dei temi, che porta (38’25”) alla ricapitolazione, interrotta (38’41”) dalla ricomparsa del motivo della marcia dei pellegrini. Poi (39’33”) riprende il tema principale che conduce (39’44”) alla pesante e retorica coda.   
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Durante l’intervallo i presagi di temporalone si sono fatti più minacciosi e così, quando ancora non si era arrivati a metà della prima parte della Sinfonia, ecco nascere un tremendo accompagnamento, come di una batteria di grancasse rullanti (la pioggia battente sul cupolone) che ha accompagnato la musica fino alla fine. Per la cronaca, all’inizio si era presentato solo il Direttore, e forse qualcuno avrà pensato che Tamestit l’avesse data buca... poi però il vagabondo Harold si è fatto timidamente avanti, dal fondo sulla sinistra, dalla parte dei contrabbassi, per proporre la sua idée fixe. E per il resto della sinfonia ha poi continuato ad alternare la presenza al proscenio con altre peripatetiche gite fra i leggii dell’orchestra, tanto per sceneggiare un po’ il viaggio di Harold. Fine del primo movimento accolta da... scroscianti (!!!) applausi del pubblico, mentre i due protagonisti quasi si scusavano per la qualità della loro performance.

Forse sperando in un rapido allontanarsi della buriana, tutti hanno attaccato il secondo movimento, che a dir la verità ha proprio accentuato la faticosa mestizia della marcia dei pellegrini, aggiungendovi qualcosa che Berlioz non aveva immaginato (ci penserà con Les Troyens): l’orage! Altri applausi del pubblico, tra lo sconcertato e il divertito, così, Imperterrito, Krivine ha dato il via alla tarantella del terzo tempo. Non oso pensare come si sarà trovata la bella suonatrice di corno inglese ad esalare la sua serenade in mezzo a quel frastuono. Ma anche Tamestit credo abbia rischiato il tracollo del suo strumento pur di poterci far udire qualche nota. Così, prima della ripresa del saltarello, altri applausi e il Direttore getta la spugna! Non si può proseguire. Conciliabolo improvvisato sotto il podio; arriva il padrone di casa (Riccardo Muti) e chiede a Krivine se può attendere 15-20’ sperando nel miracolo. Così vien fatto e - a pioggia tornata... normale - si riprende: ma non dal punto dell’interruzione, bensì (grande sensibilità di Krivine e dei suoi) dall’attacco della marcia dei pellegrini!

Si arriva così fino alla fine, e il pubblico mostra tutto il suo apprezzamento con autentiche ovazioni. Muti torna sotto il podio a stringere la mano a Krivine e Tamestit, e tutti ce ne torniamo a casa (ancora fra lampi e scrosci) un filino... rinfrescati!
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Tornando alla festa della donna, una sua esagerata, godereccia e anti-retorica interpretazione è la notte rosa, che qui in Romagna si celebra ormai tradizionalmente agli inizi di luglio. E ce n’è davvero per tutti i gusti!