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consulta e zecche rosse

26 luglio, 2018

Bayreuth ha aperto con il Lohengrin di Thielemann


Ieri pomeriggio(-sera) Radio3 ha irradiato da Bayreuth la prima della nuova produzione di Lohengrin, diretto dal padrone di casa (musicalmente parlando) Christian Thielemann e interpretato da Piotr Beczala, chiamato appena in tempo a rimpiazzare il forfait-tario Roberto Alagna.

Per ciò che si può giudicare dall’ascolto tecnologico, direi che sia stato un trionfo per Thielemann, che in questo repertorio ha pochi rivali, poichè oltre a conoscere come le proprie tasche ogni segreto delle partiture (ha ora diretto tutto il Wagner che si presenta a Bayreuth) conosce meglio di chiunque altro l’ambiente (materiale e... umano) della verde collina. Certo il suo è un approccio ultra-conservatore (Cosima ne sarebbe entusiasta) e un Boulez, per dire, gli è mille miglia lontano. Poi è da vedere se il suo sia anche l’approccio autentico del vecchio Richard o quello, appunto, della terribile figlia di Liszt.

Quanto ai contenuti, ormai è diventato uno standard anche a Bayreuth il taglio di 168 battute che separano la celebre esternazione di Lohengrin dall’arrivo del cigno (qualcuno potrebbe direttamente cassare quelle battute da una nuova edizione critica dell’opera...) Ai curiosi interessati offro la possibilità di ascoltare questi più di 4 minuti che si perdono, qui da 12” a 4’30”, da un’edizione proprio di Bayreuth del 1954 (prima dell’avvento del taglio) diretta da Jochum con Windgassen.

Passando alle voci, discreto Beczala e ottima (per me) la Harteros. Quanto alla venerabile Meier, la sua classe non tradisce mai, peccato che la sua sia (ormai...) una voce troppo acuta e poco appropriata (almeno per i miei gusti, sia chiaro) per la personalità della cattivona Ortrud, assomigliando troppo a quella di Elsa (il duetto del second’atto pareva cantato da una sola voce!) Voto abbastanza alto anche per Konieczny, un Friedrich assai autorevole; un filino sotto lo Heinrich del veterano Zeppenfeld; sufficienza risicata per l’araldo Silins.

Strepitosi coro e orchestra, componenti che lassù davvero non tradiscono mai.

La regìa ha collocato l’opera in una centrale elettrica. Quindi... spettacolo elettrizzante?!

PS: il sito di Radio3 presenta ora la programmazione addirittura fino al 31 luglio! Veniamo così a sapere che oggi potremo ascoltare Parsifal e domani Tristan. Disco rosso invece per i Meister di sabato (troppo Wagner nuoce evidentemente alla salute...)

18 luglio, 2018

Arriva Bayreuth 2018 (nel caso a qualcuno gliene fregasse...)


Mercoledi 25 luglio la verde collina ospiterà l’apertura del festival wagneriano n°107. (Quasi) niente Ring (come al solito fra una produzione e la successiva ci si prende uno o due anni sabbatici) e quindi la novità dell’anno è un nuovo Lohengrin (che pare sia ambientato in una colonia di gatti, per par condicio con i topi della precedente produzione di Neuenfels...) Gli tengono compagnia in cartellone riprese di recenti produzioni: Parsifal, Tristano, Maestri e Olandese. In più, come omaggio al Topone, tre recite di Valchiria (ultima produzione di Castorf) isolata dal resto dell’Anello.

Ecco qui un prospetto storico (aggiornato al 2018) delle attività del Festival: 

titolo
stagioni
rappresentazioni
allestimenti
Parsifal
93
536
10
Ring (ciclo)
86
    919
14
    Rheingold

229

    Walküre

230

    Siegfried

229

    Götterdämmerung
  
231

Walküre (isolata)
      1
    3

Meistersinger
49
319
12
Tristan
48
244
11
Holländer
40
238
10
Lohengrin
37
235
10
Tannhäuser
35
220
  8

Tanto per movimentare l’atmosfera, a meno di un mese dalla prima, Roberto Alagna, il nuovo Lohengrin, l’ha data buca (motivazione ufficiale: il superlavoro non gli ha dato il tempo di studiare bene la parte... ohoh, ma quale professionalità!) e così Thielemann ha chiamato Beczala, che con lui se non altro ha già cantato 3 anni fa la parte dell’argenteo cavaliere a Dresda.

Sul fronte dei Direttori quest’anno avremo due new-entry: il Bychkov per Parsifal e il citato Domingo, che calcò il palcoscenico di Bayreuth nei primi anni ’90 proprio come puro folle e poi nel 2000 come Siegmund nel ciclo del Ring di Sinopoli, e che adesso scenderà giù nella torrida buca a dirigere Valchiria. Il padrone di casa Christian Thielemann, oltre al nuovo Lohengrin, dirige anche il Tristan (giunto alla quarta stagione): con questi 11 podi sorpassa di slancio come recordman di direzioni Daniel Barenboim (del quale fu assistente proprio a Bayreuth nel secolo scorso).

L‘inaugurazione del Festival è sempre stata (fin dal 1876, e poi massimamente ai tempi del simpaticone Zio Wolf) una vetrina per politici e rappresentanti dell’establishment. Mentre il Wagner squattrinato e incompreso degli anni ’50 dell’800 vaneggiava di teatri di povero legno costruiti ad-hoc per tenervi festival musicali in cui rappresentare opere prime, per poi essere dati alle fiamme (in una con le partiture!) conclusa l’ultima rappresentazione, il Wagner arrivato e omaggiato da potenti e sovrani pensò bene di far costruire (a spese altrui) il suo teatro, e con robusti materiali capaci di resistere al tempo. Così ancor oggi il tempio è sano e vegeto, grazie alle generose cure della Stiftung (in massima parte finanziata dal contribuente) che lo sostiene.

La külona (! Angela) non si è quasi mai sottratta al fascino della passerella del 25 luglio sul piazzale antistante il vetusto teatro; quest’anno (se ci sarà) dovrebbe ricevere in omaggio al suo arrivo un bel mazzo di ortiche, come riconoscimento per la quasi-crisi del suo già traballante gabinetto e per la ignominiosa koreo-eliminazione della sua Mannschaft pedatoria ai mondiali di Russia (ah, che differenza dai trionfi brasiliani di 4 anni orsono) ...per lei una vera e propria Götterdämmerung! 

Quanto alla diffusione radio nostrana, non è dato sapere alcunchè, visto che l’agenda di Radio3 non va ancora al di là del 23 luglio (ah, il progresso...) Ci si può fidare come sempre degli aficionados wagneriti spagnoli, che invece hanno in programma (dal 25 al 28) le quattro opere principali (Olandese escluso).

16 luglio, 2018

Muti trasloca il Macbeth da Firenze a Ravenna


Il Ravenna Festival ha proposto ieri un’edizione in forma di concerto del verdiano Macbeth diretto dal consorte della padrona di casa, tale Riccardo Muti. Si è trattato in pratica di una terza esecuzione dopo le due date al Maggio Musicale nei giorni scorsi (anch’esse senza messinscena) per celebrare i 50 anni dall’esordio del Maeschtre a Firenze. E lui non ha perso l’occasione per auto-festeggiarsi anche nella sua città di... accasamento. 

L’immenso PalaDeAndrè non è certo l’ambiente ideale per questi tipi di spettacolo e l’acustica, nonostante le diffuse pannellature, non è paragonabile a quella non solo dell’OF, ma di un qualsiasi teatro. Ciononostante la recita non ha tradito le attese e le tribune dell’arena erano gremite di gente cosmopolita (inclusi francesi e croazzi, reduci da tutt’altro tipo di spettacolo...)

Versione parigina del 1865, completa di ballabili, che è stata eseguita (abbastanza inspiegabilmente, o per accordi con il... bar) con due intervalli (1-2 e 2-3) il che ha portato la fine dello spettacolo (iniziato alle 21:00) ben oltre le 00:30 (...ma tanto siam qui in vacanza). Orchestra disposta con le viole al proscenio e cantanti dislocati proprio sotto il podio di Muti, che poteva letteralmente... imboccarli come fa una mamma con i pargoletti. E imbeccare anche il pubblico, con palesi ammiccamenti ad attivare applausi a scena aperta dopo le arie più famose.

Un Muti in gran spolvero, che quando l’oggetto è Verdi lascia infallibilmente il segno, dall’alto della sua ormai semi-secolare esperienza. Stacco di tempi esemplare, attenzione ai dettagli e alla varietà di dinamiche, attacchi a voci e coro sobri ma efficaci, insomma una direzione di livello assoluto.

Direzione assecondata al meglio dagli strumentisti e dal coro (di Lorenzo Fratini) del Maggio, esemplari nel ricreare le atmosfere ora cupe, ora irridenti (le streghe) ora meste (Patria oppressa... un capolavoro) o esaltanti che costellano la partitura.  

Le voci dei protagonisti tutte all’altezza, a cominciare da Luca Salsi, un Macbeth autorevole, voce di gran spessore e accenti sempre adeguati alla circostanza drammatica. Alla Lady di Vittoria Yeo si può forse rimproverare una certa freddezza di esposizione, ma la voce è ben impostata e la tecnica (richiesta da Verdi in alcuni passaggi assai difficili) più che apprezzabile. Ottimo come sempre Francesco Meli (Macduff) in una parte peraltro non proibitiva (una perla però, la sua Ah, la paterna mano) ed autorevole il Banco di Riccardo Zanellato, per il quale Muti ha quasi... imposto l’applauso di commiato dopo la sua brutta fine nella quarta scena dell’Atto II. Bella voce da tenore leggero ha sciorinato Riccardo Rados (Malcolm) conducendo il finale Arrivano-i-nostri. La damigella di Lady e il medico, Antonella Carpenito e Vito Luciano Roberti hanno dignitosamente completato il cast. Domestico, sicario, araldo e prima apparizione erano impersonati da artisti del coro (Vito Roberti, Giovanni Mazzei, Egidio Naccarato e Nicolò Ayroldi) mentre le altre due apparizioni erano cantate da due voci bianche (Pietro Beccheroni e Arianna Fracasso).

Successo grandissimo, siglato da ovazioni per tutti: davvero una serata da incorniciare.

10 luglio, 2018

Il Pirata belliniano al suo ritorno in Scala - Pezza d’appoggio


Ho lasciato passare qualche giorno, per non correre rischi di denuncia (hahaha!) da parte dei solerti cerberi del Teatro, ma adesso provo a integrare il mio precedente commento mettendo a disposizione dei 4-5 milioni di miei lettori (ai quali chiedo di mantenere il più assoluto segreto, altrimenti Pereira mi fa condannare al 41-ter) l’audio della prima del Pirata che ho commentato nel precedente post. In ogni caso, se hanno dato i domiciliari a Dell’Utri, posso sperarci anch’io!

(Della qualità della registrazione non sono per nulla responsabile, sia chiaro.)  

07 luglio, 2018

Il Pirata belliniano al suo ritorno in Scala


Ieri sera è andata in onda - con intermezzo giallo - la terza delle otto recite de Il Pirata, che tornava alla Scala dopo 60 anni di assenza. Teatro gruviera come capita spesso, con pubblico abbastanza caloroso, tanto che non si sono ripetute le vivaci contestazioni seguite alla prima (vittime sacrificali il cattivone di turno Alaimo, il concertatore Frizza e il regista Sagi) ascoltata per radio venerdi.

Fino a ieri la registrazione di quella recita era disponibile in rete, prima che il Teatro la facesse rimuovere d’autorità. Io nel frattempo mi ero preso la briga di analizzarla da vicino per cercare di comprendere le ragioni (o i pretesti) del fiasco iniziale e del (relativo) riscatto successivo. Ovviamente potendo giudicare l’agogica (tempi) e gli accenti, assai meno le dinamiche, che vengono fatalmente distorte - leggi: appiattite - dalla ripresa radio. Ho deciso (per non buttare l’investimento fatto... haha) di pubblicare comunque queste note a futura memoria - di fatto contengono anche una succinta esegesi del soggetto, oltre che riferimenti ai tagli apportati - anche se fatalmente vi manca il riscontro in-corpore-vili, ma tant’è. Lascio anche i riferimenti di minutaggio, a conferma della... serietà del lavoro.
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Comincio dal mio conterraneo Frizza e dall’Ouverture, che è un serio banco di prova per il Direttore. La prima parte dell’Introduzione (Allegro con fuoco, RE maggiore, 3/4) è staccata con piglio apprezzabile. Personalmente gradirei una freschezza ancor maggiore, ma accontentiamoci: certe pur blasonate interpretazioni del ‘900 sono letteralmente esasperanti, trasformando il tempo in Andante maestoso, che caratterizza invece la seconda parte dell’Introduzione (38”, 4/4, RE minore - FA maggiore). Frizza la presenta correttamente, mette in risalto gli incisi dei violoncelli, poi gestisce in modo apprezzabile (1’44”) il passaggio in marcato che porta verso l’attacco (2’19”) del primo tema (Allegro agitato, 4/4, RE minore). Qui gestisce bene lo slentando (2’26”) e poi il ritorno in tempo che separa il soggetto dal controsoggetto, quindi carica leggermente il ritmo per il passaggio (2’44”) al RE maggiore, dove troviamo la transizione che porta (3’24”) al secondo tema, bipartito, nella relativa FA maggiore (qui Frizza fa tutto in staccato, di sua iniziativa). Efficace il passaggio alla seconda sezione (3’42”) con il moderato crescendo che la caratterizza (e che terrà banco alla fine del primo atto). Ecco poi la ripresa dei due temi, dapprima (4’59”) quello in RE minore, assai scorciato, e poi (5’23”) il secondo (ora canonicamente in RE maggiore) dove Frizza del tutto arbitrariamente scatena un presto, certo di facile effetto, ma francamente un po’ pacchiano. Tutto sommato però l’accoglienza è abbastanza positiva.

L’Introduzione con il coro e Goffredo non si presta a particolari critiche (forse la voce di Riccardo Fassi viene qua e là travolta da quella del coro...) e quindi passiamo (15’11”) all’esordio del tenore, di gran lunga la parte più importante, difficile e ostica, sotto il profilo espressivo, oltre e più che sotto quello strettamente vocale. Dopo il recitativo con Goffredo, ecco la cavatina di Gualtiero (Nel furor delle tempeste, 17’29”) in SOL minore e SIb maggiore: la voce di Piero Pretti non è per niente male (salirà anche al RE acuto con relativa scioltezza, nella cadenza finale) ma ciò che lascia a desiderare è l’espressività (Come un angelo celeste, 18’06”) che Bellini richiede in forti dosi, mentre il tenore continua a cantare con piglio inalterato. Stessa cosa anche alla ripresa. Sono magari sfumature, ma fanno la differenza, almeno ad un orecchio attento. Il pubblico comunque pare aver apprezzato, pur senza particolari entusiasmi.

Il successivo coro (con interventi minori di Gualtiero e Itulbo) include anche (22’43”, Per te di vane lagrime, in SIb maggiore)  una  nuova esternazione del tenore, che Pretti risolve dignitosamente, accolto da moderati applausi.

Arriviamo quindi (26’36”) all’esordio del soprano (recitativo e cavatina). Dopo la breve introduzione orchestrale in MIb maggiore, che Frizza affronta a ritmo svelto, Sonya Yoncheva si presenta (27’35”) con il recitativo Sorgete, e in me quella pietade, MIb maggiore, ove il soprano bulgaro mette subito in bella mostra la sua voce potente e ben tornita. Che esplode poi nella cavatina (29’39”, Lo sognai ferito esangue, SOL minore) e ancora (31’44”, Quando a un tratto il mio consorte, SI maggiore) si inerpica in difficli vocalizzi nel ricordo dell’incubo che la colse vedendo l’amante straziato dal marito! Segue un nuovo passaggio in MIb (Muta, oppressa, sbigottita) con i pertichini di Itulbo, Adele e coro. Dopo l’arrivo di Gualtiero (33’52”) del qule Itulbo ancora cerca di nascondere a Imogene l’identità, riprende (35’13”) in SOL maggiore la cavatina (35’32”, Sventurata anch’io deliro) con ripetizione abbellita (37’48”) e cadenza finale (40’00”) con il coro. Mah, si potrà sempre eccepire sulla relativa piattezza dell’esposizione della Yoncheva, ma francamente gli applausi sono davvero convinti (e per me meritati).   

Segue il coro libagioso dei pirati, francamente piuttosto dozzinale (Bellini non deve averci dedicato più di un quarto d’ora...) che Frizza e Casoni (più Pittari) mi pare abbiano sfangato con onore, nell’indifferenza generale.

Dopo il breve incontro fra Imogene e Adele, aperto (45’00”) da 8 mirabili battute strumentali in SIb (non si saprebbe se farle risalire a Bach o anticipare Mendelssohn...) dove Adele ha preannunciato alla sua Signora la visita di Gualtiero (modulando a SOL minore) si arriva alla corposissima scena dell’incontro fra i due amanti (46’45”). Il recitativo accompagnato dei due sfocia (50’54”) in una pregevole frase in LAb maggiore di Imogene (Se un giorno fia che ti tragga) che la Yoncheva espone con bel portamento. Frase musicale che subito dopo è ripresa un tono sopra (SIb) da Gualtiero (51’45”, Voce suonava un giorno): qui Pretti ha una partenza difficoltosa sull’intonazione, poi però si riprende discretamente. Si modula ancora in alto di un tono intero (DO maggiore, 52’16”) e Imogene (Tu sciagurato) invita Gualtiero a fuggire dalla casa di Ernesto, nome che la Yoncheva scandisce efficacemente (con forza) su una discesa di quattro veloci gruppi di semicrome. La tonalità è virata a SOL maggiore per la risposta di Gualtiero (Lo so, 52’47”) sostenuta dai violini su un inciso anapestico, che si ripeterà ancora nel seguito del duetto, la cui tonalità modula ancora (53’44”) a FA maggiore dove Imogene (Il genitor dolente) va a chiudere la sezione con una pregevole scala discendente (dal LA acuto al DO sotto il rigo). Ora inizia (55’11”, DO minore) una nuova sezione del duetto con Gualtiero (Pietosa al padre) che accusa di crudeltà Imogene, la quale (56’47”, Ah tu, d’un padre antico) si difende ricordando lo stato di necessità (scegliere lui o il padre) che l’aveva imprigionata, difesa che però non convince Gualtiero. Il quale modulando a DO maggiore (57’58”, Vivea vivea per te soltanto) conduce insieme a Imogene alla conclusione di questa sezione del duetto, accolta ancora da moderati applausi. Segue il drammatico arrivo del figlioletto di Imogene, che Gualtiero vorrebbe sopprimere, convinto poi dalla donna a desistere dall’insano proposito. Inizia qui (1h00’26”) ancora in DO maggiore, la parte conclusiva del duetto, con Gualtiero (Bagnato dalle lacrime) che reitera le sue accuse ad Imogene, che invece (Non è la tua bell’anima, 1h01’01”) gli riconosce l’antica nobiltà d’animo. Anche qui la Yoncheva sembra assai a suo agio, un po’ meno Pretti, che comunque - prendendo fiato a scapito di qualche battuta - stacca con lei un apprezzabile DO acuto, trascinando il pubblico ad applausi abbastanza convinti.  

Segue il recitativo fra Imogene e Adele, mentre si ode sopraggiungere il corteo che riporta a casa Ernesto, dopo la vittoria sui pirati di Gualtiero. Il coro in FA maggiore che segue, aperto da un’introduzione strumentale piuttosto leziosa (1h05’04”) ha un portamento nobile, ma anche (1h07’40”) passaggi da marcetta accompagnata dalla banda del paese. Frizza e Casoni lo accorciano opportunamente di 25 battute di ripetizione.

Finalmente (1h08’56) fa la sua entrata in scena anche il terzo protagonista del triangolo amoroso, il Duca Ernesto, cui Nicola Alaimo subito cerca di dare l’importanza che merita (Sì, vincemmo). La sua aria in FA - con tanto di ripetizione - accompagnata dal coro, anticipa future conquiste belliniane per baritoni e bassi. Alaimo mostra fiero cipiglio e non demerita nemmeno sui virtuosismi cui Bellini lo chiama. Certo la voce è troppo chiara per fare la parte del cattivone, si adatta meglio ai Dulcamara o anche ai Falstaff, oltre che ai tanti buffi di rossiniana memoria, tuttavia il pubblico ha per lui solo applausi. 

Segue l’incontro di Ernesto con Imogene (1h15’11”) un recitativo di cui vengono tagliate - inspiegabilmente - 9 battute: il Duca si meraviglia dello stato depresso della moglie, alla quale domanda conto dell’aiuto portato ai naufraghi, che arrivano al suo cospetto (1h16’55”). La scena - prevalentemente in DO maggiore - è occupata dall’interrogatorio di Ernesto a Itulbo, che si è presentato come il capo dei pirati, per proteggere Gualtiero. Ci troviamo poi un’esternazione - in SOL maggiore - di Ernesto (1h18’06”) che decide di tener prigionieri i naufraghi; e poi una (ancora in DO) di Imogene (1h18’49”) che chiede invece al consorte di consentire loro di tornare alle loro terre, permesso subito accordato. 

Ha inizio ora il quintetto (con coro) che porterà alla conclusione dell’Atto. Vi sono impegnati - in LA minore, con modulazioni a maggiore - dapprima (1h19’36”) Gualtiero (che si rivolge a Imogene, chiedendole un’ultima udienza, pena qualche strage che lui metterà in atto) ed Ernesto (che mette i suoi sgherri sull’avviso, avendo sospetti sui naufraghi e su nuovi possibili sbarchi nemici). Quindi interviene Imogene (che risponde a Gualtiero, implorandolo di desistere dai suoi propositi). Ecco poi entrare anche Adele, Itulbo e il coro, che contrappuntano le esternazioni dei tre protagonisti. Alla chiusa in LA maggiore (1h23’38”) ancora applausi non fragorosi (e con qualche sommesso ululato in sottofondo...)  

Attacca poi (1h23’53”) la stretta finale del quintetto, introdotta da un recitativo in FA dove Gualtiero tenta di aggredire Ernesto, ma ne viene impedito da Itulbo e Goffredo, mentre Imogene quasi sviene ed Ernesto ordina venga accompagnata nelle sue stanze. Imogene (1h25’00”, Ah, partiamo, in SIb minore) attacca la stretta, incalzata subito da Adele, Gualtiero, Ernesto, Itulbo, Goffredo e coro, che modulando a SIb maggiore innescano (Infelice, quali accenti, 1h25’35”) il crescendo già udito nell’Ouverture. Dopo un drammatico rallentando, Imogene (1h26’16”) riattacca la stretta (SIb minore) e quindi riecco (1h26’46”) il crescendo in SIb maggiore, che qui viene tagliato di 22 battute (di ripetizione, incluso il vocalizzo del soprano). Alla chiusa ancora applausi abbastanza convinti. 

La registrazione porta direttamente al secondo atto (1h28’24”) e manca quindi la testimonianza del trattamento riservato dal pubblico a Frizza al rientro: personalmente non ricordo di aver udito per radio alcuna contestazione al Direttore.

L’atto inizia con un Coro introduttivo in DO maggiore, tempo 6/8, protagoniste le damigelle di Imogene, con Adele in primo piano, preoccupate per lo stato di prostrazione in cui versa la Signora. La sezione femminile del coro di Casoni lo interpreta con apprezzabile leggerezza e Marina de Liso ha modo di mettere in mostra le sue buone qualità. Adele invita ora (1h32’12”) Imogene a recarsi all’appuntamento con Gualtiero: lei dapprima recalcitra, poi si decide, ma in quel momento arriva Ernesto. Segue un recitativo (1h33’49”) in cui Ernesto accusa la moglie di sfuggirlo, e alle rimostranze di lei, la accusa apertamente per il suo amore per Gualtiero. Imogene lo accusa di crudeltà, ricordandogli di avergli dato un figlio, ma Ernesto (1h36’03”) attacca in LA maggiore il duetto (Tu m’apristi in cor ferita) tacciandola di empietà e iniquità. Imogene gli ribatte (1h37’40”) che il suo amore per Gualtiero era ben noto a tutti, quando lui la strappò al padre e pretese di averla in moglie senza essere amato. Ernesto (1h39’21”) ora ha avuto la sua confessione e rincara la dose (L’ami? Parla... l’ami?) Imogene si difende (1h39’46”) degradando la tonalità di un semitono, a LAb, riconoscendo di amare Gualtiero, ma di un amore senza più speranza, quello che si prova per un defunto. Ora si è passati in FA maggiore e in tempo Larghetto (1h41’27”) i due cantano i rispettivi moti dell’animo, dapprima per terze, poi (1h42’26”) disgiunti, poi ancora insieme. C’è un piccolo taglio di 7 battute (una ripetizione) prima dei due vocalizzi (lei e poi lui) che chiudono questa sezione del duetto. Ernesto - siamo passati a DO maggiore - riceve una missiva (1h44’52”) che lo informa della presenza di Gualtiero nel palazzo e va su tutte le furie, chiedendo invano alla moglie di rivelargli dove l’amante si nasconda. Inizia quindi, tornando a LA maggiore (1h46’00”) la parte conclusiva del duetto, con i due coniugi che manifestano gli opposti stati d’animo: lei teme una carneficina, quella che lui sta ostentatamente programmando. Qui ci sono due tagli (18+16 battute) che levano parecchie castagne dal fuoco ai due cantanti, risparmiandogli il fiato per esibirsi in un un LA acuto finale, non scritto in partitura e, per quanto riguarda il baritono, tanto velleitario quanto estraneo al personaggio. Il pubblico applaude moderatamente (ma Alaimo forse avrebbe meritato qualche dissenso, diciamolo pure).  

Siamo ora tornati da Gualtiero. Gualtiero ingaggia un recitativo - che si muove fra le tonalità  di LA minore, DO e MIb maggiore - con Itulbo (1h47’59”) durante il quale manifesta il proposito di incontrare a tutti i costi Imogene, vanamente sconsigliatone dal compagno. E proprio in quel momento compare la donna (1h49’33”) intenzionata a convincere Gualtiero a fuggire. Invano, chè lui conferma i propositi di prenderla con sè o morire. Inizia qui (1h51’28”) il duetto (che poi diverrà terzetto con il sopraggiungere di Ernesto). Gualtiero, in DO maggiore, invita Imogene a fuggire con lui (Vieni, cerchiam pe’ mari) chiuso da una salita (non scritta, ma efficace) al DO acuto. La risposta di Imogene (1h59’33”, Taci, rimorsi amari) arriva sulla stessa linea melodica, ma dopo una modulazione a LA maggiore: la donna prefigura i rimorsi che coglierebbero lei e l’amante per il resto della loro esistenza. I due (1h55’36”) ancora si scambiano opposti propositi, ma sta sopraggiungendo Ernesto (1h56’36”) che già pregusta il piacere di catturare Gualtiero. Qui inizia (1h56’55”) il terzetto vero e proprio, in tonalità di RE, poi di LA maggiore: Gualtiero si prepara al peggio (Cedo al destin orribile) e a sfidare la morte; Imogene ancora lo supplica di desistere; Ernesto (ancora non visto dai due) già prefigura una punizione esemplare per i fedifraghi. Qui mi pare che Frizza trattenga eccessivamente i tempi, i tre sono impegnati anche in alcuni virtuosismi che culminano, per tenore e baritono, in due non facili cadenze, sulla prima delle quali Pretti raggiunge (2h00’35”) con qualche affanno il RE acuto (questo scritto in partitura) mentre Alaimo (2h00’50”) cala vistosamente (MIb al posto di MI naturale) sul culmine della sua. Anche qui c’è un applauso non certo entusiasta. Attacca ora (2h01’38”) la parte conclusiva del terzetto. Gualtiero ancora indugia, ma Ernesto si palesa e fra i due si ingaggia una reciproca sfida mortale. Siamo ora alla stretta finale (2h02’51”) in DO maggiore, tutta su un ritmo puntato che ben evoca l’agitazione dei tre. La conclusione è, diciamo così... semplificata.

Ora abbiamo il recitativo di Imogene e Adele 2h04’47”): questa cerca di calmare la Signora, che invece vorrebbe precipitarsi per separare i due litiganti, marito e amante. Ci si muove da DO a RE minore, LA minore per tornare a DO maggiore. Le ultime 12 battute strumentali vengono tagliate, per passare direttamente (2h06’01”) alla scena successiva, che ci presenta già il risultato del duello fra i due contendenti: Ernesto ha evidentemente avuto la peggio, visto che i suoi guerrieri gli stanno facendo il funerale... Dopo l’introduzione strumentale, che va dal SOL a DO maggiore, ecco il coro (2h07’16”) cantare l’elogio funebre del Duca. Per un po’ Frizza tiene il tempo maestoso, effettivamente adatto ad un mortorio (pur se in DO maggiore...); poi però a un certo punto accelera vistosamente, e il coro si chiude con passo garibaldino.

Arriva ora Gualtiero (2h09’56”) accolto da improperi dei sudditi di Ernesto; ma lui getta la spada e si offre alla vendetta dei nemici; i quali tuttavia gli vogliono assicurare un giusto processo (!) Lui li sprona a far presto, altrimenti potrebbe pentirsi... E canta, rivolto ad Adele, la sua aria con coro in DO maggiore (Tu vedrai la sventurata, 2h12’00”). Pretti non se la cava poi troppo male, cerca anche di dare un po’ di espressione al canto, sale al DO acuto, e così alla fine, fra gli applausi, spunta anche un bravo! Segue un breve recitativo (2h15’32”) che prepara la sezione finale, sempre in DO, dell’aria di Gualtiero (Ma non fia sempre odiata, 2h16’48”). Anche qui Pretti mostra buona saldezza di voce, si permette anche di chiudere con un DO acuto non scritto, e gli applausi si ripetono.

Soppresso il breve recitativo di Adele e damigelle, che compiangono Gualtiero, ecco arrivare la scena finale (davvero la scena-madre) dell’opera (2h21’18”) aperta da un richiamo di corni in FA maggiore, cui segue un breve preludio caratterizzato da arcane sonorità e chiuso da un cupo accordo dell’orchestra. L’arpa attacca (2h22’35”) la mesta introduzione del corno inglese (in FA minore) all’ingresso in scena di una vaneggiante Imogene (2h25’04”) che canta un breve e straniato recitativo, compianta dalla fida Adele. Poi (2h26’57”, Ascolta) si imbarca nella narrazione di un sogno, un incubo, una visione tragica, il corpo trafitto di un uomo, non Gualtiero, ma Ernesto, che, sulla ripresa della melodia, reclama il figlio... E lei il figlio l’ha salvato e lo trascina verso il padre. Il figlio in carne ed ossa le viene portato e lei (Deh, tu innocente) lo abbraccia e lo bacia, chiedendogli di implorare al padre il perdono per lei.

Attacca ora (2h30’04”) l’aria più famosa dell’opera (Col sorriso d’innocenza): dopo l’introduzione del flauto, ecco Imogene (2h31’00”) rivolgersi al figlio perchè interceda per lei con il genitore. Il suono del gong (2h33’46”) avverte che la sentenza contro Gualtiero è stata emessa. Lo conferma subito (2h34’20”) il coro dei guerrieri e Imogene (2h35’23”, Oh sole, ti vela) vorrebbe scacciare la visione dell’amante decapitato. La Yoncheva regge discretamente lo sforzo, anche se stranamente evita (2h36’16”, D’orrore morrò) il DO acuto, fermandosi al SIb. Dopo il pertichino del coro, si ripete la strofa e la frase Oh sole (2h36’51”) e lo stesso abbassamento da DO a SIb (2h37’49”) già registrato prima. DO che viene passabilmente cantato sulla chiusa, accolta da applausi abbastanza intensi.

Ora, nella registrazione incriminata non ci sono le accoglienze finali, che hanno visto sonore contestazioni ad Alaimo, poi a Frizza e infine al regista Sagi. Per quel che posso giudicare dalla ripresa audio (sempre poco fedele, per definizione) queste contestazioni al baritono e al Direttore mi sono parse quanto meno eccessive, per non dire premeditate, ecco: possibile che durante tutta la serata non si sia udita una sola voce di dissenso, ma esclusivamente (sia pur moderati) applausi e poi soltanto alla fine esplodano contestazioni così vivaci?
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Chiuso l’esame (ormai virtuale, ahimè) della prima, vengo a ieri sera, raccontando subito del citato giallo prima dell’inizio del second’atto: l’intervallo si è protratto per almeno 20 minuti supplementari, il che ha dato la stura alle più svariate congetture (malore di qualche interprete, o magari uno sciopero selvaggio di sezioni dell’orchestra...) finchè Pereira (maleducatamente accolto da improperi dal loggione, subito rintuzzati dal soprintendente) ha annunciato l’indisposizione di Pretti (un calo di pressione, ufficialmente). Ma aggiungendo che il tenore avrebbe comunque proseguito la recita.

In effetti Pretti lo ha fatto, ma cantando quasi sempre da seduto (su sedie, poltrone, persino alla base del sarcofago di Ernesto) a conferma delle sue precarie condizioni. Sulla sua prestazione di ieri nel second’atto sarà doveroso astenersi da giudizi di merito, ma va comunque dato atto al tenore di aver fatto il possibile per garantire un livello dignitoso alla sua performance (sono mancati gli acuti, per comprensibili ragioni).

Per il resto devo dire che ieri l’accoglienza ai singoli numeri e quella finale sono state assai calorose per tutti (per Frizza anche al rientro dopo la pausa) con ovazioni - per Yoncheva e il Coro in testa - che si sono aggiunte agli applausi, sia alle uscite di gruppo che a quelle singole. Per me nel complesso - pur tenendo conto della menomazione di Pretti - si è trattato di una performance musicale più che accettabile, fatte le riserve che ho espresso via via lungo l’esame della prima. In sostanza, una riproposta che personalmente ritengo meriti ampia sufficienza.
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La messinscena è francamente - a mio modesto parere - ingiudicabile, nel senso che pare del tutto estranea al soggetto in questione. È già una fortuna che gli sia semplicemente estranea e non pervicacemente offensiva, ecco. La pagina di Note di regìa pubblicata sul programma di sala (contiene un sunto della posizione di Sagi) è un condensato di banalità e insensatezze: precisamente ciò che si vede in scena.

02 luglio, 2018

Battistelli porta Shakespeare alla Fenice


Ieri pomeriggio La Fenice (con ampi spazi deserti nei palchi, ma pure in platea) ha ospitato la seconda recita del Richard III di Giorgio Battistelli, opera che arriva in Italia dopo più di 13 anni dalla sua comparsa sulle scene fiamminghe e dopo aver compiuto altre tappe europee. (Non è dato sapere perchè nel frattempo non si sia pubblicato un DVD, che dico, un CD dell’opera, quasi fossimo tornati all’800, dove però gli organetti di strada supplivano alla mancanza di registrazioni, diffondendo per le piazze le arie e i duetti più famosi. Certo, se si diffondessero oggi con quei mezzi le arie di Battistelli, la gente passerebbe a vie di fatto con gli imprudenti organettari...)

Artefice dello spettacolo il trio Battistelli-Burton-Carsen, che tre anni orsono si è (recidivamente) ripetuto alla Scala con la produzione di CO2. Direttore e concertatore Tito Ceccherini, specializzato in musica contemporanea, che non dev’essere per nulla facile da dirigere ma che - rispetto a Beethoven, Brahms, Mahler e Wagner, dove il vasto pubblico è pronto ad osannare o stroncare l’interprete, ritenendosi preparato sull’autore - mette il direttore al riparo da critiche, dato che il pubblico medio, per scarsa conoscenza dell’autore, fatica a distinguere l’interpretazione del Ceccherini da quella di un Carneade di passaggio. Orchestra che occupava, oltre alla buca a lei destinata, anche i sei palchetti di proscenio (tanto ne restavano vuoti altri 20-30, quindi poco male) per far posto a percussioni, xilofoni, celesta, batteria e sampler (generatore di suoni artificiali, come non bastassero quelli naturali...)

E sulla componente strettamente musicale dell’opera devo in effetti manifestare ampie perplessità: lungi da me richiamare qui i giudizi sommari di tale Fantozzi, dico francamente che essa non è tale (almeno al primo ascolto) da suscitarmi particolari entusiasmi. Certo, quando il soggetto è quanto di più repellente si possa immaginare, allora la musica fatta di atroci dissonanze, fracassi gratuiti e rumori che sostituiscono i suoni sembra apparentemente la più adatta a supportarlo: ma se il teatro musicale degrada a crudo reportage di cronaca nera, credo che abdichi alla sua stessa natura. Nella fattispecie, non bastano (alle mie orecchie) alcuni corali o un finale strappalacrime a riscattare la mediocrità estetica della musica che supporta questo Richard III. Battistelli, come suo solito, impiega di tutto e di più, ma la quantità di mezzi e trovate nella forma spesso maschera la mancanza di profondità dei contenuti.

Invece lo spettacolo non è per nulla da buttare, anzi... grazie a Burton (in realtà Shakespeare) e a Carsen, che sa come presentare il testo di Burton-Shakespeare da par suo. La struttura del dramma è ben articolata, con i tre momenti delle incoronazioni e il ciclico ritorno della Boar-Hunt, all’interno dei quali momenti si accavallano le atrocità del protagonista, i piagnistei delle donne che lo condannano (ma pure lo esaltano) le pavide reazioni di nobilastri imbelli e quelle sempre cieche e telecomandate del popolino. Siamo ancora, lassù in Albione, in pieno medio-evo e sarà proprio l’avvento dei Tudor a far sbocciare anche là un rinascimento, con almeno un paio di secoli di ritardo rispetto a... Firenze.

Carsen, coadiuvato per scene e costumi da Radu e Miruna Boruzescu, ci porta in un ambiente fisso (mosso soltanto dalle luci che vi penetrano da ogni lato) in cui trova spazio una tribuna-anfiteatro sulla quale prendono di volta in volta posto i notabili o il popolo, o gli opposti eserciti delle due rose. In basso, sabbia rossa: insomma, ecco uno spazio adatto a questa particolare versione di sangue-e-arena, la cui cupezza è completata dagli abiti (e occasionalmente dagli ombrelli) rigorosamente neri e perfettamente uguali di tutti coloro che si muovono in scena. Ecco, siamo appunto ancora nei secoli-bui!

Passando agli interpreti, grazie a Carsen la recitazione di tutti, singoli e masse, è di grande efficacia e di sicuro impatto, nulla da eccepire. Sulle qualità vocali dei numerosi personaggi (e meno male che Shakespeare è stato abbondantemente tagliato!) il mio giudizio è più che positivo solo per il Richard di Gidon Saks, il cui vocione potentissimo e perfettamente impostato ha riempito con grande drammaticità lo spazio della Fenice. (Al proposito farò una battuta davvero dissacrante: ma non sarebbe stato più audace, da parte del compositore, affidare questa parte, invece che ad un basso-baritono che è perfetto per Hagen o Hunding, o magari per Jago, ad un castrato o - visto che oggi non ne circolano più - ad un controtenore o falsettista? Chissà se non avrebbe scolpito meglio, vocalmente, la personalità di questo individuo le cui propensioni animalesche dovevano nascondere preoccupanti segni di instabilità...)

Degli altri, note positive per il Buckingham di Urban Malmberg, il Clarence-Tyrrel di Christopher Lemmings e la Anne di Annalena Persson. Assai meno per il Richmond di Paolo Antognetti, vocina piccola e poco udibile. Tutti gli altri su standard accettabili. Bene il coro di Claudio Marino Moretti, sia negli arcani interventi da fuori campo che nelle presenze in scena.

In definitiva, uno spettacolo coinvolgente ma - ripeto, questo è il mio personale giudizio - che ha il suo punto debole proprio nell’ingrediente che dovrebbe maggiormente caratterizzarlo: la musica...