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da stellantis a stallantis

30 dicembre, 2018

Capodanno in musica


Il Capodanno viene festeggiato in tutto il mondo anche da Istituzioni musicali grandi e piccole, e l’Italia non fa eccezione: cito solo la Fenice di Venezia e la Scuola di Fiesole.

Ieri sera laVerdi ha iniziato la sua quattro-giorni con la prima esecuzione della Nona di Beethoven, appuntamento ormai divenuto immancabile. Sul podio quel Claus Peter Flor che 19 anni fa (proprio in questa circostanza) esordì quasi per caso con l’Orchestra di cui oggi è Direttore Musicale.

Auditorium al gran completo e orchestra colorata di rosso dagli abiti delle rappresentanti del gentil sesso (Viviana esclusa, in canonico nero). La co-spalla Dellingshausen affianca come concertino la spalla Santaniello; i quattro solisti (entrati in posizione dopo lo Scherzo) sono collocati dietro l’orchestra (disposizione con violini secondi al proscenio) e davanti al coro.

Inutile dire della trionfale accoglienza per un’esecuzione che definire impeccabile è ancora poco. Le quattro voci (Gal James, Sonia Prina, Cameron Becker e Jochen Kupfer) hanno retto abbastanza bene l’impegno, anche se, non essendo fulmini di guerra, forse la dislocazione sul palco non le ha premiate come meriterebbero. 

Grandissima, al solito, la prestazione del Coro di Erina Gambarini, accomunato insieme a orchestra, solisti e direttore in un entusiastico applauso, anche ritmato, che ha chiuso questa prima tappa del passaggio di consegne da questo poco commendevole 2018 a... auguri! 
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A proposito di esordi, ecco che il tradizionalissimo appuntamento di Vienna ospita quest’anno il battesimo di Christian Thielemann. Abbastanza curiosamente, il suo curriculum pubblicato sul sito dei Wiener non cita la posizione di Musikdirektor del Festival di Bayreuth (?!) 

Martedi prossimo, ore 11:15, appuntamento su Radio3 per la diretta audio. 

Qui la classifica aggiornata dei Direttori delle 80 edizioni (2019 compreso) che si sono succedute senza alcuna interruzione dal 1940 (in realtà il primo concerto si tenne a SanSilvestro del 1939):

Willi Boskowsky 
25
1955-1979
Clemens Krauss 
13
1940 (31/12/1939)
1941-1945
1948-1954
Lorin Maazel 
11
1980-1986
1994
1996
1999
2005
Zubin Mehta
5
1990
1995
1998
2007
2015
Riccardo Muti
5
1993
1997
2000
2004
2018
Mariss Jansons
3
2006
2012
2016
Josef Krips 
2
1946-1947
Claudio Abbado 
2
1988
1991
Carlos Kleiber 
2
1989
1992
Nikolaus Harnoncourt
2
2001
2003
Georges Pretre †
2
2008
2010
Daniel Barenboim
2
2009
2014
Franz Welser-Möst
2
2011
2013
Herbert von Karajan 
1
1987
Seiji Ozawa
1
2002
Gustavo Dudamel
1
2017
Christian Thielemann
1
2019

 

15 dicembre, 2018

laVerdi 18-19 - Concerto n°11


Per questo ultimo appuntamento pre-natalizio de laVerdi (per la verità il 19 ci sarà Jais con laBarocca per il tradizionale Messiah) si rivede in Auditorium Giuseppe Grazioli, uno che qui è di casa e che ci regala un programma tutto italiano (lui è uno specialista assoluto di questo repertorio). 

Il fil-rouge che lega i 4 brani in programma è la Sicilia, con un percorso ad arco che parte dall’epopea medievale sublimata dal più grande compositore italiano dell’800 per arrivare al ‘900 fra le due guerre, quindi avanzare ancora fino ai tempi del miracolo economico, per poi ripiegare a inizio secolo.

Si parte con Giuseppe Verdi e l’Ouverture da I Vespri Siciliani, un vero capolavoro sinfonico, per compiutezza di forma e sapientissimo uso dei temi conduttori dell’opera. laVerdi l’ha suonata diverse volte negli ultimi anni ed anche ieri non ha mancato di far vibrare le corde del pubblico che ha accolto l’esecuzione con grandissimo calore.
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Ecco poi Alfredo Casella con la sua Suite Sinfonica Op.41b tratta dalla commedia coreografica La Giara, ispirata a Pirandello, che vide la luce a Parigi nel 1924. Suite della durata di 20 minuti o poco più, che comprende i 2/3 (in termini di tempo) dell’intero lavoro.
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Questa è la struttura completa della Commedia; la parte riquadrata è quella non inclusa nella Suite:

I - a) Preludio b) Danza siciliana

Preludio
- Andantino dolce, quasi pastorale
- Poco più lento, quasi adagio
- Allegro grottesco ed animato (Zi' Dima passa e scompare)
- Tempo primo

Chiòvu (Chiodo, danza popolare siciliana)
- Allegro vivace (Scena: aia siciliana; entrano i contadini)

Danza generale
- Allegro vivace
- Lontano - Avvicinandosi - Brillante e giocoso
- Sempre più forte, ma senza affrettare - Con tutta la forza - Calmato
- Lontano - Avvicinandosi - Giocoso
- Sempre più brillante e fortissimo - Stringendo

- Vivace (Irrompono tre ragazze spaurite)
- Grave, funebre (La grande giara spaccata; tutti piangono; strazio generale)
- Vivace (Un contadino chiama tre volte Don Lolò)
- Allegro drammatico (Don Lolò appare e scende; scena di furore; finimondo; contadini atterriti)
- Poco a poco stringendo (Entra Nela che riesce a placare le ire del genitore)
- Allegro vivace e grottesco (Entra Zi' Dima; i contadini lo accolgono come a una messa; tutti lo circondano e gli raccontano il fatto; lo conducono davanti alla giara)
- Lento (Zi' Dima esamina la giara; silenzio religioso)
- Dio nuovo animando (Zi' Dima annuncia che riparerà la giara; “Evviva Zi' Dima”)
- Stringendo (Don Lolò si spazientisce e scaccia i paesani; tutti fuggono; Don Lolò esce con Nela)
- Andante moderato (Zi' Dima prepara la riparazione; si fa notte; fora i pezzi col trapano)
- Vivace (Le tre ragazze spiano Zi' Dima)
- Andante moderato (Zi' Dima riprende il lavoro)
- Vivace (Le tre ragazze riappaiono; Zi' Dima non le vede)
- Andante moderato (Zi' Dima riprende ancora il lavoro)
- Allegro animato (Rientrano giocosamente i contadini)
- Stringendo (Zi'  Dima viene introdotto nella giara, poi chiusa con lembo rotto)
- Lento molto e misterioso (La giara sembra nuova; i contadini sono ammirati)
- Pesante ed allegro (I contadini cercano si estrarre Zi' Dima, ma la cosa non va)
- Agitato (Zi' Dima urla; nuovi tentativi dei contadini; nuove urla del vecchio; sforzi eroici)
- Allegro vivacissimo (Arriva Don Lolò stravolto e fa ruzzolare a terra i salvatori; disputa violentissima fra padrone e contadini)
- Alla breve, stringendo (I contadini vogliono spaccare la giara per liberare Zi' Dima; Don Lolò non lo permette: prima Zi' Dima deve pagare il danno; baruffa generale)
- Prestissimo (Don Lolò, dispersi i contadini, risale in casa)

II - a) “La storia della fanciulla rapita dai pirati” b) Danza di Nela c) Entrata dei contadini d) Brindisi dei contadini e) Danza generale f) Finale

- Allegro animato (Un contadino torna, accende la pipa a Zi' Dima e lo tranquillizza)
- Lento, calmissimo (Notte; chiaro di luna; calma; dalla giara escono le volute di fumo della pipa)
- “La storia della fanciulla rapita dai pirati” (Dal fondo della campagna s’innalza un canto popolare) (testo di Alberto Favara, 25 battute musicali in FA# maggiore cantate dal tenore)
- Vivacissimo e leggero (Nela scende dalla casa; danza attorno alla giara; chiama i contadini)
- Allargando (Entrano tutti i contadini festosamente)
- Pesante (Viene portato da bere)
- Allegro deciso (Brindisi dei contadini che acclamano Zi' Dima)

Danza generale
- Allegro rude e selvaggio (I contadini ebbri danzano intorno alla giara)
- Orgiastico e brutale (Don Lolò, destato dal baccano, si affaccia e vede la scena)
- Allegro vivacissimo (Don Lolò scende come toro infuriato; spavento generale)
- In due (Don Lolò abbranca la giara e la fa ruzzolare giù dall’altura; terrore dei contadini che si precipitano in soccorso di Zi' Dima)
- Allegretto molto moderato e rustico (Rientrano i contadini, innalzando in trionfo Zi' Dima liberato)

Finale
- Prestissimo (Don Lolò, disperato, è fuggito; Nela guida la danza generale)
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Brano pieno di verve, ovviamente monopolizzato (canzone esclusa, che il giovane ucraino - trapiantato qui da noi - Denys Pivnitskyi ci ha esposto da dietro le quinte con bel portamento) da motivi di danza, ora graziosi ma più che altro sfrenati, che non possono non trascinare all’entusiasmo, cosa puntualmente accaduta ieri.
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Di Nino Rota (uno dei beniamini di Grazioli, che ne ha inciso con laVerdi una montagna di musica) abbiamo ascoltato una parte della splendida Suite di musiche dal Gattopardo di Visconti, del 1963. Liberamente tratta dalla colonna sonora (di cui non segue la sequenza legata alla pellicola) ci propone però i temi principali del film, sapientemente organizzati in una struttura che ne esalta le bellezze.

Titoli di testa (Allegro maestoso)
N.6 - 
Viaggio a Donnafugata (Allegro impetuoso)
N.19 - 
Senza titolo (Sostenuto appassionato)
N.11 - 
Angelica e Tancredi (Andante)
N.7 -
I sogni del Principe (Un poco mosso ma tranquillo e sognante - con ansia - sentito - lo stesso tempo sereno e dolce)
N.3 - 
Partenza di Tancredi (Andante)
N.21 - 
Amore e ambizione (Sostenuto, quasi lento ma inquieto)
N.22 - 
Quasi in porto (Andante)
Finale (Stesso tempo)

Tutto ciò è anche riportato sul programma di sala, ma Grazioli salta direttamente da Angelica&Tancredi al Finale (?!) Anche il pubblico resta un filino perplesso.
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Ha chiuso la serata Gino Marinuzzi con la sua Suite Siciliana, che si può apprezzare qui proprio in una registrazione di Grazioli con laVerdi. Composta a 27 anni, nel 1909, è chiaramente tributaria del tardoromanticismo d’oltralpe: con una battuta, e parafrasando Strauss - del quale Marinuzzi diverrà sommo ed apprezzato interprete - potremmo re-intitolarla Aus Sizilien!  

Come la Fantasia sinfonica del tedesco, si articola in quattro quadri ispirati ad altrettanti aspetti caratteristici della regione:

1. Leggenda di Natale (Andante triste)
2. La canzone dell’emigrante (Andante sostenuto)
3. Valzer campestre (Un po’ lento)
4. Festa popolare (Allegro vivace) 

Ottima prestazione dei ragazzi, accolta da convinti applausi. Forse per farsi perdonare l’auto-riduzione del Rota, Grazioli e l’Orchestra ci regalano il pezzo forse più siciliano dell’intero repertorio operistico!

12 dicembre, 2018

L’Attila scaligero: un nazi ante-litteram


L’Attila del Verdi rimasto affascinato dalla lettura di Werner era un tipo forse un filino talebano nell’etica (proprio binaria: 0-1, tutto o niente, bene o male, bianco o nero) e quindi estraneo a compromessi e manfrine, spietato con i perdenti e i voltagabbana... ma ammiratore e rispettoso dei nemici ispirati alla sua stessa etica binaria.

Ora, come si spiega che un individuo sanguinario come l’unno possa essere stato presentato - nel corso dell’800 - prima in un dramma e poi in un’opera musicale come un personaggio positivo? Positività che emerge inoppugnabilmente dalla musica che Verdi gli ha cucito addosso, le mille miglia lontana da quella idonea a caratterizzare un bieco e feroce dittatore dei giorni nostri (Hitler, Stalin, Franco, Pinochet, PolPot, Bokassa, Saddam, Osama...) E di certo diversa da quella che Verdi avrebbe composto se - puta caso - avesse dovuto o voluto musicare un soggetto ambientato nel terrore francese, protagonisti Robespierre&C...

Credo che la risposta stia nel tipo di scenario e di contesto storico che sono sullo sfondo dell’opera. Quello dell’Attila porta alla nostra attenzione vicende remote, ambientate in un mondo dove una civiltà evoluta ma in decadenza (Roma) era minacciata da (in)civiltà primitive (perchè ospitate in parti del mondo estranee alla civiltà greca e poi romana) ma proprio per questo a modo loro genuine; e dove il barbaro Attila era mosso da istinti quasi animaleschi, ma in sostanza naturali, il che ne fa - agli occhi di Verdi e ai nostri occhi - un personaggio persino degno di ammirazione.

Sì, poichè uno stesso atto o fatto noi lo possiamo percepire in modo completamente diverso a seconda del contesto e della prospettiva storica in cui esso si inserisce. Un atto di violenza anche feroce compiuto da un seguace di Attila nel 452 certo non lo potremo mai giustificare, ma possiamo comprenderlo in ragione delle circostanze storiche in cui si è materializzato; e per questo Verdi può permettersi di rivestire le truci esternazioni del condottiero e i cori truculenti di Unni, Eruli e Ostrogoti, inneggianti a stragi e stupri, di musica positiva (modo maggiore, baldanzoso, propriamente eroico) ed è per questo che noi non solo non ci scandalizziamo di ciò, ma anzi l’apprezziamo.

Tutto però cambia se cambia l’ambientazione del soggetto. Ed è ciò che fa Davide Livermore in questo suo allestimento. Ambientato di fatto ai giorni nostri (o in giorni a noi benissimo presenti, perchè vissuti). E più precisamente ancora - nelle due parti principali che caratterizzano questa trasposizione, la prima ad Aquileia e l’altra nel campo di Attila del second’atto - ci troviamo chiaramente immersi in uno scenario che ha scoperti riferimenti nazisti. Dapprima vediamo l’Italia del post-8-settembre-1943, come risulta evidente da alcuni precisi particolari della messinscena: Odabella e poi Foresto che stringono drappi tricolori; la scena presa pari pari da Roma, città aperta di Rossellini, ambientato come ben sappiamo proprio in quel preciso periodo storico; gli aguzzini che osserviamo mentre trucidano a sangue freddo inermi cittadini, comportandosi precisamente come si comportarono i classici Kapò nazi, a noi ben noti, quali Kappler, Priebke e compari (Marzabotto, Ardeatine, ...)

Se lo scenario è questo, allora il condottiero che arriva a cavallo all’inizio dell’opera, se proprio non Hitler in persona, può benissimo riconoscersi in Albert Kesselring, comandante supremo delle forze naziste in Italia nonchè criminale di guerra riconosciuto e come tale condannato. E aggiungiamo che Ezio (ambiguo generale romano) ci fa proprio la figura del Maresciallo Badoglio, che da alleato dei nazisti - non dimentichiamo che anche Attila ed Ezio erano stati alleati, ai tempi delle spedizioni contro i Burgundi! - è ora diventato un traditore voltagabbana.

Quanto al secondo riferimento, è incontestabile che la scena del festino nel campo di Attila sia di ambientazione squisitamente nazi, mutuata scopertamente da pellicole italiane, come quelle della Cavani (Il portiere di notte) di Brass (Salon Kitty) e di Pasolini (Salo’).

Quello di Livermore è - riguardo i momenti caratterizzanti - uno scenario che ci presenta uno spaccato della nostra contemporanea civiltà evoluta all’interno della quale si è prodotta - per degenerazione cancerogena - una moderna barbarie. Uno scenario che sta letteralmente agli antipodi di quello musicato da Verdi: a differenza del buon selvaggio Attila, qui abbiamo Hitler (o chi per lui) che, non dimentichiamolo, aveva alle spalle Hegel, Marx e persino... Wagner! E purtroppo quella stessa musica positiva di cui Verdi ha gratificato gli Unni primitivi del 452 adesso ci viene cantata da aguzzini nazisti nel 1943, che magari hanno mandato al creatore nostri padri o nonni... E ciò fatalmente offende la nostra sensibilità e il nostro intelletto, oltre che offendere Verdi e la sua opera!

Insomma, in questo caso (come spesso avviene) l’attualizzazione del soggetto provoca l’intollerabile discrasia fra ciò che si ascolta e ciò che si osserva. E a poco serve riconoscere che ciò che si osserva, in sè e per sè, sia opera di ingegno e professionalità, di cui non si può non dare atto a tutta l’equipe di Livermore. Ammirando - una fra tante - la geniale trovata di impiegare il famoso dipinto di Raffaello come sfondo al tableau vivant della scena dell’incontro Attila-Leone. O le efficaci proiezioni, vedi il ricordo di Odabella dell’ammazzamento del padre da parte di Attila.

Per la verità altre invenzioni del regista sono assai meno memorabili, come ad esempio la ferita che Attila provoca alla mano di Odabella consegnandole la sua arma da taglio (e perchè mai un simile gesto?); o il colpo di pistola tanto gratuito quanto fuori tempo (dal punto di vista drammaturgico) con cui Ezio ferisce Attila, che viene poi legato come un salame, il che dequalifica il successivo gesto di Odabella dal livello eroico (Giuditta-Oloferne) a quello vile (Maramaldo-Ferrucci).

In sostanza: un allestimento di alto livello purtroppo inquinato dall’ambientazione incoerente con il soggetto da rappresentare. Ho la vaga impressione che dall‘avvento del cosiddetto teatro-di-regìa (diciamo da 50 anni come minimo a questa parte) si sia verificato nel mondo dell’opera lirica (e forse non solo in esso) un fenomeno che chiamerei di dissociazione fra il contenuto (ciò che si sente) e la forma (ciò che si vede) attraverso la quale tale contenuto viene presentato. Basta che la forma sia - com’è sicuramente nel caso in questione - accattivante, e la coerenza con il contenuto diventa automaticamente un optional, al quale si rinuncia con grande disinvoltura. Il nesso causa-effetto di questo imbarbarimento (!) dei costumi è tutto da decifrare: è il Regietheater ad averlo provocato, oppure è esso stesso un effetto di quell’imbarbarimento? Ai sociologi l’ardua sentenza.
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Anche ieri sera (come già per la prima vista in TV) Riccardo Chailly non mi ha pienamente convinto. Intanto confermo la mia personale contrarietà alle scelte (sedicenti) filologiche del Direttore: la romanza di Foresto scritta per Moriani è certo apprezzabile (ed è sicuramente musica di mano di Verdi!) ma a mio parere è più debole dell’originale. Quest’ultimo (testo di Solera) è assai drammatico nella prima strofa, dove Foresto dichiara che per Odabella avrebbe fatto qualunque cosa (e non a caso Verdi lo musica in modo minore); e nella seconda (in maggiore) Foresto chiede a Dio perchè mai consenta che un angelo del cielo (Odabella, già come tale apostrofata con una frase musicale assai simile nella cavatina del Prologo) si macchi di una colpa così grave come il tradimento.

Il testo (rimasto anonimo) per Moriani è invece più sdolcinato: Foresto ricorda la sua felicità passata e il riferimento all’angelo non è più per Odabella, ma narcisisticamente per se stesso! E Verdi musica entrambe le strofe in un languido e donizettiano REb maggiore. Chi, come Emanuele Senici (sue note sul programma di sala) ha esplorato anche la versione Ivanov (testo di Piave) mi pare abbia pochi dubbi nel reputarla testualmente e musicalmente superiore.

Non parliamo poi delle 5 battute di Rossini inserite prima del terzetto dell’Atto III: lasciano davvero il tempo che trovano. Rossini stesso disse di averle composte per suonarle mentre i suoi ospiti a Passy si accomodavano chiacchierando per ascoltare il terzetto, un modo come un altro per richiamarli al silenzio!

Chailly ha infine mantenuto la promessa di far eseguire un allargando il tempo a Ezio, Foresto e Coro sull’ultimo verso dell’opera (Appien sono vendicati Dio, popoli e re!!!) La cosa, oltre ad essere del tutto arbitraria (sono quelle che chiamo pisciatine di cane sulla partitura...) ha ottenuto per me un effetto assai discutibile. Insomma, è stata il degno suggello ad una direzione pulita e precisa, curatissima nei dettagli, ma troppo - sempre secondo me - cerebrale e, in termini musicali, eccessivamente sostenuta. Così facendo Chailly ci ha restituito un Attila in guanti gialli e in punta di piedi: insomma, troppo fioretto e poca vanga! Ma Attila non è Boccanegra nè Otello...

Ildar Abdrazakov si è confermato un solido Attila, scenicamente e vocalmente (anche se le note gravi non sono proprio il suo forte). Lunghissimo e meritato l’applauso a scena aperta dopo Oh miei prodi!

La Odabella di Saioa Hernández ha confermato alle mie orecchie ciò che di buono ricordavo di lei. Voce corposa e penetrante, ha tratteggiato degnamente il personaggio, sia nelle sortite eroiche che nelle esternazioni più liriche (Oh! Nel fuggente nuvolo).

Sufficiente ma non di più l’Ezio di George Petean, che ha una voce poco... ehm, verdiana; oltretutto quella stupidaggine di fare il SIb acuto sul piangerà - un vero obbrobrio - davvero se la (e ce la) poteva risparmiare (uno come Muti, per dire, lo avrebbe minacciato di licenziamento in tronco!) Ancora non ci si spiega la ragione del suo subentro al posto dell’annunciato Piazzola (che pure non è un marziano, sia chiaro) che difficilmente avrebbe fatto di peggio.

Fabio Sartori è ormai un abitué del ruolo di Foresto, che padroneggia con molto mestiere, senza pecche ma anche senza mai lasciare il segno, ecco. Fossi in lui, mi riterrei discriminato dal Direttore, per aver dovuto cantare la romanza di Moriani (degna di un Nemorino qualunque, haha!)

Francesco Pittari (Uldino) e Gianluca Buratto (Leone) hanno fatto ben più del minimo sindacale, e per questo si meritano ampio riconoscimento.

Sui suoi alti livelli il Coro di Casoni (inclusi i piccoli) giustamente ovazionato alla fine. Pubblico caloroso e prodigo di applausi e bravi! per tutti.

07 dicembre, 2018

laVerdi 18-19 - Concerto n°10


Riecco il Direttore Musicale sul podio dell’Auditorium per un dirigervi concerto che presenta lavori di quattro compositori (anche se i titoli in programma sono tre!) Il percorso che ci viene proposto si caratterizza per due andata-e-ritorno fra ‘800 e ‘900, e non solo in termini strettamente temporali.

Infatti si parte dal Liszt padre del Poema Sinfonico per passare al ‘900 nostalgico di Rachmaninov, quindi retrocedere all’800 di Musorgski con una specie di poema sinfonico anticipatore del ‘900, rivestito proprio da un modernissimo Ravel!

A dimostrazione del fatto che la musica non può descrivere alcunchè (oggetti, soggetti o concetti che siano...) Les Préludes, che nella versione definitiva oggi eseguita dice - per bocca dell’Autore - di ispirarsi a Lamartine (la vita non è che una serie di preludi alla morte) era nato musicalmente sotto tutt’altra veste, che con l’opera del letterato francese c’entra come i cavoli a merenda: trattandosi in effetti di un aggiustamento del 1854 - complice un collaboratore di Liszt (tale Joachim Raff) - di un brano di qualche anno addietro che faceva da preludio alla cantata I quattro elementi (su testi di Joseph Austran). Il titolo del poema sinfonico e il riferimento alle Nouvelles méditations poétiques (n°16) di Lamartine furono inventati e appiccicati al preesistente brano a posteriori: esistono non meno di quattro prefazioni alla partitura, nessuna riferibile direttamente a Lamartine, ma tutte prodotte dall’entourage di Liszt (l’ingombrante Wittgenstein in primis).

A questo punto chiunque potrebbe sentirsi autorizzato a indicare nel soggetto ispiratore anche La vispa Teresa piuttosto che Cappuccetto rosso o Il Gatto con gli stivali (!) A parte le battute, il genere musicale Poema sinfonico è stato da sempre fonte di discussioni e di equivoci, proprio per l’impossibilità materiale di associare in modo convincente i suoni a immagini o a personaggi, o a stati d’animo, o a concetti filosofici. Vale per i 13 lavori di Liszt come per quelli di Dvorak, di Franck, per le fantasie di Ciajkovski o per Sibelius, Rachmaninov, Respighi e Strauss. Quest’ultimo, in alcuni, non tutti, i suoi Tondichtungen ha pensato bene di arricchire ogni pagina della partitura con minuziosi riferimenti, per orientare l’ascoltatore ad associare la musica al soggetto ispiratore: in assenza di tali indicazioni, tale associazione rimarrebbe assai ardua se non impossibile da realizzare: chi potrebbe con assoluta certezza individuare in Don Quixote e nelle sue avventure le note dell’Op.35, o nei paesaggi alpestri quelle dell’Op.64, senza la guida di tali espliciti riferimenti? E il ragionamento vale ovviamente anche per i Quadri di Musorgski, musica straordinaria in sè, che solo le etichette appiccicatevi dopo averle staccate dalle opere esposte in pinacoteca ci orientano a riferire ai dipinti di Hartmann.

Un caso eclatante di equivoco di fondo è rappresentato da Mahler, che dopo aver contrabbandato il suo primo lavoro sinfonico per Poema (in 5 movimenti) ispirato al Titan di Jean Paul, si decise con gran disinvoltura a mutarne radicalmente i connotati in quelli di Sinfonia in RE maggiore (in quattro tempi). E anche le due successive Sinfonie nacquero come musica a programma (anzi, a programmi, poichè ne furono redatti più d’uno) prima di assumere la forma definitiva di musica pura (casomai con un programma interno e nascosto che sta all’ascoltatore decifrare a sua discrezione).

Insomma, i riferimenti appiccicati a queste composizioni lasciano il tempo che trovano: resta la qualità della musica a stabilire alle nostre orecchie se si tratti di capolavori o di ciarpame (o di qualcosa di intermedio...) Tornando a Les Préludes, di certo il suo successo presso il pubblico non dipende minimamente dall’avere come dichiarata (ma di fatto fasulla...) ispirazione quella Méditation di Lamartine, ma dalla buona fattura dei suoi temi musicali e dalla solidità della struttura del brano che li racchiude e li organizza. Allo stesso modo si può apprezzare il Don Quixote straussiano come grande musica, pur senza saper collegare i temi che via via compaiono ai personaggi o alle situazioni che dovrebbero evocare; e restare affascinati dai Quadri musicali, pur dimenticandone o ignorandone i titoli.

Cerchiamo di seguire la narrativa (di Liszt, non di Lamartine) dei Prèludes con l’aiuto di Zubin Mehta e dei Berliner. Personalmente ho cercato di prescindere dalle esegesi classiche, che insistono nel mettere i temi in relazione non a Lamartine, ma ai testi di Austran: cosa che certamente aveva fatto il compositore, ma che - per le ragioni più sopra esposte - finisce secondo me per condizionare eccessivamente l’ascolto. Ecco perchè ho scelto, come rappresentato nella figura sottostante, delle definizioni più astratte (anche se, ovviamente, personali!) per i temi medesimi:


Liszt si conferma maestro nel far germinare quasi tutti i motivi del brano da una minuscola cellula fondamentale, di sole tre note, cellula che subirà una miriade di variazioni e trattamenti (anche alla fiamminga...) E nel cambiare i connotati ad un tema, riproponendolo sotto luci diverse (cosa di cui diventerà super-maestro suo genero Richard Wagner).

Introduzione - Andante 4/4 DO M. Dopo i due DO in unisono degli archi in pizzicato, ecco apparire (8”) sempre negli archi la cellula fondamentale, dalla quale si diparte una melodia curvilinea (discesa-salita) che culmina nella riproposizione della cellula nei legni, con virata a LA maggiore. La cosa si ripete (38”) ma sul RE minore, poi gli archi (1’17”) accompagnati da note tenute dei legni, ripercorrono ripetutamente da punti di partenza sempre più alti il motivo curvilineo, fino a sfociare nella sezione successiva.

Andante maestoso (2’12”). Qui viene esposto da tromboni e archi bassi il tema A, in DO maggiore, il cui incipit è costituito dalla cellula fondamentale: un motivo che evoca pompa e retorica. Non per nulla il nazismo ne fece una sigla di trasmissioni radiofoniche rivolte ai combattenti! (Ma nessuno associa Liszt a Hitler, al contrario del trattamento riservato al futuro genero). Il tema tornerà ciclicamente e trionfalmente a chiudere l’opera.

A 2’57”, L’istesso tempo, in 9/8 (3/4) ecco comparire negli archi il tema B, che si diparte sempre dalla cellula fondamentale. Un tema ancora in DO maggiore, dal tratto languido, che poi (3’21”) viene reiterato in MI maggiore (questo tema tornerà letteralmente trasfigurato più avanti). Gli risponde a 3’45”, in 12/8 (4/4) un controsoggetto in DO minore, sfociante sul SI, dominante del MI maggiore dove, sempre su L’istesso tempo, a 4’02”, in 4/4 (8/8) si prepara l’arrivo (4’11”) del tema C, caratterizzato da grande nobiltà, quasi una proposizione di alti ideali, esposto inizialmente dai corni, che si appoggia al SOL# minore (4’41”). Si torna però subito a MI maggiore (4’49”) per la reiterazione del tema, ora mirabilmente arricchito da volute di archi e flauti, con un crescendo fino a 5’21”, dove il tutto si sospende, modulando a DO maggiore, poi - 5’38” - a SIb maggiore. Ed ecco riapparire (6’04”) in MI maggiore, sommesso e languido, con incipit variato e andamento più regolare, il tema B, poi reiterato dai flauti che si fermano sul RE, dominante del LA minore su cui inizia la successiva sezione (6‘40”) dove l’atmosfera cambia radicalmente.

Allegro ma non troppo, 4/4. Sono i violoncelli ad attaccarla, sempre con la cellula fondamentale, cui segue un agitato motivo che via via, a folate successive, coinvolge l’intera orchestra e sfocia a 7’12” in Allegro tempestoso, 12/8 (4/4). Qui, dalla cellula fondamentale si diparte il tema D, quanto mai protervo e minaccioso, subito reiterato (7‘16”) un semitono sopra, dal SIb, fino ad un Molto agitato e accelerando (7‘27”) dove la cellula fondamentale, fiammingamente invertita, dà origine ad un motivo sfociante (7‘34”) nella stessa cellula originale (DO-SI-MI). Il processo si ripete e stavolta sfocia (7‘41”) in tre reiterazioni della cellula cui seguono pesanti accordi dell’orchestra, con i flauti agitatissimi, che conducono (7’55”) ad una vertiginosa discesa di legni e archi. Dopo uno schianto sull’accordo di LA minore ecco presentarsi (8’05”) il tema E, incalzante e carico di angoscia. A 8’12” viene ripetuto in LAb maggiore, uno squarcio di sereno subito rimosso (8’23”) dal ritorno del tema in LA minore.

Questa parentesi cupa si risolve a 8’44” sul tempo Un poco più moderato e tonalità SIb maggiore, dove torna il tema B ancora sottilmente variato. A 9’29” lo stesso viene riesposto in SOL maggiore e ci porta (grazie all’intervento dell’arpa) ad un’oasi di serenità e di pace. Attacca infatti a 10’00” un Allegretto pastorale (Allegro moderato) 6/8 (2/4) in MI maggiore, tonalità quanto mai appropriata alla circostanza. Il corno solo canta il mirabile tema F, poi imitato (10’12”) dall’oboe nella relativa DO# minore, e quindi (10’20”) dal clarinetto in LA maggiore, con i flauti ad interloquire gaiamente. Ancora il clarinetto (10’33”) in FA# minore, seguito dall’oboe. Adesso (10’48”) anche gli archi interloquiscono con i legni, la tonalità si muove da LA a FA (11’05”) per poi ripiegare (11’16”)  a LA maggiore.

A 11’41” ecco tornare negli archi il tema C, poi ripreso (12’11”, Poco a poco più mosso) anche dai flauti con l’arpa ad accompagnare. Un’ardita modulazione (12’28”) ci porta a DO maggiore, dove il tempo continua ad incalzare (Poco a poco più di moto...) e il tema C viene reiterato (12’34”) dai corni, mentre l’orchestra ribolle sempre più e a 13’03” ancora lo ripete in modo colossale, chiudendolo poi con una cadenza (13’18”) che vira - in fff a 13’26” - al LAb maggiore, tonalità che prepara la strada per il successivo Allegro marziale animato, con il ritorno (13’39”) a DO maggiore per la riproposizione del tema B che ora, da languido e sognante com’era nato, diventa (G) nerboruto ed autoritario (4/4 alla breve)! E non per nulla lo contrappunta il retorico tema A!  

Come curiosità si osservino le note riquadrate in rosso nella figura: sono le stesse - a parte metro e tonalità - che Wagner impiegherà per scolpire in musica il Walhall, poco tempo dopo la sua permanenza nell’esilio di Weimar presso il futuro suocero. Forse la cosa non è per nulla casuale: nel programma di Liszt (o chi per lui) si trovano un’atmosfera di ineluttabilità della morte e l’innata, naturale propensione dell’Uomo per la sfida e il cambiamento. Che sono proprio i concetti (Wandel und Wechsel liebt, wer lebt) che Wagner traspone nella figura e nell’approccio esistenziale di Wotan, e di cui il Walhall è strumento materiale.

Una transizione (13’55”) caratterizzata da reiterati interventi delle trombette conduce ad un nuova riproposizione (14’13”, Tempo di marcia) del tema C, ormai assurto - da astratto ideale - a vessillifero di grandiose imprese (si ascoltino i protervi interventi del tamburo militare!) Dopo una prima entrata in DO, viene riproposto (14’19”) in MIb maggiore, sfociando sulla dominante SIb, che per enarmonia diventa LA#, mediante del FA# maggiore sul quale (Più maestoso, 14’25”) ricompare il tema B, lui pure ormai esaltato dall’accompagnamento del tamburo. Ritorna (Vivace, 14’37”) la transizione udita poco prima e si arriva così alla sezione conclusiva.

Andante maestoso, 12/8 (4/4) in DO maggiore (15’08”). È il tema A, che aveva fatto il suo ingresso subito dopo l’Introduzione, a tornare ciclicamente quanto strepitosamente per occupare da solo l’ultima scena, chiusa da poche battute (15’50”) di enfatica Coda

Se mettiamo in sequenza la comparsa dei diversi temi abbiamo la seguente serie: 

A - B - C - B  /  D - E - B - F - C  /  B - C - B -

Come si può notare, se si esclude l’Introduzione, il tema B detiene il maggior numero di ricorrenze, ma soprattutto mantiene una posizione baricentrica e perfettamente simmetrica all’interno della sequenza; mentre il tema A apre e chiude il brano. Un’architettura assai robusta, che ha di certo la sua parte nel rendere quest’opera così immediatamente accattivante
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Impeccabile l’esecuzione, che mette in risalto tutti i dettagli e i tesori di questo brano, che sfugge ad ogni camicia di forza programmatica in virtù dei suo intrinseco valore musicale.
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Tocca adesso al vulcanico 37enne barbuto e capelluto Feodor Amirov (viene da Dimitrovgrad, sul Volga, non lontano da... Togliatti) proporci l’inflazionato Rach-2, l’opera con cui Rachmaninov tornò nel 1901 alla vita dopo aver rischiato di lasciar le penne a seguito del fiasco della sua Prima Sinfonia. E la nuova vita fu in realtà un ritorno alle comode certezze ciajkovskiane, che caratterizzeranno tutta l’intera produzione successiva del nostro.

Amirov, che si presenta subito mostrando il suo carattere estroverso, facendo una specie di saluto romano... ne dà un’interpretazione proprio crepuscolare, tutta in punta di piedi, sfiorando la tastiera, ben assecondato dall’accompagnamento discreto di Flor. Memorabile, nell’Adagio, la cadenza dove i tre accordi sono esposti con una incredibile teatralità.

Dopo tutto questo intimismo, ecco arrivare un altro Amirov, tutto gesticolante, che propone come bis una sua (così credo) improvvisazione da lasciar esterrefatti: dove lo strumento viene impiegato come... batteria o come cimbalom o maracas, e dove il funambolo tartaro (!?) si sgola con urla belluine! Una cosa mai vista e udita in una sala da concerto!     
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Si chiude con la versione raveliana dei Quadri di Musorgski. (Rimando i curiosi ad una mia nota di qualche tempo fa sulla struttura e contenuti dell’originale per pianoforte). L’Orchestra, che ha in questo pezzo uno dei suoi cavalli di battaglia, non manca l’appuntamento, suscitando l’entusiasmo generale. Sugli scudi il sax contralto di Silvio Rossomando nel n°2 del Vecchio castello.

Questa sera non si replica (per... rispetto alla prima del Piermarini). Nuovo appuntamento a Domenica ore 16.