ricongiungimenti

Maurizio & Claudio

06 gennaio, 2017

2017 con laVERDI – 2


Tocca a Jader Bignamini inoltrare laVerdi lungo la stagione 2017, dirigendo un concerto tutto russo: Ciajkovski e Rachmaninov. Doveroso ricordare qui la scomparsa del grande Georges Prêtre, dal quale l’Orchestra ebbe il grandissimo onore di essere diretta un paio di volte proprio quando (lei, l’orchestra) era praticamente in fasce!

Di Ciajkovski ri-ascoltiamo La Tempesta, già udita qui in Auditorium poco più di due anni fa dalla bacchetta della Xian. (Ecco alcune mie personali note scritte in quell’occasione).

Sempre compatta e precisa l’orchestra e autorevole il gesto di Bignamini che ci restituisce tutti i pregi (mascherando i difetti...) di quest’opera abbastanza poco eseguita.
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Dopo lo scenario acquatico con isola, di Ciajkovski, intovina ke fiene foi atesso? Uno scenario acquatico con isola, ma di Rachmaninov: L’isola dei morti (1909). Ispirata da una riproduzione bianco&nero del quadro di Arnold Böcklin (di cui l’autore, tanto l’idea gli era piaciuta, dipinse altre quattro versioni, variando ogni volta leggermente qualche dettaglio).


Che acqua è? Dicono: lo Stige. O l’Acheronte? E il rematore? Caronte (mah, veramente pare una figura poco... autorevole rispetto a quella che ci immagineremmo.) E la bianca, slanciata figura ritta al centro della barchetta? Mah, forse l’anima candida del corpo chiuso nella bara coperta dal bianco lenzuolo e imbarcata di traverso, a prua. Oppure, chissà, uno speciale becchino, diciamo pure... la Morte in persona: sì, perchè la bara bisognerà pur che qualcuno la issi sull’isola per poi sistemarla in una delle catacombe di cui si intravedono gli ingressi... e il rematore magrolino non è detto che sia contrattualmente tenuto a farlo. Oppure potrebbe essere il defunto in persona, che si dovrà portare la bara (vuota) fino al suo loculo, per poi infilarcisi dentro e riposare per l’eternità (!?)

Rachmaninov deve aver scelto di musicare quel dipinto perchè così aveva la scusa buona per infilare l’ennesimo Dies Irae in una sua composizione: per lui la sequenza medievale doveva essere come il prezzemolo, che si mette un po’ dappertutto, più per sfizio che per oggettiva necessità, ecco. Però qui il Dies Irae non è solo prezzemolo, ma praticamente è la base di tutto il manicaretto e pure delle bevande che lo accompagnano! Il brano si potrebbe benissimo intitolare Fantasia sul Dies Irae

L’Autore in persona nel 1929 incise il brano con la Philadelphia Orchestra: però, oltre alla qualità della riproduzione che è ovviamente mediocre, sono presenti anche dei tagli (forse per necessità di... spazio su disco) e allora per esplorare il pezzo sarà meglio affidarsi al solido Ashkenazy.  
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Rachmaninov sceglie per l’ambientazione cupa del brano la stessa tonalità con la quale Mahler apre e chiude la sua sinfonia tragica: LA minore. Nello sviluppo centrale troviamo ovviamente delle modulazioni: principalmente, ma non solo, DO maggiore, DO e RE minore, LAb e MIb maggiore. Il tempo è prevalentemente Lento (ma con più di uno... scossone) e il metro è prevalentemente 5/8 (ma abbiamo anche un po’ di 4/4 e 3/4).  

Il sipario si apre su archi bassi, arpa e timpani, che impongono il ritmo sghembo di 5/8. Per romperne un po’ la monotonia, Rachmaninov alterna spesso la configurazione 2+3 con quella 3+2. C’è chi ci vede (o ci sente, per meglio dire) il ritmo della vogata del barcaiolo, e/o lo sciacquio prodotto dal lento avanzare della barca. (Certo, non ci fosse il quadro a farci da... faro, in queste note potremmo vederci qualunque altra cosa o nulla del tutto.) 
 
Ciò che è innegabile è l’atmosfera piuttosto lugubre, inizialmente dipinta (14”) da strumenti gravi (controfagotto, fagotto e clarinetto basso, più due corni che suonano note sotto il rigo). La melodia si muove salendo e scendendo per gradi congiunti, sul tappeto formato dall’arpa e dagli archi (ora anche viole e violini) che rimuginano le loro 5 crome a battuta creando un effetto vagamente ondeggiante. 

Un primo sussulto lo si avverte (1’09”) quando i violini aizzano il primo corno, che presenta un motivo che già ci ricorda vagamente l’attacco del Dies Irae. Imitato poco dopo (1’42”) dall’oboe. Questo andazzo si protrae ancora, ma con un lento crescendo che porta (2’41”) ad una nuova comparsa (sempre in... incognito) del Dies Irae in flauto, poi in oboe, corno  e corno inglese. Una nuova e improvvisa scossa (3’04”) nei violini, proprio sull’accenno di Dies Irae dei corni, seguita subito da una seconda, porta alla ripresa della mesta cantilena precedente, che però adesso si anima, con l’ingrossamento delle file dell’orchestra (4’27”) e con l’animarsi improvviso dei violini e successivamente (4’49”) di flauti e oboi.  

Si arriva così ad un’improvvisa schiarita (5’05”) dove i primi violini espongono un tema ascendente (in DO maggiore, relativa della tonalità di base) per ampi intervalli, alla sommità del quale (5’11”) troviamo immancabilmente l’incipit del Dies Irae, ripreso subito, in forma variata, dal corno inglese e poco dopo (5’44”) da oboe e flauto e quindi dal corno. Dopo un mesto recitativo dell’oboe (6’13”) una variante del motivo ascendente di poco prima viene presentata (6’21”) da violini e viole, ora in LAb maggiore; ad essa segue un lungo passaggio, che vira a DO minore, nel quale l’incipit del Dies Irae, assai dilatato nei tempi, sembra pervadere il crescendo orchestrale, basato sul motivo per gradi congiunti udito all’inizio, qui però in armonizzazione meno cupa.

Dopo un primo climax (8’24”) nei fiati, si ripristina l’atmosfera iniziale, che presenta un grande crescendo che ci conduce ad un culmine (9’34”) a seguito del quale il flauto solo riespone il Dies irae, imitato poco dopo da due corni, in sequenza. Il tempo muta ora a 3/4 e l’atmosfera si fa sempre più rarefatta per sfociare (10’42”) in un corale in RE minore dei corni che ribadiscono pesantemente il Dies Irae, dopodichè sono gli archi ad esibirsi in una veloce scalata in fortissimo che porta alla sezione centrale in MIb (11’10”).

È questo un passaggio di grande vitalità (qualcuno ci vede l’anima del defunto che rivive i giorni felici dell’esistenza, ma potrebbe anche pregustare quelli ancor più felici dell’aldilà, chi lo sa?) anche se l’inciso che compare nel motivo che lo sostiene ha un che di... Dies Irae, ecco, tanto per cambiare, con quelle terzine con la nota centrale un semitono sotto le due estreme. La melodia si allunga a dismisura, passa (12’11”) attraverso la sottodominante LAb maggiore, poi torna (12’39”) ad un MIb pieno, dove però comincia a incupirsi, e non a caso, poichè (13’54”) ecco il Dies Irae rifare esplicitamente e minacciosamente capolino negli ottoni, fino ad una successiva proterva affermazione (14’07”) in fortissimo, accompagnata da botti del timpano.

Dopo una caduta repentina quanto momentanea, il Dies Irae riprende (14’27”) ancora in ottoni e violini, avanzando ora proprio come un castigo di Dio, con un implacabile crescendo che sfocia (15’33”) in una parossistica progressione chiusa (15’38”) da un primo tremendo schianto, cui ne segue un altro, dopo una pausa segnata dal DO dei soli corni e viole, ancor più definitivo (15’46”).

Ecco ora (15’55”) il Dies Irae ripartire sommessamente - mentre il tempo muta a 4/4 e la tonalità è tornata al dimesso LA minore - nel clarinetto accompagnato in tremolo dai violini secondi con sordina: è una vera e propria marcia, implacabile come il destino, cadenzata da timpani, arpa e archi sui tempi pari della battuta. Su di essa si innesta (16’44”) una variazione nervosa nelle terzine dei violini primi in tremolo, caratterizzata da un accelerando e subito da un diminuendo, con salita dal LA grave al MIb.

Qui (17’02”) siamo tornati in 3/4 e l’oboe, raggiunto poi da clarinetto e clarinetto basso, espone una melodia che richiama, in modo minore (DO) il motivo in MIb maggiore che aveva caratterizzato lo squarcio di serenità precedente. Ma è uno sbiadito ricordo che subito si perde, degradando mestamente fino a sfociare su un SIb tenuto (corona puntata) da archi e clarinetti (questi in trillo).     

Ora (17’35”) abbiamo quattro ricorrenze di un passaggio costituito da una battuta in 3/4 seguita da 3 battute (5 nell’ultima ricorrenza) in 5/8: il Dies Irae vi viene esposto in forma al solito variata. Tutto ciò porta (18’31”) a quella che possiamo definire la ripresa dello scenario (in LA minore) che aveva caaratterizzato l’apertura del brano. Questa volta il motivo a grandi intervalli ascendenti nei violini (18’47”) è esposto nella canonica tonalità d’impianto e sotto-sotto vi fa capolino, oltre al Dies Irae, anche il Dies illa!

Ormai ci avviamo alla conclusione, l’atmosfera (19’20”) si dirada e poi ecco (19’42”) un timido accenno del Dies Irae nell’oboe e quindi (19’48”) alcune discese degli strumentini sulla scala di LA minore, tonalità che chiude, come lo aveva aperto, il brano, su un accordo pianissimo dell’orchestra.
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L’Orchestra e Bignamini devono essere alla prima esperienza con questa pretenziosa letteratura della morte, e mi pare che come esordio non ci sia male: il Direttore fa del suo meglio (che è moltissimo!) per accompagnarci in questa specie di viaggio verso l’aldilà corredato da ricordi dell’aldiqua; e i ragazzi rispondono da par loro, mettendo in risalto ogni minimo dettaglio di una partitura che è da molti considerata un capolavoro, ma che io, nel mio infinitesimo piccolo, fatico ad apprezzare più di tanto, parendomi essa frutto di vellitarismo a buon mercato.

Il pubblico ha applaudito calorosamente: di sicuro a Bignamini e ai ragazzi, non so quanto a... Rachmaninov!  
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Chiude il concerto la tremenda Quarta ciajkovskiana, che invece per laVerdi è pane di tutti i giorni, altro che prezzemolo! Sta diventando un appuntamento fisso stagionale, da 10 anni ad oggi è passata dalle mani di Inkinen a quelle di Fedoseyev, poi di Xian (2 volte) quindi di Ceccato, di Caetani e ancora Xian.

Oggi la eredita Bignamini (ma si sa che negli anni scorsi era pur sempre lui a preparare l’Orchestra...) e quella che ne esce è un’esecuzione davvero coi fiocchi! Il Direttore gioca sapientemente con le dinamiche: nei movimenti esterni per dare la massima espressione agli archi, nei rari momenti di respiro fra un fracasso e un altro degli ottoni; nell’Andantino per creare un bellissimo stacco in corrispondenza del Meno mosso centrale; nello Scherzo per ottenere dagli archi un pizzicato a volte al limite dell’udibile, ma con guizzi che parevano lampi (o lame taglienti).

Il nostro sta ormai diventando famoso e così comincia anche a permettersi qualche libertà, come nel Molto più mosso del finale primo, che nel da-capo diventa quasi un Prestissimo! E subito dopo, al momento di ripetere per l’ultima volta il primo tema, lui va oltre Karajan (18’30”) facendo fare due semiminime di pausa, oltre ai fiati, che le hanno in partitura, anche agli archi (che invece dovrebbero tenere, portandolo da ff a fff, il REb) creando così un attimo di silenzio che è tanto emozionante quanto... apocrifo!

Ma va bene così, un cicchetto in più è quello che ci vuole con questo gelo che sta piombando su Milano (e non solo). 

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