Tocca a Jader Bignamini inoltrare laVerdi
lungo la stagione 2017, dirigendo un concerto tutto
russo:
Ciajkovski e Rachmaninov. Doveroso ricordare qui la scomparsa del grande Georges Prêtre, dal quale
l’Orchestra ebbe il grandissimo onore di essere diretta un paio di volte
proprio quando (lei, l’orchestra) era praticamente in fasce!
Sempre compatta e precisa l’orchestra e
autorevole il gesto di Bignamini che ci restituisce tutti i pregi (mascherando
i difetti...) di quest’opera abbastanza poco eseguita.
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Dopo lo scenario acquatico con isola, di
Ciajkovski, intovina ke fiene foi atesso?
Uno scenario acquatico con isola, ma di Rachmaninov:
L’isola
dei morti (1909). Ispirata da una riproduzione bianco&nero del quadro
di Arnold Böcklin (di cui l’autore, tanto l’idea gli era piaciuta, dipinse
altre quattro versioni, variando ogni volta leggermente qualche dettaglio).
Che acqua è?
Dicono: lo Stige. O l’Acheronte? E il rematore? Caronte (mah, veramente pare una figura
poco... autorevole rispetto a quella che ci immagineremmo.) E la bianca,
slanciata figura ritta al centro della barchetta? Mah, forse l’anima candida
del corpo chiuso nella bara coperta dal bianco lenzuolo e imbarcata di
traverso, a prua. Oppure, chissà, uno speciale becchino, diciamo pure... la
Morte in persona: sì, perchè la bara bisognerà pur che qualcuno la issi
sull’isola per poi sistemarla in una delle catacombe di cui si intravedono gli
ingressi... e il rematore magrolino non è detto che sia contrattualmente tenuto
a farlo. Oppure potrebbe essere il defunto in persona, che si dovrà portare la
bara (vuota) fino al suo loculo, per poi infilarcisi dentro e riposare per
l’eternità (!?)
Rachmaninov
deve aver scelto di musicare quel dipinto perchè così aveva la scusa buona per
infilare l’ennesimo Dies Irae in una
sua composizione: per lui la sequenza medievale doveva essere come il
prezzemolo, che si mette un po’ dappertutto, più per sfizio che per oggettiva
necessità, ecco. Però qui il Dies Irae non è solo prezzemolo, ma praticamente è
la base di tutto il manicaretto e pure delle bevande che lo accompagnano! Il
brano si potrebbe benissimo intitolare Fantasia
sul Dies Irae.
L’Autore in
persona nel 1929 incise il brano con la Philadelphia
Orchestra: però, oltre alla qualità della riproduzione che è
ovviamente mediocre, sono presenti anche dei tagli (forse per necessità di... spazio su disco) e allora per esplorare
il pezzo sarà meglio affidarsi al solido Ashkenazy.
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Rachmaninov
sceglie per l’ambientazione cupa del brano la stessa tonalità con la quale
Mahler apre e chiude la sua sinfonia
tragica: LA minore. Nello sviluppo centrale troviamo ovviamente delle
modulazioni: principalmente, ma non solo, DO maggiore, DO e RE minore, LAb e
MIb maggiore. Il tempo è
prevalentemente Lento (ma con più di
uno... scossone) e il metro è
prevalentemente 5/8 (ma abbiamo anche un po’ di 4/4 e 3/4).
Il
sipario si apre su archi bassi, arpa e timpani, che impongono il ritmo sghembo
di 5/8. Per romperne un po’ la monotonia, Rachmaninov alterna spesso la
configurazione 2+3 con quella 3+2. C’è chi ci vede (o ci sente, per meglio
dire) il ritmo della vogata del barcaiolo, e/o lo sciacquio prodotto dal lento
avanzare della barca. (Certo, non ci fosse il quadro a farci da... faro, in
queste note potremmo vederci qualunque altra cosa o nulla del tutto.)
Ciò
che è innegabile è l’atmosfera piuttosto lugubre, inizialmente dipinta (14”)
da strumenti gravi (controfagotto, fagotto e clarinetto basso, più due corni
che suonano note sotto il rigo). La melodia si muove salendo e scendendo per
gradi congiunti, sul tappeto formato dall’arpa e dagli archi (ora anche viole e
violini) che rimuginano le loro 5 crome a battuta creando un effetto vagamente
ondeggiante.
Un
primo sussulto lo si avverte (1’09”) quando i violini aizzano il
primo corno, che presenta un motivo che già ci ricorda vagamente l’attacco del
Dies Irae. Imitato poco dopo (1’42”) dall’oboe. Questo andazzo si
protrae ancora, ma con un lento crescendo che porta (2’41”) ad una nuova
comparsa (sempre in... incognito) del Dies Irae in flauto, poi in oboe,
corno e corno inglese. Una nuova e improvvisa
scossa (3’04”) nei violini, proprio sull’accenno di Dies Irae dei
corni, seguita subito da una seconda, porta alla ripresa della mesta cantilena
precedente, che però adesso si anima, con l’ingrossamento delle file
dell’orchestra (4’27”) e con l’animarsi improvviso dei violini e
successivamente (4’49”) di flauti e oboi.
Si
arriva così ad un’improvvisa schiarita (5’05”) dove i primi violini
espongono un tema ascendente (in DO maggiore, relativa della tonalità di base)
per ampi intervalli, alla sommità del quale (5’11”) troviamo
immancabilmente l’incipit del Dies Irae, ripreso subito, in forma variata, dal
corno inglese e poco dopo (5’44”) da oboe e flauto e quindi dal
corno. Dopo un mesto recitativo dell’oboe (6’13”) una variante del motivo
ascendente di poco prima viene presentata (6’21”) da violini e viole, ora in
LAb maggiore; ad essa segue un lungo passaggio, che vira a DO minore, nel quale
l’incipit del Dies Irae, assai dilatato nei tempi, sembra pervadere il
crescendo orchestrale, basato sul motivo per gradi congiunti udito all’inizio,
qui però in armonizzazione meno cupa.
Dopo
un primo climax (8’24”) nei fiati, si
ripristina l’atmosfera iniziale, che presenta un grande crescendo che ci
conduce ad un culmine (9’34”) a seguito del quale il flauto
solo riespone il Dies irae, imitato poco dopo da due corni, in sequenza. Il
tempo muta ora a 3/4 e l’atmosfera si fa sempre più rarefatta per sfociare (10’42”)
in un corale in RE minore dei corni che ribadiscono pesantemente il Dies Irae,
dopodichè sono gli archi ad esibirsi in una veloce scalata in fortissimo che porta alla sezione
centrale in MIb (11’10”).
È
questo un passaggio di grande vitalità (qualcuno ci vede l’anima del defunto che
rivive i giorni felici dell’esistenza, ma potrebbe anche pregustare quelli
ancor più felici dell’aldilà, chi lo sa?) anche se l’inciso che compare nel
motivo che lo sostiene ha un che di... Dies Irae, ecco, tanto per cambiare, con
quelle terzine con la nota centrale un semitono sotto le due estreme. La
melodia si allunga a dismisura, passa (12’11”) attraverso la sottodominante
LAb maggiore, poi torna (12’39”) ad un MIb pieno, dove però comincia
a incupirsi, e non a caso, poichè (13’54”) ecco il Dies Irae rifare esplicitamente
e minacciosamente capolino negli ottoni, fino ad una successiva proterva
affermazione (14’07”) in fortissimo,
accompagnata da botti del timpano.
Dopo
una caduta repentina quanto momentanea, il Dies Irae riprende (14’27”)
ancora in ottoni e violini, avanzando ora proprio come un castigo di Dio, con
un implacabile crescendo che sfocia (15’33”) in una parossistica progressione
chiusa (15’38”) da un primo tremendo schianto, cui ne segue un altro,
dopo una pausa segnata dal DO dei soli corni e viole, ancor più definitivo (15’46”).
Ecco
ora (15’55”)
il Dies Irae ripartire sommessamente - mentre il tempo muta a 4/4 e la tonalità
è tornata al dimesso LA minore - nel clarinetto accompagnato in tremolo dai
violini secondi con sordina: è una vera e propria marcia, implacabile come il
destino, cadenzata da timpani, arpa e archi sui tempi pari della battuta. Su di
essa si innesta (16’44”) una variazione nervosa nelle terzine dei violini primi
in tremolo, caratterizzata da un accelerando e subito da un diminuendo, con
salita dal LA grave al MIb.
Qui (17’02”)
siamo tornati in 3/4 e l’oboe, raggiunto poi da clarinetto e clarinetto basso,
espone una melodia che richiama, in modo minore (DO) il motivo in MIb maggiore
che aveva caratterizzato lo squarcio di serenità precedente. Ma è uno sbiadito
ricordo che subito si perde, degradando mestamente fino a sfociare su un SIb tenuto
(corona puntata) da archi e clarinetti (questi in trillo).
Ora (17’35”)
abbiamo quattro ricorrenze di un passaggio costituito da una battuta in 3/4
seguita da 3 battute (5 nell’ultima ricorrenza) in 5/8: il Dies Irae vi viene
esposto in forma al solito variata. Tutto ciò porta (18’31”) a quella che
possiamo definire la ripresa dello
scenario (in LA minore) che aveva caaratterizzato l’apertura del brano. Questa
volta il motivo a grandi intervalli ascendenti nei violini (18’47”)
è esposto nella canonica tonalità d’impianto e sotto-sotto
vi fa capolino, oltre al Dies Irae, anche il Dies illa!
Ormai
ci avviamo alla conclusione, l’atmosfera (19’20”) si dirada e poi ecco (19’42”)
un timido accenno del Dies Irae nell’oboe e quindi (19’48”) alcune discese degli
strumentini sulla scala di LA minore, tonalità che chiude, come lo aveva
aperto, il brano, su un accordo pianissimo
dell’orchestra.
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L’Orchestra e
Bignamini devono essere alla prima esperienza con questa pretenziosa letteratura della morte, e mi pare che come esordio non ci sia
male: il Direttore fa del suo meglio (che è moltissimo!) per accompagnarci in
questa specie di viaggio verso l’aldilà corredato da ricordi dell’aldiqua; e i
ragazzi rispondono da par loro, mettendo in risalto ogni minimo dettaglio di
una partitura che è da molti considerata un capolavoro, ma che io, nel mio
infinitesimo piccolo, fatico ad apprezzare più di tanto, parendomi essa frutto
di vellitarismo a buon mercato.
Il pubblico
ha applaudito calorosamente: di sicuro a Bignamini e ai ragazzi, non so quanto
a... Rachmaninov!
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Chiude il
concerto la tremenda Quarta ciajkovskiana, che invece per
laVerdi è pane di tutti i giorni,
altro che prezzemolo! Sta diventando un appuntamento fisso stagionale, da 10
anni ad oggi è passata dalle mani di Inkinen a quelle di Fedoseyev, poi di Xian
(2 volte) quindi di Ceccato, di Caetani e ancora Xian.
Oggi la
eredita Bignamini (ma si sa che negli
anni scorsi era pur sempre lui a preparare
l’Orchestra...) e quella che ne esce è un’esecuzione davvero coi fiocchi! Il Direttore
gioca sapientemente con le dinamiche: nei movimenti esterni per dare la massima
espressione agli archi, nei rari momenti di respiro fra un fracasso e un altro
degli ottoni; nell’Andantino per
creare un bellissimo stacco in corrispondenza del Meno mosso centrale; nello Scherzo per ottenere dagli archi un
pizzicato a volte al limite dell’udibile, ma con guizzi che parevano lampi (o
lame taglienti).
Il
nostro sta ormai diventando famoso e così comincia anche a permettersi qualche
libertà, come nel Molto più mosso del
finale primo, che nel da-capo diventa
quasi un Prestissimo! E subito dopo,
al momento di ripetere per l’ultima volta il primo tema, lui va oltre Karajan
(18’30”) facendo fare due semiminime di pausa, oltre ai fiati, che le hanno in partitura,
anche agli archi (che invece dovrebbero tenere, portandolo da ff a fff,
il REb) creando così un attimo di silenzio che è tanto emozionante quanto...
apocrifo!
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