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da stellantis a stallantis

27 gennaio, 2017

2017 con laVerdi – 5


Accoppiata tipica per laVerdi nel 5° concerto della stagione, diretto da Claus Peter Flor, un vero e proprio testa-coda dell'800!

Si parte con il beethoveniano Imperatore, interpretato da Gabiele Carcano, tornato per l’occasione a far visita all’Auditorium dopo quasi due anni. Il quale, a 32 anni, conferma di essere entrato nella piena maturità con un’interpretazione rigorosa, priva di deviazioni abitrarie, insomma... severamente beethoveniana al 100%. Qualche rara imprecisione nei passaggi più scabrosi non intacca l’eccellenza della sua prestazione, coadiuvata dalla gran forma dell’orchestra (che Flor, come sua consuetudine per questo repertorio, schiera in formazione tedesca, con i secondi violini al proscenio e i bassi a sinistra).

Così il riservato ragazzo torinese ci propone come bis una sonatina di Domenico Scarlatti che qui ascoltiamo da un grande del quale gli auguriamo di seguire le orme!  
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Secondo piatto forte la Nona di Bruckner, che Flor aveva già diretto qui, e con gran successo, nel maggio 2012. Partitura sterminata (chissà cosa sarebbe stata se il pio Anton avesse avuto tempo per completare anche il Finale!) e straordinariamente difficile, per gli esecutori e per il Direttore. La partenza del Feierlich mi è parsa un filino contratta, ecco, forse Flor ha ecceduto in sostenutezza, poi però le cose sono andate decisamente meglio, e questa poderosa cattedrale barocca ha potuto ancora una volta ergersi in tutta la sua magnificenza, che alle prime lascia davvero sconcertati. Nello Scherzo si sono riprodotte le barbare sonorità che anticipano e allo stesso tempo ridicolizzano quelle pur scandalose del Sacre! Nell’Adagio che chiude questo torso (comunque un’ora piena!) di sinfonia si anticipa il Mahler di un’altra celebre nona che Flor dirigerà più avanti nella stagione (mentre già la prossima settimana se la vedrà con una nona... sovietica).

Auditorium non proprio preso d’assalto (certo con la settima di Beethoven, per dire, al posto dell’ostico Bruckner si sarebbe fatto il pieno...) ma prodigo di applausi per i ragazzi: il solo saperla fare, e bene, questa musica, è già meritevole di elogio incondizionato.

21 gennaio, 2017

2017 con laVerdi – 4


Il nuovo Direttore Principale Ospite, Patrick Fournillier, torna dopo meno di un anno in Auditorium con un programma – noblesse oblige – tutto francese. Salito sul podio, si volta verso il pubblico per commemorare la figura di Georges Prêtre, con il quale si è detto onorato di aver avuto stretti rapporti (e direi proficui, a giudicare dai risultati...)

Poi attacca la versione orchestrale del Tombeau de Couperin di Maurice Ravel. Che era stato composto durante la Grande Guerra (Ravel si era volontariamente arruolato, 39enne, come autista di ambulanze) per il pianoforte solo e constava di 6 brani, proprio a mo’ di una Suite barocca, in omaggio al grande musicista francese, autore di ben 27 Ordres (Suite) per clavicembalo (in 4 libri, fra il 1713 e il 1730) ma anche in memoria di sei commilitoni, con i quali Ravel aveva rapporti stretti, caduti nella guerra. E fu Marguerite Long, moglie di uno di costoro (il musicologo Joseph de Marliave) ad interpretarla per la prima volta nel 1919. L’anno successivo Ravel approntò due nuove versioni del Tombeau: la prima (che si ascolta qui) è una trascrizione per orchestra di 4 dei 6 brani dell’originale; la seconda è una parte di questa trascrizione (3 brani) destinata ad accompagnare un balletto della compagnia svedese di Jean Borlin.

Qui un quadro riassuntivo dell’opera nelle sue tre versioni:

originale per pianoforte
versione per orchestra
versione per balletto
I – Prélude
I – Prélude
I - Forlane
II - Fugue
II - Forlane
II - Menuet
III – Forlane
III - Menuet
III - Rigaudon
IV – Rigaudon
IV - Rigaudon

V - Menuet


VI - Toccata



Come si nota, la versione orchestrale manca dei due movimenti più marcatamente caratteristici della tastiera (Fuga e Toccata); quella per il balletto è di fatto la versione orchestrata priva del Preludio. Nella versione per orchestra Menuet e Rigaudon si scambiano il posto, in modo che il brano si chiuda (in assenza della Toccata) con un movimento vivace.

Per essere un elogio funebre, è assai elogiativo e ban poco... funereo. A chi glie lo faceva osservare, Ravel rispondeva che quei poveracci avevano avuto abbastanza sfortuna, e che non era il caso di rincarare la dose.

Personalmente sono convinto che la strada più appropriata per conoscere quest’opera sia quella di approcciarne l’originale per pianoforte (qui propongo l’ascolto di una simpatica conoscenza de laVerdi, Angela Hewitt). La versione per orchestra (Ravel era uno strumentatore sopraffino, i Quadri sono lì a dimostrarlo!) è addirittura lussureggiante, ma forse proprio per questo perde un po’ della cristallina purezza dell’originale (proprio come accade a Musorgsky). Ecco qui un grande della musica interpretarla dirigendo altri grandi...

Il successo del Tombeau è stato tale che diversi musicisti si sono sbizzarriti a farne versioni cameristiche personalizzate; e qualcuno ha pure deciso di essere più smart dell’Autore e si è permesso di orchestrare anche i due movimenti che Ravel aveva deliberatamente lasciato alla sola tastiera. Fra i tanti un pianista e direttore d’orchestra, Zoltán Kocsis, del quale qui possiamo ascoltare la suite completa (con i brani nella sequenza dell’originale).    
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Seguiamo il Tombeau originale, sempre con la Hewitt.

Preludio (dedicato al tenente Jacques Charlot, musicista, parente dell’editore di Ravel, Jacques Durand). È in tempo di 12/16 (12 semicrome a battuta) con un metronomo davvero pazzesco: 92 semiminime puntate! Il che significa che l’esecutore deve suonare (mano destra e sinistra alternativamente) più di 9 note (semicrome) al secondo per quasi 3 minuti! Nella versione orchestrata il carico di... lavoro, invero massacrante nell’originale per tastiera, si distribuisce fra gli strumentini (oboe in-primis) e gli archi. Contrariamente alla struttura barocca, che prevedeva un brano monotematico, Ravel dà al Preludio una veste bi- (o addirittura tri-) tematica e una struttura vagamente sonatistica (esposizione col da-capo, sviluppo e ripresa). La tonalità (praticamente di tutta la suite, come da tradizione) è MI minore (e relativa SOL maggiore) ma in omaggio all’arcaismo dell’ispirazione il MI minore ha inflessioni modali (eolio) mancandovi sempre la sensibile RE#. Dopo un’introduzione di 4 battute, ecco (6”) l’esposizione del primo tema spiritato (MI minore modale) cui segue (29”) il secondo, più rilassato (SOL maggiore). L’esposizione viene ripetuta (47”) dopodichè inizia (1’28”) lo sviluppo, cui segue (2’06”) una specie di ripresa, che conduce alla conclusione, dopo un paio di battute di presa di respiro (2’51”) con un’esilarante volata, un tremolo e la croma finale sul MI.
   
Fuga (dedicato al sottotenente Jean Cruppi, la cui madre si era adoperata per la messa in scena di L’heure espagnole). È una fuga a tre voci, sempre in MI minore eolio, Allegro moderato e strutturata in modo tripartito: esposizione, sviluppo e coda. L’esposizione (3’11”) presenta il soggetto della fuga ripreso a due battute di distanza dalla seconda e dalla terza voce, mentre sulla seconda voce si ode un controsoggetto (3’21”) caratterizzato da una terzina che squilibra un po’ la regolarità del ritmo. L’esposizione riprende (3’34”) in forma variata e porta direttamente(3’51”) allo sviluppo. Qui Ravel impiega parecchi dei tradizionali artifici fiamminghi, come (4’12”) l’inversione, il pedale (4’35”) il canone stretto (5’04”) oltre a giocare con le tonalità. Lo sviluppo (5’51”) si chiude e lascia spazio per la conclusione, che sfocia (6’08”) in una coda assai lenta. È una quinta vuota (MI-SI) a por fine alla fuga, una mirabile mistura di tradizione e di modernità quasi impressionista.

Forlane (dedicato al tenente Gabriel Deluc, pittore basco che probabilmente aveva ispirato alcuni lavori di Ravel). Il quale aveva appena trascritto proprio una Forlane di Couperin (nemmeno a farlo apposta, in MI minore) dal quarto dei Concerts roayaux (1722) ed evidentemente se ne ricordò per la stesura di questo movimento della sua suite. Il tempo è Allegretto in 6/8 e la forma è di Rondo. Il ritmo prevalente è puntato (croma puntata – semicroma – croma). La struttura è rappresentabile dalla sequenza A-B-A’-C-A-Coda. A 6’39” ecco il ritornello A che si chiude a 7’52” per far spazio al primo episodio interno (B). A 9’04” abbiamo una fugace apparizione di A (ma si tratta proprio di un frammento di 8 sole battute) cui segue (9’17”) il secondo episodio (C) che si chiude a 10’20” per far posto all’ultimo ritorno di A. A 11’22” si modula a MI maggiore per la Coda, che ritorna presto (11’42”) al minore, per chiudere con una nuova quinta vuota (MI-SI) nel grave.    

Rigaudon (dedicato ai fratelli Pierre e Pascal Gaudin, amici di famiglia di Ravel). É un’antica danza popolare del sud della Francia, di dove erano originari i fratelli dedicatari del brano, disgraziatamente morti, uno al fianco dell’altro, precisamente nel primo giorno del loro arrivo a Oulches, sul fronte nordorientale, il 12 novembre del ’14. Tempo Assez vif, in 2/4, tonalità (una delle due eccezioni al MI minore nella Suite) di DO maggiore. La macro-struttura è A-B-A’, dove la prima sezione (12’24”) si presenta divisa in due parti, rispettivamente di 8 e 28 battute, entrambe da ripetersi (A a 12’32” e poi B a 12’40”-13’08”). Curiosamente le prime due battute sono quelle che assumeranno il ruolo di cadenza finale, sia dell’esposizione di A che dell’intero  movimento. Si noti (12’57” e poi ripetuto a 13’24”) un esilarante passaggio nell’acuto della tastiera, che porta alla conclusione della sezione A (poi ripetuta). La sezione centrale (B) si presenta con tempo Moins vif e vira a DO minore (13’37”). Riecco il DO maggiore e poi (14’25”) un passaggio che ricorda atmosfere gitano-spagnolesche, prima di un allargamento della melodia che porta al ritorno della prima sezione (A’) con il suo incipit crudo (14’53”): la differenza dalla prima comparsa risiede nella mancanza dei due da-capo, quindi in una maggiore stringatezza, e in un sottilissimo, ma significativo cambio di armonia (15’22”, una specie di cadenza plagale) che precede la chiusa. Il tutto fa rassomigliare il brano ad una specie di Scherzo (A) con Trio (B).

Menuet (dedicato a Jean Dreyfus, alla cui madre Ravel ea molto attaccato, e alla quale indirizzò una lunga corrispondenza). É l’altro movimento della Suite che devia rispetto al MI minore che la caratterizza: essendo nella tonalità relativa di SOL maggiore, con inserto centrale in RE minore. Il tempo è Allegro moderato, 3/4 e la struttura A-B-A-Coda. La sezione A (15’37”) è composta, come nel Rigaudon, da due parti, di 8 e 24 battute, entrambe da ripetersi (A a 15’54” e poi B a 16’10”-16’59”). La sezione B (Musette) è in RE minore (17’50”) ed è costtuita da due parti, di cui la prima si ripete (18’05”) e la seconda (18’21”) presenta un culmine (18’36”) in fortissimo per poi ritornare alla prima parte (18’54”) per la conclusione. Ricompare quindi (19’11”) la sezione A ma questa volta con la Musette che all’inizio l’accompagna nel basso. Si arriva quindi (20’16) alla Coda, che stempera ulteriormente (20’41”) i suoni in pianissimo e chiude su un Ralentir beaucoup e poi Très lent, esalando un tremolo sospeso su un rivolto dell’accordo di dominante.

Toccata (dedicato al capitano Joseph de Marliave, musicologo, per molto tempo amico di Gabriel Fauré, marito di Marguerite Long, prima interprete del Tombeau). Si tratta di un movimento assimilabile ad un Allegro di sonata. Il tempo è Vif, 2/4, MI minore. Anche qui il metronomo è da... brividi: 144 semiminime, peggio che nel Preludio! L’esposizione (21’26”) presenta in 9 battute ben 5 cellulle motiviche, che costituiranno i tasselli dell’intero movimento. Il primo gruppo tematico si estende fino a 22’13”, dove gli subentra il secondo tema (Un peu moins vif). L’esposizione si chiude a 22’40” per far spazio allo sviluppo, di proporzioni assai ampie, dove (22’48”) si modula inaspettatamente di un semitono in basso (RE# minore). A 23’29” torna il MI minore d’impianto per la chiusura dello sviluppo (24’33”) dove inizia una rapida ed eterodossa ricapitolazione, in MI maggiore, che ripropone, trasfigurato ed esultante, il secondo tema dell’esposizione, fino alla chiusa, su un’ottava di MI nel grave.
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Bene, ribadito che la versione orchestrale accontenta certamente più l’orecchio che... lo spirito, devo dire che Fournillier ha mostrato di padroneggiarla al meglio (l’esprit de finesse evidentemente non gli manca) e l’Orchestra lo ha in pieno assecondato. Sugli scudi, ça va sans dire, tutti i legni, fra i quali mi limito a citare, come vessillifero, l’oboe di Emiliano Greci.    
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Ecco poi Francis Poulenc e il suo Concerto per due pianoforti. Presentato qui quasi 4 anni orsono da Wayne Marshall e dal duo Lupo-Pedroni (di cui a suo tempo ho riferito). Questa vola c’è ancora una valida risorsa de laVerdi, Carlotta Lusa, ad affiancare il più navigato Orazio Sciortino, che alterna continuamente le sue prestazioni di solista al pianoforte con quelle di compositore (che con laVerdi ha già proficuamente collaborato).

Fournillier cerca di dare il massimo rilievo ai due solisti e così smagrisce la formazione degli archi rispetto alla tassativa prescrizione dell’Autore (8-8-4-4-4) riducendo... gli estremi, violini e contrabbassi (a suo tempo Marshall aveva fatto esattamente l’opposto). Anche i due solisti sembrano suonare... in punta di piedi e così ne esce una cosa assai gradevole, che anche il pubblico gradisce, ricambiato proprio con lo stesso bis poulenchiano proposto a suo tempo dalla coppia Lupo-Pedroni (questi polacchi esagerano per davvero e lo suonano con un’orchestra di 6 pianoforti e tanto di direttore!)
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Chiude la serata Georges Bizet con la sua Sinfonia in DO maggiore, composta quando ancora non erano arrivati sulla scena sinfonica Bruckner, Brahms, Dvorak e Ciajkovski... ma vi erano appena usciti (nel senso di... trapassati) Mendelssohn e Schumann. Quindi a chi poteva ispirarsi per una sinfonia un giovin musicista con chiare propensioni melodrammatiche? Non certo a Beethoven, ma più propriamente a Schubert.

Come quelli del viennese (della Piccola e pure della Grande, per parlare di DO maggiore) i temi sono tutti accattivanti, orecchiabili, lunghi e melodici, come si addice ad arie d’opera o romanze. Sinfonia?  Beh, diciamo una simpatica pastorale, ecco.

Fournillier la dirige a memoria, evita solo il da-capo dell'ultimo movimento (cosa condivisibile) e trascina il pubblico all’entusiasmo con un Finale travolgente. Peraltro la perla resta pur sempre l’Adagio, dove l’altra prima parte all’oboe (Luca Stocco) si merita due citazioni singole dal Direttore.

Beh, è musica che consola, e non è poco, in momenti in cui ci si domanda se davvero Dio esiste.

17 gennaio, 2017

Alla Scala torna il Don di Verdi (e di Abbado?)

  

Da questa sera torna alla Scala Don Carlo(s). Con la s o senza? Essendo in lingua italiana, senza. Però tradizionalmente Don Carlo fa pensare alla versione in 4 atti, quella stesa con grande cura da Verdi proprio per la Scala in vista delle recite del 1884 ed entrata, insieme all’originale parigino in 5 atti del 1867, nei repertori dei principali teatri.

Invece la versione presentata qui è sì in italiano, ma in 5 atti... ed è quindi diversa sia dall’originale parigino del 1867 che da quello scaligero del 1884, gli unici considerabili come authoritative. Perchè invece, se si censiscono tutte le diverse versioni dell’opera provate o messe in scena Verdi vivente, si arriva addirittura a sette, precisamente:

1. Partitura completata da Verdi nel 1866 in vista della prima parigina. Impiegata nelle prove, ma mai messa in scena.

2. Versione eseguita alla generale del 24/2/1867, che differisce dall’originale per cinque tagli, evidentemente apportati da Verdi dopo le prove. Qui però Verdi aggiunse il balletto del terz’atto La Peregrina (ancora assente nella partitura originale).

3. Prima esecuzione a Parigi (11 marzo, 1867). Vi sono apportati ulteriori tre tagli, fra i quali la soppressione della scena iniziale dei boscaioli e il relativo Preludio.

4. Seconda esecuzione a Parigi (13 marzo): vi viene soppresso (in futuro, nel Requiem, diventerà il Lacrymosa) cordoglio di Filippo. Questa versione, tradotta in italiano, venne poi esportata a Londra, Bologna e Milano.

5. Versione di Napoli del 1872: è sempre la versione della prima parigina, tradotta in italiano, con però due varianti: modifica al duetto Filippo-Rodrigo del second’atto e taglio al duetto Carlo-Elisabetta dell’atto finale.

6. Versione di Milano del 1884. Talmente curata da Verdi che la definì come quella di riferimento. Vi troviamo la soppressione dell’intero primo atto e interventi su quasi tutto il corpo dell’opera. Il libretto fu predisposto (a partire dalla versione 4 di Parigi) in francese da duLocle e poi tradotto in italiano da deLauzières-Zanardini. Le principali varianti sono: Prima scena (Carlo, “Io l’ho perduta” con recupero di parti dell’atto soppresso); rimaneggiamento della scena Filippo-Rodrigo (atto II); soppressione dell’inizio atto III (Coro, travestimento Elisabetta-Eboli e Peregrina) sostituiti da un Preludio; finale rimaneggiato, senza il coro dei Frati.
    
7. Versione di Modena del 1886. Ripristina il primo atto, come nella versione 3 di Parigi cui fa seguire i quattro atti della versione scaligera (6).

Bene, ciò che (probabilmente) si ascolterà da stasera e nei prossimi giorni è qualcosa di diverso ancora dalle sette versioni citate. In omaggio alla tendenza al nuovo, che però nuovo non è, visto che già nel 1977-78 Claudio Abbado (qui con un signor secondo cast, per la teletrasmissione RAI) presentò una versione vicina a quella di Modena (7) ma con la riapertura di alcuni tagli fatti da Verdi rispetto alla partitura originale (la scena iniziale, Preludio incluso, dei boscaioli e il Lacrymosa) e l’impiego di parti della versione francese (il Coro e il travestimento Elisabetta-Eboli che aprono il terzo atto, il duetto Filippo-Carlo prima del Lacrymosa e il finale dell’opera con il coro dei Frati). Invece: per non far notte e risparmiare sui costi delle coreografie... niente Peregrina.

Ecco, Chung ci dovrebbe (meglio usare il condizionale) presentare qualcosa di simile, essendo la produzione quella di Salzburg di qualche anno fa, che seguiva la falsariga di Abbado-77. In fatto di applicazione della tecnica del meccano, non sarà mai peggio della penultima (ormai) comparsa del Carlo al Piermarini (Gatti, 2008).

14 gennaio, 2017

2017 con laVERDI – 3


Torna in Auditorium la Xian (Direttore emerito, la sua nuova carica in laVerdi) per dirigere una specie di ritardato Concerto di Capodanno

In mezzo ai più o meno tradizionali e conosciuti walzer, polke e operette degli Strauss (il più famoso Johann jr e il di lui fratello, di 10 anni più giovane, Eduard) e al sempre gradevole von Suppè di un’intera giornata a Vienna, abbiamo la simpatica intrusione di un altro viennese, del ‘900 peraltro, del quale il prossimo 27 gennaio ricorreranno i 17 anni dalla prematura scomparsa (aveva meno di 70 anni): Friedrich Gulda.

Che fu soprannominato terrorista per le sue dissacranti esecuzioni ed anche per certi suoi comportamenti provocatori. Trovandomi per lavoro in Germania, primi anni ’80, mi capitò di vedere in televisione una performance in cui lui e la sua compagna Ursula Anders si esibivano in completa nudità (no, veramente lui indossava la sua inseparabile kippah...): lui suonando peripateticamente il flauto (o qualcosa di simile) proprio come un autentico Pan... e lei accompagnandolo alle percussioni!

Di lui il trentenne scandinavo Andreas Brantelid ci presenta il simpatico Concerto per violoncello e fiati (ci sono poi anche una chitarra e un contrabbasso, più batteria). Ecco una sua interpretazione con accompagnatori connazionali. Qui invece vediamo l’Autore dirigere il suo Concerto con Heinrich Schiff, che ne fu anche il primo interprete, nel 1981.

Al proscenio fanno bella mostra di sè due diffusori di suono: è infatti prescritto da Gulda che la chitarra venga amplificata (insomma, come nelle jam-sessions che si rispettino) ma – sorpresa! – in 4 dei 5 movimenti (cadenza esclusa) lo deve essere anche lo strumento solista!

Si apre con Ouverture, che attacca con un tema squisitamente rock-jazzistico, nervoso, cui fa da contraltare (in stile forma-sonata) un motivo dal taglio contemplativo e dal sapore vagamente schubertiano. Ecco poi Idyll, introdotto da una dolce fanfara di corni, che a me ricorda Freischütz, alla quale risponde il violoncello, prima dell’arrivo di una sezione spiritosa dove oboi e chitarra trascinano il solista in una specie di valse triste. Ancora i corni e il cello chiudono l’idillio. Ora segue una lunghissima, estenuante Cadenza del solista dove troviamo di tutto, dal cantabile al virtuosismo più sfrenato. Ecco ancora Menuett, dal sapore orientaleggiante, con il suo trio dove dialogano amabilmente flauto e violoncello. Il Finale alla marcia pare uscito da una colonna sonora di Morricone per Fellini. Insomma, un pot-pourri di tutto lo scibile musicale!

Beh, ogni tanto un po’ di... distrazione dai soliti Beethoven e Bruckner non fa male! Però che contrasto con il Bach (Sarabanda dalla prima suite) che il disinvolto nordico – dopo aver fatto i complimenti a Milano e alla (mezza) Orchestra che lo ha accompagnato - ci propina come bis!

Per il resto, si scimmiotta (non è la prima volta qui in Auditorium) il Musikverein a Capodanno: chiuso il programma ufficiale, ecco arrivare, reduce dalla scoppola rifilata a noi poareti taliani, il feldmaresciallo Johann Josef Wenzel Anton Franz Karl Graf Radetzky, che chiude il concerto accompagnato dai battimani ritmati del pubblico.

Per la verità qui lo spettacolo era piuttosto... ehm... dimesso: perchè l’Auditorium era pieno (o vuoto, a seconda dei punti di vista) a metà.

06 gennaio, 2017

2017 con laVERDI – 2


Tocca a Jader Bignamini inoltrare laVerdi lungo la stagione 2017, dirigendo un concerto tutto russo: Ciajkovski e Rachmaninov. Doveroso ricordare qui la scomparsa del grande Georges Prêtre, dal quale l’Orchestra ebbe il grandissimo onore di essere diretta un paio di volte proprio quando (lei, l’orchestra) era praticamente in fasce!

Di Ciajkovski ri-ascoltiamo La Tempesta, già udita qui in Auditorium poco più di due anni fa dalla bacchetta della Xian. (Ecco alcune mie personali note scritte in quell’occasione).

Sempre compatta e precisa l’orchestra e autorevole il gesto di Bignamini che ci restituisce tutti i pregi (mascherando i difetti...) di quest’opera abbastanza poco eseguita.
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Dopo lo scenario acquatico con isola, di Ciajkovski, intovina ke fiene foi atesso? Uno scenario acquatico con isola, ma di Rachmaninov: L’isola dei morti (1909). Ispirata da una riproduzione bianco&nero del quadro di Arnold Böcklin (di cui l’autore, tanto l’idea gli era piaciuta, dipinse altre quattro versioni, variando ogni volta leggermente qualche dettaglio).


Che acqua è? Dicono: lo Stige. O l’Acheronte? E il rematore? Caronte (mah, veramente pare una figura poco... autorevole rispetto a quella che ci immagineremmo.) E la bianca, slanciata figura ritta al centro della barchetta? Mah, forse l’anima candida del corpo chiuso nella bara coperta dal bianco lenzuolo e imbarcata di traverso, a prua. Oppure, chissà, uno speciale becchino, diciamo pure... la Morte in persona: sì, perchè la bara bisognerà pur che qualcuno la issi sull’isola per poi sistemarla in una delle catacombe di cui si intravedono gli ingressi... e il rematore magrolino non è detto che sia contrattualmente tenuto a farlo. Oppure potrebbe essere il defunto in persona, che si dovrà portare la bara (vuota) fino al suo loculo, per poi infilarcisi dentro e riposare per l’eternità (!?)

Rachmaninov deve aver scelto di musicare quel dipinto perchè così aveva la scusa buona per infilare l’ennesimo Dies Irae in una sua composizione: per lui la sequenza medievale doveva essere come il prezzemolo, che si mette un po’ dappertutto, più per sfizio che per oggettiva necessità, ecco. Però qui il Dies Irae non è solo prezzemolo, ma praticamente è la base di tutto il manicaretto e pure delle bevande che lo accompagnano! Il brano si potrebbe benissimo intitolare Fantasia sul Dies Irae

L’Autore in persona nel 1929 incise il brano con la Philadelphia Orchestra: però, oltre alla qualità della riproduzione che è ovviamente mediocre, sono presenti anche dei tagli (forse per necessità di... spazio su disco) e allora per esplorare il pezzo sarà meglio affidarsi al solido Ashkenazy.  
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Rachmaninov sceglie per l’ambientazione cupa del brano la stessa tonalità con la quale Mahler apre e chiude la sua sinfonia tragica: LA minore. Nello sviluppo centrale troviamo ovviamente delle modulazioni: principalmente, ma non solo, DO maggiore, DO e RE minore, LAb e MIb maggiore. Il tempo è prevalentemente Lento (ma con più di uno... scossone) e il metro è prevalentemente 5/8 (ma abbiamo anche un po’ di 4/4 e 3/4).  

Il sipario si apre su archi bassi, arpa e timpani, che impongono il ritmo sghembo di 5/8. Per romperne un po’ la monotonia, Rachmaninov alterna spesso la configurazione 2+3 con quella 3+2. C’è chi ci vede (o ci sente, per meglio dire) il ritmo della vogata del barcaiolo, e/o lo sciacquio prodotto dal lento avanzare della barca. (Certo, non ci fosse il quadro a farci da... faro, in queste note potremmo vederci qualunque altra cosa o nulla del tutto.) 
 
Ciò che è innegabile è l’atmosfera piuttosto lugubre, inizialmente dipinta (14”) da strumenti gravi (controfagotto, fagotto e clarinetto basso, più due corni che suonano note sotto il rigo). La melodia si muove salendo e scendendo per gradi congiunti, sul tappeto formato dall’arpa e dagli archi (ora anche viole e violini) che rimuginano le loro 5 crome a battuta creando un effetto vagamente ondeggiante. 

Un primo sussulto lo si avverte (1’09”) quando i violini aizzano il primo corno, che presenta un motivo che già ci ricorda vagamente l’attacco del Dies Irae. Imitato poco dopo (1’42”) dall’oboe. Questo andazzo si protrae ancora, ma con un lento crescendo che porta (2’41”) ad una nuova comparsa (sempre in... incognito) del Dies Irae in flauto, poi in oboe, corno  e corno inglese. Una nuova e improvvisa scossa (3’04”) nei violini, proprio sull’accenno di Dies Irae dei corni, seguita subito da una seconda, porta alla ripresa della mesta cantilena precedente, che però adesso si anima, con l’ingrossamento delle file dell’orchestra (4’27”) e con l’animarsi improvviso dei violini e successivamente (4’49”) di flauti e oboi.  

Si arriva così ad un’improvvisa schiarita (5’05”) dove i primi violini espongono un tema ascendente (in DO maggiore, relativa della tonalità di base) per ampi intervalli, alla sommità del quale (5’11”) troviamo immancabilmente l’incipit del Dies Irae, ripreso subito, in forma variata, dal corno inglese e poco dopo (5’44”) da oboe e flauto e quindi dal corno. Dopo un mesto recitativo dell’oboe (6’13”) una variante del motivo ascendente di poco prima viene presentata (6’21”) da violini e viole, ora in LAb maggiore; ad essa segue un lungo passaggio, che vira a DO minore, nel quale l’incipit del Dies Irae, assai dilatato nei tempi, sembra pervadere il crescendo orchestrale, basato sul motivo per gradi congiunti udito all’inizio, qui però in armonizzazione meno cupa.

Dopo un primo climax (8’24”) nei fiati, si ripristina l’atmosfera iniziale, che presenta un grande crescendo che ci conduce ad un culmine (9’34”) a seguito del quale il flauto solo riespone il Dies irae, imitato poco dopo da due corni, in sequenza. Il tempo muta ora a 3/4 e l’atmosfera si fa sempre più rarefatta per sfociare (10’42”) in un corale in RE minore dei corni che ribadiscono pesantemente il Dies Irae, dopodichè sono gli archi ad esibirsi in una veloce scalata in fortissimo che porta alla sezione centrale in MIb (11’10”).

È questo un passaggio di grande vitalità (qualcuno ci vede l’anima del defunto che rivive i giorni felici dell’esistenza, ma potrebbe anche pregustare quelli ancor più felici dell’aldilà, chi lo sa?) anche se l’inciso che compare nel motivo che lo sostiene ha un che di... Dies Irae, ecco, tanto per cambiare, con quelle terzine con la nota centrale un semitono sotto le due estreme. La melodia si allunga a dismisura, passa (12’11”) attraverso la sottodominante LAb maggiore, poi torna (12’39”) ad un MIb pieno, dove però comincia a incupirsi, e non a caso, poichè (13’54”) ecco il Dies Irae rifare esplicitamente e minacciosamente capolino negli ottoni, fino ad una successiva proterva affermazione (14’07”) in fortissimo, accompagnata da botti del timpano.

Dopo una caduta repentina quanto momentanea, il Dies Irae riprende (14’27”) ancora in ottoni e violini, avanzando ora proprio come un castigo di Dio, con un implacabile crescendo che sfocia (15’33”) in una parossistica progressione chiusa (15’38”) da un primo tremendo schianto, cui ne segue un altro, dopo una pausa segnata dal DO dei soli corni e viole, ancor più definitivo (15’46”).

Ecco ora (15’55”) il Dies Irae ripartire sommessamente - mentre il tempo muta a 4/4 e la tonalità è tornata al dimesso LA minore - nel clarinetto accompagnato in tremolo dai violini secondi con sordina: è una vera e propria marcia, implacabile come il destino, cadenzata da timpani, arpa e archi sui tempi pari della battuta. Su di essa si innesta (16’44”) una variazione nervosa nelle terzine dei violini primi in tremolo, caratterizzata da un accelerando e subito da un diminuendo, con salita dal LA grave al MIb.

Qui (17’02”) siamo tornati in 3/4 e l’oboe, raggiunto poi da clarinetto e clarinetto basso, espone una melodia che richiama, in modo minore (DO) il motivo in MIb maggiore che aveva caratterizzato lo squarcio di serenità precedente. Ma è uno sbiadito ricordo che subito si perde, degradando mestamente fino a sfociare su un SIb tenuto (corona puntata) da archi e clarinetti (questi in trillo).     

Ora (17’35”) abbiamo quattro ricorrenze di un passaggio costituito da una battuta in 3/4 seguita da 3 battute (5 nell’ultima ricorrenza) in 5/8: il Dies Irae vi viene esposto in forma al solito variata. Tutto ciò porta (18’31”) a quella che possiamo definire la ripresa dello scenario (in LA minore) che aveva caaratterizzato l’apertura del brano. Questa volta il motivo a grandi intervalli ascendenti nei violini (18’47”) è esposto nella canonica tonalità d’impianto e sotto-sotto vi fa capolino, oltre al Dies Irae, anche il Dies illa!

Ormai ci avviamo alla conclusione, l’atmosfera (19’20”) si dirada e poi ecco (19’42”) un timido accenno del Dies Irae nell’oboe e quindi (19’48”) alcune discese degli strumentini sulla scala di LA minore, tonalità che chiude, come lo aveva aperto, il brano, su un accordo pianissimo dell’orchestra.
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L’Orchestra e Bignamini devono essere alla prima esperienza con questa pretenziosa letteratura della morte, e mi pare che come esordio non ci sia male: il Direttore fa del suo meglio (che è moltissimo!) per accompagnarci in questa specie di viaggio verso l’aldilà corredato da ricordi dell’aldiqua; e i ragazzi rispondono da par loro, mettendo in risalto ogni minimo dettaglio di una partitura che è da molti considerata un capolavoro, ma che io, nel mio infinitesimo piccolo, fatico ad apprezzare più di tanto, parendomi essa frutto di vellitarismo a buon mercato.

Il pubblico ha applaudito calorosamente: di sicuro a Bignamini e ai ragazzi, non so quanto a... Rachmaninov!  
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Chiude il concerto la tremenda Quarta ciajkovskiana, che invece per laVerdi è pane di tutti i giorni, altro che prezzemolo! Sta diventando un appuntamento fisso stagionale, da 10 anni ad oggi è passata dalle mani di Inkinen a quelle di Fedoseyev, poi di Xian (2 volte) quindi di Ceccato, di Caetani e ancora Xian.

Oggi la eredita Bignamini (ma si sa che negli anni scorsi era pur sempre lui a preparare l’Orchestra...) e quella che ne esce è un’esecuzione davvero coi fiocchi! Il Direttore gioca sapientemente con le dinamiche: nei movimenti esterni per dare la massima espressione agli archi, nei rari momenti di respiro fra un fracasso e un altro degli ottoni; nell’Andantino per creare un bellissimo stacco in corrispondenza del Meno mosso centrale; nello Scherzo per ottenere dagli archi un pizzicato a volte al limite dell’udibile, ma con guizzi che parevano lampi (o lame taglienti).

Il nostro sta ormai diventando famoso e così comincia anche a permettersi qualche libertà, come nel Molto più mosso del finale primo, che nel da-capo diventa quasi un Prestissimo! E subito dopo, al momento di ripetere per l’ultima volta il primo tema, lui va oltre Karajan (18’30”) facendo fare due semiminime di pausa, oltre ai fiati, che le hanno in partitura, anche agli archi (che invece dovrebbero tenere, portandolo da ff a fff, il REb) creando così un attimo di silenzio che è tanto emozionante quanto... apocrifo!

Ma va bene così, un cicchetto in più è quello che ci vuole con questo gelo che sta piombando su Milano (e non solo).