Il nuovo Direttore Principale Ospite, Patrick Fournillier, torna dopo meno di
un anno in Auditorium con un programma – noblesse oblige – tutto francese. Salito sul
podio, si volta verso il pubblico per commemorare la figura di Georges Prêtre, con il quale si è detto
onorato di aver avuto stretti rapporti (e direi proficui, a giudicare dai
risultati...)
Poi attacca la versione orchestrale del Tombeau
de Couperin di Maurice Ravel.
Che era stato composto durante la Grande Guerra (Ravel si era volontariamente
arruolato, 39enne, come autista di ambulanze) per il pianoforte solo e constava
di 6 brani, proprio a mo’ di una Suite barocca,
in omaggio al grande musicista francese, autore di ben 27 Ordres (Suite) per clavicembalo (in 4 libri, fra il 1713 e il 1730)
ma anche in memoria di sei commilitoni, con i quali Ravel aveva rapporti
stretti, caduti nella guerra. E fu Marguerite
Long, moglie di uno di costoro (il musicologo Joseph de Marliave) ad interpretarla per la prima volta nel 1919.
L’anno successivo Ravel approntò due nuove versioni del Tombeau: la prima (che
si ascolta qui) è una trascrizione per orchestra di 4 dei 6 brani
dell’originale; la seconda è una parte di questa trascrizione (3 brani)
destinata ad accompagnare un balletto della compagnia svedese di Jean Borlin.
Qui un quadro riassuntivo dell’opera
nelle sue tre versioni:
originale per pianoforte
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versione per orchestra
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versione per balletto
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I – Prélude
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I – Prélude
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I - Forlane
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II - Fugue
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II - Forlane
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II - Menuet
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III – Forlane
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III - Menuet
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III - Rigaudon
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IV – Rigaudon
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IV - Rigaudon
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V - Menuet
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VI - Toccata
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Come si nota, la versione orchestrale
manca dei due movimenti più marcatamente caratteristici della tastiera (Fuga e
Toccata); quella per il balletto è di fatto la versione orchestrata priva del
Preludio. Nella versione per orchestra Menuet e Rigaudon si scambiano il posto,
in modo che il brano si chiuda (in assenza della Toccata) con un movimento
vivace.
Per essere un elogio funebre, è assai
elogiativo e ban poco... funereo. A chi glie lo faceva osservare, Ravel
rispondeva che quei poveracci avevano avuto abbastanza sfortuna, e che non era
il caso di rincarare la dose.
Personalmente sono convinto che la
strada più appropriata per conoscere quest’opera sia quella di approcciarne
l’originale per pianoforte (qui propongo l’ascolto di una simpatica conoscenza
de laVerdi, Angela
Hewitt).
La versione per orchestra (Ravel era uno strumentatore sopraffino, i Quadri sono lì a dimostrarlo!) è
addirittura lussureggiante, ma forse proprio per questo perde un po’ della
cristallina purezza dell’originale (proprio come accade a Musorgsky). Ecco qui un grande della musica interpretarla dirigendo
altri grandi...
Il successo del Tombeau è stato tale che
diversi musicisti si sono sbizzarriti a farne versioni cameristiche
personalizzate; e qualcuno ha pure deciso di essere più smart dell’Autore e si è permesso di orchestrare anche i due
movimenti che Ravel aveva deliberatamente lasciato alla sola tastiera. Fra i
tanti un pianista e direttore d’orchestra, Zoltán Kocsis, del quale qui possiamo ascoltare la suite completa (con i brani nella sequenza dell’originale).
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Seguiamo il Tombeau originale,
sempre con la Hewitt.
Preludio
(dedicato al tenente Jacques Charlot,
musicista, parente dell’editore di Ravel, Jacques Durand). È in tempo di 12/16
(12 semicrome a battuta) con un metronomo davvero pazzesco: 92 semiminime
puntate! Il che significa che l’esecutore deve suonare (mano destra e sinistra
alternativamente) più di 9 note (semicrome) al secondo per quasi 3 minuti!
Nella versione orchestrata il carico di... lavoro, invero massacrante
nell’originale per tastiera, si distribuisce fra gli strumentini (oboe
in-primis) e gli archi. Contrariamente alla struttura barocca, che prevedeva un
brano monotematico, Ravel dà al Preludio una veste bi- (o addirittura tri-)
tematica e una struttura vagamente sonatistica (esposizione col da-capo,
sviluppo e ripresa). La tonalità (praticamente di tutta la suite, come da tradizione)
è MI minore (e relativa SOL maggiore) ma in omaggio all’arcaismo
dell’ispirazione il MI minore ha inflessioni modali (eolio) mancandovi sempre la sensibile
RE#. Dopo un’introduzione di 4 battute, ecco (6”) l’esposizione del
primo tema spiritato (MI minore modale) cui segue (29”) il secondo, più
rilassato (SOL maggiore). L’esposizione viene ripetuta (47”) dopodichè inizia (1’28”)
lo sviluppo, cui segue (2’06”) una specie di ripresa, che
conduce alla conclusione, dopo un paio di battute di presa di respiro (2’51”)
con un’esilarante volata, un tremolo e la croma finale sul MI.
Fuga
(dedicato al sottotenente Jean Cruppi,
la cui madre si era adoperata per la messa in scena di L’heure espagnole). È una fuga a tre voci, sempre in MI minore
eolio, Allegro moderato e strutturata
in modo tripartito: esposizione, sviluppo e coda. L’esposizione (3’11”)
presenta il soggetto della fuga
ripreso a due battute di distanza dalla seconda e dalla terza voce, mentre sulla
seconda voce si ode un controsoggetto (3’21”) caratterizzato da una terzina
che squilibra un po’ la regolarità del ritmo. L’esposizione riprende (3’34”)
in forma variata e porta direttamente(3’51”) allo sviluppo. Qui Ravel
impiega parecchi dei tradizionali artifici fiamminghi, come (4’12”)
l’inversione, il pedale (4’35”) il canone stretto
(5’04”)
oltre a giocare con le tonalità. Lo sviluppo (5’51”) si chiude e lascia
spazio per la conclusione, che sfocia (6’08”) in una coda assai lenta. È una quinta vuota (MI-SI) a por fine alla fuga,
una mirabile mistura di tradizione e di modernità quasi impressionista.
Forlane
(dedicato al tenente Gabriel Deluc,
pittore basco che probabilmente aveva ispirato alcuni lavori di Ravel). Il
quale aveva appena trascritto proprio una Forlane di Couperin (nemmeno a farlo
apposta, in MI minore) dal quarto dei Concerts
roayaux (1722) ed evidentemente se ne ricordò per la stesura di questo
movimento della sua suite. Il tempo è Allegretto
in 6/8 e la forma è di Rondo. Il
ritmo prevalente è puntato (croma
puntata – semicroma – croma). La struttura è rappresentabile dalla sequenza A-B-A’-C-A-Coda. A 6’39” ecco il ritornello A che si chiude a 7’52” per far spazio al
primo episodio interno (B). A 9’04”
abbiamo una fugace apparizione di A
(ma si tratta proprio di un frammento di 8 sole battute) cui segue (9’17”) il secondo
episodio (C) che si chiude a 10’20”
per far posto all’ultimo ritorno di A.
A 11’22”
si modula a MI maggiore per la Coda,
che ritorna presto (11’42”) al minore, per chiudere con una nuova quinta vuota
(MI-SI) nel grave.
Rigaudon
(dedicato ai fratelli Pierre e Pascal Gaudin, amici di famiglia di
Ravel). É un’antica danza popolare del sud della Francia, di dove erano originari
i fratelli dedicatari del brano, disgraziatamente morti, uno al fianco dell’altro,
precisamente nel primo giorno del loro arrivo a Oulches, sul fronte nordorientale,
il 12 novembre del ’14. Tempo Assez vif,
in 2/4, tonalità (una delle due eccezioni al MI minore nella Suite) di DO
maggiore. La macro-struttura è A-B-A’,
dove la prima sezione (12’24”) si presenta divisa in due
parti, rispettivamente di 8 e 28 battute, entrambe da ripetersi (A a 12’32” e poi B a 12’40”-13’08”). Curiosamente le prime due battute sono quelle
che assumeranno il ruolo di cadenza finale, sia dell’esposizione di A che dell’intero movimento. Si noti (12’57” e poi ripetuto a 13’24”)
un esilarante passaggio nell’acuto della tastiera, che porta alla conclusione
della sezione A (poi ripetuta). La
sezione centrale (B) si presenta con
tempo Moins vif e vira a DO minore (13’37”).
Riecco il DO maggiore e poi (14’25”) un passaggio che ricorda
atmosfere gitano-spagnolesche, prima di un allargamento della melodia che porta
al ritorno della prima sezione (A’) con
il suo incipit crudo (14’53”): la differenza dalla prima
comparsa risiede nella mancanza dei due da-capo, quindi in una maggiore stringatezza,
e in un sottilissimo, ma significativo cambio di armonia (15’22”, una specie di
cadenza plagale) che precede la chiusa. Il tutto fa rassomigliare il brano ad
una specie di Scherzo (A) con Trio (B).
Menuet
(dedicato a Jean Dreyfus, alla cui
madre Ravel ea molto attaccato, e alla quale indirizzò una lunga corrispondenza).
É l’altro movimento della Suite che devia rispetto al MI minore che la
caratterizza: essendo nella tonalità relativa di SOL maggiore, con inserto
centrale in RE minore. Il tempo è Allegro
moderato, 3/4 e la struttura A-B-A-Coda.
La sezione A (15’37”) è composta, come
nel Rigaudon, da due parti, di 8 e 24 battute, entrambe da ripetersi (A a 15’54” e poi B a 16’10”-16’59”). La sezione B (Musette) è in RE minore (17’50”) ed è costtuita da due parti,
di cui la prima si ripete (18’05”) e la seconda (18’21”)
presenta un culmine (18’36”) in fortissimo per poi ritornare alla prima parte (18’54”) per la
conclusione. Ricompare quindi (19’11”) la sezione A ma questa volta con la Musette che all’inizio l’accompagna nel
basso. Si arriva quindi (20’16) alla Coda, che stempera
ulteriormente (20’41”) i suoni in pianissimo
e chiude su un Ralentir beaucoup e
poi Très lent, esalando un tremolo sospeso
su un rivolto dell’accordo di dominante.
Toccata
(dedicato al capitano Joseph de Marliave,
musicologo, per molto tempo amico di Gabriel
Fauré, marito di Marguerite Long,
prima interprete del Tombeau). Si tratta di un movimento assimilabile ad un Allegro di sonata. Il tempo è Vif, 2/4, MI minore. Anche qui il
metronomo è da... brividi: 144 semiminime, peggio che nel Preludio! L’esposizione
(21’26”)
presenta in 9 battute ben 5 cellulle motiviche, che costituiranno i tasselli
dell’intero movimento. Il primo gruppo tematico si estende fino a 22’13”,
dove gli subentra il secondo tema (Un peu
moins vif). L’esposizione si chiude a 22’40” per far spazio allo sviluppo,
di proporzioni assai ampie, dove (22’48”) si modula inaspettatamente
di un semitono in basso (RE# minore). A 23’29” torna il MI minore d’impianto
per la chiusura dello sviluppo (24’33”) dove inizia una rapida ed
eterodossa ricapitolazione, in MI maggiore, che ripropone, trasfigurato ed
esultante, il secondo tema dell’esposizione, fino alla chiusa, su un’ottava di
MI nel grave.
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Bene, ribadito che la versione
orchestrale accontenta certamente più l’orecchio che... lo spirito, devo dire
che Fournillier ha mostrato di padroneggiarla
al meglio (l’esprit de finesse evidentemente
non gli manca) e l’Orchestra lo ha in pieno assecondato. Sugli scudi, ça va sans dire, tutti i legni, fra i quali mi limito a
citare, come vessillifero, l’oboe di Emiliano
Greci.
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Ecco poi Francis Poulenc e il suo Concerto per due pianoforti. Presentato
qui quasi 4 anni orsono da Wayne Marshall e dal duo Lupo-Pedroni (di cui a suo tempo ho
riferito). Questa vola c’è ancora una valida risorsa de laVerdi, Carlotta Lusa, ad affiancare il più navigato Orazio Sciortino, che alterna continuamente le sue prestazioni di
solista al pianoforte con quelle di compositore (che con laVerdi ha già proficuamente collaborato).
Fournillier
cerca di dare il massimo rilievo ai due solisti e così smagrisce la formazione
degli archi rispetto alla tassativa prescrizione dell’Autore (8-8-4-4-4)
riducendo... gli estremi, violini e contrabbassi (a suo tempo Marshall aveva
fatto esattamente l’opposto). Anche i due solisti sembrano suonare... in punta
di piedi e così ne esce una cosa assai gradevole, che anche il pubblico
gradisce, ricambiato proprio con lo stesso bis
poulenchiano proposto a suo tempo dalla coppia Lupo-Pedroni (questi polacchi esagerano per davvero e
lo suonano con un’orchestra di 6 pianoforti e tanto di direttore!)
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Chiude la serata Georges Bizet con la sua Sinfonia in DO maggiore, composta
quando ancora non erano arrivati sulla scena sinfonica Bruckner, Brahms, Dvorak
e Ciajkovski... ma vi erano appena usciti (nel senso di... trapassati) Mendelssohn
e Schumann. Quindi a chi poteva ispirarsi per una sinfonia un giovin musicista
con chiare propensioni melodrammatiche? Non certo a Beethoven, ma più propriamente
a Schubert.
Come
quelli del viennese (della Piccola e
pure della Grande, per parlare di DO
maggiore) i temi sono tutti accattivanti, orecchiabili, lunghi e melodici, come
si addice ad arie d’opera o romanze. Sinfonia?
Beh, diciamo una simpatica pastorale,
ecco.
Fournillier la dirige a memoria, evita
solo il da-capo dell'ultimo movimento (cosa
condivisibile) e trascina il pubblico all’entusiasmo con un Finale travolgente.
Peraltro la perla resta pur sempre l’Adagio,
dove l’altra prima parte all’oboe (Luca
Stocco) si merita due citazioni singole
dal Direttore.
Beh, è musica che consola, e non è poco,
in momenti in cui ci si domanda se davvero Dio esiste.