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23 marzo, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°11 con il lutto al braccio


Il tradizionale appuntamento di Pasqua con una delle Passioni di Bach cade precisamente la sera di un’autentica giornata di passione per il mondo intero. Ruben Jais, presentatosi al proscenio in maniche di camicia, ha invitato il pubblico che affollava l’Auditorium ad alzarsi e osservare un minuto di raccoglimento in memoria delle vittime del terrorismo.

Fate la musica e non la guerra! È il messaggio che ci viene da Bach. E che la sua musica, come tutta la musica occidentale, debba molto alla scienza di grandi musulmani del passato - Ishaq Al-Kindi, Ibn Sina (Avicenna), Al-Farabi, Safi Al-Din e molti altri ancora – rende se possibile più assurda la guerra che i fondamentalisti sedicenti islamici hanno dichiarato all’umanità intera.
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Il concerto di questa settimana (sarà replicato questa sera stessa in Duomo a Milano e venerdì in Auditorium) è anche l’occasione per ritrovarsi con laBarocca, la creatura di Jais (e Capuano) che purtroppo ha dovuto quest’anno rinunciare alla tradizionale stagione propria in Auditorium per le note vicende legate alla irresponsabile cecità dei nostri politici.

E la (relativamente!) breve, ma cruda e verista Johannes-Passion ha ancora una volta testimoniato del livello qualitativo assoluto degli ensemble di Jais-Capuano, autori di una prestazione davvero eccellente, al cui successo hanno dato il determinante contibuito i solisti di canto, tra i quali mi limiterò a citare il tenore Patrick Grahl, perfetto nel ruolo dell’Evangelista narratore, ma anche in quello di protagonista di due splendide arie.

L’Auditorium, visitato da una folla davvero cosmopolita (qui Bach realizza in concreto il Seid umschlungen, Millionen!) ha lungamente applaudito tutti i protagonisti di questa serata di grande musica e di elevazione dello spirito sopra le miserie della vita.



21 marzo, 2016

Il Conte di Essex onorevolmente decollato sotto la Lanterna

 

Ieri pomeriggio un Carlo Felice piacevolmente gremito da una folla entusiasta ha ospitato la seconda recita di Roberto Devereux, terzo atto della donizettiana trilogia Tudor (1830 Bolena, 1835 Stuarda, 1837 Devereux). Tre opere che trattano (più o meno liberamente) delle vicende dei reali inglesi negli anni che vanno dal 1536 al 1601: sono 65 dei 70 anni di Elisabetta I. Lei ai tempi dell’Anna Bolena (sua madre) aveva solo 3 anni, quindi non poteva ancora comminare condanne a morte (quella della madre toccò al padre Enrico VIII) e tantomeno cantare in teatro (smile!) Ne aveva poi 54 (1587) ai tempi della Maria Stuarda, sua cugina da lei mandata al patibolo, e 68 appunto in questo Roberto Devereux, pure spedito anzitempo (aveva precisamente la metà degli anni della Regina, 34!) al creatore.

Ecco, i tre personaggi che danno i titoli alle opere hanno in comune il fatto di essere decollati: oh, parliamo di decollazioni, mica di decolli... di aerei per le vacanze, eh! E non si trattò di cose semplici e burocratiche, tutt’altro: vediamo.

Anna fu gratificata dal corpulento Enrico (180Kg per 180cm!) non di uno ma di ben due privilegi: la pena canonica per arrostitura al rogo fu commutata in quella per decapitazione; per di più da eseguirsi, invece che con il barbaro rito albionico (scure calata dal boia sul collo della vittima appoggiato sul ceppo) con il più raffinato ed assai meno antipatico rito francese, che prevedeva – in attesa dell’invenzione della tecnologica ghigliottina - la mozzatura del collo eseguita con un colpo di spada e con la vittima inginocchiata sì, ma con il capo in posizione eretta (già, l’esprit de finesse... sappiamo che Anna da ragazza aveva soggiornato alla corte parigina). Quindi per lei fu chiamato dalla Francia un autentico specialista del ramo, tale Jean Rombaud da Calais che, armato di un ben affilato spadone da samurai, con un sol fendente le separò di netto la testa dalle spalle.

Per Maria invece si resero necessarie ben due asciate del boia, più un terzo colpetto per recidere un’ultima cartilagine renitente; poco dopo fra le pieghe delle sue vesti si scovò un piccolo maltese che Maria si era portata appresso e che si rifiutava di abbandonare il suo corpo straziato.

Ma peggio ancora andò al Roberto, sul cui robusto collo il boia dovette infierire con la scure per ben tre volte, prima di poter esibire alla folla la testa del fedifrago, gridando lo slogan di prammatica: God save the Queen
   
E le parole con cui principia l’Inno britannico ci portano direttamente alla Sinfonia dell’opera. Peraltro sarà bene ricordare che per la prima assoluta di Napoli (domenica 29 ottobre, 1837) Donizetti aveva composto, un po’ come aveva fatto per la Stuarda, solo un brevissimo (11 battute) Preludio che precede l’Introduzione dell’Atto I. La Sinfonia che oggi si esegue comunemente fu composta per la prima francese (giovedi 27 dicembre 1838, Parigi, Théâtre des Italiens) e francamente, se proprio non è un corpo estraneo rispetto all’opera, di certo ne evoca assai maldestramente i contenuti. Dopo l’attacco in SOL minore, con i pesanti accordi sulla dominante RE, compare improvvisamente nella relativa SIb maggiore (eccolo là) il famigerato God save the Queen!

Così come è antistorico il finale dell’opera, con l’abdicazione del tutto inventata di Elisabetta in favore di Giacomo (figlio della Stuarda, guarda un po’ i casi della vita...) altrettanto fasulla è la citazione dell’inno che risale, a voler esagerare, al 1619 (John Bull) ma più probabilmente a metà del 1700 (definitiva vittoria degli Hannover sugli Stuart). In ogni caso nel 1601 (anno di ambientazione dell’opera) l’inno non esisteva proprio. Ritorna il SOL minore con un motivo agitato, intercalato ancora dall’inno britannico, prima che una serie di modulazioni porti al FA maggiore, dove ascoltiamo il tema che Devereux canterà in LA maggiore nel terz’atto (Bagnato il sen di lagrime) apprendendo della sua imminente decollazione e della disperazione che ciò provocherà nella sua amata Sara. Solo che qui viene presentato come un’allegra marcetta! Poi si modula progressivamente a RE maggiore per l’entrata di un nuovo motivo assai vivace e spensierato, e infine - per chiudere in bellezza, neanche fossimo a... Cavalleria leggera - ecco tornare il tema di Devereux letteralmente spiritato, con protervo accompagnamento (RE-LA) di timpani. Insomma, una cosa assai bizzarra, giustificata probabilmente dal desiderio di Donizetti di accattivarsi a buon mercato le simpatie del pubblico parigino. Ecco perchè alcuni direttori (qui il leggendario Gavazzeni a Bologna nel 1993) scelgono talvolta di eseguire l’opera proprio come presentata in origine a Napoli, cioè senza la discutibile Sinfonia appiccicatavi a posteriori.

Quanto al libretto di Salvadore Cammarano, si può dire abbia davvero un corposo pedigree: di certo fu ispirato direttamente (come l’analogo del 1833 di Romani per Mercadante) dal dramma Elisabeth d’Angleterre di Jacques-François Ancelot (1829). Ma  un’altra probabile fonte di Cammarano risalirebbe al 1787, e si tratterebbe di un testo di Jacques Le Scène-Desmaisons intitolato assai sinteticamente (!) Histoire d'Élisabeth et du comte d'Essex, tirée de l'anglois des Mémoires d'un homme de qualité. Il quale testo era quindi a sua volta la traduzione di un altro di autore anonimo (ma... di qualità) risalente al 1680 e titolato The secret history of the most renowned Q. Elizabeth and the E. of Essex by a person of quality. Il quale a sua volta potrebbe essere la traduzione dal francese di un preesistente (1678) Comte d'Essex histoire angloise. Insomma, un soggetto di lunghissima data! E non a caso, dato il mistero e la curiosità che la persona della Regina vergine (?!) ha suscitato nella fantasia popolare.

È chiaro che il soggetto di Cammarano non si ponesse l’obiettivo di tenerci una lezione di Storia albionica, ma ovviamente di creare ambienti, vicende e situazioni che fornissero al compositore materia per un classico melodramma. A partire da un paio di oggetti che servono a pilotare colpi di scena e ad influenzare il corso degli avvenimenti: l’anello donato da Elisabetta a Roberto in segno (per lei) di amore e (per lui, evidentemente) di semplice stima per le sue capacità politico-militari, anello che alla fine manca il suo scopo (tornare in mano alla Regina salvando Roberto) per uno stupido ritardo di pochi attimi; e una sciarpetta ricamata e donata (in segno di amore) da Sara a Roberto, che diviene il reperto principale per il capo di imputazione del Conte: tradimento nei confronti della Regina, ma mica di natura politica (per quello Elisabetta poteva girare la frittata a suo piacimento e fregarsene del Parlamento) bensì di natura sentimentale, che insieme al mancato arrivo dell’anello fa scattare il risentimento personale della Regina nei confronti di Roberto, decidendola per la sua esecuzione capitale.

Naturalmente troviamo nel libretto anche alcune profondità di contenuto, relative all’inquadramento delle diverse personalità dei protagonisti. Così abbiamo una Regina innamorata, ma più che del giovane Roberto in carne ed ossa, dell’amore in quanto tale, che reclama i suoi diritti sulla sua psiche (L'amor suo mi fe' beata è evidentemente frutto della sua immaginazione, come ci conferma nel duetto del prim’atto l’inconciliabilità fra le parole sue Un tenero core mi rese felice e quelle di Roberto Indarno la sorte un trono m’adddita) a dispetto delle sue volontarie e istituzionali auto-castrazioni. La sua conclusiva abdicazione è più al ruolo di donna, ormai per lei impossibile a realizzarsi, che non a quello di Regina

Sara è il suo contraltare, ma solo in parte: nessuna prospettiva - ma nemmeno alcuna aspirazione - di tipo politico (e qui siamo agli antipodi di Elisabetta) e invece una morbosa e contrastata vita sentimentale, che viene guarda caso condizionata proprio dalle decisioni della Regina: spedire il suo amato Roberto in Irlanda e metterla in moglie al fido Nottingham. La poverina non vede proprio vie d’uscita alla sua condizione (Io vivendo ognor morrò... ci racconta chiudendo la sua triste romanza di presentazione) e il corso dell’opera altro non farà che confermare, passo dopo passo, questa nichilistica prospettiva.

Nottingham è (ma solo a prima vista) il classico uomo tutto d’un pezzo: fedeltà assoluta alla Regina e fraterna amicizia per il coetaneo Roberto; rapporto quest’ultimo che viene fatalmente ad incrinarsi e poi a spezzarsi a causa della condivisione forzata di Sara, che lui ama per dovere convenzionale, mentre lei ha il cuore – anche se non il corpo, stando a Cammarano! - tutto per Roberto. Però alla scoperta della sciarpa di Sara finita in mano a Elisabetta il suo comportamento è proprio da gran paraculo: sfrutta l’incidente e la sua conoscenza del legame affettivo della Regina per Roberto al fine di convincere Elisabetta a mandare l’ex-amico al patibolo, ma noi sappiamo bene che in realtà lui vuol vendicarsi di Roberto poichè si sente da questi cornificato (in via platonica o materiale). Alla fine, scoperti inevitabilmente tutti gli altarini, i coniugi Nottingham vengono meritatamente accomunati dal pollice-verso della Regina, ma francamente chi ci perde di più, diciamolo pure, è la povera Sara, l’unica vittima davvero innocente di tutto il dramma.

Infine Roberto, che dà il titolo all’opera, è forse il personaggio più indecifrabile e non proprio cristallino: fatto oggetto delle attenzioni della babbiona Regina, sembra fingere una certa condiscendenza – ma ogni volta che Elisabetta tocca il tasto del sentimento, lui risponde con quello della fedeltà istituzionale! – solo per trarne vantaggi politici, mentre in realtà i suoi pensieri (e... altro?) vanno alla giovane Sara. Il che lo mette però in una situazione insostenibile, una dissociazione schizofrenica che lo porta dritto al patibolo, pur con le attenuanti della sfiga (Sara impedita dal restituire in tempo il salvifico anello ad Elisabetta).

Ecco, a mo’ di passatempo possiamo provare ad immaginarci come sarebbe mutato il finale nel caso di tempestivo arrivo dell’anello; qui avremmo almeno due possibili sviluppi: Elisabetta resta fedele al suo recente proposito (Vivi, ingrato, a lei d’accanto) e così fa giustiziare Nottingham e consente a Roberto e Sara di coronare il loro sogno d’amore; o viceversa, toglie di mezzo i due Nottingham e così può vivere felice e contenta con il suo Robertino, hahaha!
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Sul piano musicale forse non si toccano i vertici della Lucia, ma non v’è dubbio che l’opera sia uno scrigno di tesori, a partire dalla splendida appropriatezza della scolpitura in suoni della personalità dei quattro principali protagonisti. Non mancano nemmeno omaggi alla più alta tradizione, come testimonia la scena di Roberto nella prigione, che par proprio una versione, diciamo così, à la bergamasque, di quella che apre con Florestan il second’atto di Fidelio.

Mariella Devia è stata -  c‘era forse da dubitarne? - la grande trionfatrice della recita: alle qualità artistiche aggiunge qui anche la perfetta adeguatezza all’età della protagonista: 68 anni! E portati canoramente assai bene, al contrario di quanto accadde qui (2 anni fa) alla inossidabile Edita Gruberova, pure cimentatasi a 68 anni nella stessa parte con risultati – ahilei e ahinoi - purtroppo deprimenti. Il (pur esteticamente discutibile, e non prescritto da Donizetti) RE sovracuto conclusivo è stato il diamante sonoro posto su una ideale corona regale di cui la Mariella ha tutto il diritto di fregiarsi.

Prestazione di buon livello quella di Sonia Ganassi, alle prese con una parte non proibitiva, ma sostenuta con la grande professionalità che contraddistingue da sempre il mezzosoprano emiliano. In particolare citerei per efficacia il duetto con Roberto che chiude il primo atto.

Eccoci appunto al protagonista che dà il nome al titolo: Stefan Pop. Il peso-massimo (ma non gli auguro di raggiungere... Enrico VIII!) rumeno non ha ancora 30 anni, ma la voce è a dir poco sontuosa. Certo, sono i proverbiali 1000 cavalli da mettere a terra, come si usa dire in F1, e il buon Stefan dovrà ancora lavorare parecchio per ottenere un rendimento di eccellenza. In particolare sul versante dell’espressione, che talvolta fa le spese della stessa invadenza della voce. Nella cabaletta finale (che pure il pubblico ha accolto con ovazioni) il nostro si è lasciato prendere da eccessiva foga, accentuando in modo (per i  miei gusti) eccessivo la puntatura del tema, ottenendo effetti da... operetta, ecco.

Nottingham – come annunciato da un foglietto inserito nel programma di sala, ma non dall’altoparlante – era Mansoo Kim, che ha anticipato il cambio a Marco Di Felice. Il baritono coreano si è portato assai bene, già dalla cavatina del prim’atto: la voce è abbastanza solida e... promette bene, diciamo.

Più che positivi Alessandro Fantoni (lo sbifido Cecil) e Claudio Ottino (Gualtiero). Il coro di Pablo Assante ha assolto dignitosamente il suo compito: che non è quantitativamente impegnativo, ma ciò che conta è la qualità della prestazione.

Che dire di Francesco Lanzillotta? Il giovane romano, che ha fatto gavetta più all’estero che in Italia, ha indubbie qualità e merita incoraggiamento: ha le carte in regola per aggiungersi al gruppetto dei giovani direttori italiani, che comprende Mariotti, Bignamini, Beltrami, Rustioni, D’Espinosa...
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Due note sull’allestimento del baritono Alfonso Antoniozzi. Con i tempi che corrono, c’è sempre da fare i complimenti ai registi che ti mostrano precisamente il soggetto dell’opera così come esce da libretto e partitura, risparmiandoti cervellotiche ambientazioni, che so, nella sede di una cupola mafiosa o nel board di una multinazionale quotata a WallStreet. Ecco, qui a Genova si assiste proprio alla vicenda narrata nel libretto. Magari senza troppi orpelli inutili o pacchiani; le scene di Monica Manganelli sono semplici ed essenziali (una piattaforma sopraelevata di qualche gradino dal palco, dove si svolge l’azione) e in più funzionali ai mutamenti d’ambiente, ottenuti spostando pannelli costituiti da grate, che supportano trono, scranni, celle carcerarie, e lasciano sempre intravedere ciò che sta dietro (poichè a corte si spia e si trama). Ambientazione scura, come si addice al soggetto che pochissimo spazio lascia a luce e serenità.

I costumi di Gianluca Falaschi sono allo stesso tempo fedeli a quanto i dipinti d’epoca ci tramandano e di una ricchezza davvero sontuosa! Assai efficaci le luci di Luciano Novelli, che mettono di volta in volta in risalto i movimenti dei personaggi e delle masse.  

Il malsano ambiente di corte è didascalicamente rappresentato dalle maschere indossate dalle masse e dalla presenza di giullari: come dire che la corte è tutta una pagliacciata? I movimenti di tutti sono sempre piuttosto lenti e ieratici (del resto nel libretto c’è assai poca azione) ma assai appropriati alle diverse psicologie dei protagonisti.
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Come detto, accoglienza calorosissima per tutti e trionfo-nel-trionfo per la grande Mariella. Che a questo punto aspettiamo ancora a Genova per il previsto completamento della trilogia.  

13 marzo, 2016

I fratelli Foscari alla Scala

 

In barba alla storia, al dramma di Byron e al soggetto di Piave, I due Foscari in scena alla Scala (ieri la quinta delle nove recite) non sono padre e figlio, ma fratelli. Sì, proprio come un certo Boccanegra era fratello di Maria-Amelia e un tale Rigoletto era fratello di Gilda. Insomma, avete già capito: uno come il topone proprio nei panni di un vecchio padre non ci può entrare; e mica per la sua età (se è per quella, potrebbe benissimo fare anche il... nonno) ma per via di una voce che neanche a martellate riesce a rientrare nel minimo sindacale del baritono tout-court, non dico in quello del baritono verdiano, ecco.  

Paradossalmente, le grandi qualità attoriali di Domingo, emerse magnificamente anche in questa occasione, invece di costituire un argine all’estraneità della voce rispetto al ruolo, la mettono ancor più in risalto! Comunque proprio ieri l’equivoco si è risolto: per le quattro recite che restano arriverà infatti un baritono standard (no-Rolex). Certo che in fatto di deontologia professionale il simpatico topone lascia parecchio a desiderare; e con lui tutto l’entourage che gli permette di esibire (lucrandoci!) tale discutibile deontologia. E così di questo passo accetteremo che un soprano lirico un po’ invecchiato ma ben reclamizzato canti Azucena o – nello strumentale – che il concerto per violoncello di Dvorak lo suoni un violinista con l’accordatura a 256!

Peccato perchè per il resto devo dire che la prestazione musicale complessiva mi è parsa di livello notevole, grazie alla convincente direzione di Michele Mariotti, sempre più sicuro anche quando va in trasferta da Pesaro a Roncole, alla buona prestazione dell’orchestra e alle voci di Francesco Meli (che conferma il successo dell’inaugurale Giovanna) e di Anna Pirozzi, una Lucrezia contestata (da pochi, pare) alla prima, ma che a me è parsa decisamente all’altezza: la voce è davvero notevole (per timbro, calore, morbidezza) e la tecnica sarà ancora un poco acerba, ma è già di livello più che apprezzabile. A ciò va aggiunta la prova più che dignitosa del coro di Mario Casoni (peraltro impegnato qui da Verdi in modo non proibitivo) e quella onesta degli altri comprimari.

Insomma, dopo la positiva apertura con Giovanna, ecco un altro Verdi carcerato che ha avuto la sua meritata... scarcerazione!     
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Quanto all’allestimento, devo dire che Alvis Hermanis ha fatto molti meno danni di quanti ne avesse combinati una anno fa con Die Soldaten, il che è già una buona notizia... ma non basta a giustificare la parcella. Si dice che per prepararsi adeguatamente abbia trascorso un periodo di ambientamento a Venezia: mah, visti i risultati, forse wikipedia gli sarebbe bastato ed avanzato! Al proposito, tale Olivier Lexa, di professione drammaturgo (in parole povere: un peso morto che noi paghiamo profumatamente per proporci aria fritta!) ci racconta sul programma di sala la genesi e i razionali (?!) dell’allestimento di Hermanis. Mi ha fatto sbellicare una sua sentenza, che cito alla lettera, a proposito del testo di Piave: uno dei rari libretti d’opera che possono facilmente vivere privi della musica (!!!)   

A proposito del programma di sala: quello della Scala detiene tradizionalmente il record assoluto in fatto di price/performance, roba da chiodi. E che il price della carta patinata sia prevalentemente pagato dalla pubblicità delle varie BMW e ROLEX (toh, la pagina 4 di copertina tutta dedicata al topone!) non è attenuante valida. In questo numero, tanto per fare un esempio di quanta poca cura vi sia alla correttezza dei contenuti, viene contrabbandato (pag.95) come opera del Carpaccio dal titolo Il miracolo della croce a Rialto un quadro che è invece Il miracolo della croce caduta nel canale San Lorenzo del Bellini (quello del Carpaccio è presentato poi a pag.99).

Tornando a Hermanis(-Lexa) veniamo a sapere che i 10 danzatori che scorrazzano spesso e volentieri in giro per il palcoscenico rappresenterebbero, ohibò, i Senatori del Consiglio dei Dieci. Ma che tali figuri siano dei pipistrelli ce lo dice la musica di Verdi (sul testo di Piave) senza bisogno di ridicoli balletti didascalici...

Le scene sono scarne e minimaliste, velleitariamente impreziosite da proiezioni di scorci veneziani, da diapositive di quadri d’epoca o ridicolmente abitate da branchi di leoni-di-sanmarco di cartapesta (sempre in numero di 10, quanti i Senatori-danzatori, ovvio); nel finale compare anche un letto a baldacchino – su cui si accascerà morto il Doge - che ci sta come i cavoli a merenda; i costumi sono ricchi e plausibilmente riferibili all’epoca quattrocentesca in cui è ambientata la vicenda; nulla di speciale nell’impiego delle luci.

Del tutto prevedibili e tradizionali i movimenti dei personaggi, esclusi i danzatori intrusi (sempre i soliti 10 che da gondolieri si portano anche dietro il proprio remo palo per la pole-dance!) un vezzo registico che sta peraltro facendo il suo tempo; i protagonisti sembrano liberi di cantare posando come piace a loro, e in ciò Domingo ovviamente primeggia, gli altri fanno del loro meglio.

Insomma, una regìa che non fa danni (e questo oggigiorno non è da poco) allo spettacolo, mentre sicuramente ne fa alle casse del Teatro (quindi: alle nostre tasche) chè la stessa performance si potrebbe verosimilmente ottenere con un price ridotto del 70% almeno...
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Alla fine grandissimo trionfo per tutti, incluso e per primo Domingo (che per me invece resta l’unica nota stonata, se vogliamo parlare di teatro con l’attributo musicale...) con ripetute chiamate e ovazioni da parte di un pubblico che ha finalmente gremito il Piermarini in ogni ordine di posti.

Dopo le tre prime prove, devo ammettere che questa stagione 15-16 mi pare di livello chiaramente migliore di quelle che l’hanno preceduta: che sia solo e tutto merito della nuova accoppiata sovrintendente-direttore non saprei dire... spero solo che continui così! 

12 marzo, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°10


Riecco Tito Ceccherini (stavolta da titolare) nel decimo concerto della stagione 2016, tutto dedicato all’Italia (emigrati inclusi...) L’impaginazione prevede di incastonare due concerti per violino (Busoni e Malipiero-1, protagonista Domenico Nordio) fra due - i più eseguiti - dei tre poemi sinfonici romani di Respighi. Quanto alle date, si esplorano 35 anni, che separano il Busoni tardo-romantico di fine ‘800 - passando per il Respighi a cavallo della Grande Guerra (1916-1924) - dal Malipiero in pieno fascismo (1932).     

Si parte con Fontane di Roma, in cui subito appare nei secondi violini (ad introdurre il tema debussyano negli oboi) una vaga reminiscenza mahleriana: sono le prime battute di Der Einsame im Herbst, ambientato, guarda caso, nei pressi di un laghetto, di cui si ode il lento sciacquìo, che rimanda al tenue sgocciolare della fontana di Valle Giulia. Seguono due sezioni mosse, con lo squarcio di luce del sole che inonda il Tritone di prima mattina (qui fa capolino Sheherazade del grande Rimski, maestro di Respighi) e poi la fantasmagoria di zampilli e cascatelle di Trevi. Si chiude con il tramonto di Villa Medici, languido quanto lo specchio d'acqua della circolare fontana, e scandito dai 29 (!) rintocchi della campana. 

Come sempre impeccabile l’orchestra, dalla quale Ceccherini sa cavar fuori le appropriate sonorità, in particolare dai timbri di legni, arpa e tastiere (celesta, organo, pianoforte) per questo brano di grande raffinatezza impressionista.
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La parte centrale del concerto è dedicata a due opere per violino solista. Ceccherini e Nordio rifanno coppia in Auditorium - lo sono spesso in Svizzera - dopo nemmeno un anno (lo scorso maggio si erano esibiti in Bartók). Nordio prosegue da parte sua l’esplorazione del repertorio italiano, dopo che nel 2012 ci aveva proposto Castelnuovo-Tedesco.

Oggi: Busoni e Malipiero, due compositori che hanno molti aspetti in comune, ma altrettanti, se non di più, che li differenziano radicalmente. Il mai abbastanza compianto Sergio Sablich ci ha lasciato al proposito un acutissimo scritto, che mette in risalto la complessità del rapporto fra i due musicisti.  

Il Concerto di Busoni fu presentato l’8 ottobre 1897 alla Singakademie Berlin, con l’Autore sul podio alla guida dei Berliner Philharmoniker, solista Henri Petri, dedicatario dell’opera. Il concerto, che fu bollato da un critico berlinese come abbastanza scialbo e scarso di contenuti (!) da allora ha invece avuto un discreto successo presso i principali interpreti: qui una storica interpretazione (1936) del grande Adolf Busch con Bruno Walter, al Concertgebouw.

Busoni, trentenne alla data della composizione, si muove ancora nell’800, come mostrano reminiscenze di Beethoven, Brahms e persino di Bruch, ma al contempo cerca un po’ velleitariamente di innovare: la struttura è più vicina a quella di una fantasia dove i motivi si susseguono ma senza svilupparsi, nè interagire (quindi: niente forma-sonata); le sezioni (movimenti?) sono tre, caratterizzate da tempi diversi, ma tra loro concatenate (tipo Mendelssohn e Bruch). In definitiva l’impressione che se ne trae è di qualcosa di indecifrabile: al confronto il concerto di Sibelius, sfornato quasi 8 anni dopo a ‘900 ormai inoltrato, avrà un successo largamente superiore, proprio per la sua caratteristica di rifarsi esplicitamente (e assai prudentemente) alla tradizione ottocentesca, senza pretese di innovare, non dico stravolgere, alcunchè.
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Proviamo a decifrare quest’opera piuttosto fuori dagli schemi, seguendone la citata interpretazione di Busch-Walter.

L’inizio dell’Allegro moderato è di pretta marca beethoveniana: su un RE all’unisono di tutti gli archi, i legni e i corni presentano subito (4”) un primo tema cantabile (tema-a, che tornerà anche nelle altre due sezioni del concerto, conferendogli quindi una caratteristica di ciclicità) che si chiude con tre quarte e una quinta discendenti dei clarinetti e poi si spegne rapidamente sulla sottodominante per far posto all’entrata del solista (27”) che per ora si limita a sciorinare virtuosismi, con ondeggiamenti di crome e poi semicrome, accompagnato quasi soltanto da rulli di timpano, finchè il fagotto prima (56”) quindi i clarinetti (1’04”) ancora fagotto e corni (1’10”) ne contrappuntano le evoluzioni con un motivo (tema-b) costituito da una scala ascendente che copre un’intera ottava (rispettivamente di DO, FA# e LA, sfociando un semitono più in alto) e che tornerà nel seguito.

Finalmente il solista, dopo una sospensione di sapore brahmsiano in corona puntata sulla sensibile DO#, espone a sua volta (1’26”) il tema-a, successivamente reiterato (1’51”) con sviluppo di virtuosismi e sfociante (2’02”) in una plateale perorazione cadenzante dell’orchestra. Subito il solista (2’05”) si imbarca in virtuosismi sopra il tema-b esposto (sul RE) da fagotto e viole, poi ancora (sul LA) da fagotti e clarinetti, fino ad arrivare ad una nuova feroce esternazione dell’orchestra (2’25”) che richiama le quarte discendenti del tema-a.

Il violino (2’31”, tranquillo) riprende i suoi virtuosismi accompagnato con discrezione da oboi e poi corni (che ripetono la cadenza di poco prima) e clarinetti e corni, per giungere (2’59”, più moderato) ad un passaggio dei fiati che paiono anticipare un nuovo tema, per ora solo accennato (ricorda qui l’Italiana di Mendelssohn) e subito interrotto (3’05”, allegro) dal solista, sempre più ostinato e scalpitante finchè non si acqueta (3’30”, quasi adagio) per esporre in ottave in corda doppia (sul SOL#) il tema-b e quindi ancora adagiarsi su trilli di DO#.

Ora (4’03”, Tempo I) i fiati espongono compiutamente il nuovo tema (tema-c) che il solista ancora accompagna con i suoi svolazzi di semicrome, fino ad arrivare (4’23”) ad un fortissimo a piena orchestra, sul quale corni e tromboni reiterano pomposamente (sul LA) il tema-b, chiudendolo (4’27”) con uno schianto di settima diminuita dal quale il solista si lancia in un’ennesima volata di semicrome, prima staccate, poi in corda doppia. Su esse intervengono (4’34”) i corni e gli archi bassi con l’incipit del tema-c, quindi tutti si incaponiscono in una pesante cadenza, che sfocia (4’57”, Gemessen, mit Humor) invece che nel canonico sviluppo e poi ripresa, in una sorprendente e bizzarra sezione che si potrebbe plausibilmente interpretare come la lunga coda del primo movimento del concerto.

Il solista espone un nuovo, spigliato motivo in LA maggiore e poi dialoga con l’orchestra su un ostinato ritmo marziale degli archi in pizzicato, poi (5’25”, Scherzoso) tutti si sbizzarriscono in trilli e note staccate, quindi è ancora il solista a trascinare l’orchestra animando sempre più, finchè su un suo MI acuto in trillo le trombe (6’04”) espongono per l’ennesima volta e con grande luminosità (sul MI) il tema–b. Qui si innesta la perorazione finale (sulla dominante LA maggiore) della sola orchestra, enfatica e magniloquente, che si spegne però (6’27”) su una cadenza sommessa in continuo ritardando, in cui si riaffacciano le quarte e quinta discendenti del tema-a, e che porta direttamente ad un tempo quasi andante sul quale di fatto ha inizio la sezione centrale (o movimento lento, se così si preferisce) del concerto.

I contrabbassi (6’59”) la aprono, subito dopo affiancati dai celli, in un cupo DO minore, sul quale si ode (7’14”) un richiamo della tromba (SOL-DO); poi, dopo un altro richiamo di corno e tromboni, ecco l’oboe (7’42”) che canta la sua melopea, sempre in DO minore, insieme ai clarinetti. Sembra affacciarsi (8’14”) il DO maggiore nei corni, ma il solista (8’17”) entra per esporre il suo languido motivo in FA maggiore, che però (8’43”) vira a DO maggiore e poco dopo, con un’ulteriore modulazione a SOL maggiore (8’52”) ci porta ad una chiara reminiscenza di Bruch (tema in MIb maggiore – poi DO maggiore - dell’Adagio del celebre concerto op.26). La melodia del violino si estende ancora largamente con successive increspature e modula più volte, fino a morire sul RE maggiore (10’16”).

Qui il tempo accelera a Poco agitato e sul tremolo di RE di primi violini e viole il solista in corda doppia (10’20”) ricorda ancora Bruch (in SOL maggiore). Sono poi gli archi bassi a rimuginare un lugubre motivo sul quale il violino innesta il suo canto appassionato, che sfocia (11’11”, Tempo I) in un prolungato dialogo con i fiati. Il solista poi (11’56”) espone una nuova, lunga melodia in corda doppia in MIb, accompagnato dapprima da fagotti e corni, poi (12’49”) dai clarinetti. Dopo una modulazione a DO maggiore, ecco (13’57”, Più lento) entrare corni e tromboni con un inciso corale, basato sulle prima note del tema-a, con cui il concerto si era aperto, tema il cui incipit infatti ritorna (14’29”) nel violino.

Con il sottofondo dei corni il solista si avvia a concludere, in territorio... beethoveniano: dapprima (14’59”) con una ondeggiante cadenza e poi (15’15”) con una reminiscenza del Larghetto dell’op.61. I tromboni accompagnano con la triade di DO maggiore e un sommesso rullo di timpano la corona puntata del MI sovracuto del violino.

Senza soluzione di continuità attacca (15’48”) il conclusivo Allegro impetuoso, in atmosfera di SI minore che sfocia poi nel RE maggiore d’impianto. Il solista si esibisce, interrotto da brevi incisi di fagotti e archi, in velocissime scale discendenti in semicroma, seguite – contrappuntato dai fiati -  da una scalata di trilli di ben 9 terze maggiori (3 ottave!) dal LA# sotto il rigo al LA# sovracuto, che sfocia poi (16’04”) nel SI, da dove il solista si imbarca in un’agitatissima specie di moto perpetuo (tema-d) che si muove dal SI minore per sfociare (16’51”) sul un fortissimo RE maggiore di tutta l’orchestra, che adesso si esibisce da sola in una cadenza che si chiude (16’59”) con il ritorno del solista.

Il quale espone un nuovo motivo in corda doppia, e quasi subito ricompare nelle viole (17’04”) il tema-a. Ora il violino torna ad esibire grandi volate di semicrome, accompagnato dapprima da note lunghe del clarinetto e poi (17’15”) dal flauto che lo imita una terza sotto. A 17’22” il flauto tace e si ode un richiamo della tromba (lo stesso inciso dell’apertura) ripetuto dal clarinetto, mentre il solista prosegue imperterrito con le sue semicrome, che sostengono (17’29”) veloci terzine ascendenti. Il fagotto lo accompagna, con crome in staccato, con un motivo in MI maggiore - che riprende le quarte discendenti del tema-a, qui esposte proprio con un chiaro sapore mahlerian-titanesco - più volte reiterato, che poi (17’42”) passa ai corni modulando a DO maggiore e poi ancora - mentre il solista torna in corda doppia – passa alla tromba (17’48”) in SI maggiore e infine (17’54”) arriva al DO, enfatico, negli archi.

Dopo che questi hanno emesso quattro proterve strappate, ecco (17’59”) il solista riesporre in SI minore il tema-d, che culmina (18’19”) in una perorazione di corni e trombe cui segue, nel violino (18’25”) un nuovo tema ondeggiante, di languido sapore zingaresco, interrotto dall’orchestra (18’35”) che intercala altre folate del violino e poi riduce la velocità e (18’53”) in tempo Moderato, attacca un ritmo marziale nelle trombe. Ecco quindi - Alla marcia, pomposo umoristico (!) – i legni presentare (19’05”) un nuovo motivo per terze, che sembrerebbe venire da Smetana, la cui conclusione è ripresa poi (19’31”) dal solista in corda doppia.

Il dialogo fra orchestra e violino prosegue, fra velocissime folate del solista ed incisi anche pesanti (20’20”) del pieno strumentale. A 20’32” ha inizio (Più stretto) la forsennata coda del concerto, con il solista che accelera sempre più esponendo un tema eroico fino al Quasi presto (21’05”) e poi (21’25”) al definitivo Più presto, dove tutti ingaggiano una vera e propria rincorsa verso gli schianti conclusivi.
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Splendida davvero l‘esecuzione di Nordio e dell’orchestra: il solista accentua il lato per così dire romantico del brano, con ampio uso di rubato e sonorità che spaziano dall’elegiaco all’eroico; e Ceccherini accentua da parte sua tutti i contrasti che emergono da questa interessante partitura, che meriterebbe forse di essere messa in programma più spesso di quanto non accada.  
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Il primo Concerto per violino di Gian Francesco Malipiero è del 1932 e vide la prima esecuzione ad Amsterdam, Concertgebouw. 

Erano gli anni d’oro (si fa per dire, come del ventennio berlusconiano...) del fascismo e un personaggio in vista come Malipiero non poteva non trovarsi nella scomoda posizione in cui è difficile far convivere le proprie convinzioni progressiste e allo stesso tempo patriottiche con tutti i vincoli che il regime bene o male imponeva. Insomma, una storia di successi e riconoscimenti cui si accompagnarono parecchie (vere o presunte, o millantate) umiliazioni, che per certi versi ricorda quella dello Shostakovich alle prese con lo stalinismo. E il risultato delle (apparenti?) ambiguità degli atteggiamenti di Malipiero verso il fascismo fu di renderlo inviso (cosa che lo addolorò sommamente) anche al CNL di Venezia, che dopo la Liberazione lo accusò senza mezzi termini di connivenza con il regime appena abbattuto.

E proprio il concerto per violino in programma in Auditorium ci presenta un Malipiero che percorre strade altrettanto lontane dalla tradizione romantica (forma-sonata e sviluppi tematici, come il virtuosismo fine a se stesso, erano per lui quasi delle bestemmie) quanto dalle (allora) relativamente recenti conquiste dell’atonalità e della serialità.

Il suo conterraneo Domenico Nordio, che oltre a quello di Castenuovo-Tedesco ha già inciso anche il concerto di Casella, ha mirabilmente colto lo spirito dell’opera, che si muove fra tonalità e modalità arcaiche sulle quali si innestano spunti di assoluta modernità. La forma tripartita è soltanto un involucro che nasconde in realtà un continuo alternarsi di momenti vivaci e di pause di riflessione, quasi una simbiosi di Vivaldi e Monteverdi, i due autori più amati da Malipiero. Nordio in particolare è parso particolarmente coinvolto nel centrale Lento ma non troppo, interpretato quasi con sofferenza fisica.

Grande successo per lui che ci dedica (con Santaniello in veste di gira-pagine) un bis moderno fatto di spettacolari invenzioni virtuosistiche.
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Chiusura in bellezza con Pini di Roma. Introdotti dal corno inglese e dal primo fagotto, con la punteggiatura dei corni, che intonano – a Villa Borghese - la popolaresca Oh quante belle figlie madama Dorè. E non è la sola filastrocca che compare in questo quadro d'apertura; poco dopo ecco infatti un paio di giro-girotondo, il primo introdotto da archi e fiati a canone, il secondo da oboi e clarinetti, che viene ripetuto più volte, fino a sfociare nel lugubre passaggio presso le Catacombe, con il suo sghembo intermezzo in 5/4, pieno di note ribattute.

Nei Pini del Gianicolo, proprio alla fine (ultime 10 battute e mezza) è previsto che canti un usignolo vero: no, non è in gabbia ed in penne ed ossa, oltretutto ci vorrebbe anche l'ammaestratore a corredo, per dargli l'attacco giusto… In partitura è segnato come una registrazione su nastro (ai tempi gli mp3 potevano essere, al massimo, dei moschetti) e invece ieri lo si è udito proprio suonato dal computer.

Nel conclusivo I Pini della via Appia, dopo un lungo assolo del corno inglese, compaiono le sei buccine, specie di enormi unicorni che accompagnavano le marce delle legioni romane. Respighi – che ne prevederà tre anche in Feste Romane - prescrive in partitura dei flicorni (2 soprani, 2 tenori e 2 bassi). Sul martellante ritmo di timpani e gran cassa, sono loro a portare all'enfatico epilogo dell'opera.

Strepitosa la prestazione dei ragazzi, che non fanno rimpiangere esecuzioni ormai storiche, come questa del venerabile Prêtre con i ceciliani.

L’unico neo della serata è costituito dall’affluenza invero scarsa all’Auditorium. Ma mai come in questo caso gli assenti (che hanno ancora domenica pomeriggio per rimediare) hanno avuto torto marcio!

04 marzo, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°9


Un’improvvisa indisposizione di John Axelrod riporta sul podio dell’Auditorium Tito Ceccherini (che tornerà anche la prossima settimana) per dirigere un concerto che mette una vicino all’altra due sinfonie che sono separate da più di 120 anni.

La prima è una delle none composte dopo Beethoven (e poi Schubert, Bruckner, Dvořák, Mahler...): quella di Shostakovich. Il quale, ancora una volta, sorprende tutti con la classica mossa del cavallo, una decisione bizzarra che prende il pubblico in contropiede (e che gli costerà, nel ’48, una seconda scomunica da parte di Ždanov&C, dopo quella terribile del ’36).

Dunque: siamo alla terza sinfonia di guerra, dopo la colossale Leningrado del 1941, una sfida quasi sfrontata ai tedeschi che strangolavano la sua città, e la cupa, sofferta ottava, del 1943 che, a dispetto del promettente decorso del conflitto, sembrava non soltanto piangere su tutti i caduti, ma anche prefigurare tempi bui per il suo popolo, sotto il tallone del baffone georgiano. Siamo adesso nel 1945, la guerra è appena stata gloriosamente vinta e tutti si aspettano (il regime quasi pretende) da Shostakovich una riedizione in grande della nona beethoveniana, con tanto di voci e coro, che celebri adeguatamente la vittoria e le magnifiche sorti e progressive dell’URSS e del suo supremo condottiero.

Che succede invece? Che il compositore, dopo aver finto di obbedire ad attese e pretese, sbozzando nel gennaio del ‘45 un inizio di sinfonia celebrativa (del quale è stato recentemente ritrovato, forse, un eloquente frammento) ecco che pianta tutto in asso e solo il 26 luglio – il giorno stesso della Dichiarazione di Potsdam! – si rimette al lavoro sulla sinfonia, di cui però cambia totalmente programma e direzione, sfornandola in soli 35 giorni! Eh sì, perchè invece dell’atteso e preteso monumento alla vittoria, all’URSS e a Stalin, il nostro ti propina una sinfonietta che pare la classica dell’amico Prokofiev! Dico, una cosa che guarda a Haydn e dura meno di mezz’ora (a dispetto dei 5 movimenti!) e che più che una celebrazione ne sembra proprio una parodia... Qui il grande Lenny ce la introduce con la sua proverbiale carica emotiva, dopodichè lo possiamo vedere all’opera, con i Wiener.

Nella sua (peraltro discussa e pure contestata) biografia del compositore, Salomon Volkov riporta un’esternazione di Shostakovich, che si sarebbe convinto a rinunciare alla grande sinfonia commemorativa perchè proprio non sopportava l’idea che poi il regime se ne appropriasse per trasformarla in un panegirico per il dittatore. Così, per non rinunciare alla sua nona, avrebbe buttato giù di getto questa cosuccia (apparentemente?) disimpegnata.

Come ha ricordato Bernstein, nell’iniziale Allegro (che è in MIb e precisamente in forma-sonata, con tanto di da-capo dell’esposizione bitematica) il secondo tema, in SIb, è punteggiato da tre proterve irruzioni del trombone che declama una quarta ascendente (FA-SIb) proprio come a volerne imporre a tutti i costi la tonalità: e qualcuno ci ha visto proprio Stalin, nell’atto di ordinare autoritariamente il passaggio alla... dominante (!) Sempre Bernstein ci fa notare come, nella ricapitolazione, il trombone ripeta quella figurazione per ben 6 volte, prima di ottenere dall’orchestra il passaggio al secondo tema! Ma non è tutto, poichè la tonalità di questo passaggio non è, come vorrebbero i sacri canoni, la tonica MIb, bensì un LAb, la sotto... dominante (!)

Poi ecco il Moderato, il movimento più lungo (passa i 9 minuti) una delicata elegia di clarinetto e flauto, interrotta dagli archi e corni che attaccano una specie di valse triste (così Bernstein). Dopo un ritorno di flauto e clarinetto si va verso la cadenza finale dell’ottavino, di stampo decisamente mahleriano.

Nella chiusura dello spiritato Presto (e quindi in vista del successivo dolente Largo) abbiamo un improvviso cedimento del tempo, e violini-violoncelli espongono un inciso che pare proprio una reminiscenza di Wir arme Leut dal Wozzeck!



C’è qui tutta la pessimistica visione di Shostakovich sull’inevitabile destino della sua gente, cui la vittoria nella guerra, che si sta celebrando festosamente, non porterà purtroppo alcun sol dell’avvenir...               

Proprio nel Largo Bernstein individua le due risposte del fagotto alle pesanti perorazioni degli ottoni gravi (le sollecitazioni al compositore a sfornare la nona patriottica?) come citazioni da due none famose. La prima è quella di Beethoven: quarta discendente FA-DO dal recitativo del Finale, battuta 56, archi bassi:



La seconda è quella di Mahler: finale, battuta 12:

 
Ma il compositore per tutta risposta ingaggia il fagotto per far partire spiritosamente l’Allegretto conclusivo, che è tutto tranne che eroico: un vero e proprio sberleffo alla retorica e alla prosopopea del regime. 
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Apprezzabile l’esecuzione dei ragazzi, guidati da Dellingshausen, con qualche più o meno piccola défaillance, come l’evidente calata dell’ottavino sull'interminabile FA# alla conclusione del Moderato.   
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Dopo questo semiserio brano sovietico, ecco la pastorale per eccellenza. Ogni volta risentirla è un piacere del corpo e dello spirito, anche quando l’esecuzione non è delle più straordinarie: ieri Ceccherini (che ha certo l’attenuante della chiamata improvvisa) mi è parso un tantino monocorde nelle dinamiche, per cui il FA maggiore che monopolizza l’intera sinfonia ha finito per renderla fin troppo... mielosa, ecco.      

A creare un diversivo inaspettato ci ha pensato (proprio nella pausa fra l’Andante - al ruscello - e l’Allegro - festa di contadini) una graziosa musichetta proveniente da uno smartphone (ma quanto sono intelligenti, i telefoni di oggi!) Nulla di più normale, si direbbe. Mah, il curioso è che questa volta il ringtone proveniva dal palco (!!!)