Riecco Tito Ceccherini (stavolta da titolare)
nel decimo concerto della stagione 2016, tutto dedicato
all’Italia (emigrati inclusi...) L’impaginazione prevede di incastonare due
concerti per violino (Busoni e Malipiero-1, protagonista Domenico Nordio) fra due - i più eseguiti - dei tre poemi sinfonici
romani di Respighi. Quanto alle date,
si esplorano 35 anni, che separano il Busoni tardo-romantico di fine ‘800 -
passando per il Respighi a cavallo della Grande Guerra (1916-1924) - dal
Malipiero in pieno fascismo (1932).
Si parte con Fontane di Roma, in cui subito appare nei secondi violini (ad introdurre il
tema debussyano negli
oboi) una vaga reminiscenza mahleriana: sono
le prime battute di Der Einsame
im Herbst, ambientato, guarda caso, nei pressi di un laghetto, di cui si
ode il lento sciacquìo, che rimanda al tenue sgocciolare della fontana di Valle Giulia. Seguono due sezioni mosse,
con lo squarcio di luce del sole che inonda il Tritone di prima mattina (qui fa capolino Sheherazade
del grande Rimski, maestro di Respighi) e poi la fantasmagoria di zampilli e
cascatelle di Trevi. Si chiude con il
tramonto di Villa Medici, languido
quanto lo specchio d'acqua della circolare fontana, e scandito dai 29 (!) rintocchi
della campana.
Come sempre impeccabile l’orchestra, dalla quale Ceccherini sa
cavar fuori le appropriate sonorità, in particolare dai timbri di legni, arpa e
tastiere (celesta, organo, pianoforte) per questo brano di grande raffinatezza
impressionista.
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La parte centrale del concerto è
dedicata a due opere per violino solista. Ceccherini e Nordio rifanno coppia in
Auditorium - lo sono spesso in Svizzera - dopo nemmeno un anno (lo scorso
maggio si erano esibiti in Bartók). Nordio prosegue da parte sua
l’esplorazione del repertorio italiano, dopo che nel 2012 ci aveva proposto
Castelnuovo-Tedesco.
Oggi: Busoni e Malipiero, due compositori che
hanno molti aspetti in comune, ma altrettanti, se non di più, che li
differenziano radicalmente. Il mai abbastanza compianto Sergio Sablich ci ha lasciato al proposito un acutissimo scritto, che mette in
risalto la complessità del rapporto fra i due musicisti.
Il Concerto di Busoni fu presentato l’8
ottobre 1897 alla Singakademie Berlin, con l’Autore sul podio alla guida dei
Berliner Philharmoniker, solista Henri
Petri, dedicatario dell’opera. Il concerto, che fu bollato da un critico berlinese
come abbastanza scialbo e scarso di contenuti (!) da allora ha
invece avuto un discreto successo presso i principali interpreti: qui una
storica interpretazione (1936) del grande Adolf Busch con Bruno Walter, al Concertgebouw.
Busoni, trentenne alla data della
composizione, si muove ancora nell’800, come mostrano reminiscenze di
Beethoven, Brahms e persino di Bruch, ma al contempo cerca un po’
velleitariamente di innovare: la struttura è più vicina a quella di una fantasia dove i motivi si susseguono ma
senza svilupparsi, nè interagire (quindi: niente forma-sonata); le sezioni (movimenti?) sono tre, caratterizzate da
tempi diversi, ma tra loro concatenate (tipo Mendelssohn e Bruch). In
definitiva l’impressione che se ne trae è di qualcosa di indecifrabile: al
confronto il concerto di Sibelius,
sfornato quasi 8 anni dopo a ‘900 ormai inoltrato, avrà un successo largamente
superiore, proprio per la sua caratteristica di rifarsi esplicitamente (e assai
prudentemente) alla tradizione ottocentesca, senza pretese di innovare, non
dico stravolgere, alcunchè.
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Proviamo a decifrare quest’opera
piuttosto fuori dagli schemi, seguendone la citata interpretazione di
Busch-Walter.
L’inizio dell’Allegro moderato è di pretta marca
beethoveniana: su un RE all’unisono di tutti gli archi, i legni e i corni
presentano subito (4”) un primo tema cantabile (tema-a, che tornerà anche nelle altre due sezioni del concerto,
conferendogli quindi una caratteristica di ciclicità)
che si chiude con tre quarte e una quinta discendenti dei clarinetti e poi si
spegne rapidamente sulla sottodominante per far posto all’entrata del solista (27”)
che per ora si limita a sciorinare virtuosismi, con ondeggiamenti di crome e
poi semicrome, accompagnato quasi soltanto da rulli di timpano, finchè il
fagotto prima (56”) quindi i clarinetti (1’04”) ancora fagotto e corni (1’10”)
ne contrappuntano le evoluzioni con un motivo (tema-b) costituito da una scala ascendente che copre un’intera
ottava (rispettivamente di DO, FA# e LA, sfociando un semitono più in alto) e
che tornerà nel seguito.
Finalmente il solista, dopo una
sospensione di sapore brahmsiano in corona puntata sulla sensibile DO#, espone a sua volta (1’26”) il tema-a, successivamente reiterato (1’51”)
con sviluppo di virtuosismi e sfociante (2’02”) in una plateale perorazione cadenzante
dell’orchestra. Subito il solista (2’05”) si imbarca in virtuosismi
sopra il tema-b esposto (sul RE) da
fagotto e viole, poi ancora (sul LA) da fagotti e clarinetti, fino ad arrivare
ad una nuova feroce esternazione dell’orchestra (2’25”) che richiama le
quarte discendenti del tema-a.
Il violino (2’31”, tranquillo) riprende i suoi virtuosismi
accompagnato con discrezione da oboi e poi corni (che ripetono la cadenza di
poco prima) e clarinetti e corni, per giungere (2’59”, più moderato) ad un passaggio dei fiati
che paiono anticipare un nuovo tema, per ora solo accennato (ricorda qui l’Italiana di Mendelssohn) e subito
interrotto (3’05”, allegro) dal
solista, sempre più ostinato e scalpitante finchè non si acqueta (3’30”,
quasi adagio) per esporre in ottave
in corda doppia (sul SOL#) il tema-b
e quindi ancora adagiarsi su trilli di DO#.
Ora (4’03”, Tempo I) i fiati espongono compiutamente
il nuovo tema (tema-c) che il solista
ancora accompagna con i suoi svolazzi di semicrome, fino ad arrivare (4’23”)
ad un fortissimo a piena orchestra,
sul quale corni e tromboni reiterano pomposamente (sul LA) il tema-b, chiudendolo (4’27”)
con uno schianto di settima diminuita dal quale il solista si lancia in
un’ennesima volata di semicrome, prima staccate, poi in corda doppia. Su esse
intervengono (4’34”) i corni e gli archi bassi con l’incipit del tema-c, quindi tutti si incaponiscono in
una pesante cadenza, che sfocia (4’57”, Gemessen, mit Humor) invece che nel canonico sviluppo e poi ripresa,
in una sorprendente e bizzarra sezione che si potrebbe plausibilmente
interpretare come la lunga coda del
primo movimento del concerto.
Il solista espone un nuovo,
spigliato motivo in LA maggiore e poi dialoga con l’orchestra su un ostinato
ritmo marziale degli archi in pizzicato, poi (5’25”, Scherzoso) tutti si sbizzarriscono in
trilli e note staccate, quindi è ancora il solista a trascinare l’orchestra animando sempre più, finchè su un suo MI
acuto in trillo le trombe (6’04”) espongono per l’ennesima
volta e con grande luminosità (sul MI) il tema–b.
Qui si innesta la perorazione finale (sulla dominante LA maggiore) della sola
orchestra, enfatica e magniloquente, che si spegne però (6’27”) su una cadenza
sommessa in continuo ritardando, in
cui si riaffacciano le quarte e quinta discendenti del tema-a, e che porta direttamente ad un tempo quasi andante sul quale di fatto ha inizio la sezione centrale (o movimento
lento, se così si preferisce) del concerto.
I contrabbassi (6’59”)
la aprono, subito dopo affiancati dai celli, in un cupo DO minore, sul quale si
ode (7’14”)
un richiamo della tromba (SOL-DO); poi, dopo un altro richiamo di corno e
tromboni, ecco l’oboe (7’42”) che canta la sua melopea,
sempre in DO minore, insieme ai clarinetti. Sembra affacciarsi (8’14”)
il DO maggiore nei corni, ma il solista (8’17”) entra per esporre il suo
languido motivo in FA maggiore, che però (8’43”) vira a DO maggiore e poco
dopo, con un’ulteriore modulazione a SOL maggiore (8’52”) ci porta ad una
chiara reminiscenza di Bruch (tema in MIb maggiore – poi DO maggiore - dell’Adagio del celebre concerto op.26). La
melodia del violino si estende ancora largamente con successive increspature e
modula più volte, fino a morire sul RE maggiore (10’16”).
Qui il tempo accelera a Poco agitato e sul tremolo di RE di
primi violini e viole il solista in corda doppia (10’20”) ricorda ancora
Bruch (in SOL maggiore). Sono poi gli archi bassi a rimuginare un lugubre
motivo sul quale il violino innesta il suo canto appassionato, che sfocia (11’11”,
Tempo I) in un prolungato dialogo con
i fiati. Il solista poi (11’56”) espone una nuova, lunga
melodia in corda doppia in MIb, accompagnato dapprima da fagotti e corni, poi (12’49”)
dai clarinetti. Dopo una modulazione a DO maggiore, ecco (13’57”, Più lento) entrare corni e tromboni con
un inciso corale, basato sulle prima
note del tema-a, con cui il concerto
si era aperto, tema il cui incipit infatti ritorna (14’29”) nel violino.
Con il sottofondo dei corni il
solista si avvia a concludere, in territorio... beethoveniano: dapprima (14’59”)
con una ondeggiante cadenza e poi (15’15”) con una reminiscenza del Larghetto dell’op.61. I tromboni
accompagnano con la triade di DO maggiore e un sommesso rullo di timpano la
corona puntata del MI sovracuto del violino.
Senza soluzione di continuità attacca (15’48”) il conclusivo Allegro impetuoso, in atmosfera di SI
minore che sfocia poi nel RE maggiore d’impianto. Il solista si esibisce,
interrotto da brevi incisi di fagotti e archi, in velocissime scale discendenti
in semicroma, seguite – contrappuntato dai fiati - da una scalata di trilli di ben 9 terze maggiori (3 ottave!) dal LA# sotto
il rigo al LA# sovracuto, che sfocia poi (16’04”) nel SI, da dove il solista
si imbarca in un’agitatissima specie di moto perpetuo (tema-d) che si muove dal SI minore per sfociare (16’51”)
sul un fortissimo RE maggiore di tutta l’orchestra, che adesso si esibisce da
sola in una cadenza che si chiude (16’59”) con il ritorno del solista.
Il quale espone un nuovo motivo
in corda doppia, e quasi subito ricompare nelle viole (17’04”) il tema-a. Ora il violino torna ad esibire
grandi volate di semicrome, accompagnato dapprima da note lunghe del clarinetto
e poi (17’15”) dal flauto che lo imita una terza sotto. A 17’22” il flauto tace e si ode un
richiamo della tromba (lo stesso inciso dell’apertura) ripetuto dal clarinetto,
mentre il solista prosegue imperterrito con le sue semicrome, che sostengono (17’29”)
veloci terzine ascendenti. Il fagotto lo accompagna, con crome in staccato, con
un motivo in MI maggiore - che riprende le quarte discendenti del tema-a, qui esposte proprio con un chiaro
sapore mahlerian-titanesco - più
volte reiterato, che poi (17’42”) passa ai corni modulando a
DO maggiore e poi ancora - mentre il solista torna in corda doppia – passa alla
tromba (17’48”) in SI maggiore e infine (17’54”) arriva al DO,
enfatico, negli archi.
Dopo che questi hanno emesso
quattro proterve strappate, ecco (17’59”) il solista riesporre in SI
minore il tema-d, che culmina (18’19”)
in una perorazione di corni e trombe cui segue, nel violino (18’25”)
un nuovo tema ondeggiante, di languido sapore zingaresco, interrotto
dall’orchestra (18’35”) che intercala altre folate del violino e poi riduce la
velocità e (18’53”) in tempo Moderato,
attacca un ritmo marziale nelle trombe. Ecco quindi - Alla marcia, pomposo umoristico (!) – i legni presentare (19’05”)
un nuovo motivo per terze, che
sembrerebbe venire da Smetana, la cui conclusione è ripresa poi (19’31”)
dal solista in corda doppia.
Il dialogo fra orchestra e
violino prosegue, fra velocissime folate del solista ed incisi anche pesanti (20’20”)
del pieno strumentale. A 20’32” ha inizio (Più stretto) la forsennata coda del
concerto, con il solista che accelera sempre più esponendo un tema eroico fino
al Quasi presto (21’05”) e poi (21’25”)
al definitivo Più presto, dove tutti
ingaggiano una vera e propria rincorsa verso gli schianti conclusivi.
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Splendida davvero l‘esecuzione di Nordio
e dell’orchestra: il solista accentua il lato per così dire romantico del
brano, con ampio uso di rubato e
sonorità che spaziano dall’elegiaco all’eroico; e Ceccherini accentua da parte
sua tutti i contrasti che emergono da questa interessante partitura, che
meriterebbe forse di essere messa in programma più spesso di quanto non accada.
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Il primo Concerto per violino di Gian Francesco Malipiero è del 1932 e
vide la prima esecuzione ad Amsterdam, Concertgebouw.
Erano
gli anni d’oro (si fa per dire, come del ventennio berlusconiano...) del
fascismo e un personaggio in vista come Malipiero non poteva non trovarsi nella
scomoda posizione in cui è difficile far convivere le proprie convinzioni
progressiste e allo stesso tempo patriottiche con tutti i vincoli che il regime
bene o male imponeva. Insomma, una storia di successi e riconoscimenti cui si
accompagnarono parecchie (vere o presunte, o millantate) umiliazioni, che per
certi versi ricorda quella dello Shostakovich
alle prese con lo stalinismo. E il risultato delle (apparenti?) ambiguità degli
atteggiamenti di Malipiero verso il fascismo fu di renderlo inviso (cosa che lo
addolorò
sommamente) anche
al CNL di Venezia, che dopo la Liberazione lo accusò senza mezzi termini di
connivenza con il regime appena abbattuto.
E proprio il concerto per violino in programma in Auditorium ci presenta un
Malipiero che percorre strade altrettanto lontane dalla tradizione romantica
(forma-sonata e sviluppi tematici, come il virtuosismo fine a se stesso, erano
per lui quasi delle bestemmie) quanto dalle (allora) relativamente recenti conquiste
dell’atonalità e della serialità.
Il suo conterraneo Domenico Nordio, che oltre a quello di Castenuovo-Tedesco ha già
inciso anche il concerto di Casella, ha mirabilmente colto lo spirito
dell’opera, che si muove fra tonalità e modalità arcaiche sulle quali si
innestano spunti di assoluta modernità. La forma tripartita è soltanto un
involucro che nasconde in realtà un continuo alternarsi di momenti vivaci e di
pause di riflessione, quasi una simbiosi di Vivaldi e Monteverdi, i due autori
più amati da Malipiero. Nordio in particolare è parso particolarmente coinvolto
nel centrale Lento ma non troppo,
interpretato quasi con sofferenza fisica.
Grande successo per lui che ci dedica
(con Santaniello in veste di
gira-pagine) un bis moderno fatto di
spettacolari invenzioni virtuosistiche.
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Chiusura
in bellezza con Pini di
Roma. Introdotti dal corno
inglese e dal primo fagotto, con la punteggiatura dei corni, che intonano – a Villa Borghese - la popolaresca Oh quante belle figlie madama Dorè. E non è la sola filastrocca che compare in questo quadro
d'apertura; poco dopo ecco infatti un paio di giro-girotondo,
il primo introdotto da archi e fiati a canone, il secondo da oboi e clarinetti,
che viene ripetuto più volte, fino a sfociare nel lugubre passaggio presso le Catacombe, con il suo sghembo
intermezzo in 5/4, pieno di note ribattute.
Nei Pini del Gianicolo, proprio alla fine (ultime 10 battute e mezza) è previsto che canti un usignolo vero: no, non è in gabbia ed in penne ed ossa, oltretutto ci vorrebbe anche
l'ammaestratore a corredo, per dargli l'attacco giusto… In partitura è segnato
come una registrazione su nastro (ai tempi gli mp3 potevano essere, al
massimo, dei moschetti) e invece ieri lo si è udito proprio suonato dal
computer.
Nel
conclusivo I Pini della via Appia,
dopo un lungo assolo del corno inglese, compaiono le sei buccine, specie di enormi
unicorni che accompagnavano le marce delle legioni romane. Respighi – che ne
prevederà tre anche in Feste Romane - prescrive in partitura dei flicorni (2 soprani, 2 tenori
e 2 bassi). Sul martellante ritmo di timpani e gran cassa, sono loro a portare
all'enfatico epilogo dell'opera.
Strepitosa la prestazione dei ragazzi,
che non fanno rimpiangere esecuzioni ormai storiche, come questa del venerabile
Prêtre con i ceciliani.
L’unico
neo della serata è costituito dall’affluenza invero scarsa all’Auditorium. Ma
mai come in questo caso gli assenti (che hanno ancora domenica pomeriggio per
rimediare) hanno avuto torto marcio!