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da stellantis a stallantis

30 maggio, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°36

 

Il rampante Jader Bignamini si ripresenta per il terz’ultimo concerto della stagione per cimentarsi su un nuovo terreno: Richard Strauss. Lo Strauss (parecchio o abbastanza) giovane, di cui il palinsesto prevede una delle prime composizioni seguita da un paio di Tondichtungen. In realtà la sequenza è stata poi modificata all’ultimo (per una qualche plausibile ragione, possiamo immaginare) e così è toccato ai due Don di mettere in sandwich la Burleske per pianoforte e orchestra.

Si è quindi aperta la serata con il primo di questi poemi sonori (Aus Italien permettendo): Don Juan, che mancava qui da circa 3 anni (Axelrod). Bignamini, che si è imparato a memoria tutto lo Strauss di questo concerto (chissà se in futuro riuscirà ad immagazzinare anche cosucce come Rosenkavalier o la Frosch…) ha trascinato i ragazzi – disposti alla alto-tedesca - in una performance quasi perfetta, che ha subito riscaldato il pubblico tornato su buoni livelli di presenza.

Ecco poi la Burleske (composta da Strauss a 21 anni): allo strumento solista la simpatica russa-tedesca Lilya Zilberstein, che torna in Auditorium a circa un anno di distanza dall’ultima sua apparizione (allora con Campogrande e Rachmaninov). Una quindicina d’anni fa invece aveva interpretato proprio questo stesso Strauss alla Scala, con Bychkov, come si può seguire qui in una ripresa introdotta da Angelo Foletto. Interessante anche ascoltare cosa pensava della Burleske e di Strauss un suo grande cultore (oltre che di Bach): il brillante Glenn Gould, di cui si può vedere anche l’esecuzione del brano (un filino troppo comoda, per i miei gusti almeno).

Musica nella quale non si stenta a riconoscere molto Brahms e parecchio Liszt, a conferma della situazione di totale apertura del giovane Richard sia all’apparente classicismo del laico-spartano amburghese che alle innovazioni del mistico-libertino ungherese, che proprio in quel periodo cominciarono ad attecchire (insieme ad un certo Wagner…) nel fertile terreno dell’ispirazione di Strauss.   

La struttura del brano (RE minore tonalità di base, tutto in 3/4 salvo un paio di battute in 4) è – sotto apparenze di ostica complessità – abbastanza semplice:

- un gruppo tematico introduttivo;
- tre gruppi tematici principali;
- ripresa dell’introduzione e dei tre gruppi tematici;
- cadenza solistica;
- coda.

Vi si possono individuare elementi di forma-sonata, ma più che nella struttura (praticamente manca una vera e propria sezione di sviluppo) nel trattamento delle tonalità fra le sezioni di esposizione e ripresa dei gruppi tematici (rapporti tonica-dominante e relative).
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Interessante notare subito come singole cellule o componenti di un certo gruppo tematico vengano impiegate all’interno di altri, o come transizione fra loro, il che garantisce al brano una chiara e spiccata personalità. Il tutto impreziosito poi da diversi altri interventi solistici. Non soltanto del pianoforte, ma anche dei timpani, che hanno ad esempio l’onore dell’apertura (poi della chiusura!) con quattro battute da suonare nel generale tacet dell’orchestra, seguite da altrettante a ruoli invertiti (nella pagina sottostante sono omesse le parti di puro riempitivo):


Beh, diciamolo pure: questa introduzione ha tutto l’aspetto di una frase musicale piuttosto sconnessa, oserei dire sgrammaticata, che sa parecchio di impappinamento, di zoppìa, se non addirittura di… balbuzie. Insomma, come dice il titolo, una burla (come sarà Eulenspiegel che già qui si intravede) o una parodia. Per dire, nelle quattro battute orchestrali (i-2) non si possono non sentire echi distorti e irriverenti di sonorità e atmosfere vagamente brahmsiane (che so, il secondo frammento del tema dell’Allegro non troppo del finale della prima…)

Dopo che l’introduzione è stata ripetuta, raddoppiando le battute della sezione orchestrale (i-2) il pianoforte entra per esporre il primo gruppo tematico, dove si distingue un motivo dal fiero cipiglio, con i suoi balzi all’insù (a-1) che avrà grande importanza nel seguito, cui succede una perentoria scala discendente (a-2):


Questa prima sezione viene subito riproposta una seconda volta, quindi viene ancora ampliata in entrambe le sue componenti: in particolare la scala discendente (a-2) sembra quasi sprofondare senza fine, andandosi ad… arenare sul RE grave a fondo tastiera. Qui il solista espone un inciso (m) che ritornerà spesso e volentieri, come un motto dell’opera (anche qui, a proposito di burle, sembra un impertinente richiamo al tema dell’enigma del destino dalla Walküre…):


Dopo che il solista ha riesposto brevemente il motivo (i-2) dell’introduzione, è l’intera orchestra che apre il completamento di questo primo gruppo tematico, con una linea melodica ancora di sapore brahmsiano (a-3) che germina chiaramente da (a-1) e a cui risponde il pianoforte contrappuntato da una seconda linea dell’orchestra (a-4) questa più di stampo liszt-iano (qui i violini di entrambe le linee):


La tonalità è nel frattempo modulata alla relativa FA maggiore (siamo a scuola!) per dar luogo ad una sommessa cadenza - dove il pianoforte, i timpani e gli strumentini, accompagnati da corni e viole, si palleggiano quell’inciso (m) esposto poco prima dal solista – che porta all’entrata del secondo gruppo tematico (un Walzer, di fatto) ancora affidata al pianoforte, questa volta solo, che mutua l’incipit proprio dall’inciso (m) per poi svilupparsi ampiamente:


In particolare vi si distinguono il motivo (b-2) e il (b-3) derivato da (b-1) per inversione. L’orchestra lo riprende, ma dopo una sommessa cadenza di pianoforte e fiati ne esplode, sempre nel solista, uno nuovo (b-4) invero eroico:


Ripreso brevemente dai legni, lascia ancora spazio al pianoforte che lo sviluppa in crescendo fino ad una sospensione di tutta l’orchestra su una cadenza FA-MI, che apre le porte alla modulazione a LA minore (sacri canoni, anche qui) dove il solista attacca il terzo gruppo tematico - una filiazione del motivo (a-3) - reminiscenza abbastanza scoperta del secondo tempo dal Concerto in SIb di Brahms:

Con l’intervento dell’intera orchestra la tonalità modula rapidamente a MIb minore, poi a SIb minore, quindi al FA, dove irrompe imprevedibilmente l’interminabile scala discendente (a-2) che ci riporta al RE. Qui il solista attacca una specie di cadenza di 48 battute, una stupefacente melodia, che ricorda in certi momenti persino Chopin, accompagnato verso la fine dai violoncelli e poi da interventi di flauto e oboe.

Ora riappare la cellula del motivo (a-3) che apre una transizione dove udiamo anche il motivo (i-1) esposto in FA dall’orchestra e poi variazioni sull’inciso (m). Si torna a RE minore con il pianoforte che ripropone (i-2) anticipando (i-1) nei timpani e ancora (i-2) nell’orchestra. Comprendiamo di essere quindi arrivati al termine dell’esposizione dei gruppi tematici e all’inizio della loro rielaborazione.

La quale non è appunto una semplice e stucchevole ripetizione: il primo gruppo tematico – sempre RE minore - viene per così dire ridotto all’osso, presentando dapprima la sezione (a-1) nel pianoforte, poi direttamente la (a-3) nell’orchestra, quindi  la sezione (a-2) ampliata, con la discesa al RE grave.

Dopo una transizione nella quale il pianoforte ha sommessamente dialogato con timpani, fagotti e archi bassi, ecco che un luminoso accordo di RE maggiore - sul quale si fa sentire nel pianoforte e nei violini il motto (m) - introduce la ripresa del secondo tema (anche qui siamo pertanto assolutamente ligi alle regole tonali della forma-sonata). Questa riesposizione ripercorre abbastanza da vicino la prima, ci risentiamo tutti i motivi (b-1-2-3-4) e come essa chiude con due accordi che preparano l’entrata del terzo gruppo tematico: là FA-MI a preparare LA minore, qui RE-DO# a preparare il FA# minore (sempre le regole!)

In realtà, dopo che (c-1) è stato esposto in FA# dal pianoforte solo, la tonalità cambia abbastanza presto e il motivo torna fortissimo in FA, prima in orchestra e poi nel solista, per lasciare quindi spazio ad una lunga transizione (à la Ciajkovski) che culmina in un accordo – feroce! - sul LA, dominante del RE cui si sta tornando. Ora sono le trombe a reiterare il motto (m) poi ripreso dai timpani che lo ripetono più volte intercalandosi ad entrate degli strumentini e del solista che conducono alla sua corposa cadenza.

La quale apre insistendo ancora sul motto (m) poi percorre in giù (fino al LA grave) e in su tutta la tastiera, arrivando al SIb su cui esplode un terrificante accordo di tutta l’orchestra cui ne segue un altro, dopo tre battute di arpeggi del solista, che risolve sulla dominante LA. Il solista riprende ora indisturbato la cadenza che per 60 battute è caratterizzata da virtuosismi e ottave parallele, fino a sfumare su un tempo tranquillo verso una stupefacente ripresa in SIb, nel pianoforte, del motivo (a-3) allargato nel tempo fino a renderlo quasi irriconoscibile, subito supportato dal caldo suono delle viole che lo sviluppano ulteriormente, tornando a RE, mentre il pianoforte lo contrappunta introducendovi un ritmo di languido Walzer (quindi il sapore del secondo gruppo tematico): un passaggio invero magistrale!

Ora il tempo torna molto vivo e ci si avvia alla conclusione: il solista si imbarca in una serie di scale ascendenti e discendenti portando il clima verso il parossismo, culminante in un accordo di RE minore dell’intera orchestra. Da qui parte una serie di quindici accordi del pianoforte (sul tempo forte di altrettante battute) che pare evocare come dei rantoli, contrappuntati da sporadici interventi di fiati e timpani. Dopo una lunga pausa ecco i timpani che espongono per l’ultima volta il motivo (i-1) ma attenzione, spaccato in tre tronconi di (rispettivamente) 1-1-2 battute; i due intervalli sono coperti da 3 battute: due in cui il solista sembra voler rialzare la testa, la terza è una lunga pausa:


Il solista adesso compie l’ultimo disperato sforzo: per sette battute risale velocemente la tastiera, fino alla dominante LA; dopo una pausa gli rispondono, con un accordo di RE minore, sempre sul LA, gli archi (contrabbassi esclusi) in pizzicato; dopo un’ulteriore pausa è ancora il timpano a chiudere con un singolo rintocco di RE.
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Bignamini e la Zilberstein affrontano con la dovuta determinazione questo autentico gioiello, raccogliendone in pieno tutta la trascinante effervescenza: è in effetti un’opera che meriterebbe di essere più e meglio considerata, oltre che dai musicologi, anche da chi programma i concerti. E lo si è dimostrato qui con un’esecuzione assolutamente di prim’ordine, da parte di tutti.
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Chiude la serata il penultimo dei poemi (se si escludono da questa categoria le due sinfonie-a-programma - domestica e alpina - successive alla Heldenleben): Don Quixote

Due prime parti dell’orchestra sono qui protagoniste: Mario Shirai Grigolato al cello è il Don e Gabriele Mugnai alla viola la sua spalla Sancho. Questo è un pezzo che non viene eseguito tutti i giorni non perché non sia un capolavoro (anzi è giustamente considerato l’apice di questo genere di creazioni straussiane) ma per l’oggettiva sua difficoltà. Onore quindi all’Orchestra, ai suoi alfieri e a Bignamini per avercelo proposto in modo splendido, meritando ovazioni e ripetuti applausi ritmati. Così i due ragazzi ci hanno anche offerto un loro personalissimo bis.
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Mancano due concerti (Xian e ancora Bignamini) alla chiusura di questa stagione e si comincia a pensare alla prossima: martedi 3 giugno laVerdi la presenterà nella splendida Sala Alessi di Palazzo Marino.

23 maggio, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°35

 

Un ragazzino uzbeko, il 26enne Aziz Shokhakimov, sale sul podio de laVerdi (per la seconda volta dopo circa due anni… e la prima non fu proprio un trionfo, diciamolo) per dirigervi un programma che al Beethoven dell’integrale dei concerti pianistici affianca il Prokofiev teatrale. Un palinsesto simile a quello di un concerto della stagione di quattro anni orsono, salvo che allora l’ultima opera in programma fu la ben più corposa seconda di Rachmaninov.

In un Auditorium insolitamente e deplorevolmente disertato da molti (complice forse il maltempo abbattutosi nel pomeriggio su Milano) il protagonista della prima parte è il nostro bravissimo Roberto Cominati (un aficionado ormai di Largo Mahler) impegnato in quello che è forse il più difficile concerto del grande Ludwig, il Quarto.

Lui lo suona divinamente e fa passare in secondo piano alcune iniziali gratuite gigionerie dell’orso uzbeko, che peraltro rinsavisce presto e lo accompagna più che decentemente. Esemplare la cadenza del movimento iniziale (la prima delle due autografe di Beethoven) come la profondità dell’Andante con moto
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Dopo l’intervallo ecco due lavori di Prokofiev legati in qualche modo al teatro. Dapprima la Suite da L’amore delle tre melarance, riproposta, come detto, a distanza di 4 anni (allora diretta dalla Xian). I sei brani riassumono in poco più di un quarto d’ora i contenuti piuttosto surreali dell’opera di cui il terzo (Marcia) è divenuto la vera e propria etichetta, oltre che il leit-motive principale.

L’orso Aziz si mette addirittura a ballare sul podio, creando uno spettacolo nello spettacolo e facendo divertire prima di tutto i ragazzi; che però non si distraggono più di tanto e suonano in modo impeccabile.
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L’orchestra si irrobustisce ulteriormente per la Suite scita, nata da un tempestivo ripiego di Prokofiev che, sfiduciato dal padrino Djaghilev che gli aveva rifiutato, dopo avergliela commissionata, la musica per un balletto dal titolo Ala&Lolly, la trasformò in un pezzo da concerto che ha avuto indubbiamente una certa fortuna, quanto meno all’ombra dello stravinski-ano Sacre.

Il soggetto del (poi abortito) balletto fu scritto da Sergei Gorodetsky, che si basò su storia (o miti) degli Sciti di alcuni secoli avanti-cristo (Prokofiev invece immaginava la vicenda in pieno medio-evo…) che scimmiottano vagamente l’Uccello di fuoco e – sul piano musicale – appunto Le sacre, balletti che Stravinski aveva composto pochissimi anni o mesi prima.

Anche qui abbiamo riti pagani più o meno plausibili, dove si onorano dèi e congiunti (Veles, il sole, e la figlia Ala, una specie di Diana); dove un diavolaccio cattivo (Chuzbog) in combutta con sette spiriti-serpenti poco raccomandabili cerca di far sua la deessa, difesa però da ninfe che incarnano i raggi lunari; e dove un nerboruto mortale (Lolly, ma di che s’impiccia costui?) interviene per salvare la deessa di cui è innamorato e viene a sua volta salvato dall’onnipotente Veles che neutralizza il cattivone Chuzbog; meritandosi comunque un’uscita in gloria accompagnato dal corteggio solare (!?) Come si vede, le analogie con il Firebird sono molteplici, a cominciare dai personaggi: Lolly-Ivan, Chuzbog-Kastchey, Veles-Uccello, Ala-Principessa.   

Lo scenario del balletto doveva essere piuttosto diverso da quello della futura Suite: era in 5 e non 4 quadri e prevedeva la morte di Lolly (là una specie di Orfeo, cantante-poeta) per mano di Chuzbog e poi un finale piuttosto strampalato (Veles che trasforma Lolly in divinità bruciandolo su una pira, e Ala che si butta nel fuoco dietro di lui, e così… perde la divinità!)

La Suite, che richiede un’orchestra ipertrofica, proprio tardo-romantica, con fiati e percussioni in gran numero, consta appunto di quattro parti, il cui contenuto è in qualche modo (e con difficoltà, come detto) deducibile dallo scenario del balletto:

1. Adorazione di Veles e Ala. È suddivisa in due sezioni: la prima, in omaggio al dio, assai pesante (non per nulla l’indicazione agogica è Allegro feroce) caratterizzata da un ossessivo ritmo marziale che invade l’intera orchestra (e curiosamente richiama proprio il motivo dell’ultimo brano delle Melarance); la seconda più contemplativa (Poco più lento) in omaggio alle caratteristiche boschive, ergo romantiche, di Ala, dove si odono cinguettii di uccelli e stormir di fronde, tuttavia in un’atmosfera che non è propriamente idilliaca (qualcosa o qualcuno incombe…)

2. Chuzbog e la danza degli spiriti. Ecco infatti irrompere l’elemento negativo: sarà pure del male, ma pur sempre un dio sembra, questo Chuzbog, almeno a giudicare dalla musica che Prokofiev gli appiccica! Apre con una terrificante esplosione di timpani e grancassa, poi corni e tromboni imperversano su un ritmo marziale insistito, che però – rispetto a quello di Veles - ha un andamento irregolare, come si addice a presenze inquietanti e… serpentine: da 4/4 a 3/4, a 2/4, per finire ancora in 4: insomma, una cosa abbastanza infernale.

3. Notte. Ottavino, arpe, pianoforte e poi celesta introducono un’atmosfera liquida, come di gocce di rugiada che condensano sopra erba e fogliame. Ma non è, ancora una volta, uno scenario del tutto sereno e rassicurante: qualcosa sembra muoversi nell’oscurità, e infatti emerge sommessamente, dalle ondeggianti semicrome degli archi, una specie di sinistra Waldweben a far da sfondo a cupi interventi degli ottoni: che sia il cattivone Chuzbog con i suoi sette sbifidi serpenti che si aggira fra le frasche per insidiare Ala, la protettrice di quei luoghi? Il pericolo sembra svanire presto, con l’arpa che glissando introduce una dolce melodia dei legni: il testo di Gorodetsky fa scendere ninfe sotto forma di raggi lunari che neutralizzano Chuzbog, allergico alla luce. Ma l’atmosfera sembra nuovamente surriscaldarsi (passaggio da 4/4 a 6/4) come se Chuzbog ci stesse riprovando (nel balletto dovevano esserci ben tre suoi assalti ad Ala). Ma i raggi lunari riportano la calma apparente e sono ancora i tocchi dell’ottavino e del glockenspiel a chiudere, con un finale glissando della prima arpa, il movimento. 

4. Marcia di Lolly e corteo del Sole. L’apertura è in tempo Tempestoso, una marcia assillante, che vorrebbe rappresentare l’arrivo trafelato di Lolly in soccorso di Ala, ancora minacciata da Chuzbog. Forse è lei che intravediamo al mutare di tempo in Un poco sostenuto, prima di arrivare ad un Allegro che evoca la preparazione di Chuzbog alla lotta contro Lolly, che sembrerebbe purtroppo soccombere. Ma ecco (Andante sostenuto) il ritorno dei raggi di Veles che neutralizzano definitivamente Chuzbog e accompagnano il trionfo di Lolly.

Certo, non sarà ancora il Prokofiev del fantastico Romeo… ma insomma la stoffa già si sente e come!

Anche qui Aziz ha modo di ancheggiare e sculettare… però senza fare troppi danni, anzi. Così i fedelissimi dell’Auditorium gratificano anche lui, oltre i ragazzi, con convinti applausi.

18 maggio, 2014

L’Orfeo di Gluck con laBarocca

 

Chiusura di stagione in grande stile per laBarocca, l’ensemble di Ruben Jais specializzato nel repertorio del ‘6-700: con l’esecuzione in forma di concerto dell’opera più famosa di Gluck, Orfeo ed Euridice

Si tratta della versione originale (1762, Vienna) quindi in italiano e senza le aggiunte (oltre alla lingua) prodotte per Parigi nel 1774: insomma, la versione più autentica, una cui pregevole esecuzione si può ascoltare qui con Muti a Salzburg nel 2010.

La leggenda, o il mito se si preferisce, di Orfeo è arcinota ed è stata da sempre oggetto di opere letterarie, figurative e musicali: tutti sanno che il povero cantautore, ammesso dagli dei a recuperare dall’oltretomba la consorte Euridice (defunta causa morso di serpe) non sa resistere all’obbligo di non guardarla prima di tornare all’aldiqua, e così la perde definitivamente, ritirandosi in montagna a fare… l’omosessuale (!)

Non così nell’opera di Gluck, dove ci si inventò un incredibile lieto fine, con la seconda resurrezione della bella e il trionfo di Amore. Ecco come si giustificò l’autore della clamorosa innovazione, Ranieri de’ Calzabigi: Per adattar la favola alle nostre scene ho dovuto cambiar la catastrofe. Insomma, per festeggiare degnamente l’onomastico dell’Imperatore… si cambiò anche la storia. Ma fu la storia della musica a cambiare sotto la spinta del combinato disposto del libretto di Calzabigi e della musica di Gluck: un’autentica miscela esplosiva che mutò repentinamente tutte le regole del gioco nel mondo del teatro musicale, gettando una specie di ponte fra la Camerata dei Bardi e… Wagner.

Opera che si ricorda superficialmente per l’aria Che farò senza Euridice? ma che contiene mille altre perle, che ieri Ruben Jais ha splendidamente portato alla luce, con la sua proverbiale cura per il suono e per l’equilibrio delle voci. L’orchestra comprendeva due corni barocchi, due chalumeau e l’arpetta (la lira di Orfeo) dislocata opportunamente al proscenio. Impeccabile l’Ensemble vocale di Luca Dellacasa, autentico protagonista dell’opera. Delle tre soliste, Sonia Prina ha confermato le sue ben note qualità, con un’interpretazione appassionata del personaggio di Orfeo; bene anche Maria Grazia Schiavo (Euridice) a dispetto di una voce che tende al vetroso nelle note alte; sufficiente Francesca Cassinari (Amore), voce piuttosto piccola e non molto penetrante. 

In definitiva, una prova di grande livello dei complessi de laBarocca, che hanno meritato ovazioni da una platea abbastanza gremita e concesso il bis del conclusivo Trionfi Amore.
  

17 maggio, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°34

 

Jader Bignamini anticipa di un paio di settimane il suo ritorno sul podio del laVerdi, prendendo il posto che il programma originario della stagione assegnava ad Oleg Caetani.

In programma due pezzi forti del repertorio tradizionale, che si trovano anche agli estremi opposti del secolo XIX, essendo stati rispettivamente composti nel 1800 e nel 1899.

Il Terzo Concerto per pianoforte rappresenta un autentico punto di svolta nell’ambito della produzione concertistica di Beethoven, così come, un paio d’anni più tardi, sarà per l’Eroica in campo sinfonico. Dopo i due concerti di rodaggio che guardano chiaramente ai modelli mozart-haydniani, qui comincia a farsi sentire il Beethoven impegnato, quello per cui la musica è una cosa maledettamente seria. La forma ancora è la stessa delle prime esperienze (lunga esposizione orchestrale prima dell’entrata del solista, modulazioni ardite) ma è il contenuto che davvero fa cambiar musica!

Il non ancora trentenne torinese Gabriele Carcano ce ne dà una vibrante esecuzione, palesando, oltre ad una tecnica impeccabile – condizione necessaria ma non sufficiente a fare un grande interprete – anche una notevole sensibilità, emersa specialmente nel centrale Largo, ma anche nella difficile cadenza del primo movimento. Meritato successo per lui, che regala anche un bis (Schumann?)
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Bignamini, che l’ha evidentemente mandata a memoria, ha infine diretto in modo per me encomiabile la Quarta di Mahler, una sinfonia che tende mille tranelli al direttore, dato il suo carattere ambiguo e indecifrabile. Jader si è tenuto sul sicuro, rispettando meticolosamente anche le indicazioni più sottili della partitura; il che dimostra che – dirigendo Mahler in particolare - il modo migliore per cogliere lo spirito dell’opera è quello di rispettarne scrupolosamente la lettera. E i ragazzi lo hanno assecondato in modo egregio, in tutte le sezioni, fiati ovviamente in testa, ma anche l’arpa e gli archi.

All’interno di un’esecuzione che definirei, nel complesso, memorabile sono poi da incorniciare alcuni particolari passaggi: come l’intervento del corno all’inizio dello sviluppo, e la transizione fra sviluppo e ricapitolazione del primo movimento; o le impertinenti irruzioni del clarinetto nel trio e lo splendido assolo del corno a dialogare con gli archi alla ripresa dello scherzo, nel secondo movimento; o l’incantevole attacco del terzo movimento di viole e celli e quello dolente dell’oboe all’inizio della seconda sezione, seguito dalla straziante citazione dall’Aida (che entrerà nei Kindertotenlieder) di flauti e clarinetti e poi ancora il corno a chiudere prima dell’Allegretto grazioso.   

A cantare l’irriverente filastrocca conclusiva è arrivata Karina Gauvin, che avevamo ascoltato qui poco più di un anno fa nel Gloria di Poulenc. La cicciottella canadese per portarsi al proscenio si è fatta largo fra i leggii dei violini approfittando del fracasso della coda del Ruhevoll. Poi per la verità non ha brillato molto, mangiandosi buona parte delle sillabe e mostrando la corda nella cosiddetta ottava bassa: insomma, una prestazione francamente deboluccia, che ha contrastato assai con quella eccellente di strumentisti e direttore.  

Ma il trionfo non è comunque mancato, in un Auditorium per la verità non propriamente stracolmo.

12 maggio, 2014

Il Tell(enin) di Vick approda a Torino


Il Regio di Torino riprende in questi giorni l’allestimento del Tell di Graham Vick presentato all’ultimo ROF. Solo l’allestimento, chè ogni altro ingrediente del minestrone è totalmente diverso: là il Guillaume originale di de Jouy e Bis, qui il Guglielmo in versione Calisto Bassi (per fortuna ripulito da Paolo Cattelan); là l’orchestra del Comunale di Bologna con Mariotti, qui quella del Regio con Noseda; e (quasi) tutto il cast cambiato.

Anche i contenuti musicali divergono non poco fra le due proposte: a Pesaro andò in scena l’opera (quasi) come da edizione critica della compianta M. Elizabeth C. Bartlet per la Fondazione Rossini (un paio di tagli, rispetto alla prima di Gelmetti del 1995, comunque furono perpetrati anche là: il Pas de deux e l’invocazione degli austriaci a Tell, nella scena della tempesta dell’atto finale). Mentre a Torino si è sostanzialmente seguita la versione Muti (Cattelan) del 1988, che è comunque basata – lingua del testo a parte - sulla versione critica, ma non ne accoglie al 100% i contenuti: quindi esclusa, rispetto a Pesaro, anche l’aria di Jemmy, prima del tiro-alla-mela; in più Noseda ha (forse per coprire manchevolezze degli interpreti?) tagliato alcune ripetizioni alla fine di duetti (Matilde-Arnoldo) e concertati (Giuriamo): beh, diciamo che sono sempre dolorosi ma non proprio… scandalosi, ecco.

Dalibor Jenis è un Tell discreto ma non di più (secondo me, ovviamente): gli manca quel tocco di autorità che sarebbe richiesto per la parte. Insomma, le note le canta, ma non… incanta. 

John Osborn è stato il trionfatore della serata, in virtù della sfilza di DO acuti che ha sciorinato: l’ultimo, sull’all’armi, proprio à-la-Duprez (acuto che Rossini aborriva come verso di bestia sgozzata, e infatti non lo scrisse) emesso con piglio addirittura irridente. Evidentemente, dopo la catastrofe a Santa Cecilia di qualche anno fa, il nostro deve averne fatto un punto d’orgoglio: diamogliene atto!

Angela Meade (Matilde) è davvero una cantante a-tutto-tondo (stra-smile!): ha mostrato buona impostazione, acuti ben portati; mi è parsa un filino meno efficace nelle note basse.

Luca Tittoto (il bieco Gessler) è l’unico superstite del ROF-2013: per me ha confermato la discreta prova di allora.  

Anna Maria Chiuri come Edvige si è ben distinta: voce calda e bene impostata. Lodevole anche la prova di Mirco Palazzi (Gualtiero) un basso che mi pare in continua crescita.

Fabrizio Beggi è un buon Melcthal. Nel video del quarto atto, evidentemente portato da Pesaro, si doveva vedere l’interprete di allora, Simone Alberghini. Invece il proiettore, proprio come Jemmy, è rimasto fermo e immobile: chissà, forse perché Alberghini ha chiesto troppo per i diritti di immagine… (smile!)

Marina Bucciarelli mi è parsa, come Jemmy, un filino sotto la media: voce piccola, poco penetrante ed espressione incerta.

Bravo nella sua parte piccola ma impegnativa Mikeldi Atxalandabaso, assai sicuro nei DO acuti cui è chiamato, per di più proprio a… rompere il ghiaccio.

Luca Casalin (capo degli arcieri) Ryan Milstead (Leutoldo) e Giuseppe Capoferri (un cacciatore) hanno degnamente completato il cast.

Ottimo come sempre il Coro di Claudio Fenoglio.

Quanto a Noseda, ha ancora una volta mostrato grande sensibilità e cura dei particolari. Merito anche dei ragazzi dell’orchestra; peccato che l’assolo iniziale del violoncello di Lukic sia stato rovinato da interventi sconsiderati di alcuni percussionisti dislocati in platea (all’ingresso andrebbe fatto a tutti un test di idoneità delle vie respiratorie…)
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Sulla regìa di Vick ho già scritto abbastanza peste-e-corna in occasione del ROF-2013, quindi mi limiterò a re-citare le due fondamentali negatività di questa produzione. La prima riguarda la scelta, tutta ideologica, del simbolismo (vetero-comunista) impiegato per presentare una lotta di popolo per la libertà e l’indipendenza: il pugno chiuso e le bandiere rosse (purtroppo, dobbiamo ammetterlo) hanno perso ai nostri occhi il loro originale e nobile contenuto, dacchè l’esperienza storica ci ha detto inconfutabilmente che essi non hanno mai portato ai popoli né libertà, né indipendenza, al contrario hanno prodotto sempre dittature e sovranità limitata. Per cui, sostituirle alla gloriosa bandiera rosso-crociata è un autentico delitto.

La seconda negatività riguarda lo spregio dei contenuti testuali e soprattutto musicali dell’opera, come ho esemplificato a suo tempo. Non a caso anche ieri alla fine dei balletti del terzo atto, accanto ai doverosi applausi per l’esecuzione musicale c’è stata una chiara manifestazione di dissenso fra il pubblico del Regio, indubbiamente rivolta contro le efferatezze di cui Vick ha infarcito quella scena.
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In ogni caso, ancora una volta, è la musica ad aver colpito l’immaginazione del pubblico (assai folto) che ha lungamente applaudito tutti i protagonisti.  

La produzione – in forma di concerto, quindi significativamente senza il contributo di Vick – verrà portata il 7 dicembre (proprio SantAmbrogio!) alla Carnegie Hall con lo stesso cast (primo-secondo) di questi giorni.

10 maggio, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°33

 

Il singolare concerto di questa settimana è affidato al… fido Giuseppe Grazioli, che impersona nientemeno che Richard Strauss mentre dirige un’orchestra che accompagna la proiezione di un film muto, cosa accaduta realmente in un lontano 1926.
L’anno prima una casa cinematografica austriaca, già in concorrenza con Hollywood, aveva convinto Strauss e il suo librettista-principe Hugo von Hofmannsthal a collaborare (con il regista Robert Wiene e il famoso scenografo Alfred Roller, già curatore dell’originale del 1911) ad un’impresa apparentemente storica, in realtà ridicola: mettere in pellicola (muta, dati i tempi) Der Rosenkavalier ed accompagnarne la proiezione con la musica suonata da una vera orchestra e per di più diretta dall’Autore!

Erano proprio tutti ingenui e fuori-dal-tempo, chè di lì a poco il film sonoro mandò in pensione non solo le pellicole mute, ma pure tutti i musicisti, più o meno da strapazzo (Strauss escluso, s’intende!) che accompagnavano – al pianoforte o con altri strumenti – la proiezione priva di suoni.

A distanza di quasi 90 anni invece questa idea, ripensata con l’ottica del come eravamo (anzi com’erano i nostri nonni o bisnonni!) ha magari un suo senso e (applicata con giudizio e parsimonia) merita pure il plauso dello spettatore. Poche settimane fa è stata presentata a Palermo, con musica diretta dallo stesso Frank Strobel che ne fece la ripresa alla Semperoper di Dresda, in occasione degli 80 anni dalla prima tedesca, nel 2006, ai tempi in cui fra i leggii dei primi violini della Staatskapelle faceva capolino un volto oggi piuttosto familiare qui in Auditorium:


Strobel è anche responsabile della colonna sonora, avendola adattata ad una durata di quasi 2 ore (1h 45’ per la precisione) cioè assai più ampia di quella originale, che supportava una proiezione di meno di 90 minuti. Altri prima di lui si erano cimentati in simili imprese, come ad esempio lo svizzero Armin Brunner che nel 1986 aveva arrangiato per un’orchestra di 17 elementi musiche del Rosenkavalier insieme a quelle di altri autori, quali Johann Strauss e Richard Wagner per accompagnare un’edizione ridotta del film. Ma altre ricostruzioni erano state fatte a partire dall’ultimo dopoguerra, al ritrovamento di spezzoni del film e delle partiture di Strauss.

Il film senza sonoro ha una trama (sulla quale mise poco o tanto le mani lo stesso Hofmannsthal!) piuttosto divergente da quella dell’opera, così come la musica che Strauss preparò alla bisogna, che solo in parte (pur cospicua) riprende quella originale.

Lo specchietto sottostante riporta - con riferimento agli 11 video pubblicati sul tubo della citata ripresa di Dresda - i tratti salienti della trama del film, di cui chiunque abbia un minimo di dimestichezza con l’opera non faticherà a riconoscere le marcate distanze da quella del libretto originale. Essendo andate oltretutto perdute alcune delle bobine del film, la ricostruzione qui presentata ipotizza un finale che è ancor più distante (e invero anche assai più insignificante e dozzinale) rispetto a quello dell’opera.


Ora, è pacifico che schermo cinematografico e palcoscenico abbiano strutturali differenze e possibilità o vincoli tali da imporre soluzioni assai diverse per i due scenari. Si capisce quindi come nel film vengano introdotte scene spettacolari che in teatro sarebbero impossibili (o ridicole) a realizzarsi: feste all’aperto con centinaia di ospiti in parchi sterminati, o battaglie con cariche di cavalleggeri in sconfinate praterie: quest’ultima trovata si accompagna quasi automaticamente alla corposa presenza nel film della figura del Maresciallo, che nell’opera invece viene soltanto citato e mai compare di persona.

Così come è ovvio che in un film muto sia praticamente impossibile riprodurre scene dove, nell’opera, vengono cantate arie o concertati durante i quali gli interpreti se ne stanno normalmente impalati (o quasi) per interi minuti e minuti. Al contrario, le possibilità fornite dal mezzo cinematografico (basti pensare anche soltanto ai primi piani) e l’assenza, in questo caso, del canto, sono tali da consentire al regista infinite trovate a livello di interpretazione: sul terreno serio-drammatico, come su quello gigionesco-macchiettistico. E nel film ci sono innumerevoli esempi dei due tipi, riguardanti, nel primo caso, i personaggi della Marescialla, di Octavian e di Sophie, nel secondo tipicamente Ochs e Faninal.  

Però alcune divergenze del soggetto del film rispetto all’originale non sono spiegabili con le esigenze, come dire, del mezzo tecnico. Ad esempio il ruolo di Annina e Valzacchi, perfettamente delineato nell’opera (incluso il repentino passaggio di campo dei due, da Ochs a Octavian) qui nel film assume contorni grotteschi e incomprensibili: Annina che si fa spia di una Commissione del buoncostume, invenzione questa piuttosto banalotta a dir il vero, poi lei e Valzacchi che, invece di tramare per Ochs, fanno i delatori per il Maresciallo, salvo infine pentirsi in modo quasi inspiegabile; la loro finale riconciliazione è più inspiegabile ancora: dove mai c’era stata la rottura?

Parliamo del rapporto Octavian-Sophie: nell’opera (secondo atto) è magistralmente scolpito in versi e soprattutto in musica il colpo di fulmine che li travolge al primo incontro, quando il Cavaliere reca la Rosa. Nel film invece tutto ciò è diluito in due successivi incontri (quello del Prater e poi quello della consegna della rosa) il che fa francamente scadere la vicenda a simpatica commediola delle sorprese a buon mercato. 

La scena del teatrino di strada, dove si rappresenta – toh, che combinazione! - una vicenda identica a quella vissuta da Sophie è francamente debole e gratuita, una trovata da avanspettacolo, così come la baruffa fra Ochs, Faninal e i rispettivi notai, che sembra proprio un debito a certi stereotipi del film muto, tipo Stanlio&Ollio, per dire.

Insomma, l’impressione che si trae è di un approccio che definirei quasi parodistico e persino bigotto (chissà se erano i costumi della metà anni ’20 ad essere arretrati rispetto a 15 anni addietro, o se era il pubblico delle sale cinematografiche ad essere considerato più arretrato di quello dei teatri d’opera): fatto sta che la scena iniziale – che nell’opera ci mostra nulla meno che l’ultimo amplesso fra la Marescialla e Octavian dopo un’intera notte d’amore – qui ci presenta il giovane che arriva di buon mattino ed entra dalla finestra per fare due innocue moine alla Marescialla, per poi andarsene presto. La conclusione del film, ricostruita di recente, ci presenta (ma certo non per responsabilità dei ricostruttori) accanto alla regolare costituzione della coppia Octavian-Sophie, una del tutto superflua quanto gratuita ricongiunzione fra Annina e Valzacchi, ma soprattutto la riconciliazione fra la Marescialla e il marito, che sembra fatta apposta per ottenere il nulla-osta del vescovo alla proiezione del film negli oratori dei paesini più arretrati della diocesi! Buttando così nel cesso tutta la straordinaria valenza psicologico-socio-politica dell’uscita finale della Marescialla al braccio di Faninal.

Quanto alla musica, il povero Strauss, mancandogli le voci, si vide costretto a ripetizioni di motivi non sempre appropriate o a inclusioni di musica estranea all’opera, come brani del Bourgeois gentilhomme (per la festa all’aperto) o addirittura scritta ad-hoc per supportare scene inventate per il film (vedi tutto ciò che riguarda il Maresciallo, battaglia compresa): insomma, un’operazione che complessivamente mi pare non faccia una buona pubblicità all’opera. Certo, gran parte della musica che si ascolta è proprio quella… e ciò è quanto basta ad accontentare l’orecchio!
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laVerdi e Grazioli sono comunque da encomiare per la serietà e la diligenza con cui hanno affrontato la prova: dalla proiezione – sui due schermi laterali – della traduzione italiana delle didascalie, alla cronometrica precisione con cui l’orchestra ha illustrato le immagini. Oltre che al bellissimo suono (soprattutto il mitico argento straussiano) messo in campo. 

Quindi grande successo, pur in una serata caratterizzata da un’affluenza di pubblico decisamente sotto la media.

02 maggio, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°32

 

Torna in Auditorium, dopo tre anni e mezzo, Paul Daniel impegnato in un nuovo appuntamento beethoveniano

Con lui il pianista e compositore Orazio Sciortino, impegnato nel Secondo (cioè primo) concerto di Beethoven, quello in SIb maggiore, Op.19. Che ha in comune con quello in DO (Op.15) ascoltato una settimana fa, la chiara ascendenza settecentesca. Anche qui Beethoven mutua da Mozart (oltre che la tonalità dell’ultimo concerto) la tecnica della doppia esposizione (prima la sola orchestra, poi il solista) e dell’impiego non convenzionale dei temi, che il solista non riprende mai pari-pari rispetto all’orchestra (qui ad esempio il primo tema del solista è mutuato da un fugace inciso dell’esposizione orchestrale) oltre a inserire diverse ed anche ardite modulazioni, tipo il passaggio dal FA minore al REb maggiore – inopinata salita DO-REb - per l’esposizione della seconda idea orchestrale. Dopo il sognante Adagio in MIb, chiude il classico Rondò, ancora in SIb, dove – a fronte della struttura assolutamente simmetrica della successione dei tre temi: A-B-A-C-A-B-A – troviamo ancora interessanti innovazioni, come l’ultima comparsa del ritornello principale in un imprevedibile SOL maggiore.

Accompagnato da un’orchestra di organico proprio settecentesco (4 violoncelli, per dire) Sciortino ci regala un’interpretazione di tutto rilievo, nella quale spicca per delicatezza il centrale Adagio. Ai calorosi applausi il ragazzo siracusano risponde riproponendo il bis di Ravel (sua trascrizione) già da lui eseguito proprio un anno fa, dopo il secondo di Liszt.   
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Dopo l’intervallo ecco un po’ di (ehm, beh…) musica contemporanea: di Francesco Filidei viene eseguita per la prima volta in Italia Fiori di fiori, composizione che ebbe la sua prima assoluta poco più di un anno fa a Colonia, la cui Radio (Westdeutscher Rundfunk Köln) aveva commissionato il brano.

Dovrebbe essere il primo di 5 pezzi (gli altri 4 di là da venire) dedicati dall’organista Filidei ad altrettanti organi - dislocati in diverse chiese europee - su cui a suo tempo posò le dita (e i piedi…) Girolamo Frescobaldi: in questo caso è l’organo Biagi di San Giovanni in Laterano. E il titolo del brano non lascia dubbi su quale sia stata l’ispirazione per l’Autore.

In realtà qui si ascolta poca musica (come normalmente intesa) e un sacco di rumore; rumore che in questo caso evoca i rumori che si sprigionano dall’organo quando esso viene impiegato per produrre suoni. Ecco cosa dice di Filidei uno dei suoi maestri, Salvatore Sciarrino: Provate a immaginare una musica cui vengano sottratti i suoni: resta un brulicare, uno scheletro leggero ma ricchissimo di rumori meccanici, di sfioramenti e strisciate delle mani sugli strumenti. Questa è la musica di Francesco Filidei. Sottrarre alla musica i suoni? e questo sarebbe ancora musica? A proposito di… The rest is noise!

In sostanza, in Fiori di fiori Filidei vorrebbe trasmetterci le sensazioni che si hanno (diciamo: che lui prova) sedendo alla consolle di un organo (per suonarvi magari la Messa della Beata Vergine) dove – prima ancora del suono che esce dalle canne - si odono i rumori dei tasti toccati o della pedaliera pestata, dei registri innestati o disinnestati, dei mantici che spingono l’aria a scorrere nelle canne, e così via. Per fare ciò Filidei impiega un’orchestra sinfonica (dove gli archi, per dire, usano l’archetto come produttore di fruscio per agitazione nell’aria) e una bizzarra batteria di percussioni, fra cui una pompa di bicicletta, richiami per uccelli e fischietti vari. (Nel suo Macchina per scoppiare i pagliacci impiega anche: clacson, lingua di suocera (!?) cuscino e pure una centrifuga da insalata, con o senza l’insalata, chissa? smile!) Ecco, anche al buon Filidei si può applicare la massima che Frescobaldi scrisse in calce al ricercare della citata messa:

Intendomi chi può che m’intend’io.

Ahimè, che devo dire: che io non intendo proprio… Per carità, nessuno (e certo nemmeno io) mette in dubbio che Filidei faccia sul serio e non si diverta a prendere tutti per il… sedere, anzi: che dietro queste produzioni ci sia fatica, scienza, studio e fantasia non si discute. Che sia arte si potrà anche (non facilmente, peraltro) sostenerlo. Ma la domanda è: ammesso che sia arte, che c’azzecca con l’arte della musica, se vi mancano i suoni e restano - salvo un breve squarcio in fin dei conti neanche disprezzabile - solo i rumori? Fino a prova contraria chi va in una sala da concerto si aspetta di ascoltare musica, non rumore (di cui c’è già un gigantesco eccesso nella vita quotidiana): insomma, bisognerebbe tenere ben distinte pere da mele, biciclette da astronavi, come del resto si fa anche nelle discipline sportive (cosa diremmo se in un torneo di calcio ci si infilasse una partita di rugby?)

Naturalmente gli applausi non sono mancati (oggi si fischia caso mai Kaufmann…): per direttore, suonatori e anche per l’autore, presente in sala. Ecco, anche il fioretto del 1° maggio è fatto.
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Chiude la serata la Quinta di Beethoven, che non ha bisogno di presentazioni, né deve essere scoperta dall’Orchestra, che l’ha eseguita innumerevoli volte. Come sempre accade quando si ascolta qualcosa di arci-noto, il pericolo è di rilassarsi e perdere concentrazione, col risultato di apprezzare poco l’esecuzione. O anche, per il Direttore che sa di dirigere un pezzo inflazionato, il rischio è di voler a tutti i costi farsi notare, magari prendendo iniziative… eterodosse.

Mi è parso che Paul Daniel non sia caduto in questa sindrome del differenziarsi, e che la sua direzione sia stata assai sobria, privilegiando la razionalità sull’emotività. Bravissimi i ragazzi e meritato trionfo finale, in un Auditorium ancora una volta piacevolmente affollato, a dispetto di feste e ponti.