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28 settembre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°2

 

Gaetano D’Espinosa, ormai di casa presso laVerdi, dirige il secondo concerto della stagione (si replica domenica). Ancora un concerto tutto russo e tutto ottocentesco, almeno all’apparenza.

 

In più, si tratta di musiche, come dire, piuttosto adulterate (smile!) Abbiamo infatti un Sergej Rachmaninov rimaneggiatore di se stesso messo in sandwich da uno dei suoi più o meno diretti maestri, Modest Musorgski: ma con lo zampino di Rimski prima e di Ravel poi. Quindi nel programma c’è anche un po’ di novecento.


Si inizia con Una notte sul Monte Calvo, nella versione arcinota di Rimski. Che, a dir il vero, si basò su un originale che Musorgski non aveva intitolato così, poiché quel nome lo aveva dato ad un’altra composizione che con questa ha solo qualche punto, per quanto importante, di contatto. 
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In effetti, questo brano ha una storia assai complicata, come quella del suo autore del resto. Musorgski nel 1858 aveva iniziato a pensare (forse anche a buttar giù qualche nota) ad un’opera da Gogol (La notte di SanGiovanni) presto abbandonata. Poi pare avesse iniziato a comporre su quel tema un brano per pianoforte e orchestra. Infine, quasi 10 anni dopo ne estrasse alcune idee musicali per farci una specie di poema sinfonico, che intitolò La notte di SanGiovanni sul Monte Calvo, strutturato in quattro sezioni: arrivo delle streghe e attesa di Satana; arrivo di Satana accolto dalle streghe; messa nera e lodi delle streghe a Satana; sabba. La composizione è largamente debitrice a Berlioz (movimenti finali della Fantastica) e a Liszt (Totentanz) il che contraddice l’asserita avversione del compositore per la musica dell’ovest… È di una rudezza davvero primitiva e selvaggia (che a qualcuno fornisce il destro per ironizzare sulle qualità di orchestratore del nostro…) con un finale a passo di carica, duro e privo di ogni riferimento a cristiana redenzione. Rimasto praticamente sconosciuto per decenni, è emerso dalla polvere del tempo relativamente di recente: qui la prima incisione in disco.

Poi, nel 1872, Musorgski si mise a lavorare su un’opera, titolata Mlada, che doveva essere il risultato dei congiunti sforzi dei componenti della banda dei 5 (smile!) escluso chissà perché Balakirev e incluso Minkus: infilò nel terzo atto un brano per orchestra e coro intitolato La glorificazione di Chornobog (il diavolo) che riprendeva temi del poema sinfonico composto 15 anni prima e rimasto sepolto in qualche cassetto. L’impresa collettiva fallì miseramente e il solito Rimski, molti anni dopo (1889) ne trasse una sua opera-balletto di pari titolo e un paio di sunti orchestrali.  

Successivamente ancora, nel 1880, Musorgski si era dedicato ad una nuova opera, rimasta incompiuta come capitò a diverse sue composizioni (cui evidentemente il musicista riservava molte meno attenzioni che alla vodka, smile!) Era un’opera comica, sempre da Gogol, intitolata La Fiera di Sorochyntsi, e il nostro, ispirandosi ancora una volta al suo poema sinfonico, ci infilò alla fine del primo atto un intermezzo musicale, la cosiddetta visione onirica del contadinello, che evoca il sogno di un ragazzo a nome Gric’ko che vi vede le streghe, il demonio (Chornobog) e il sabba; però – a differenza del poema sinfonico - il sogno si conclude con la sparizione di spettri e diavoli, cacciati dallo spuntare di un’alba radiosa e dai religiosi rintocchi di una campana. Quindi una conclusione serena, proprio all’opposto di quella della Notte di SanGiovanni.

Orbene, Rimski - che aveva per anni convissuto con Musorgski, quando i due si scambiavano regolarmente ogni pagina di musica che scrivevano - nel 1886 prese in mano i tre diversi manoscritti dell’amico, ormai passato da un lustro a miglior vita, e decise di ricavarne, per pubblicarla, una versione che fosse a suo parere presentabile al pubblico, intitolandola appunto Una Notte sul Monte Calvo. Ma invece di prendere come riferimento il poema sinfonico di (quasi) pari titolo, si basò sull’intermezzo dalla Fiera di Sorochyntsi e lo rimaneggiò da par suo (cioè con somma maestrìa, la stessa che impiegò per le sue ricostruzioni di Boris e Kovancina, tanto per dire) per farci una Fantasia da concerto in cui compaiono i riferimenti al sogno di Gric’ko e precisamente: suoni sotterranei di voci sovrannaturali; apparizione degli spiriti delle tenebre e di Satana; trionfo di Satana e Messa Nera; sabba; suono della campana che disperde gli spiriti delle tenebre; sorgere del giorno.

Morale della favola: la Notte di Rimski è assai diversa da quella di Musorgski, come si può verificare analizzando la struttura dei due brani: perfettamente scolpito e tematicamente assai conciso quello di Rimski (che impiega solo pochi temi principali); molto più esteso, prolisso e con varie divagazioni tematiche quello di Musorgski, a dispetto della mancanza del finale sereno.  
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Chi ha qualche anno sulle spalle non può non ricordare Leopold Stokowski e la sua personale edizione di questo lavoro per il disneyano Fantasia, ottenuta per sottrazione di un po’ di Rimski e addizione di un po’ di Schubert (!)

D’Espinosa non manca di mettere in luce tutto lo splendore dell’orchestrazione di Rimski, in particolare le qualità degli ottoni, chiamati a poderosi passaggi. Ma è anche pregevole la sua chiusa religiosa, con gli interventi del clarinetto della Raffaella Ciapponi e del flauto di Massimiliano Crepaldi, e con i 5 secondi di silenzio imposti al pubblico prima di abbassare la bacchetta.
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Benedetto Lupo, ormai un abitué dell’Auditorium, arriva sul palco per interpretare il Primo concerto di Rachmaninov.

Che però, nella versione eseguita qui (che è anche quella normalmente eseguita) dovrebbe essere indicato come il… quarto. Sì, perché l’Autore nel 1917 (erano nel frattempo apparsi sulla scena personaggi come Schönberg e Stravinski, hai detto niente!) rimaneggiò ampiamente il suo primo (di 26 anni più vecchio e soprattutto ispirato al più profondo ‘800…) quando già aveva composto, eseguito e pubblicato da anni e anni il secondo e il terzo!
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Il Vivace iniziale (FA# minore) è strettamente in forma-sonata, con un’introduzione in fanfara seguita da pesanti scale in ottava del pianoforte; i due temi (FA# minore e LA maggiore) hanno caratteristiche simili, piuttosto languide e con moto ascendente (tranne la seconda sezione del primo tema, che scende precipitosamente) e sono esposti dall’orchestra e poi dal solista, separati da una transizione di virtuosismo; lo sviluppo è abbastanza articolato e conduce ad una ripresa in cui, al primo tema nella tonalità di impianto segue il secondo nella tonalità di FA# maggiore (secondo tutti i canoni scolastici); un ponte porta poi alla cadenza, dove i due temi compaiono distintamente; una coda chiude velocemente il movimento.

Fra le due versioni ci sono differenze abbastanza spiccate, pur se la macro-struttura è stata conservata; Rachmaninov nel 1917 apportò moltissime modifiche alla strumentazione, un po’ ovunque, ma anche a consistenti porzioni sia dell’esposizione (la parte conclusiva, con transizione verso lo sviluppo, che nella versione originale aveva alcune battute in 3/4) che dello sviluppo medesimo e del ponte nella ripresa verso la cadenza; la quale cadenza fu pure in gran parte riscritta, così come la coda, con chiusura pesante, ma meno enfatica rispetto all’originale.

Nella seguente figura sono schematicamente rappresentate le strutture delle due versioni e in giallo sono indicate le parti più corposamente modificate da Rachmaninov nel 1917:


Si noti il motivo indicato con (*): 4 note, discesa da tonica a dominante, ripetute. Nella versione del 1917 è stato espunto da Rachmaninov dal primo movimento, ma lo ritroviamo nel terzo (in entrambe le versioni) il che dava quindi al concerto originale una caratteristica di ciclicità, che si perde nella versione più tarda.

Il secondo movimento è un breve intermezzo in RE maggiore, languido e sognante. Ha una struttura assai semplice: dopo un’introduzione in cui si ode in orchestra un motivo vagamente parente del secondo tema del primo movimento, ripetuto quattro volte su gradi sempre più alti, ecco il pianoforte entrare con una battuta di arpeggi e poi esporre un primo motivo di sapore proprio… rachmaninoviano. Poi, a battuta 28, il solista presenta – con accompagnamento orchestrale assai discreto - una nuova melodia, un motivo che sale dalla sopratonica fino alla sensibile, e da lì su ancora a tonica, sopratonica, mediante, per poi creare una specie di climax, da cui si rientra per sviluppare il primo motivo in orchestra, con il solista che si limita ad accompagnarlo, fino alla sommessa cadenza conclusiva.

Qui, a parte la strumentazione rivista e piuttosto arricchita e persino appesantita  da Rachmaninov, le principali novità della versione del 1917 sono: una maggiore complessità della battuta 10 (entrata del pianoforte); una diversa resa del climax del secondo motivo, con corposo intervento orchestrale, timpani compresi, laddove era il solo pianoforte ad operare nell’originale; infine una maggior vivacità nell’accompagnamento del solista alla riesposizione del primo motivo (nell’originale: solo terzine, nella versione 1917 anche arabeschi vari). In tutto si passa dalle 67 battute del 1891 alle 74 della versione ultima, essendo stata leggermente estesa, oltre che modificata, la sezione centrale.

Il terzo movimento è un Allegro scherzando nel 1891, un Allegro vivace nel 1917. È la parte sicuramente più manomessa da Rachmaninov nella seconda versione. Mentre la macro-struttura è rimasta più o meno invariata (si veda lo schema riportato più sotto) qui c’è un pesante ispessimento dei contrasti, qualche divagazione metrica e tonale in più e una strumentazione lussureggiante al limite del rumorismo, con ricerca di effetti a buon mercato, che non sempre rende un buon servigio all’opera.

1891
1917
1 Introduzione in pianissimo
1 Introduzione in fortissimo
7 Tema A in FA# minore
10 Tema A in FA# minore
32 Tema B in LA maggiore dal motivo (*) chiuso con perorazione in fortissimo di tutta l’orchestra
38 Tema B in LA maggiore dal motivo (*) chiuso con un motivo D discendente in fortissimo di tutta l’orchestra
77 Tema C in RE maggiore, cantabile, con sezione chopiniana
71 Tema C in MIb maggiore, cantabile, con sezione chopiniana
125 Introduzione in pianissimo
116 Introduzione in fortissimo
131 Tema A in FA# minore
126 Tema A in FA# minore
156 Tema B in RE maggiore e ponte verso la Coda
156 Tema B in RE maggiore e SOL maggiore
222 Coda in Maestoso FA# maggiore sul Tema C
222 Coda in FA# maggiore sul motivo D

La versione ottocentesca sarà anche naif e pretenziosa la sua parte (basta ascoltarne la perorazione nella coda finale, quasi… wagneriana) ma a me pare almeno più sincera ed equilibrata rispetto alla revisione del 1917, che evidentemente risente di influssi… espressionisti. 
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Benedetto Lupo ne ha dato una lettura proprio novecentesca, trattando il pianoforte precisamente come uno strumento da percuotere: impressionante, ad esempio, la cadenza del primo movimento. Ma pregevoli sono stati anche i passaggi elegiaci e contemplativi, vedi l’intermezzo,  che impreziosiscono questo lavoro.

Gran successo e, dopo tanta… percussione, due bis dove la tastiera viene soltanto sfiorata.
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Ha chiuso la serata un’altra composizione… contraffatta (!) Si tratta dei Quadri di un’esposizione, che Musorgski aveva composto per la tastiera nel 1874 e che Maurice Ravel, ormai in pieno ‘900 (1922) orchestrò con grande sapienza e modernità.

Nella primavera del 2012 l’avevamo ascoltata qui nelle due versioni, proposte rispettivamente da Rudy e Bignamini. E anche ier sera i ragazzi non hanno perso l’occasione per mostrare la loro perfetta padronanza di quest’opera che impegna ogni singolo strumento e i pacchetti delle diverse sezioni oltre ogni limite.

Interminabili ovazioni per tutti e per ciascuno.
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Per il prossimo concerto (e siamo solo al terzo…) si deve già registrare un cambiamento di programma non da poco: mancherà Ceccato con il suo Dvorak, che sarà sostituito da Gustavo Gimeno e da Shéherazade.   

25 settembre, 2013

Michieletto non fa danni: ma la sua Scala non basta alla Scala


Ieri quarta recita della rossiniana Scala di Seta in un Piermarini ridotto ad un gruviera (ahinoi). Allestimento portato qui dopo anni (è del 2009, poi 2011) dal ROF, sponsor incluso (ma Cuccarini esclusa, smile!) e affidato alla scaligera Accademia.

 

Ieri era il terzo (!) cast di questa produzione: evidentemente si vuoIe dare un po’ di spazio a tutti gli allievi, come si fa per le recite scolastiche di fine anno. Risultato: francamente malinconico. La colonia asiatica accorsa per vedere all’opera i suoi conterranei ha applaudito timidamente, per il resto silenzio assoluto durante tutto lo spettacolo. Francamente non saprei chi salvare dal grigiore generale, che ha accomunato cantanti e orchestra, guidata da un baroccaro che forse pensava di dirigere un oratorio di Pergolesi (con tutto il rispetto) e ci ha propinato una minestrina piuttosto insipida. Nella sinfonia c’è stato perfino un pasticcio nella ripresa del tema principale, roba appunto da… oratorio (smile!)

 

Così, contrariamente al solito, dove sono le regìe strampalate ad affossare la recita, qui Michieletto ha almeno contribuito a non far addormentare lo scarso pubblico, ed è già qualcosa.


Certo, non è il caso di prendersela con i poveri allievi, ma con chi li manda allo sbaraglio chiedendo al pubblico di pagare il biglietto intero… Nobbuono. 

20 settembre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°1

 

Dopo il prologo (fuori abbonamento) in Scala, laVerdi ha aperto ieri sera in un Auditorium affollato la nuova stagione 13-14, la stagione dei suoi 20 anni.


Jader Bignamini, che si sta sempre più affermando come Direttore dopo aver esordito molti anni fa nella seconda fila dei fiati (al clarinetto piccolo) dirige un concerto interamente dedicato al musicista da cui l’Orchestra ha preso il nome.


Programma nutrito, che presenta brani da ben sette opere verdiane, scelte fra le meno rappresentate (non dico meno conosciute): di esse viene eseguita la Sinfonia/Ouverture mentre Lucia Aliberti ne canta diverse arie-cabalette.

La sequenza dei brani percorre una specie di pendolo temporale, muovendo dal Regno del 1840 fino alla Forza del 1862 (passando per la Luisa del‘49, l’Attila del ’46 e  l’Aroldo del ’57) per poi ripiegare (via Vespri, 1855) al pieno della galera (Foscari, 1844).

Parecchie di queste arie nelle rispettive opere sono accompagnate da interventi più o meno corposi di cori e/o di altri personaggi, che in un concerto faticano a trovare posto. Così niente coro, niente Wurm, Attila, Godvino e Pisana: come spesso accade in questi casi, si è ovviato al problema con tagli e/o passaggi lasciati ai soli strumenti. Ma nulla di grave: in un’antologia la cosa è del tutto sopportabile.

Lucia Aliberti, che tornava a cantare con laVerdi dopo qualche anno, ha ottenuto un caldo successo, a dispetto di una prestazione che – in assoluto – non si può certamente definire indimenticabile. Il 50enne soprano siciliano, da 30 anni sulle scene e dai multiformi interessi nel campo della musica, ha mostrato grande sensibilità interpretativa, ma la voce è quella che è: calda e flautata nei passaggi in mezzo-forte, si fa piuttosto dura e metallica in quelli a piena voce (vedi la Odabella) e fatica assai a passare nelle note più gravi.

Comunque, data la particolare caratteristica della serata (per lei, una cosa a metà fra il recital e la rimpatriata fra amici) il pubblico non le ha fatto mancare il trionfo, impreziosito da ripetuti omaggi floreali. Così, chiuso il programma ufficiale, ecco ben tre bis, dove ancora Verdi (Si colmi il calice della Lady e Libiamo di Violetta) ha incastonato un simpatico omaggio a Lehar (Vilja, oh Vilja della Glawari).
  
Bignamini ha diretto con grande sicurezza e attenzione ai dettagli, trionfando nei pezzi forti (che l’Orchestra conosce a memoria, come la Forza e i Vespri) ma sapendo cavare il meglio anche da quelli meno consueti (ad esempio l’Aroldo, dove Alex Caruana si è distinto con la sua tromba). Per il giovane Direttore un bel riscaldamento verdiano in vista del suo prossimo impegno, proprio a casa del Cigno, nel Simone.  
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Questo concerto verrà replicato oggi (venerdi) e domenica, come era regola fino alla scorsa stagione. Da questa però il palinsesto cambia: 17 dei 38 concerti verranno offerti in due sole serate (venerdi e domenica, con qualche eccezione) anziché tre.
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Per completare quest’orgia verdiana, allego un corposo documento su Verdi, scritto a quattro mani da Rodolfo Celletti, Luca Ronconi, Marcello Conati e Giampiero Tintori, comparso sul numero di dicembre 1986 di Musica&Dossier.

16 settembre, 2013

L’Orchestraverdi apre la stagione dei suoi 20 anni alla Scala

 

La simpatica tradizione, che vuole laVerdi ripresentarsi al suo pubblico dopo le vacanze (cortissime, per lei, come testimoniano le facce smunte di tutti i ragazzi) nell’austero scenario del Piermarini, si è ripetuta ieri sera per l’inaugurazione della stagione dei 20 anni dell’Orchestra, guidata da Zhang Xian.

 

Teatro affollato ma non proprio esaurito per ascoltare un programma all-russian: evidentemente in questi giorni, oltre che sulla scena politica internazionale, anche nei programmi musicali milanesi imperversa l’orso russo…


In realtà esiste una ragione più seria e profonda per questa scelta: il doveroso omaggio al leggendario fondatore dell’Orchestra: Vladimir Delman.



Così si parte da Ciajkovski per arrivare a Stravinski, passando per Rimski: un percorso persino didascalico, quasi una lezione da Conservatorio, come l’avrebbe fatta il Maestro, sull’evoluzione della musica russa nel passaggio da ’800 a ‘900. Poi in Scala si scopre che l’allievo Igor lascerà l’ultima parola al maestro Nicolaj, ma invertendo l’ordine degli addendi… etc. Si tratta in ogni caso di opere che per evidenti ragioni fanno parte del repertorio dell’Orchestra fin dalla sua fondazione.
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Ad aprire le danze è il 22nne Yury Revich che interpreta quella che l’esteta Eduard Hanslick aveva definito musica puzzolente (! in effetti anni fa da noi profumava di… brandy!)

Il ragazzo sarà forse ancora un po’ acerbo, ma ha una tecnica davvero straordinaria e non potrà che migliorare col tempo: già ieri, per dire, mi è parso più autorevole rispetto a questa esibizione di qualche anno fa.


Come allora, è stato forse eccessivamente circospetto nell’avvio, ma ha poi tirato fuori le unghie nel finale. Il meglio, a mio modesto parere, lo ha però dato nella canzonetta. Successo indiscutibile e bis sacrosanto.

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Evidentemente le guerre dovevano avere un effetto speciale su Stravinski e in particolare sul suo Uccello (pornosmile!): dico, appena finita la grande (1919) lui sciorina una nuova Suite dalle musiche del balletto, dopo quella del 1911; nel 1945, come si chiude la seconda, ecco subito una terza Suite! Poi, scongiurato per fortuna il non c’è due senza tre nucleare, il nostro è stato privato della possibilità di sfornare una quarta Suite, ergo si è dovuto rassegnare ad apportare alla sua creatura infuocata solo dei piccoli ritocchi qua e là, e magari solo per esigenze discografiche, come accaduto ad esempio nel 1947.

La figura che segue mostra una sintesi della struttura del Balletto e delle tre Suite (la terza anche in edizione 1947). L’ampiezza verticale delle righe è (più o meno) in scala con il numero di battute musicali del brano ivi indicato (il che non significa ovviamente che ci sia proporzione con la durata). La numerazione all’estrema sinistra è quella della macro-suddivisione di scene del balletto fatta dall’Autore; quella in testa ad ogni titolo è invece la micro-suddivisione dei singoli numeri del balletto, come si desume dalla partitura originale. Ho omesso per non complicare la figura i titoli dei vari brani delle Suite: per le prime due in pratica sono gli stessi titoli delle corrispondenti scene del balletto; la suite del 1945 introduce un po’ surrettiziamente tre brani intitolati Pantomima, ma null’altro sono se non parti o diverse denominazioni dei numeri del balletto. Nell'edizione in disco del 1947 sono stati usati anche termini svincolati dalle scene del balletto, come ad esempio: Adagio (Suppliche) Scherzo (Gioco) e Rondò (Khorovod).

Come si nota, le Suite pescano in modo diverso dalla fonte comune del balletto.


Il balletto originale (qui un’esecuzione di Jukka-Pekka Saraste) dura all’incirca 45 minuti. Le Suite si caratterizzano per la differenza di approccio con cui Stravinski le ha costruite a partire dal balletto.

La prima Suite del 1911 fu ricavata per pura e semplice estrazione di 96 pagine dalle 172 della partitura del balletto, con la sola modifica di 7 pagine, per ragioni di chiusura o collegamento di numeri. Le stesse matrici originali delle pagine del balletto furono impiegate per stampare la partitura della Suite. Quindi praticamente nessun intervento sulla strumentazione, né sull’organico orchestrale, a parte l’esclusione dei rinforzi dei 7 fiati (trombe e tuba) che nel balletto sono previsti suonare sulla scena e più che altro in numeri esclusi dalla Suite. La quale dura circa 25 minuti: qui è eseguita dagli spagnoli della Radiotelevisione di Madrid diretti da David Shallon, che però ci aggiunge anche la Ninnananna e il Finale.

La seconda Suite del 1919 fu invece assai più elaborata da Stravinski, che non si limitò ad una diversa scelta di brani da includervi, ma procedette ad una sostanziosa rivisitazione dell’orchestrazione e a qualche sottile intervento anche sulle linee melodiche. L’organico orchestrale è un filino ridotto rispetto a quello della prima Suite, sia nei fiati che nelle percussioni. Inoltre questa Suite prevede due possibili strutture: la prima si chiude, come quella del 1911, con la Danza infernale, la seconda include anche la Ninnananna, una transizione e il grandioso e magniloquente Finale, per una durata in questo caso di poco più di 20 minuti.

E al proposito si può osservare un esempio apparentemente insignificante di intervento sul contenuto musicale: riguarda le 16 battute (nella partitura del balletto) che chiudono il numero 23 (Profonde tenebre) prima dell’inizio del glorioso Finale dove – come nell’Alcina di Händel, per dire – si ripristina il ritorno alla vita. Mentre nel balletto queste battute arrivano dopo la morte del mago cattivone Kastchei e dipingono una specie di spettrale quiete che deve apparire come eterna, prima di essere inaspettatamente rotta dall’irrompere del tema del Finale, nella Suite il passaggio segue immediatamente l’esposizione della Ninnananna, che ha già instaurato, dopo il feroce ballo infernale, un clima più sereno e disteso. Perciò Stravinski altera quelle 16 battute, introducendovi una sia pur lenta accelerazione del tempo, proprio a preparare l’arrivo del trionfante Finale; e lo fa dimezzando il valore delle note delle ultime 10 battute, che si riducono a 5 trasformando le semibrevi in minime:


Qui il novello senatore Abbado la dirige a Lucerna, in versione completa con il Finale. È questa, delle tre, la Suite sicuramente più eseguita: a parte la maggior concisione rispetto alle altre, ha anche una struttura molto simmetrica, essendo costituita in pratica da un alternarsi per tre volte di brani lenti e mossi.  

La terza Suite del 1945 ricalca – a parte la presenza del Finale - piuttosto la prima nella struttura (quindi è più lunga della seconda, durando 28-30’) mentre di quest’ultima conserva le novità di contenuto. Ecco Stravinski dirigerla a Londra con la NewPhilharmonia nel 1965, a 82 anni! E qui la stessa versione come pubblicata nel 1947, eseguita con la NYPO.
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Bravissima la Xian già dall’iniziale pianissimo degli archi bassi e poi nella Khorovod, dove si distinguono l’oboe di Emiliano Greci e il cello di Mario Shirai. Forsennata, più che infernale, la danza delle creature del cattivone Kastchei: la cui conclusione proterva fa scattare anzitempo un applauso liberatorio quanto inopportuno, chè rovina il contrasto con la successiva ninnananna. Non proprio impeccabile l’attacco del finale, chiuso comunque con straordinaria efficacia.
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Infine è la volta di Rimski e del suo Capriccio Spagnolo (qui alcune mie personali note di presentazione). La Xian ci aggiunge manciate di rubato, che si possono anche tollerare, date le circostanze. Il pezzo è di quelli che non possono non far ammattire il pubblico. Note di merito per Luca Stocco al corno inglese, Raffaella Ciapponi al clarinetto, Max Crepaldi al flauto e per il Konzertmeister Santaniello.


Non poteva mancare un travolgente bis, e così i nostri hanno chiuso la serata precisamente come avevano fatto 10 giorni or sono ai PROMS.

Giovedi si comincia in Auditorium con tutto e solo Verdi

10 settembre, 2013

Il MiTo Temirkanov con Colli agli Arcimboldi


Il venerabile Yuri Temirkanov ha portato agli Arcimboldi (sala strapiena!) la sua splendida creatura (leggasi: Orchestra Filarmonica di SanPietroburgo) in un concerto tutto russo e tutto classico.

Il mio conterraneo (forsa Brèsa!) Federico Colli si è cimentato con un’opera che nuoce-gravemente-alla-salute (smile! ma lui è già immune dal contagio, avendo domato questo virus fin dal 2008 a Cantù). In effetti, da quando fu protagonista del film Shine, il Rach3 è – almeno nell’immaginario collettivo (beh, insomma… nell’immaginario di quei quattro gatti che si interessano di musica cosiddetta classica) – un pezzo da fuori-di-testa.

In realtà le difficoltà esecutive sono forse di natura atletica più che mentale (la lunghezza del concerto, mediamente sopra i 40’, e soprattutto la quasi continua presenza della parte solistica, che spesso e volentieri obbliga l’esecutore a velocissimi passaggi di semicrome percuotendo contemporaneamente fino a otto tasti!) mentre sul lato squisitamente estetico siamo un filino distanti da qualcosa che si possa definire un capolavoro. Rachmaninov approntò anche delle versioni tagliate della sua opera e lui stesso qui ci propone un’esecuzione attorno ai 30’, grazie a pesanti sforbiciate nel primo (da metà cadenza alla fine, per dire!) nel secondo e nel terzo movimento. Qui invece una coppia di cinesine – una delle quali ormai di casa a Milano - non dimentica una sola nota del concerto.

A NewYork, la sera della domenica del 16 gennaio 1910, a meno di due mesi di distanza dalla prima (28 e 30 novembre 1909, direttore Walter Damrosch con la NYSO) Rachmaninov interpretò il suo nuovo concerto con la NYPO diretta da Gustav Mahler. Nelle sue memorie, il compositore parla di quel successo travolgente (una decina almeno di chiamate) ma soprattutto esalta le grandi qualità di Mahler, che lo impressionò particolarmente durante le prove, per l’attenzione posta a ogni dettaglio della partitura ed anche per non esitare ad imporre all’orchestra un autentico super-lavoro, pur di ottenere la massima qualità dell’esecuzione. Rachmaninov ricorda come un giorno, alle 13:30 e alla fine di tre ore e mezza filate di prove, protrattesi per un’ora abbondante oltre il termine previsto, Mahler rimase seduto sul podio per discutere con lui alcuni dettagli; gli orchestrali cominciarono ad andarsene e lui li costrinse a rimanere ancora, esclamando: Finchè io sono seduto qui, nessun musicista ha il diritto di alzarsi!
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Rachmaninov doveva essere un tipo affetto da una qualche forma di ossessione, il che spiega certe sue manìe, come quella di infilare a destra e manca nei suoi lavori il motivo del Dies Irae. O di autocitare dei motivi che evidentemente gli ronzavano di continuo in testa.

E proprio l’introduzione dell’Allegro ma non tanto del concerto ne è un esempio: il motivo in RE minore (semiminima puntata e croma) affidato a clarinetti e fagotti, che prepara l’entrata del solista, è una chiara reminiscenza del primo tema (DO minore) del secondo concerto:


La struttura del primo movimento è una specie di simulacro di forma-sonata, che in realtà presenta – in particolare nella parte solistica - molti tratti più tipici della fantasia (questo rilievo in realtà si applica all’intero concerto). Si può schematicamente inquadrare come segue.

Dopo la breve introduzione strumentale abbiamo l’esposizione nel pianoforte del primo tema, in RE minore, un tema che non è propriamente fra i più mirabili che siano stati inventati:

In realtà, più che un classico tema, conciso e ben scolpito, è una melopea che si sviluppa e si trascina per ben 24 battute, su un accompagnamento sommesso dell’orchestra, prima che il pianoforte (Più mosso) introduca con un arpeggio la riesposizione del tema da parte di archi e fiati, che il solista accompagna con leggere e svolazzanti semicrome. Questa riesposizione viene sviluppata ulteriormente dal solista con grandi volate e in modo ipertrofico (per 48 battute, le ultime 8 in Allegro) prima che si arrivi ad una mini-cadenza (Veloce) chiusa sul LA. Da notare una raffinatezza di Rachmaninov - che sfugge anche all’orecchio più attento – consistente nell’anticipare nei fiati, proprio all’inizio delle battute in Allegro, il motivo marziale che introdurrà e accompagnerà il secondo tema:



Ora una transizione di 12 battute (Moderato, poi Allargando) affidata all’orchestra, che varia il primo tema e si abbandona ad una languida cadenza chiusa dal corno, ci fa scivolare verso la tonalità di SIb maggiore, in cui viene esposto dal solista il secondo tema, introdotto da 14 battute in cui archi, fiati e pianoforte, con piglio marziale, si alternano quasi a preparargli il terreno:


Questo secondo tema, che solo nella tonalità-modalità contrasta con il primo, condividendone invece il taglio languido, viene poi sviluppato in modo ancor più ampio e articolato rispetto al primo, con dolci interventi su un controsoggetto di fagotto, corno e oboe e cambi di tempo (Allargando, poi Allegro) fino alla conclusione, che – trasformando la mediante RE del SIb in tonica – ci riporta al RE minore su cui inizia quello che scolasticamente dovrebbe essere lo Sviluppo.

In realtà qui Rachmaninov avrebbe probabilmente avuto difficoltà a contrapporre i due temi, data la loro natura poco… contrastante, e così ecco che sviluppa soprattutto il primo, anzi più ancora l’inciso introduttivo (semiminima puntata e croma). Sviluppo invero mastodontico, costituito da almeno 5 sezioni che contengono continue modulazioni, variazioni di tempo e di volume del suono, dove è il pianoforte a farla da padrone; sviluppo che tocca un autentico parossismo in un passaggio notato in Allegro, poi Accelerando e infine, preceduto da 4 battute dove compare in orchestra un colossale accenno alla Pasqua di Rimski (ma nel terzo tempo la cosa diventerà ancor più scoperta) un Allegro molto, alla breve. Qui nel pianoforte emerge anche una figurazione che sembra richiamare, pur da lontano, quel Dies Irae che era un’autentica ossessione del compositore:

Questa sorta di anomalo sviluppo porta, quasi canonicamente, alla lunga cadenza, suddivisa in quattro parti: le prime due basate sul tema principale, poi un intermezzo in cui intervengono i fiati (12 battute, sempre sul primo tema) e quindi la quarta parte (21 battute) basata sul secondo tema (ora esposto in MIb). Della prima parte esistono due versioni, una di 39 battute, assai virtuosistica (qui Vladimir Horowitz da 10’59”) e l’altra di 55 battute, più pomposa e drammatica (qui Olga Kern da 10’56”).

Quella che dovrebbe essere la Ripresa si riduce ad una specie di Coda, dove viene riproposto quasi integralmente il tema principale e dove il secondo fa capolino (prima nei fiati e poi negli archi) in proporzioni assai ridotte e sulla tonalità di RE, prima della chiusa, che porta sommessamente ai RE gravi di pianoforte, corni e archi bassi.

Il tempo centrale è intitolato Intermezzo. Ha una struttura piuttosto articolata, che al primo ascolto è davvero difficile da inquadrare. Si potrebbe assimilare ad un anomalo Rondo, caratterizzato dalla presenza delle sezioni A-B-A’-C-A”, dove nei diversi A si nascondono almeno cinque variazioni del tema principale. Da notare che la sezione B è spesso tagliata, cosicchè il movimento si riduce quasi ad un tema con variazioni.

Inizia in Adagio, 3/4 RE minore (a dispetto dei tre diesis in chiave) ed è l’orchestra, dove si alternano archi e fiati, ad anticipare il tema principale:


Tema poi esposto, in forma arricchita, dai primi violini:


Dopo che gli archi hanno concluso languidamente l’esposizione, il solista – che ha avuto uno dei pochissimi momenti di respiro, per 30 battute… - entra per supportare la transizione verso una prima forma variata del tema, esposta poi modulando a REb:


L’orchestra entra poco dopo ad affiancare il solista che si sbizzarrisce in volate di semicrome, fino a chiudere la variazione con una veloce cadenza, dopodichè la ripresenta (Più mosso) in forma diversa e, raggiunto ancora dall’orchestra, modula verso il FA per preparare l’ingresso della sezione B:

Si noti nei violini primi un inciso che ricorda apertamente il tema principale del primo movimento! La sezione si stempera fino ad un Meno mosso, sempre sul FA,  dove ancora il pianoforte riprende vigore con una robusta figurazione – tonica-dominante - che introduce (Tempo più mosso) la ripresa del tema principale (sezione A’) ulteriormente variato, in SIb, che richiama vagamente all’orecchio l’incipit del Doppio concerto brahmsiano:


Altre due variazioni del tema (in RE e REb) proposte dall’orchestra, sono sottolineate dal solista con pesanti accordi in fortissimo, poi si ha la transizione che porta verso la sezione C, che è un velocissimo tempo di Walzer in 3/8 e in tonalità FA#. Qui Rachmaninov introduce quasi subliminalmente richiami ai due temi del primo movimento: dapprima nella linea del clarinetto (primo tema) poi nei violini (introduzione marziale al secondo) e infine nel pianoforte (primo tema ancora):


Un rallentamento del ritmo (Meno mosso) porta, su un trillo in DO# del pianoforte – che poi si riposa per 20 battute - all’ultima apparizione (sezione A”) del motivo principale, esposto dalla sola orchestra, con il corno principale in evidenza.

A questo punto il pianoforte interviene assai brutalmente per proporre, in RE minore, la transizione al movimento conclusivo, cui si accede attraverso due poderosi accordi di tutta l’orchestra, dopo una velocissima volata in biscrome del solista.

Il Finale attacca subito, riprendendo l’accordo che aveva chiuso l’Intermezzo. L’incipit, nei legni, è un chiaro rimando ad uno dei motivi che Rimski aveva presentato nella Grande Pasqua russa, e per la verità viene anche da più lontano… (Glinka, Ruslan&Lyudmila):


La struttura di questo finale rispetta fondamentalmente i canoni della forma-sonata: esposizione di due gruppi tematici, ipertrofico sviluppo degli stessi, ricapitolazione e corposa coda conclusiva.

Il primo gruppo tematico è composto da due motivi, esposti di seguito dal solista e accompagnati dall’orchestra, il primo in RE minore, il secondo in LA minore, abbastanza apparentati dal ritmo:


Il secondo gruppo, sempre esposto dal solista, ma con accompagnamento più corposo dell’orchestra, è costituito da due motivi più elegiaci, in specie il secondo, in DO e in SOL maggiore, rispettivamente:


Complessivamente l’esposizione (chiusa da un fugace ritorno del primo motivo e del RE minore) è di 131 battute, anche se Rachmaninov stesso autorizzò il taglio delle ultime 29 (in pratica l’intero secondo motivo del secondo gruppo tematico, quello che verrà ripreso in pompa magna nella cadenza finale).

Come detto, lo sviluppo è davvero assai esteso: occupa 113 misure e si può suddividere in ben 10 sezioni distinte (anche qui l’autore ha autorizzato il taglio delle sezioni 5 e 6, per un totale di 13 battute). La tonalità modula a MIb, mentre ricompaiono ricordi dei due temi principali del primo movimento (conferendo ancor più all’opera una caratteristica di ciclicità). Sul ricordo struggente del secondo dei due temi – accompagnato dagli interventi di flauto e corno - si divaga brevemente a MI. Lo sviluppo è chiuso da quattro battute di cadenza, una specie di corale, del pianoforte.

La ricapitolazione è aperta da quattro battute introduttive, sempre in MIb, che segnano il ritmo caratteristico del primo tema, che compare poi in DO minore negli archi. Più avanti il secondo motivo è riproposto dal pianoforte in FA, quindi ancora il primo in SOL. Arriva poi il secondo soggetto, praticamente riproposto come nell’esposizione, il cui primo motivo è esposto in SIb e il secondo in FA maggiore.

Ecco ora la lunghissima Coda (121 battute!) Si suddivide in due parti, di cui la prima è caratterizzata dal ritmo dell’introduzione del movimento e chiusa da una rapidissima cadenza del solista, dopo che una modulazione ci ha portato a RE maggiore. Nella seconda parte Rachmaninov getta a piene mani tutti gli ingredienti più dolciastri della sua dispensa: poderosi accordi del solista espongono ed accompagnano la melodia degli archi, che ripropone il secondo motivo del secondo gruppo tematico. Un crescendo generale porta alla conclusione tanto enfatica e retorica quanto impressionante.
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Federico Colli (che si è presentato indossando una giacca a code di un bianco abbacinante…) intanto ha eseguito quasi tutte le note (concedendosi solo il breve taglio nello sviluppo del finale) e ha suonato la prima delle due cadenze, sicuramente la più impegnativa. Ha aggredito la tastiera da par suo nei molti passaggi truculenti che costellano il concerto, ma soprattutto e specialmente ha mostrato una grande sensibilità interpretativa nei momenti più intimistici dell’opera, meritandosi un autentico trionfo, ripagato con uno dei suoi bis abituali.
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Dopo un antipasto che da solo equivale a… tre portate piuttosto ardue da digerire, ecco il main-course che invece si merita mille-e-una beatificazioni! La strepitosa Sheherazade di Rimski. (Rachmaninov – diciamola pure tutta – non arriva nemmeno a sfiorare le caviglie al sommo Nikolaj.)

Temirkanov (qui 10 anni fa con la SantaCecilia, di cui è oggi Accademico) ha cavato dai suoi tutto quanto (e di più…) c’è di straordinario in questa partitura. È davvero un piacere per l’orecchio, ma anche per l’occhio, vedere questa squadra affiatatissima con il suo capitano, che la conduce quasi… facendosi condurre, sempre senza bacchetta e con gesti che paiono carezze rivolte agli strumentisti.

Successo strepitoso - ovviamente con menzione speciale per la... principessa Lev Klychkov - ripagato con bis, chiusi da Stravinski, col celebre Vivo pergolesiano dal Pulcinella, dove spiccano i glissando del trombone e la parte del contrabbasso.

Insomma, una bella serata - si replica stasera sotto la Mole, con Ciajkovski al posto di Rimski - che onora la manifestazione milan-torinese.
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Con l’occasione allego un corposo studio di Valeri Voskobojnikov sul Gruppo dei Cinque (noto come Mogučaja kučka, il possente manipolo, di cui fu membro eminente Rimski e da cui fu influenzato Rachmaninov) apparso nel numero di settembre del 1987 di Musica&Dossier.