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31 ottobre, 2011

Věc Makropulos al Maggio


Chissà perchè ogniqualvolta arrivo a Firenze in treno mi torna in mente il (non da me) compianto professor Gianfranco Miglio, padre spiritual-cultural-ideologico-teorico della lega di Bossi. Il quale una volta venne in TV e spiegò che lui, scendendo a Santa Maria Novella, già si sentiva a disagio, un po' come si trovasse all'estero. Ecco, il tipo secondo me doveva soffrire di qualche fastidiosa disfunzione cerebrale, per avere in testa idee simili…

Perché se c'è un posto dove chiunque, ma proprio chiunque, si trova a suo agio, questo è Firenze, anche ieri bella e animata come sempre. Così mi son preso anche il tempo per farmi una semelle col lampredotto, per affrontare nel modo migliore il caso Makropulos, arrivato alla sua terza e penultima rappresentazione, in un teatro gremito nelle gallerie, ma con molti – troppi, ahinoi – vuoti in platea.

Sulla decisione di cantare l'opera in lingua originale, e non in traduzione italica, si può discutere all'infinito. Però non si deve dimenticare quanta importanza Janáček attribuisse alla musicalità della parola e quante ricerche condusse proprio sull'intima connessione fra suoni e fonemi della sua lingua: in sostanza, la sua musica è costruita meticolosamente attorno all'idioma ceco. Nella fattispecie poi, il libretto è così complicato, e la vicenda così intricata, che se lo spettatore non li studia per bene a priori, difficilmente ci si raccapezza, anche se proposti in lingua italiana. Faccio solo un esempio. Uno dei pilastri su cui si regge l'intreccio (l'eredità del fondo Loukov contesa fra i Gregor e i Prus) è costituito nientemeno che da un equivoco basato a sua volta su un gioco di parole… per di più fra la lingua tedesca e quella ceca! Mentre i Gregor sostengono che il vecchio Pepi (Josef Ferdinand Prus) avrebbe lasciato - ma senza alcun testamento scritto - l'eredità al figlio naturale Ferdinand Karel Gregor (cognome abbreviato dallo scozzese MacGregor, della madre Ellian) i Prus ribattono, con tanto di dichiarazione verbale in punto di morte del medesimo Pepi (raccolta e trascritta in tedesco da un notaio) che il vecchio aveva deciso di lasciare l'eredità – "Herrn Mach Gregor zukommen soll" - a tale Mach Gregor, che in ceco si può interpretare (invertendo cognome-nome) come Rehor Mach (guarda caso un'identità reale). Quindi tutto l'amba-aradam nascerebbe da quell'acca appeso al Mac, che trasforma lo scozzese MacGregor nel ceco Mach. La cosa sfugge ad un lettore poco attento, e con essa tutto il senso della diatriba Gregor-Prus. Per di più, sullo schermo della traduzione italiana che gli spettatori vedono a Firenze (non sul programma di sala) è tradotta anche la frase in tedesco ed erroneamente è riportato Mac (e non Mach) Gregor… per cui il tutto diventa davvero incomprensibile.

Ma anche la trama (di Čapek e conseguentemente di Janáček) soffre di alcune evidenti forzature (è vero che racconta un fatto irreale - una tizia che vive da 337 anni… - ma ogni storia, anche surreale, deve pur sempre fare i conti con un minimo di logica e di verosimiglianza!) Orbene, noi qui abbiamo un Albert Gregor (che sappiamo essere abbreviazione di MacGregor) che vive nel 1922 con regolare registrazione all'anagrafe ed ha alle spalle alcune generazioni di Gregor, su su fino a un secolo prima e a quel (certo o millantato) Ferdinand Gregor, figlio naturale del vecchio Pepi e di Ellian MacGregor (la protagonista E.M.) che gli avrebbe dato il suo cognome, in assenza di riconoscimento da parte del padre naturale. Ma alla fine – leggendo con Jaroslav Prus un atto di nascita del 20 novembre 1816 ritrovato evidentemente fra le carte di casa Prus – noi scopriamo (cosa confermata dalla stessa E.M.) che a quel bambino (Ferdinand) non era stato dato il cognome di Gregor, bensì quello di Makropulos, figlio di padre ignoto e di Elina Makropulos (sempre lei, la protagonista E.M.) Ora: come si spiega che all'anagrafe del 1922 Albert risulti col cognome Gregor (o MacGregor) se il suo antenato del 1816 era stato registrato come Makropulos? Verrebbe da pensare – come in effetti fa Jaroslav Prus - che i veri antenati di Albert nulla abbiano a che fare con quel Ferdinand (visto che fu registrato come Makropulos e non come Gregor!) Ma a questo punto vien da chiedersi come sia potuto accadere che nel 1827 - 11 anni dopo la nascita, con regolare trascrizione all'anagrafe, di Ferdinand Makropulos – un orfanatrofio potesse ospitare un bambino di nome Ferdinand Karel Gregor – ritenuto pure lui figlio illegittimo del vecchio Pepi – per il quale il barone Szephàzy reclamava l'eredità del fondo Loukov, dando così inizio alla causa secolare fra i Gregor e i Prus! Certo, Pepi poteva anche essere un coniglio che lasciava figli illegittimi ovunque, ma la vicenda ha effettivamente del farraginoso, direi. Inoltre si dovrebbe escludere anche la consanguineità per discendenza diretta fra Albert ed E.M. (aspetto fondamentale nell'economia del dramma, a cominciare dai reiterati rifiuti che E.M. oppone alle profferte amorose di Albert) proprio mentre la stessa E.M. mostra di conoscere particolari assai precisi sulla vita di lui, come il nomignolo Bertičku affibbiatogli dalla madre (la stessa E.M. per caso?) E ancora, e ancor peggio: la spiegazione che E.M. fornisce di quel fatto (il cognome Makropulos e non MacGregor affibbiato al figlio) è che il cognome MacGregor non poteva essere da lei dichiarato, in quanto fasullo, e quindi lei (E.M.) si era vista costretta a dare all'anagrafe il suo vero cognome (Makropulos, per l'appunto). Ma Elina Makropulos, nel 1816 (nascita di Ferdinand) aveva nientedopodomanichè 231 anni! E come poteva avere dei documenti di identità credibili più del falso Ellian MacGregor?

Insomma, meglio non star troppo a ragionarci su e… godersi invece il progressivo accumularsi di piccoli indizi, strane allusioni, comportamenti inquietanti, coincidenze inspiegabili, che fanno crescere la tensione drammatica dell'opera, fino al suo epilogo, dove tutti i nodi vengono finalmente al pettine e tutti i misteri (fatti salvi i buchi di cui sopra… ) si chiariscono.

Ed è naturalmente la musica di Janáček a renderci emozionante e indimenticabile questa avventura. Una musica di volta in volta secca, arida e sbrigativa (per supportare gli eventi burocratici della vicenda e i conseguenti declamati) oppure appassionata e sanguigna, a sottolineare i sentimenti – passione, ammirazione, odio – dei diversi personaggi; o ancora grandiosa e drammatica, nel finale dove la protagonista mette in guardia noi comuni mortali dai pericoli derivanti dall'inseguire tutti gli elisir-di-lunga-vita che, ammesso ci regalino qualche anno di esistenza in più, altrettanta felicità ci tolgono.

Zubin Mehta, per lo meno alle mie orecchie, ha dato una convincente lettura dell'opera, assecondato da un'orchestra in buona forma (forse dai corni è venuto nel finale qualche problema). Angela Denoke – ormai specialista del ruolo - è stata una E.M. perfetta attorialmente e ottima vocalmente. Bravo Miro Dvorsky come Gregor, una parte tenorile forse non proibitiva, ma comunque difficile (che tocca anche un DO acuto). Rolf Haunstein (Kolenatý), Andrzej Dobber (Prus) e Jan Vacik (Vítek) assai efficaci. Meno convincente per me (voce un po' chioccia e tendente all'urlo) Jolana Fogašová nei panni di Krista. Karl Michael Ebner è stato un simpatico Hauk e Mirko Guadagnini un buon Janek. I personaggi minori (macchinista, inserviente e cameriera) erano adeguatamente rappresentati da Roberto Abbondanza, Stefanie Iranyi e Cristina Sogmaister. Accurato - nei brevissimi interventi finali - il coro maschile di Piero Monti.

Quanto alla regìa di William Friedkin, per me ha il merito di non far danni (ed è già qualcosa!) Impostazione minimalista ma sostanzialmente fedele al libretto, a parte qualche eccesso (vedi l'entrata in scena alla Wanda Osiris di E.M.) La fotografia di Rocky Schenck serve bene all'inizio per introdurci alla onni-presenza di E.M. e, alla fine, per avvolgerla di fiamme, insieme alla formula dell'elisir.

Tirando le somme, uno spettacolo gradevolissimo e di buon livello, che ancora una volta fa onore al Maggio, che ha annunciato la stagione 2012. E al quale non resta che augurare di venire a capo dei problemi che lo affliggono. Firenze (Italia, professor Miglio!) se lo merita davvero.
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4 commenti:

Marisa ha detto...

grazie per il tuo affetto!

daland ha detto...

@Marisa
e grazie a Firenze per meritarselo...
Ciao!

Giuseppe Sottotetti ha detto...

Impossibile tradurre Janacek e poi... se dopo che l'abbiamo tradotto la pronuncia dei cantanti è così difettosa da rendere difficile la comprensione del testo siamo punto e a capo

daland ha detto...

@Innominato (smile!)
Se escludiamo le opere destinate a pura esibizione di gorgheggi canori (rispettabilissimo genere, per carità) il problema della comprensibilità del testo è fondamentale, e lo spettatore che ne viene privato (dalla cattiva dizione dell'interprete o dalla sua propria pigrizia nel cercare di "capire" in anticipo cosa sta andando ad ascoltare-vedere) si perde normalmente l'80% del piacere estetico che l'opera potrebbe dargli; e magari decide che la lirica è da buttare.

A presto!