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05 ottobre, 2011

Un Cavaliere della rosa (con spine) alla Scala


Ieri sera Der Rosenkavalier ha avuto la sua seconda recita alla Scala, tutto sommato accolta assai favorevolmente da un pubblico non foltissimo, e con parecchi… disertori lungo il cammino delle quasi 4 ore e mezza di spettacolo.

Ecco invece come Bruno Walter (il 13 aprile 1911) descrisse la prima viennese dell'opera (avvenuta 5 giorni avanti) ad un Mahler che si trovava a Parigi, arrivato ormai ad un passo dalla fine:

Caro amico! Vi volevo raccontare della prima del Rosenkavalier, che si è appena tenuta qui. Il mio parere riguardo a Strauss non è cambiato. Di fatto, sono ancora più disgustato di prima. L'opera è in tutto e per tutto un fallimento. L'insincerità assoluta del libretto, la fuga da quelle rare qualità che Strauss ancora padroneggiava: arguzia, estro e un certo qual gusto. Si tratta di un tentativo penoso e mancato di inventare melodie e walzer degni di Lehar, un lurido ammasso di sentimento, o piuttosto di sentimentalismo (…) in breve: una penosa e macchinosa volgarità (…) Ma questi walzer! Queste 'melodie' di terze! Queste dolcezze nauseabonde! Nessun cognac al mondo potrebbe rimettere a posto lo stomaco di chi le ha ingurgitate!

Una decina d'anni o poco più tardi lo stomaco di Walter si doveva essere parecchio irrobustito, visto che a Londra il nostro diresse alcune recite dell'opera rimaste memorabili, con la grande Lotte Lehman nella parte della Marescialla.

La quale è la protagonista assoluta dell'opera, pur essendo in scena soltanto (si fa per dire) per un atto e un quarto: tutto e tutti in fondo si muovono in funzione sua, come pianeti e satelliti di una stella di prima grandezza. Inoltre – e la cosa potrebbe sembrare paradossale, parlando di una signora sposata che se la fa con un cuginetto di quasi 20 anni più giovane – lei ha una moralità profonda, che le deriva in primis dalla presa di coscienza della sua stessa condizione e della sua propria vicenda esistenziale. E di conseguenza possiede anche – a suo modo – una certa religiosità, magari ereditata dalla passata vita monastica, che non soltanto si materializza nel suo andare in chiesa e nel suo far visita al vecchio zio paralitico, ma che tocca il punto più alto quando la Bichette spiega al suo Quinquin che il crudele tempo proviene, come tutto, dallo stesso e unico creatore:

Però non dobbiamo neppure averne timore. Anche il tempo è una creatura del Padre che tutti noi ha creato.(Parli come un prete, l'ammonirà di lì a poco l'ingenuo, acerbo Quinquin…)

Certo, qualche complesso di colpa lo deve avere anche lei se, mentre dorme accanto al giovane amante, sogna il ritorno improvviso del marito! E se ancora ne sospetta l'arrivo, sentendo un trambusto in anticamera, mentre fa colazione con Quinquin:
Ma sono poche battute dell'Introduzione, riprese poi letteralmente nella prima scena (dopo Ich hab' dich lieb) a descrivere - meglio di pagine e pagine di parole - lo stato d'animo della Marescialla, combattuta fra la lancinante prospettiva dell'invecchiamento (e quindi della perdita dell'amore di Octavian) e la serena rassegnazione di una donna che ha capito i misteri dell'esistenza:
Sono quattro battute in cui sono evocati: il settimo cielo dell'amore (carnale e spirituale insieme) raggiunto con quel salto di ottava ascendente sulla dominante di MI (SI-SI) che ha il coraggio di spingersi ancora più in alto, fino alla sesta (DO#) ma che subito ricade per più di un'ottava (sul DO naturale sottostante) a mostrarci lo strazio di chi vede sempre più vicina l'ineluttabile fine (lo stesso intervallo discendente sottolineerà l'ebete constatazione del povero Ochs, nel terzo atto, di fronte alla rivelazione dell'identità Octavian=Mariandel); ma poi ecco una caparbia ripresa – il ritorno alla sesta giusta e la risalita alla quarta superiore – per dar luogo infine ad un rientro nella normalità delle leggi fisiche, musicali ed… esistenziali, con la discesa sulla dominante. Che porta, nelle battute successive, ad un sereno ritorno a casa (la tonica MI). Qui pare davvero condensarsi l'intera vicenda dell'opera e l'intera vicenda umana della protagonista, che passa dall'estasi amorosa alla depressione sconfortata, per poi imboccare il suo viale del tramonto nella serena rassegnazione ed accettazione di ciò che il buon Dio (Der liebe Gott) deciderà. E il motivo, carico di significati, torna (abbassato di un semitono, tonalità MIb) nei primi violini e nel violoncello solo alla chiusa del primo atto, a sottolineare l'ordine che la Marescialla impartisce a Mohammed di consegnare la rosa d'argento al Conte Octavian.


Sappiamo che la vicenda narrata nell'opera è tutta un'invenzione, e a prima vista ci pare fuori luogo che la Vienna della nobiltà del 1740-45 sia musicalmente caratterizzata dal walzer, cento anni prima del dovuto. Ma dietro queste apparenze c'è parecchia sostanza. Perché in realtà Hofmannsthal e Strauss hanno voluto individuare in quella Vienna alcuni caratteri, ancora in nuce, della Vienna dei giorni loro.


E non solo nella musica (a metà del '700 il ballo dei nobili era il casto menuetto, ma il ländler, poi walzer, cominciava a farsi largo, anche fra le classi non plebee, come ci dimostra il nobile buzzurro Ochs) ma anche nei rapporti sociali: quale differenza fra la vicenda personale di Marie-Theres, mandata prima in convento (ed è difficile pensare ad una genuina vocazione, in una donna come lei!) e poi tolta da lì per essere data in sposa ad un nobile sconosciuto (per quanto ricco) e la vicenda di Sophie (che non pare proprio un modello di ragazza pia e arrendevole) e Octavian (che è quello che oggi chiameremmo un figlio-di-papà, piuttosto viziato e facilitato nei suoi vizi dall'avere anche un aspetto attraente… ricco e pure bello, insomma). Il fatto nuovo, rispetto alle consuetudini di quella civiltà - tanto felice quanto decadente - è che i due ragazzi si uniscono perché – toh! - si sono innamorati (quanto poi fallace o duraturo sia questo sentimento conta relativamente) e non perché qualche architetto-di-interessi o ingegnere-di-pedigree abbia così deciso in laboratorio! Il duetto che sottolinea il loro primo incontro, nel second'atto, è – parole e soprattutto musica – la più straordinaria espressione di questo new-deal nel campo dei rapporti personali e sentimentali all'interno delle classi dominanti.

Interessante notare che, poco prima, al momento delle presentazioni, Sophie aveva cantato Ich kenn' Ihm schon recht wohl, mon cousin! (ti conosco già molto bene, mio cugino) su un motivo che arriva direttamente dalla quarta sinfonia di Mahler, primo verso del Lied dell'ultimo movimento Wir genießen die himmlischen Freuden (noi godiamo le gioie celestiali) persino nella stessa tonalità di SOL maggiore:
Un riferimento – testuale oltre che musicale - per nulla peregrino.

Invece la figura invereconda che vien fatta fare ad Ochs (davvero un bue) è quella che tutta la nobiltà retriva e parassitaria farà qualche decina d'anni più tardi. Mentre l'uscita di scena di Marie-Theres al braccio di Faninal rappresenta mirabilmente il feeling nascente fra la nobiltà illuminata e la borghesia produttiva.

Insomma, dietro l'apparente frivolezza e vacuità del soggetto si celano contenuti di una certa profondità, e soprattutto una visione positiva e apologetica (magari patetica e ottusa… nel 1910) della società viennese e mitteleuropea, in cui gli autori peraltro erano inseriti con grande successo, non dimentichiamolo: da qui l'idea di rappresentare con una commedia leggera i fermenti e i sommovimenti che avevano portato la società settecentesca ad evolversi verso quella di cui loro vedevano e godevano ancora gli aspetti positivi.

Invece l'ormai ammuffita regìa di Herbert Wernike – scomparso da qualche anno – purtroppo non fa che riproporci il vecchio e piuttosto cervellotico stereotipo del Rosenkavalier come opera decadente e pessimista, in cui si prefigurerebbe l'imminente tracollo di una civiltà della quale sarebbero messi in evidenza tutti gli aspetti grotteschi e farseschi.

Di questa visione (per me) distorta è testimonianza l'ambientazione nella Vienna del primo '900 (quando l'opera venne composta e rappresentata) dove quei fenomeni - che 150 anni prima erano solo in gestazione – avevano avuto ormai il loro sviluppo e dove casomai se ne preparavano di completamente diversi e non certo rassicuranti. Un esempio minuscolo, ma significativo: nell'atto conclusivo ha – o dovrebbe avere – una certa importanza la parrucca che Ochs si è tolto per iniziare i suoi approcci amorosi con Mariandel, e che non riesce più a trovare dopo l'acciaccapesta in cui è stato coinvolto. Di quello speciale tipo di copricapo lui avrebbe un bisogno assoluto per convincere l'Unterkommissarius del suo status di nobile, ed infatti l'ufficiale di polizia gli domanda subito perché un barone non l'abbia in testa, la parrucca. Ecco, il senso di questa scena – e del testo che continuiamo ad ascoltare! - si perde irrimediabilmente se l'ambientazione è diversa, in un mondo dove la parrucca con il suo significato di classe non esisteva più ormai da un bel pezzo e dove – per supportare in qualche modo il libretto – la parrucca viene sostituita da un volgare parrucchino!

Ma anche il walzer, se viene ambientato ai tempi di Strauss, viene contemporaneamente svilito a puro simbolo di una società in via di putrefazione (da qui tutte le accuse di meschino conservatorismo rivolte da sempre al compositore) mentre in realtà ai tempi di MariaTeresa era una forma musicale che stava diventando uno dei motori del nuovo assetto sociale, nientemeno.

E anche l'uscita della Marescialla e di Faninal, che se ne vanno in direzioni opposte sullo sfondo di un viale del tramonto, ci rappresenta lo specchio della società asburgica ormai in pieno disfacimento, perdendo tutto il (positivo) significato sociologico e di costume che possiede quando correttamente ambientata e presentata come da libretto.

In più dobbiamo registrare le solite trovate pseudo-intelligenti, come l'arlecchino, che pare messo lì dal regista tedesco per rincarare la dose di sberleffi sugli sbifidi italiani. O la pletora di bambini (invece dei quattro previsti) fatti passare per figli illegittimi di Ochs (l'unico aspetto positivo qui è l'occasione data al Coro di voci bianche di Casoni per mettersi in mostra…) Non parliamo poi dello scalone da Wanda Osiris impiegato per l'arrivo di Octavian in casa Faninal. E infine dello spostamento della ferita che Octavian ha inferto ad Ochs, dall'omero alla chiappa!

Per la verità l'allestimento ha anche qualche aspetto interessante, come l'impiego degli specchi, che consente al pubblico di vedere dietro (i separé, le tende, i paraventi, dove si svolgono parti importanti della scena). In particolare, nel secondo atto questa trovata consente al regista di mostrare i movimenti dalla coppia Valzacchi-Annina che si appostano per cogliere in flagrante i due innamorati; e poco dopo anche per spiegare allo spettatore in modo esplicito (cosa non riscontrabile nel libretto) come, dove e quando avvenga il passaggio di casacca dei due faccendieri italiani dal campo di Ochs a quello di Octavian (+Marescialla.)

In definitiva, una regìa per me abbastanza deludente proprio nell'impostazione di fondo.
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Sul fronte musicale, notizie abbastanza confortanti da orchestra e direttore. I professori per lo meno non hanno combinato guai, e dati i tempi grami la cosa è già un successo. Philippe Jordan – al contrario del regista – mi è parso prendere l'opera dal verso giusto. Cito un piccolissimo, ma per me significativo particolare: l'accompagnamento del tamburo militare al walzer che chiude il secondo atto. Di solito (da 4'09") non lo si sente quasi, forse in omaggio all'idea che quello sia un walzer da nobilitare. Jordan invece ci fa sentire chiaramente (e correttamente, non come l'esagerato, oltre che pentito, Bruno Walter, qui a 5'50") quello strumento, che sottolinea con discrezione la rozzezza di quei primi walzer settecenteschi e campagnoli.

Di tutta la compagnia cantante mi sentirei di citare con ampia sufficienza la DiDonato (Octavian) dei primi due atti (nel terzo si deve essere spiritualmente trasferita al teatro Smeraldo, smile!) e Rose (Ochs) e di non censurare i comprimari. Degli altri interpreti principali, passabile Ketelsen (Faninal) con il suo vocione in fondo abbastanza appropriato al personaggio, e appena appena sufficiente la Archibald (Sophie) che non è andata esente da qualche urletto; quanto alla Schwanewilms (Marescialla) canterà anche bene, ma più che altro mi è parsa una grande attrice di film muti (smile!): a parte gli scherzi, dal loggione si faticava a sentirla. Álvarez ha sparato i suoi SIb e SI naturale senza apparente fatica, vuol dire che può ancora sostenere ruoli dove debba cantare per un paio di minuti (!)

Tirando tutte le somme – a mio modestissimo avviso – oltre ad un poco di profumo della rosa si sono sentite (ahi-ahi!) anche parecchie punture di spine.
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2 commenti:

notnA ha detto...

Ciao a tutti,
sono andato non alla seconda, bensì alla terza recita. Premesso che le mie opinioni non poggiano, ahimè, su un’istruzione musicale bensì provengono unicamente dal piacere e dall’emozione suscitatimi durante l’ascolto, vorrei dire che Jordan, per quanto giovane, ha dato veramente una bella direzione, per esempio tirando fuori dei bei pieni orchestrali pur senza mai scivolare nello sguaiato, come pure ottenendo dall’orchestra passaggi morbidissimi. Secondo me si meritava applausi più calorosi.
Quanto ai cantanti, concordo con Daland che la Schwanewilms è stata piuttosto deludente. Sono il primo a dire che questo personaggio non può assolutamente alzare troppo la voce, perché così perderebbe l’impronta aristocratica e intelligente che connota la Marschallin. Però la Schwanewilms ha chiesto troppo spesso al pubblico di “aguzzare le orecchie” se si voleva afferrare qualche misero decibel emesso dalla sua voce. Anche la recitazione lasciava a desiderare. Sono il primo a riconoscere che una donna come la Marschallin non può perdere le staffe, ma qualche momento di disappunto (verso il barone) arriva anche per lei, e lì la Schwanewilms mantiene l’espressione imperturbabile!
Concordo con Daland anche sull’ottima prestazione della Didonato nei panni di Octavian, mentre devo dire, al contrario di Daland, che la Sophie di Jane Archibald mi è piaciuta assai. Voce sottile, ma va benissimo per il personaggio (vocalmente distantissima da una Brunnhilde e ancor più–per restare con Strauss- lda una Salome o da una Elektra). La Archibald ha affrontato magnificamente le note sovracute (o meglio: celestiali e paradisiache) previste dal compositore nel momento in cui riceve la rosa d’argento, e ha recitato con molta varietà di espressione.

Su Peter Rose … difficile giudicare. Dovrei sentirlo una seconda volta. Chissà! Vedremo.
notnA

daland ha detto...

@notnA
Grazie per le tue cosiderazioni!
A presto.