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04 maggio, 2009

Götterdämmerung al Maggio

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In un orario tipo-Bayreuth (15-20:45, solo con intervalli dimezzati rispetto a quelli del tempio) Mehta ha guidato la seconda rappresentazione, in un teatro quasi stracolmo (ancora al mattino c’erano pochi posti disponibili in Internet) ma davvero rapito ed entusiasta. Per Wagner, Mehta, la Fura, i cantanti e l’orchestra... insomma, un trionfo per tutti. E direi proprio meritato, al di là dei doverosi appunti che si possono muovere al lavoro in generale e ad alcuni particolari, oltre che a talune prestazioni, come vedremo.

Intanto, qualche ulteriore puntualizzazione sull’oggetto.

Götterdämmerung era nata (col titolo di Siegfrieds Tod) nella mente di Wagner come una “grande opera eroica”. Vi era condensato – nel Prologo – tutto l’antefatto sommariamente descritto nel suo Nibelungen-Mythus. Dopo i ripensamenti seguiti al 1848, grandissimo merito di Wagner fu di averne saputo cambiare “in corsa” obiettivi e significato, senza minarne in alcun modo le macro-strutture, ma ri-adattandole alla nuova concezione, filosofica e artistica, che aveva nel frattempo maturato. Oggi ci è davvero difficile immaginare cosa sarebbe quest’opera, se fosse rimasta isolata, come Lohengrin, o Tannhäuser, o Holländer; e come noi l’ascolteremmo, e quali significati avrebbe per noi, quali emozioni ci darebbe (o meglio: ci negherebbe!)

Quando ascoltiamo dalle Norne il racconto dei “tempi remoti”, ci emozioniamo perché questi tempi li abbiamo vissuti noi stessi da spettatori, viceversa quel racconto ci lascerebbe quanto meno indifferenti… Quando incontriamo Siegfried e Brünnhilde “adulti”, con la loro personalità matura, restiamo stupefatti, proprio come quando ci capita di rivedere dopo alcuni anni delle persone che avevamo visto come ragazzi (nulla di tutto ciò accade quando ci troviamo di fronte direttamente persone adulte, sconociute fino a poco prima…) Alberich che invita il figlio Hagen a dedicarsi al recupero dell’anello ci apparirebbe come uno psicopatico malato, se non conoscessimo tutto l’insieme e l’intreccio dei fatti, ma soprattutto dei sentimenti, che ne hanno caratterizzato l’esistenza… Certi atteggiamenti di Siegfried ci sembrerebbero gratuiti o sciocchi, se non fossimo stati testimoni diretti della sua adolescenza, delle condizioni in cui il ragazzo diventò uomo e di come si fece largo nella storia dell’umanità… Sono i ricordi diretti della Brünnhilde Valchiria, della sua scoperta dell’amore e della sua giustificazione, e poi del suo risveglio e del suo “divenire donna”, che ci fanno commuovere fino alle lacrime, quando ne ascoltiamo la conclusiva orazione… Il Wotan menzionato da Waltraute e intravisto – solo in didascalìa – nel Walhall che brucia ci risulterebbe del tutto estraneo, incomprensibile e avulso dal contesto, se non ne avessimo seguito le complesse e straordinarie vicende, estese su ben tre opere precedenti e non ne avessimo conosciuto per esperienza diretta la complessa personalità… Persino “corpi inanimati”, come Reno, Fuoco e Walhall, ci risulterebbero freddi e distaccati, se non ne avessimo avuto intimo e diretto contatto in precedenza… E (come dubitarne!) tutta questa diversa luce in cui noi vediamo Götterdämmerung e i suoi personaggi proviene null’altro che dalla musica, dai temi (i Leit-motive) che abbiamo conosciuto “da giovani” ed ora rivediamo maturi (addirittura, in certi casi, moribondi…) e dalle loro variazioni, che ci testimoniano il continuo ed inesorabile fluire del tempo-spazio.

È quasi naturale che una storia, nata come singola epopea di un giovane eroe, e poi divenuta “cosmica”, finisca per comportare inevitabili dissimmetrie e qualche incongruenza, come abbiamo ricordato nel sunto del plot.

Padrissa. Ha forse esagerato nel caricare eccessivamente Götterdämmerung di tratti da opera buffa (nemmeno da grand-opéra, come doveva essere in origine): gli atteggiamenti decisamente macchiettistici di Gunther e peggio ancora di Siegfried - quello drogato - mi sono francamente parsi un po’ forzati. Gibichheim è dipinta - sullo sfondo - come una città industriale-finanziaria e Hagen sulle spalle porta la scritta “Gibi Stockmarket”, il che mi pare un riferimento, eccessivamente politico, ai nostri tempi moderni. E abiti moderni vestono i Ghibicunghi: giacche e cravatte, pants, “divise” da yuppies della City, etc. In realtà i vestimenti di questi personaggi dovrebbero rappresentarci semplicemente il fatto che Siegfried, che viene da un mondo dove ci si veste di pelli, è ora approdato in una società civile (o che tale si crede) fatta di uomini, anzi di omuncoli e donnicciole. È insomma testimone e soggetto al tempo stesso di un cambio di epoche storiche: si è lasciato alle spalle (finalmente! come reclamava nella seconda giornata: Aus dem Wald fort in die Welt ziehn) il mondo piccolo, arcaico, anche se leggendario e per certi versi nobile, di Wotan, Mime, Fafner, e adesso incontra il mondo vero, fatto di uomini veri e delle loro meschinità e volgarità.

Però che Gunther mostri al pubblico che Siegfried puzza (di selvatico) e - prima di fargli bere il filtro - lo faccia lavare, cambiare e vestire con giacca e cravatta, mi pare una trovata eccessiva di Padrissa, che sembra volerci presentare un Siegfried ben disposto a farsi corrompere, se non già corrotto di bel suo, prima ancora di cadere nel tranello tesogli da Hagen. Così come il Siegfried che - dopo aver bevuto il filtro - si butta su Gutrune come un arrapato, sdraiandola su un tavolo e mimando quasi uno stupro, credo che non avrebbe trovato l’approvazione di Wagner. Siegfried, anche da drogato e smemorato (ma non ubriaco, come Padrissa ce lo rappresenta) resta pur sempre quello che è, un ragazzone impulsivo e ingenuo forse, ma non un freak, insomma. E lo stesso Gunther è comunque un nobile (nobilastro magari) con una sua dignità, non un povero vanesio mezzo effeminato.

Ho già accennato, nel precedente commento ai costumi, alla forzatura consistente nell’ornare con simboli del denaro gli abiti di Hagen (il chè è perfetto) ma anche di Gunther e Gutrune, oltre che l’intera società ghibicunga (il che è piuttosto fuori luogo). Non dimentichiamoci che anche G&G sono, come Siegfried e Brünnhilde, vittime e non già complici dei disegni del figlio di Alberich, l’unico fra tutti ad essere cromosomicamente ossessionato dall’oro.

Altro particolare curioso è la visione del mondo (o di certi aspetti) a testa in giù: non solo il Siegfried che viene appeso per i piedi al momento di chiarire i particolari della (seconda) conquista di Brünnhilde, ma anche l’inversione alto-basso delle posizioni di Brünnhilde e Siegfried (lei vede lui allontanarsi su un Grane ancora ippogrifo) di Hagen e Alberich (costui scende ed incombe librandosi sul figlio, proprio come un’apparizione onirica, il che contraddice le precise indicazioni di Wagner) e ancora Siegfried che guarda dal basso in alto verso le Ninfe, che fanno il bagno in ...vasche appese al soffitto.

Di grande effetto il passaggio attraverso la platea del corteo funebre, il che però reca un notevole scompiglio in sala, rischiando di distogliere l’attenzione del pubblico dalla direzione di Mehta, che affronta da par suo la Trauermarsch, con tutte le sue dissimmetrie, in modo potente, ma mai enfatico nè retorico e soprattutto senza inventarsi effetti a sensazione.

Altra responsabilità che Padrissa si prende - nel finale - è di proiettare sugli schermi i versi che Wagner aveva scritto nel 1852 “...fate che solo esista l’amore”: iniziativa discutibile - quanto la croce ricamata sulla pettorina di Brünnhilde - in quanto pretende di indirizzare in modo preciso e univoco il finale del Ring, laddove Wagner, dopo mille ripensamenti e incertezze, fra la soluzione originaria del 1848, quella del 1852 e quella pessimistica del 1856, scelse una via di mezzo, o meglio una soluzione buona per tutte le stagioni e tutte le interpretazioni (che però andrebbero lasciate alla sensibilità del singolo spettatore).

Insomma, una regìa che - secondo me - si è spinta un po’ troppo in là nel cercare effetti a buon mercato: davvero più Meyerbeer che Wagner, potremmo dire.

Mehta e i cantanti

Strabiliante a dir poco Hans-Peter König: sembra nato apposta per impersonare Hagen! Non so quanto sia merito di Padrissa o (più probabilmente) suo, ma davvero è stato a dir poco perfetto. Nel portamento e - ciò che conta di più - nel canto.

Su Lance Ryan avevo avuto delle perplessità dopo l’ascolto radiofonico della prima: maggiore è stata quindi la sorpresa nel trovarlo ieri - se non perfetto - di assoluto livello. Forse la precedente esperienza gli ha insegnato a meglio distribuire le forze lungo le cinque ore.

Jennifer Wilson (ma è ingrassata ulteriormente dallo scorso novembre?) è una buona Brünnhilde, ma per diventare ottima deve ancora (ahilei e la sua linea!) “mangiare tanta polenta”. Speriamo che l’ovazione tributatale dal prodigo pubblico del Maggio la incoraggi a studiare ancora e più.

Anche Stefan Stoll ha coperto più che dignitosamente il suo ruolo, che in fin dei conti non presenta difficoltà insormontabili. (del resto ha poi avuto modo di riposare, steso per un quarto d’ora - dopo essere stato “sparato” da Hagen - in un angolo del palcoscenico).

Invece Bernadette Flaitz - ahilei - ha confermato (alle mie orecchie) le lacune già emerse mercoledi: inesistenti le note medio-basse, urlati barbaramente gli acuti. Gutrune è una poveretta, ma ciò non giustifica che venga tanto bistrattata anche nel canto. (però ovazioni - sull’onda dell’entusiasmo - anche per lei...)

Franz-Joseph Kapellmann e Catherine Wyn-Rogers davvero due comprimari di prim’ordine: soprattutto la Valchiria, a dir poco impeccabile.

Norne e Ninfe, imbragate a mezz’aria e/o immerse in volanti vasche trasparenti, hanno ben cantato le loro non secondarie parti.

Un applauso anche a Nicolò Ayroldi e Fabio Bertella: due particine corte-corte, ma interpretate al meglio.

Sontuoso il Coro del Maggio, alle prese con quell’ambiguo obiettivo wagneriano: dover rappresentare “al meglio” il-peggio-del-peggio-del-grand-opéra, in modo da farcelo disprezzare!

Di Mehta e dell’Orchestra non posso dir che bene: ottoni poderosi come si conviene (anche ad imitare gli Stierhorn). Archi leggeri e compatti. Bravi anche i percussionisti e le due arpe, appollaiate come sempre in un palco sopra corni e strumentini. Alla fine tutti in proscenio a meritarsi l’interminabile ovazione.

Come si dice abbia esclamato Wagner al termine del primo ciclo bayreuthiano: “se lo vorrete, avremo un’arte”. Speriamo che Bondi lo voglia.
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