affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

10 dicembre, 2023

Un DonCarlo d’antan

Oggi pomeriggio un'affollatissima Scala ha ospitato la prima (per gli abbonati) di un vecchio DonCarlo (non scaligero): quello del venerato HvK degli anni’80 (!)

Per carità, questo potrebbe anche essere un complimento (quindi riprendere Abbado-Ponnelle del 1968 sarebbe stato altrettanto plausibile): sempre meglio di qualche ardita attualizzazione che trasponga Filippo II in Juan Carlos I, Don Carlo in Felipe VI, Rodrigo in Carles Puidgemont e l’Inquisitore in Santiago Abascal!

Insomma: siamo proprio nella Spagna del 1560, come ci ricordano anche gli appropriati costumi della Squarciapino, e quindi niente armi automatiche, smartphone e lunghi cappottoni in pelle made-in-DDRE del resto, un testo dove un ragazzo ingenuo di 15 anni chiama madre una sbarbata di soli tre mesi più matura (!) che a sua volta lo chiama figlio, st-riderebbe assai con ambientazioni anche di un solo secolo posteriori…

Quanto al lato cosiddetto attoriale dell’interpretazione, trattandosi di attori che conoscono la loro parte come le loro tasche, mi pare che il regista abbia pensato bene (o male, visti i risultati?) di fidarsi di loro, piuttosto che imporgli posture, atteggiamenti e moine assortite, magari non condivise.

Quindi mi sento di dire: accontentiamoci di questo prudente (pavido?) e conservativo allestimento. 
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Questa musica, in fin dei conti, si fruisce con mente e cuore (e udito, va da sé) più che con la vista. Ebbene, ciò che le mie orecchie hanno udito oggi mi porta a dare un generale voto di ampia sufficienza (ben lontana da un 30cumLaude) che ora cercherò di declinare in maggior dettaglio. Adottando un approccio top-down (dal generale al particolare): quindi partendo dalla concertazione e dal suo responsabile per poi scendere agli interpreti.

Chailly ha – per me – tenuto un approccio (quello che Verdi chiamava la tinta dell’opera) assai cupo e tempi (eccessivamente?) sostenuti. Una direzione che alla prima non era stata unanimemente condivisa, mentre oggi devo dire che ha ricevuto solo consensi. Ma che è del tutto coerente con l’approccio registico, che nulla ha concesso all’esteriorità, come testimonia la soppressione (imposta - sono parole dello stesso Chailly - da Pasqual) dei ballabili de La Pérégrina. Insomma, qui sul francese esprit de finesse ha prevalso l’ispano-italico (e un po’ teutonico) esprit de géometrie!

Il coro di Alberto Malazzi non si smentisce mai e anche oggi ha saputo esprimere al massimo tutte le sue potenzialità, sia nei passaggi più cupi (il mortorio iniziale) che in quelli più sfacciatamente estroversi (Atocha) o drammatici (il popolo del terzo e quarto atto).

La coppia di bassi. Un Pertusi gigantesco (la tachipirina evidentemente ha fatto miracoli…) ha messo in ombra (purtroppo per lui) il malcapitato Jongmin Park, subentrato in extremis all’indisposto Anger a sostenere, oltre che quella iniziale del Frate, anche la parte impervia dell’Inquisitore. Il basso coreano ha messo in mostra un gran vocione, ma il suo Inquisitore ha fatto paura come la farebbe un orco affamato, non un Cardinale del Sant’Uffizio!  

La coppia degli sfortunati amanti. Netrebko sontuosa, come sempre, nella voce, un po’ meno nella recitazione (ma non è colpa dei registi, è una sua perdonabile attitudine). Forse fin troppo musicalmente cattiva con la rivale, quasi una Eboli-2-la-vendetta! Ma dopo le Vanità gli applausi son durati un paio di minuti… Meli tutto l’opposto: fin troppo lezioso e remissivo, nemmeno ad Atocha ha tirato fuori le p… (dicasi gli acuti, che il passare degli anni gli divengono sempre più vietati).

La coppia di outsider. Garanča superlativa (per me, nel complesso, la migliore). E non solo per le due perle (Velo e Don) ma sempre, in particolare nel duetto con Meli. Bene Salsi, ma forse non perfettamente a suo agio in una parte più romantica che truce (dove va a nozze...)

Su livelli standard tutti/e gli/le altri/e.

In definitiva, un’inaugurazione assolutamente dignitosa, ma non certo indimenticabile, della quale si continuerà a parlare più che altro per via della provvidenziale presenza (il 7 dicembre) del protagonista fuori-scena: il convitato di pietra Marco Vizzardelli! 

Applausi a scena aperta dopo le arie principali; alla fine applausi e ovazioni per tutti (compreso Pasqual, intrufolatosi furbescamente in mezzo agli altri, così in pochi l’avranno riconosciuto…) con qualche schiamazzo dai loggioni che ha lasciato del tutto indifferente la Digos (!) 

08 dicembre, 2023

Don Carlo in TV


E così è passato pure questo SantAmbrogio. Direi senza infamia (LaRussa e Salvini a parte) e senza lode (regia) e con qualche lode (Garanča).

 

Al loggionista di Viva l’Italia antifascista suggerirei: Ti guarda dal Grande Inquisitor!


02 dicembre, 2023

L’Orchestra Sinfonica Giovanile di Milano con Treviño

Nella giornata libera fra le due repliche del concerto della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano, Robert Treviño ha trovato il tempo di tornare sul podio dell’Auditorium per dirigere l’Orchestra dei cadetti (under-25, ma con un doveroso 20% di seniores dell’Orchestra principale capeggiati dalla spalla Santaniello…) in un programma di tutto rispetto: Messiaen e Ciajkovski.

Di Olivier Messiaen abbiamo ascoltato un brano del 1930, ispirato al sacrificio (dimenticato dagli uomini) di Gesù Cristo. L’Autore ha premesso in partitura alcuni versi esplicativi:

Messiaen resta saldamente ancorato alla tonalità, caso mai (da fervente cattolico, oltretutto…) retrocede verso il gregoriano, come testimonia la notazione esplicativa – per i soli archi - delle lunghezze dei componenti delle melodie (si tratta di neumi, di medievale ascendenza, appunto) che Messiaen impiega in alcune pagine della partitura, non accontentandosi evidentemente – in assenza di testo sillabato - dei segni di legato sui righi:

Talvolta questa appare quasi una gratuita mania del 22enne compositore, come in questo esempio:

Dove i 5/8 sono notati 2+3 nei fiati e 3+2 negli archi, ai quali però sono affibbiati i neumi 2+3 (?!?)

Il brano (ascoltiamolo qui diretto da Paavo Järvi) è suddiviso (pur senza cesure formali, né numerazioni o sottotitoli, che Messiaen ha indicato in separate esegesi) in tre sezioni, corrispondenti alle tre componenti del programma esplicitato a fronte della partitura e mai sconfessato (al contrario di ciò che ripetutamente accadde, per dire, a Mahler): se osserviamo gli accidenti in chiave, abbiamo MI minore per le prime due sezioni e MI maggiore per l’ultima.

Très lent. Doloureux, profondément triste (34”)

Braccia tese, tristi fino alla morte,
sull'albero della Croce hai versato il tuo sangue.
Tu ci ami, dolce Gesù, lo avevamo dimenticato.

La Croix, lamento degli archi, i cui dolorosi neumi dividono la melodia in gruppi di durata variabile, rotta da lunghi squarci di color malva e dal grigio dei lamenti.

Sono in tutto 13 battute, incluse 2 di transizione alla sezione successiva. Le 11 battute hanno tempi continuamente cangianti, e precisamente (espressi in ottavi): 10-11-9-7-9-10-8-7-11-7-9 e riportano tutte i rispettivi neumi. Ciò rende proprio l’idea delle atroci sofferenze di Cristo sulla Croce. Le restanti 2 battute di transizione sono in 4/4 e 3/4. Protagonisti sono gli archi (contrabbassi esclusi) con il supporto assai discreto di legni, due corni e una tromba.

Vif, féroce, désespéré, haletant) (3’07”) 

Spinti dalla follia e dal pungiglione del serpente,
in una corsa affannosa, frenetica, senza sosta,
siamo scesi nel peccato come in un sepolcro.

Le Péché, una sorta di “corsa verso l’abisso” ad una velocità quasi da mezzo meccanico. Vi si noteranno le forti accentazioni finali, il sibilo degli armonici in glissando, i penetranti richiami delle trombe.

 

È la sezione più corposa del brano, 97 battute, ma il tempo agitato determina una durata analoga a quella della prima sezione. Qui i cambi di tempo fra le battute sono meno frequenti ma sono accompagnati da variazioni agogiche (accelerazioni e rallentamenti). Le ultime 4 battute sono in tempo moderato (4/4) e preparano l’atmosfera della sezione finale. L’orchestra qui è impegnata al massimo e a pieno organico, con frequenti e brusche variazioni dinamiche.

Extrêmement lent, avec une grande pitié et un grand amour (6’11”) 

Ecco la mensa pura, la fonte della carità,
il banchetto dei poveri, ecco l'adorabile Pietà che offre
il pane della Vita e dell'Amore.
Tu ci ami, dolce Gesù, lo avevamo dimenticato.

 L’Eucharistie, una lunga e lenta frase dei violini, che si innalza sopra un tappeto di accordi in pianissimo e riflessi rossi e blu (come una remota finestra di vetro macchiato) illuminati dagli archi solisti in sordina. Il Peccato è l’oblio di Dio. La Croce e l’Eucarestia sono la divina Offerta. “Questo è il mio corpo, offerto per voi – questo il mio sangue, versato per voi.”


Quest’ultima parte del brano è la più lunga in termini di durata e consta di 27 battute che mantengono il tempo di 4/4 preparato dalla precedente transizione e con un’agogica che presenta un solo, brevissimo rallentamento alla battuta 16. Ne è protagonista una sparuta pattuglia di archi alti: i primi violini più 4 secondi violini e 5 viole (tutti divisi). L’attacco di quest'ultima sezione deriva scopertamente dalla conclusione della prima, e così Messiaen evoca e collega efficacemente i concetti di pietà e amore richiamati dal programma fondante di questa sua opera.              
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Che dire? Un pezzo non certo facile, che i giovani (e i diversamente…) hanno saputo rendere con efficacia, presi per mano dal Direttore che è stato il primo ad applaudirli. 
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Ecco infine la ciajkovskiana Patetica. Qui davvero il Direttore ha fatto la differenza, trascinando la compagine ad una prestazione che definirei quasi sorprendente, date le circostanze (sono alla seconda apparizione pubblica, dopo il Mahler-Festival). Non sarà certo il caso di fare dei trionfalismi, ma di sicuro ci troviamo di fronte ad una bella realtà che ha davanti a sé una lunga ma affascinante strada da percorrere.

Alla fine, Treviño, accolto ripetutamente da battimani ritmati, ha simpaticamente invitato il pubblico ad intensificare gli applausi per i ragazzi, che evidentemente sono entrati in grande sintonia con lui. Insomma, un bel pomeriggio, di quelli che ci rincuorano in tempi piuttosto grami.  

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.5

Dopo aver diretto tre settimane fa la Quinta nel Mahler-Festival con la OSN-RAI, Robert Treviño torna sul podio dell’Auditorium per offrirci un programma tutto francese, che procede a ritroso nel tempo per 70 anni, dal primo ‘900 al profondo ’800: da Ravel a Berlioz.

Di Maurice Ravel erano originariamente in programma due brani sullo stesso soggetto fiabesco, quello delle Mille e una notte. Si sarebbe dovuto partire con Shéhérazade, ouverture de féerie, che rimase nel cassetto per quasi 80 anni prima di essere pubblicata (1975); ma qualcosa dev’essere andato storto, e così il concerto si è aperto con Shéhérazade, Trois poèmes pour chant et orchestre, del 1903, dedicati a tre rispettabili Madame e qui interpretati dalla 37enne mezzosoprano lituana Justina Gringyté, che spesso si esibisce con il Direttore texan-mexicano.

Di chiaro ascendente Debussy-iano, questo trittico è basato su testi poetici (di carattere piuttosto decadente e con sfumature simboliste) tratti da una collana di cento poesie, ispirate a Shéhérazade, di tale Léon Leclère, che già a quei tempi si ammantava di un bifronte nick wagneriano (Tristan Klingsor) e con il quale Ravel condivideva la frequentazione dell’appena neonato gruppo di artisti d’avanguardia (e appunto sfegatati per Debussy) noto come Les Apaches.

Anche le tre dedicatarie delle liriche avevano a che fare con quell’ambiente: Janne Hatto (dedicataria di Asie) fu la prima interprete del trittico; Marguerite de Saint-Moceaux (dedicataria di La Flûte enchantée) era famosa per i suoi prestigiosi ricevimenti e come mecenate di musicisti ed artisti, fra i quali proprio Debussy e Ravel; Emma Léa Moyse (dedicataria di L’Indifférent) già amante di Fauré, fu la seconda moglie proprio di Debussy, dopo aver divorziato dal banchiere Sigismond Bardac.  

1. Asie  
È il più lungo dei tre testi, un autentico viaggio nei misteri e nel fascino orientale: dopo una breve introduzione - davvero orientaleggiante - dell’oboe sul triplice richiamo Asie! Asie! Asie! e sull’evocazione, sostenuta dal corno inglese, di quel mondo che sa di fiabe che si raccontano ai bambini, ecco l’inizio del lungo e affascinante viaggio. Per ben 14 volte il testo ripete Je voudrais, il desiderio di conoscere, di esplorare, di immergersi in quel magico universo. E a quel vorrei segue di volta in volta: 1. una goletta che solca il mare spinta dalla sua vela violetta; 2. un’isola fiorita sperduta in mezzo al mare tempestoso; 3. Damasco o una città persiana, con gli agili minareti; 4. turbanti di seta sopra volti scuri e bianche dentature; 5. occhi e pupille piene d’amore e pelli ingiallite; 6. vesti di velluto con lunghe frange; 7. calumet risucchiati da bocche avvolte da bianche barbe; 8. sguardi ambigui di mercanti, visir che muovendo un dito decretano vita o morte; 9. Persia, India e Cina, Mandarini, Principesse e letterati che discettano di poesia e bellezza; 10. un palazzo incantato ornato da preziose stoffe raffiguranti personaggi al centro di un giardino: 11. assassini che assistono divertiti all’esecuzione di un innocente operata da un boia con una curva scimitarra; 12. povera gente e regine; 13. rose e sangue; 14. chi muore d’amore e chi di odio.     

Ciascuno di questi desideri è accompagnato da delicate figurazioni impressioniste, che sfociano in un drammatico crescendo dell’intera orchestra, che poi va sfumando per dare spazio all’epilogo: l’onirico viaggio lascia al poeta il desiderio di raccontarlo a chi ama sognare, sorseggiando di tanto in tanto - alla maniera di Sinbad - una tazza araba, per interrompere sapientemente il racconto… 

Chissà, potrebbe essere proprio la bella Shéhérazade a raccontare questo squarcio notturno: introdotta dalla sensuale melodia del flauto, la favorita del sultano, che lei ha abilmente addormentato con uno dei suoi mille ammalianti racconti, comincia ad udire – mentre il tempo, da Très lent diventa improvvisamente Allegro – una melodia, ora mesta, ora gioiosa, suonata dal suo amante. Il tempo torna Lent, per farle assaporare quelle note che, dalla finestra, arrivano sulla sua guancia come un misterioso bacio. La figurazione iniziale del flauto ritorna per chiudere questo delicato siparietto.

Qui siamo all’Oriente più… confuciano: come non pensare all’atmosfera (Er stieg vom Pferd und reichte ihm den Trunk) del mahleriano Abschied? Un passante dai tratti effeminati transita davanti ad una porta a cui si affaccia il soggetto recitante (maschio o femmina? chissà…): che ne è attirato sensualmente, e lo invita a fermarsi per bere del vino con lui. Finora il tempo è continuamente Lent, anzi, poi, ancora Plus lent. Ma il passante (mentre il tempo si agita un poco) si allontana con un grazioso gesto di efebica indifferenza, dopodichè il tempo torna alla perenne lentezza. 
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Davvero encomiabile la prestazione della bella Justina, che ha sfoggiato la sua voce ben tornita e la sua raffinata sensibilità, pienamente in sintonia con il sapore decadente di testo e musica. Musica di cui Treviño ha a sua volta messo in luce tutte le sfumature e le nuances, ben assecondato dall’orchestra, soprattutto i legni che sono protagonisti assoluti.

Accoglienza calorosissima del pur non oceanico pubblico.
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E infine l’inflazionata FantasticaUn’interpretazione da manuale, quella del Direttore, che mai si è abbandonato (e di occasioni e… tentazioni questa Sinfonia ne presenta a josa) a gratuite e facili iniziative. Da incorniciare l’introduzione al primo movimento, dove la musica sembra davvero nascere e crescere dal nulla; poi la raffinatezza del Bal (protagoniste le arpe di Elena Piva e Marta Pettoni); mirabile la resa della Scène aux Champs (il corno inglese di Paola Scotti e l’oboe fuori scena di Emiliano Greci) con tratti da impressionismo ante-litteram; e quindi, sempre senza soluzione di continuità, la Marcia al supplizio e il Sabba conclusivo, dove Treviño ha scatenato le furie degli ottoni (le tube di Davide Viana e Alberto Tondi sugli scudi, in un protervo Dies Irae) portando il pubblico ad un parossistico entusiasmo, con ripetuti battimani ritmati e ovazioni per Kapellmeister e Musikanten!  

Si replica domani, ma anche oggi pomeriggio sarà ancora e sempre Treviño, per... collaudare l’Orchestra under-25.

25 novembre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.4 (con sorpresa)


Dopo la lunga e fortunata parentesi del Mahler-Festival, l’Orchestra ha ripreso il cammino della stagione principale sotto l’effetto di una notizia cheha davvero del clamoroso: le dimissioni – ufficializzate 24 ore prima del concerto - del Direttore Generale ed Artistico della Fondazione, il Maestro Ruben Jais. Un vero e proprio fulmine a ciel sereno (Jais aveva diretto meno di due settimane fa - ma non con l’Orchestra principale - il penultimo concerto del Festival, da lui fortemente voluto) che ha colto quasi tutti di sorpresa, anche se alcuni ricorderanno la spiacevole vicenda del 19 marzo scorso, culminata con la minaccia di sciopero – poi rientrato - dell’Orchestra, proprio a fronte di una discutibile iniziativa dello stesso Direttore (che comunque ieri sera si aggirava sorridente in sala).  
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Per questo fine settimana in calendario c’è un concerto bifronte, diretto dal 28enne fiammingo Martijn Dendievel, che ha affiancato un’Opera e un Autore contemporanei ad una delle più eseguite sinfonie di Ciajkovski.

Del 42enne tulipano Joey Roukens è stato eseguito, in prima italiana, In Unison, un Concerto per due Pianoforti e Orchestra del 2017 (qui l’audio della prima) interpretato dai due connazionali dedicatari, i fratelli Lucas & Arthur Jussen, che sono attualmente Artisti in residenza presso laVerdi.

Ecco qui (Lucas a sinistra, al piano-1 e il fratello minore Arthur a destra, al piano-2) la registrazione video di una loro performance del 2021 con l’Orchestra olandese co-dedicataria dell’opera, presente anche l’Autore, festeggiato con loro dopo la brillante esecuzione. Verso la fine della quale arriva un’improvvisa e lunga cadenza con un virtuosismo di timpani, che sono percossi dal padre dei due pianisti, Paul, che in quest’altro video di presentazione del brano viene anche simpaticamente preso in giro dai suoi due enfants-terribles!

Il compositore ci dice di aver scelto il titolo del Concerto ascoltando i due fratelli suonare… e con tanto affiatamento da farglieli apparire come un unico super-pianista che suona un super-pianoforte. Oltre al titolo, anche i tre classici movimenti in cui il concerto si articola recano dei sottotitoli che ne evocano l’ispirazione (fra parentesi la mia personale interpretazione delle note esplicative dell’Autore):

1. Neon Toccata (luminosa, estroversa, orecchiabile: le luci psichedeliche di una discoteca?);

2. What If (struttura A-B-A’, improvvisi cambiamenti di atmosfera: calma, agitata, calma);

3. Dark Ride (una corsa all’impazzata, cupa e grottesca, con un finale a sorpresa).

Imponente la batteria di percussioni, con tre esecutori che devono gestire, rispettivamente, 10, 10 e 8 strumenti! Tutto sommato normale la compagine di fiati e archi; una celesta si aggiunge all’organico.

Il compositore raccomanda un rigoroso rispetto dei ritmi, così come indicati in partitura, che è ricchissima di minuziose indicazioni agogiche, ad esempio: ritmicamente quanto più preciso e stabile (assolutamente non rubato); oppure: un oscuro, sinistro tran-tran… In altri casi invece l’Autore si limita ad indicare, in secondi, il tempo di esecuzione di alcune battute!

Il primo movimento ha una struttura abbastanza aperta, tipo durchkomponiern, con alternanza di passaggi affidati ai soli solisti, o alla sola orchestra, o all’insieme. Difficile individuare temi ricorrenti, salvo forse alcune figurazioni ritmiche, che talvolta si ripropongono.

Ecco qui l’attacco dei due pianoforti, alla battuta 12 (24” nel filmato) dopo che l’orchestra – ora zittitasi - ha imposto il tempo Molto allegro, con fuoco:

Dopo nove battute di silenzio l’orchestra (41”) rientra per iniziare il suo dialogo con i solisti, che poi si limita all’intervento di percussioni, ma prende nuovo slancio (1’31”) con metronomo raddoppiato fino a che (2’15”) l’orchestra rimane sola a portare avanti il discorso. È un passaggio assai rigoroso ed energico, con gli ottoni in grande evidenza, fino al rientro dei solisti (2’44”) anticipati e poi accompagnati anche dalla celesta.

Dopo una veloce ascesa del piano-1 (3’30”) i solisti tacciono per poco, lasciando spazio ancora ad un deciso intervento dei fiati, che porta ad uno schianto (3’40”) seguito da un’oasi più calma, dove abbiamo il ritorno dei due pianoforti, che a mano a mano riaccendono il ritmo, accompagnati e sostenuti soprattutto dalle percussioni. 

Si arriva quindi (4’25”) alla ripresa del tempo molto agitato, con i solisti a condurre la danza, trascinando i fiati fino ad un climax (5’19”) dopo il quale si tacciono, cedendo all’orchestra il centro della scena, caratterizzata da un’ampia e cantabile melodia nei fiati e poi negli archi, accompagnata sempre dal ritmo serrato imposto dalle percussioni.

Ecco ora rientrare i solisti (6’00”) per presentare una vera e propria cadenza:

Che è suddivisa in due parti: 14 battute dove il piano-1 suona un tremolo cangiante e il piano-2 si libra in svolazzi di semicrome e biscrome; e 10 battute dove i due solisti si scambiano i ruoli. Non è necessario che in ciascuna delle due sezioni ci sia un preciso sincronismo fra i due, che va rispettato solo nel momento (6’51”) in cui si danno il cambio.

La cadenza sfuma (7’14”) nella coda del movimento, caratterizzata da una progressiva entrata degli strumenti dell’orchestra (prima legni e archi bassi, poi celesta e percussioni, infine archi alti) e da una generale accelerazione, chiusa infine da una croma sforzata di archi e percussioni.  

Il movimento centrale (Molto tranquillo, ma ben misurato) è, come anticipato, in forma (spuria) A-B-A’. Inizia (8’26”) con ottavino (poi flauto) e violini che suonano una cullante melodia e i due solisti che dettano il ritmo lento con note ribattute (questa sarà una delle caratteristiche del movimento) supportati poi dal martellio delle percussioni.

Ora (10’20”) con leggero aumento del metronomo, sono i due pianoforti a prendere il centro della scena dando inizio ad un lungo e nobile passaggio, con archi e fiati a sostenere il dialogo con lunghe note tenute; il tempo accelera ancora impercettibilmente finchè (13’04, Con grandezza, largamente, nobilmente) i due pianoforti tacciono mentre oboi, corni e violini primi trascinano tutta l’orchestra verso un grandioso climax.

Che segna (14’15”) il brusco passaggio alla sezione B del movimento, dove il tempo aumenta del 50% (metronomo da 40 a 60 semiminime, Come improvvisamente in un'altra dimensione) e i due solisti tornano protagonisti, accompagnati prevalentemente da percussioni, riproponendo le loro figurazioni con note ribattute.

Il tempo accelera ancora in due riprese, passando da 60 a 66 e poi a 72 semiminime, fino ad arrivare (15’50”) ad un momentaneo rallentamento, con il ritorno in primo piano anche degli archi e successivamente dell’intera orchestra. Il tempo riprende ad accelerare progressivamente, tornando a 72 semiminime e quindi (17’10”, energico) a 84. I solisti tacciono ed è l’orchestra a scatenarsi ancora con un impressionante crescendo di note ribattute, crescendo che poi si spegne sul sommesso sussurro delle percussioni.

Siamo quindi arrivati (18’24”, tranquillo e religioso, il metronomo piomba a 42) all’ultima sezione del movimento (A’) dove i due solisti riprendono l’atmosfera iniziale, accompagnati in sottofondo da archi e percussioni, poi (19’59”) anche da flauti e tromboni. Eccoci quindi (20’48”) alla coda, con un impercettibile aumento del metronomo (45) e i due pianoforti (semplice, molto sereno e lirico) - accompagnati da ottavino, clarinetto e poi dalla celesta, con i primi violini chiamati ad emettere le note più acute possibili - che portano, in una progressiva rarefazione del suono, il movimento alla conclusione.

Dove troviamo una delle trovate della partitura che rasenta la bizzarria: nelle ultime tre battute del movimento (22’35”) i due solisti devono percuotere con le nocche della mano sinistra il legno sopra la tastiera del pianoforte:

Il movimento finale del Concerto (Presto, sempre molto ritmico) è aperto (23’15”) da uno schianto della sola orchestra, che introduce l’ingresso dei solisti (23’28) con 12 battute dal ritmo sincopato e sghembo (5/8, 3/4. 7/8) che caratterizzerà anche gran parte del seguito, chiuse da una rapida discesa in tutti gli ottoni.

I due pianoforti conducono questa corsa ostinata, fatta di quartine e terzine di crome in tre delle quattro mani accompagnate da note lunghe nella quarta, mentre legni e archi scandiscono il ritmo; poi (23’55”) sono la tromba e la tuba a suonare le note lunghe, mentre la quarta mano del pianoforte passa al ritmo.

Si arriva così a 24’43”, molto energico e ben articolato, con mordente, dove i solisti tacciono ed è l’orchestra a riprendere il discorso, dando ulteriore corposità al suono, che poi improvvisamente si calma (24’55”) in vista del rientro dei solisti. I quali poco dopo (25’25”) si inoltrano in un’atmosfera più rarefatta, dominata dalle note lunghe: un passaggio lirico, liquido e sognante. Il brusco risveglio (25’54”) vede impegnati quasi esclusivamente i solisti in una specie di cadenza accompagnata da percussioni e archi, che poi si arricchisce dei suoni del resto dell’orchestra.

Il passaggio è chiuso da una veloce salita dei due pianoforti (con slancio) fino ad uno schianto, seguito (27’05”, Sostenuto) da una breve oasi di calma, protagonista solo l’orchestra e chiusa (27’24”) da un altro colpo secco di legni, ottoni, tamburo e archi bassi. Si torna al Tempo I, ma ancora più veloce, dove la cavalcata generale riprende e poco dopo (27’41”, grottesco e molto energico, come un pazzo) diventa davvero travolgente, fino a spegnersi (27’58”) seguita da 5 battute grevi di fiati e archi bassi.

Ora (28’20”, Poco meno) è l’ottavino (più tardi raggiunto dal clarinetto, quindi dal flauto e con svolazzi della celesta) ad esporre una lenta melodia, mentre i due pianoforti creano una specie di sottofondo liquido. Un lento crescendo porta ad un nuovo scossone (28’54”) che prelude al colpo di teatro finale, protagonista la famigliola Jussen: mentre Lucas e Arthur si scatenano in veloci (e barbare) figurazioni su terzine di crome e semicrome, papà Paul (29’01”) si deve sottoporre ad un minuto di sfrenato tour-de-force ai timpani, chiuso da un’autentica (brutale) gragnuola di colpi.

Inizia ora (29’57”) la coda del Concerto, con i solisti, inizialmente accompagnati dalla celesta, che stringono il tempo, poi momentaneamente lo rallentano come a prender la rincorsa per lo sprint finale: dopo tre glissando (30’16”, discesa, salita, discesa) i pianoforti tacciono momentaneamente ed è l’orchestra (30’26”) che attacca (Quasi presto) e poi (30’35”, Prestissimo) introducendo quindi i due solisti (30’46”) che sparano le ultime cartucce.

Un ultimo momento di stasi, con l’intera orchestra che tiene lunghissime note in un crescendo sonoro che si arresta prima delle due battute conclusive del concerto (31’05”) dove i due solisti, rimasti… soli, all’unisono suonano contemporaneamente (su due ottave) l’intera scala dei tasti bianchi: LA-FA-RE-SI / SOL-MI-DO-LA:

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Che dire? È un ennesimo esempio di musica contemporanea composta per divertire insieme pubblico ed esecutori, dopo che per decenni – nel secolo scorso – molta della musica (allora) contemporanea sembrava scritta per esasperare il pubblico e compiacere ristrette élite di penitenti dediti all’auto-flagellazione (!)  

Travolgente successo per i due fratelli, per il Direttore e per l’Orchestra, così Lucas&Arthur ci hanno regalato questo bel bis sognante.
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Ha chiuso la serata la tremenda Quarta di Ciajkovski. L’Orchestra la potrebbe ormai suonare a memoria e forse anche senza Direttore. Direttore che in ogni caso si è fatto valere, guidando i ragazzi con gesto misurato e mettendo nel dovuto risalto i passaggi più lirici dell’opera, per poi scatenare ottoni e grancassa quando e quanto dovuto.

Inutile dire dell’accoglienza frenetica, con ovazioni per le prime parti e le diverse sezioni dell’Orchestra e ripetuti battimani ritmati all’indirizzo del Direttore.

14 novembre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#14


Ieri si è chiuso il Mahler-Festival con l’ultima Sinfonia (completata) del compositore boemo: la Nona, con il Direttore Emerito Claus Peter Flor sul podio di un Auditorium affollatissimo. Un degno suggello per questa manifestazione che ha tenuto banco – nel mondo culturale milanese e non – per più di tre settimane piene di suoni prodotti dalle migliori orchestre italiane: un evento davvero degno di passare alla storia!
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La Nona, insieme al Lied von der Erde (che a settembre in Scala aveva significativamente inaugurato allo stesso tempo la stagione 23-24 e il Festival) e al torso della Decima, forma quella trilogia della morte con cui si usa catalogare quest’ultima parte della produzione mahleriana, a partire da quell’infausto 1907 che calò sul capo di Mahler (e della moglie Alma) le micidiali martellate del finale della Sesta. Sinfonia peraltro composta quasi 4 anni prima, quando Mahler toccava letteralmente il cielo con un dito: moglie invidiata dal mondo intero, famigliola felice, gloria professionale e benessere economico.

E infatti quella Sinfonia tragica rimase un unicum (conclusione in tonalità minore) in tutta la produzione mahleriana, anche in quella posteriore: immediatamente, anni 1905-1906, che videro nascere la Settima, chiusa da un esilarante DO maggiore, e l’Ottava, dove il MIb maggiore abbonda fino alla nausea; ma anche successivamente all’annus horribilis, con quella trilogia (1908-1910) che ostinatamente continua ad evitare conclusioni funeree: il Lied chiude in DO maggiore, la Nona in REb maggiore e la Decima (abbozzo) in FA# maggiore.

Insomma, si può dire che la dimensione tragica in Mahler fino al 1907 fu sempre e solo osservata dall’esterno, tutt’al più fatta propria con un sentimento di pietas per tutti i mali del mondo, di cui il compositore era stato ed era direttamente testimone. Ecco, dopo quel disgraziato 1907 tutto cambiò poiché Mahler sperimentò – inaspettatamente e a ripetizione - il tragico sulla propria persona, sia in termini materiali (la fine dell’avventura viennese, la diagnosi preoccupante del suo stato di salute) che spirituali (la scomparsa della figlioletta e il deteriorarsi del rapporto con Alma).

Possiamo quindi immaginare lOttava sinfonia (1906) come quella che chiude il ciclo della produzione del Mahler testimone del mondo; da lì in avanti, la sua musica sarà quella del testimone di se stesso, naturalmente in rapporto al mondo e all’aldilà. 

Ed è proprio la trilogia della morte che in qualche modo sconfessa, come insincero, il pessimismo, quasi-nichilismo della Sesta: la quale, alla luce delle ultime opere, ci appare come una deviazione intellettualistica da quella strada che da sempre Mahler aveva percorso: l’amore sconfinato e una specie di fede laica nella Natura, di cui sono testimonianza i versi aggiunti di suo pugno alla fine del testo cinese dell’Abschied, che muta da fatalistico sconforto a rassegnazione serena, come gli orizzonti che si tingono d’azzurro…

In sostanza: in quell’estate del 1907 Mahler di certo aveva preso coscienza che la fine avrebbe potuto ormai bussare alla sua porta in qualunque momento, ma non era affatto un uomo sfiduciato, era anzi un artista che si manteneva in buona efficienza e piena attività. Caso mai la sua Nona – così come il Lied e i frammenti della Decima – ci mostrano la sua intima convinzione che, pur sulle macerie lasciate da quei terremoti, ci fosse ancora la prospettiva di una terza età che certo escludeva per lui il ritorno ai trionfi (pubblici e privati) della gioventù, ma che era pronto ad affrontare con il piglio di sempre (non per nulla, appena completata la Nona, metterà subito in cantiere e comincerà a lavorare alacremente alla sua Decima!)

Quindi: nessun sentimento di terrore di fronte allo spettro di una morte imminente (che arriverà – e prematuramente, possiamo ben dirlo date le circostanze - ben due anni dopo la Nona e tre dopo il Lied, e a causa di una infezione virale, un’endocardite, incurabile perchè non c’erano ancora in giro gli antibiotici…); ma l’esposizione del suo programma, non scritto, di consapevolezza nella caducità delle terrene cose e quindi anche della vita, alla di cui fine prepararsi nel modo musicalmente più appropriato.

A puro titolo di curiosità, se osserviamo che il Lied chiude su una sopratonica (RE) e la Nona su una dominante (LA) potremmo spiegare queste cadenze imperfette come una sfida del superstizioso Mahler alla morte, lasciando sempre aperto uno spiraglio per la… prossima Sinfonia, cosa che effettivamente accadde! 
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Come in quei film (o quei racconti) che si aprono calando direttamente (in medias res) ad un passo dalla conclusione per poi presentarci un lungo flash-back che ci informa in dettaglio sui fatti pregressi e infine ci riporta là da dove il film era cominciato, così questo Festival aveva avuto la sua ideale anteprima domenica 10 settembre alla Scala, quando si era spento il Lied con la reiterata esposizione di un motivo (mediante>sopratonica, MI-RE) che aveva accompagnato le ultime parole del canto: ewig… ewig… ewig… Poi il Festival ci ha condotto per mano ad esplorare tutte le vicende musicali che avevano portato a quel punto: quattro cicli di Lieder e otto Sinfonie!

Ecco perché è stata opportunamente chiamata proprio la Nona a chiudere il Festival: racconta della Sinfonia (come genere di opera musicale) che musicalmente interpreta il suo proprio tramonto in modo sereno, non traumatico, restando fedele al suo passato nella struttura complessiva (quella risalente a Mozart, all’ultimo Haydn e a Beethoven, i tre mostri sacri della prima scuola di Vienna…), nella forma-sonata del movimento iniziale e nella natura dei movimenti interni (uno comodo e l’altro vivace); ma essendosi spogliata dei tratti più eroici e sognatori - e magari velleitari - dei bei tempi andati (i due movimenti esterni, non più Allegro, ma Andante e Adagio).

E la Nona riprende precisamente il discorso lasciato in sospeso da quel MI-RE (ewig…) dell’Abschied: poiché dopo sei battute introduttive (piene di simboli e allusioni) i secondi violini si lanciano nell’esposizione del primo tema che inizia proprio con l’inciso mediante>sopratonica (ma qui FA#-MI, poiché siamo in RE maggiore…) che aveva chiuso il Lied!

Flor, che già aveva diretto qui la Sinfonia pochi anni fa, ne ha dato una lettura che definirei laica, asciutta (come testimonia il tempo spedito con cui ha condotto il gemächliche Ländler); accentuando i contrasti del primo movimento (grandi impennate eroiche seguite da catastrofiche cadute); poi scatenando tutta la furia del Rondo.Burleske, nel quale compare, quasi un miraggio, quell’oasi improvvisa dove la tromba anticipa il gruppetto, elemento fondante dell’Adagio conclusivo. Adagio la cui tonalità degrada di un semitono rispetto al RE maggiore iniziale, anche questo un chiaro riferimento all’ineluttabile scorrere del tempo e all'avvicinarsi della...

Del quale Adagio è da ricordare il culmine caratterizzato dalla straziante perorazione dei quattro corni (ieri guidati da Giuseppe Amatulli, meritatamente ovazionato alla fine) per arrivare alla conclusione che, dopo il girotondo delle viole attorno alla dominante di REb, non ha contemplato minuti di raccoglimento come si fosse in una camera ardente dinanzi ad un feretro, ma qualche doveroso secondo di silenzio per far semplicemente decantare l’emozione che si prova sempre ascoltando questa musica. (Sì, perché qui anche il silenzio è… musica, che proprio sembra non volersi spegnere, ma continuare a vivere in eterno.)

Più di cinque minuti di liberatori applausi hanno salutato l’epilogo di questa grande e indimenticabile avventura.