affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

17 febbraio, 2023

laVerdi 22-23. 16

La Russia eroica è protagonista del concerto di questa settimana, diretto dal russo (ma non simpatizzante per Putin, come certificato dal CoPaSiR…) Andrey Boreyko, Direttore Residente dell’Orchestra Sinfonica di Milano.

Torna quindi a farsi udire in Auditorium la monumentale Leningrado (settimo parto sinfonico di Dmitri Shostakovich).  

Opera indecifrabile e da sempre tirata da ogni parte, per ragioni squisitamente extra-musicali, anzi precisamente politiche: al suo apparire, osannata dai sovietici e in Occidente (Toscanini in testa) in funzione anti-nazi; una volta abbattuto il nazismo, in Occidente si è preferito dimenticarla, per non dar fiato a Stalin e nipotini, che ne avevano fatto un simbolo di superiorità morale del comunismo; poi qualcuno (Solomon Volkov, Testimony) ci ha trovato germi di… anticomunismo e allora evviva, disseppelliamola!

Nata per essere una specie di poema sinfonico, o una fantasia (e l’iniziale Allegretto è in effetti tutto tranne che un primo movimento di sinfonia come-si-deve…) è poi cresciuta a dismisura, fino a raggiungere proporzioni sesquipedali, sotto una specie di costrizione patriottica di cui l’Autore fu vittima a seguito dell’invasione nazista. I suoi contenuti musicali furono indubbiamente condizionati dallo scenario esterno: a partire dalla forma dell’opera, dove l’iniziale nucleo di poema sinfonico divenne poi il primo movimento di una sinfonia in quattro movimenti, tutti a loro volta sottotitolati - La guerra, II ricordo, Gli spazi sconfinati della patria, La vittoria - salvo successiva revoca dei sottotitoli e delle relative indicazioni programmatiche dell’Autore!

Una cosa è certa: se la si volesse considerare e giudicare come musica pura, svincolata da ogni riferimento extra-musicale, allora si dovrebbe – come minimo! -  prendere l’Autore per un matto da legare! O, in alternativa, per un buontempone in vena di prendere il pubblico per i fondelli…

E ovviamente il casus-belli è costituito principalmente da forma e contenuto dell’iniziale Allegretto: il quale sembra muoversi nel tradizionale solco della forma-sonata, con l’esposizione dei due temi nelle canoniche tonalità di tonica (DO maggiore) e dominante (SOL maggiore, con breve divagazione a SI maggiore):

Un primo tema robusto, maschio e deciso, il secondo più elegiaco, femminile, contemplativo: più di così cosa si pretende in fatto di rispetto delle regole codificate?

Dopo l’esposizione arriverà quindi uno sviluppo, dove i due temi si incontreranno, magari si scontreranno, perché no, fino a trovare la concordia nella ricapitolazione, con… capitolazione del secondo tema sulle posizioni (leggi: tonalità) del primo. O no?

E invece: no! Perché lo sviluppo è sostituito dall’irruzione inopinata di quel gigantesco quanto volgare episodio di marcia, un insignificante tema reiterato in non meno di 11 varianti e chiuso da una colossale coda.

La realtà è che in questo movimento fa irruzione la guerra. Dopodichè diventa, in un certo senso, comprensibile che anche un’austera Sinfonia debba prendere atto che… la guerra non è un pranzo di gala! E può sovvertire ogni sistema costituito, musica inclusa.

Ecco perché queste incrostazioni extra-musicali di cui si è ricoperta fin dalla nascita impediscono di poter apprezzare (nel bene e nel male) come opera di ingegno, intesa come musica di per sé stessa, questa Sinfonia. Per i cittadini russi (e non solo) del 1942 quella musica aveva un significato e un sapore strettamente legato alle catastrofiche circostanze materiali in cui era venuta alla luce: nessuno allora si interrogava sui suoi contenuti estetici, poichè la sentiva soprattutto come una droga utile a rigenerare le forze spirituali (e pure materiali) con cui affrontare il nemico invasore (allo stesso modo la musica in modo frigio veniva impiegata fin dall’antichità per aizzare le truppe in battaglia).

A proposito, quella specie di bolero-di-ravel-su-tema-di-lehár che è incastonato nel movimento iniziale fu descritto (a posteriori, fra l’altro, come spesso accade ai programmi appiccicati a musica già composta) come il marciare dei cavalieri teutonici sulla città: dapprima si sentono e si vedono in lontananza, laggiù in fondo alla steppa sconfinata, e paiono una squadretta di boy-scout che marciano allegramente inalberando gagliardetti, accompagnati da pifferi e tamburino.

Shostakovich ci infila anche uno sberleffo, citando Lehar (Da geh' ich zu Maxim, dalla Vedova allegra, operetta preferita di Hitler, si diceva). Ecco quindi come si presenta il pericolo nazista da lontano:

Poi però, man mano che i boy-scout si avvicinano, ecco che si scorgono dietro alle loro bandierine colorate delle baionette, quindi si profilano le torrette dei panzer, poi le spaventevoli sagome dei mezzi d’artiglieria, e in cielo gli stormi della Luftwaffe!

Dico, un tempo di sinfonia, o la parodia dell’Ouverture 1812? Non per nulla il mite e un po’ sfigato Bartók ci farà sopra a sua volta uno sghignazzo, nel suo Concerto per orchestra:

E la guerra finisce per inquinare irrimediabilmente anche la ripresa dei due temi presentati nell’esposizione: riappaiono infatti sfigurati, deturpati e quasi irriconoscibili, infine devono lasciare il passo alla reminiscenza del tema teutonico. Perché, appunto, la guerra non è finita

I due movimenti centrali sono certo meno prosaici e pretenziosi (a parte la lunghezza…) e ci restituiscono uno Shostakovich lirico: il Moderato (poco allegretto) è in pratica una specie di Scherzo con Trio e ripresa dello Scherzo. Nella prima parte riconosciamo due idee tematiche, la prima in RE maggiore, la seconda in SI minore, poi tornando a RE:

È chiusa da un insistente pizzicato degli archi.

La sezione centrale è in tempo 3/8. Attacca in DO# minore e viene introdotta dai clarinetti, incluso quello piccolo in Mib e quello basso:

Poi si sviluppa in una tipica corsa ostinata shostakovich-iana, esplorando diverse tonalità, fino a sboccare nella ripresa dello Scherzo, anche qui assai variata rispetto all’esposizione iniziale e chiusa dal secondo tema in arpa e clarinetto basso accompagnato da un marziale e insistito ribattere di flauto e flauto in SOL; e infine dal primo tema abbreviato.

Ecco poi l’Adagio, aperto da un corale di fiati e arpe che introduce il tema principale, in RE maggiore (Largo) di grande respiro e nobiltà, esposto dai violini:

Poi ecco, in MI maggiore, il sognante tema del primo flauto, sviluppato anche con l’intervento del secondo:

Dopo una fugace riapparizione del tema principale, ecco tornare… la guerra (?). Che irrompe sulla scena in tempo Moderato risoluto SOL# minore, con un tema protervo esposto dagli archi:

Inizia qui un colossale crescendo in cui riappaiono, come travolti da un turbine, anche spezzoni dei temi precedenti, finchè tutto sembra finire in nulla… Ecco quindi la parte finale del movimento, che ricapitola temi della prima e poi, nel ripristinato Adagio, chiude mestamente, quasi morendo.


Nel Finale (Allegro non troppo) torniamo ai fracassi della guerra, interrotti da qualche… funerale. È in effetti un penoso avvicinamento alla luce che splenderà alla fine, riportando fiducia nel futuro.

Il tema principale, di stampo maschio e bellicoso, è già annunciato dai bassi in apertura, poi verrà esposto poi violini, in DO minore; quello secondario, più cantabile e sereno, è presentato per primo, in DO maggiore, sempre dai violini:

La prima parte del movimento è occupata da un crescendo continuo del tema principale, che sfocia in una perorazione enfatica a piena orchestra, con percussioni in grande evidenza. Il secondo tema lo contrasta, nei fiati, opponendogli fiera baldanza, finchè si arriva ad un momento di tregua (tempo Moderato): pare qui di assistere ad un compianto funebre, sulla cui chiusura ricompare, mesto, il tema principale, che da guerresco si è trasformato in… funerario.

Poco a poco però il tema riprende vigore e viene raggiunto anche dal motivo secondario, e insieme portano, attraverso modulazioni che passano per SI e Mi maggiore, al DO maggiore della perorazione finale, in cui spicca, pesantissimo, il ciclico ritorno del tema che aveva aperto la Sinfonia. 
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Che dire? Un’opera difficile da digerire, perché è difficile capire quale ne sia la natura più autentica.

Chi però ce l’ha fatta non solo digerire, ma gustare, è l’Orchestra Sinfonica di Milano, sapientemente guidata da Boreyko. Trionfale per tutti l’accoglienza del pubblico (di affezionati…) con ovazioni, ululati di approvazione e ripetute chiamate per Direttore, prime parti e intere sezioni dell’ipertofico schieramento di Musikanten.

Ci sono ancora due repliche per approfittarne!

12 febbraio, 2023

laVerdi 22-23. Ristretti.2

Oggi pomeriggio è andato in scena in Auditorium il secondo dei tre concerti cosiddetti ristretti (per la durata contenuta, l’organico cameristico e… l’Auditorium con la sola platea accessibile) che fiancheggiano la stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano. Il Direttore di questi concerti è Kolja Blacher, che ci ha proposto un programma tutto viennese, con due opere che stanno ai due estremi della grande stagione musicale della capitale mitteleuropea: poiché ne rappresentano la prima e la seconda scuola.

Anche oggi l’ordine dell’esecuzione dei due brani in programma è stato invertito rispetto alla locandina originaria, quindi si apre con lo Schönberg di Verklärte Nacht. Composta originariamente nel 1899 per sestetto d’archi da un 25enne ancora tardo-romantico e ben lontano dagli approdi seriali (che matureranno nei 20 anni successivi, passando prima per il periodo atonale) fu poi riveduta ed arrangiata per orchestra d’archi nel 1917 e successivamente rivisitata nel 1943, quando l’Autore viveva in USA da 10 anni.

È in buona sostanza un poema sinfonico, essendo ispirata ad un’opera letteraria (di pari titolo) di Richard Dehmel, poeta simbolista-espressionista abbastanza in auge ai tempi.

In Appendice riporto il testo della poesia (tradotto da Ferdinando Albeggiani) e la traduzione (passatempo mio personale) di una nota programmatica redatta dall’Autore nel 1950, in occasione di un’esecuzione americana del brano, corredata da miei riferimenti (di minutaggio) ad un’esecuzione diretta da Neville Marriner con i suoi Accademici.

A completamento della nota dell’Autore si può aggiungere che la macro-struttura del brano presenta cinque sezioni, corrispondenti alle altrettante strofe del poema: quelle dispari evocano lo scenario naturale che fa da sfondo alle esternazioni dei due amanti, le quali occupano le strofe pari (prima la donna, poi l’uomo). 

Come accade per tutta la musica a programma, anche qui l’ascoltatore può seguire due strade per la migliore fruizione del brano: approfondire la conoscenza del soggetto extra-musicale dell’opera, per poi giudicare se l’opera stessa lo interpreti e lo evochi efficacemente o meno; oppure ignorare del tutto il soggetto esterno e giudicare se quella musica sia degna di apprezzamento di per sé

Nel caso specifico, il riferimento extra-musicale è francamente deboluccio e strappalacrime a buonmercato. Tanto che lo stesso Autore, nella premessa del suo scritto del 1950, prima di chiarirci abbastanza minuziosamente i riferimenti precisi al soggetto extra-musicale, finisce per ammetterne (a posteriori) le deficienze, mostrando di comprendere, se non proprio di condividere, i severi giudizi riservati a quel testo da molta critica. E invitandoci quindi a godere della sua opera solo come pura musica!

E direi che l’interpretazione intensa che ne ha dato Blacher e l’esecuzione impeccabile dell’ensemble de laVerdi hanno raggiunto pienamente questo obiettivo!  
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Ecco poi Mozart e la sua ultima sinfonia, la Jupiter. Il cui organico (soltanto 9 fiati: 1-2-0-2-2-2) si attaglia alla perfezione allo spirito del concerto, restituendoci precisamente quell’atmosfera tersa e raffinata, tipica del Settecento mitteleuropeo.   

Una delle curiosità che sempre sorgono in occasione di esecuzioni di queste sinfonie riguarda il rispetto dei cosiddetti da-capo, o ritornelli che dir si voglia. La decisione di rispettarli o di rinunciare ad eseguirli si basa (o dovrebbe…) su motivazioni estetiche. La tradizione del da-capo aveva in origine ragioni d’essere assai concrete: far risentire due volte all’ascoltatore che ignorava quella musica - per ficcarglieli bene in testa - i temi principali, era una pratica necessità, che viene meno quando l’ascoltatore (mediamente informato) già li conosce a menadito e potrebbe trovare pleonastica la loro stucchevole ripetizione. 

Oggi capita quindi di incontrare esecuzioni dello stesso brano con differenze anche enormi di durata. Un esempio per tutti: in questa registrazione di Böhm del 1973 sono tagliati i ritornelli dei due movimenti esterni (il taglio del da-capo dell’esposizione iniziale è a 3’51” del video) e ciò porta a mantenere il tempo totale sotto i 30’. Per confronto, questa recente registrazione con Maazel, che rispetta quasi tutti i ritornelli - il primo è a 4’02” del video - tranne il secondo del Finale, tocca i 40’, ben 12 più di quella di Böhm… Se poi si eseguono tutti i da-capo, come fanno qui i simpatici terroni norvegesi, si arriva anche a passare i 42 minuti!

[In tempi più recenti (parlo della metà del secolo scorso, diciamo dall’arrivo dei vinili e fino a quello dei Compact-Disk) si aggiunse anche un praticissimo vincolo tecnologico-commerciale, dovuto alla capienza (in minuti) di una facciata del disco: i vinili arrivavano a 25, massimo 30 minuti, e una Sinfonia come la Jupiter, che con i ritornelli - come abbiamo constatato - dura ben più di 40 minuti, non ci stava in una facciata ed era assai sconsigliabile costringere l’ascoltatore ad interrompere l’ascolto magari nel bel mezzo di un movimento per girare il vinile sul piatto del giradischi! E allora la soluzione più semplice, in questi casi, consisteva proprio nel sopprimere - magari con interventi di editing in studio - i da-capo.]

Blacher? Su questo particolare aspetto ha seguito l’esempio di Maazel privandoci (eh sì) della ripetizione della seconda sezione del Finale. Ma va ampiamente perdonato, per… tutto il resto che ci ha regalato, guidando Santaniello e la smagrita Orchestra in un autentico viaggio nell’apollineo mondo del Teofilo!

Successo pieno, applausi ritmati e conclusione in gloria!
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Appendice: Verklärte Nacht (Richard Dehmel)

Notte trasfigurata.

Due figure avanzano nel bosco freddo e spoglio,
osservano la luna che sembra accompagnarle nel cammino,
procede la luna sopra le alte querce,
non una nuvola turba la luminosità del cielo
dove scure si stagliano le cime dei monti.
Una voce di donna pronuncia queste parole:

"Io porto un bimbo in grembo, che non è figlio tuo,
io ti cammino al fianco nel peccato.
Ho recato una grave offesa a me stessa.
Non speravo più in una qualche felicità
e tuttavia desideravo ardentemente
una pienezza di vita, la felicità di attendere
ai doveri di una madre; e perciò ho avuto l'audacia
di offrire, con un brivido, il mio sesso
all'amplesso di uno sconosciuto,
e per questo mi sono sentita benedetta.
Ora la vita ha preso la sua vendetta:
e io ho incontrato te, proprio te."

Lei incede con passo incerto.
Alza lo sguardo, verso la luna che l'accompagna.
L'ombra, negli occhi di lei, ne beve la luce.
Una voce di uomo pronuncia queste parole:

"Che il bimbo che hai concepito
non ti sia di fardello per l'anima.
Guarda, come tutto l'universo è luminoso!
Lo splendore discende su ogni cosa qui attorno.
Stai viaggiando con me sopra un mare freddo,
eppure, un intimo calore passa vibrando
da te a me, da me a te.
Trasfigurerà il bimbo di un altro,
e tu lo partorirai per me, come mio figlio.
In me tu hai fatto penetrare lo splendore del mondo,
per merito tuo ritorno bambino."

Poi lui cinge con un abbraccio i fianchi appesantiti di lei.
I loro respiri si fondono in un bacio, nell'aria.
Due figure procedono nella notte vasta e chiara.

(traduzione di Ferdinando Albeggiani)

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Note programmatiche su Verklärte Nacht (di Arnold Schönberg, 1950)

 

Alla fine del secolo XIX, i principali rappresentanti dello Spirito del tempo in poesia erano Detlev von Liliencron, Hugo von Hofmannsthal e Richard Dehmel. Mentre, nel campo musicale, dopo la scomparsa di Brahms, molti giovani compositori seguirono il modello di Richard Strauss, componendo musica a programma. Ciò spiega l’origine di Verklärte Nacht: è musica a programma, che illustra ed esprime i contenuti del poema di Richard Dehmel.

 

Questa mia composizione era probabilmente abbastanza diversa da altre composizioni illustrative, innanzitutto perché non è destinata all’orchestra, ma ad un ensemble cameristico; secondariamente poiché non illustrava un’azione o un dramma, ma era intesa a dipingere la Natura e ad evocare sentimenti dell’animo umano. E mi pare che proprio a causa di questo approccio la mia composizione abbia acquisito qualità apprezzabili anche da chi non conosca l’oggetto che viene illustrato o, in altri termini: essa offre la possibilità di essere apprezzata come musica pura. Il che può consentire all’ascoltatore di dimenticare quel poema che molti, oggigiorno, potrebbero ritenere piuttosto disgustoso.

 

Ciononostante, buona parte del poema merita apprezzamento a causa della rappresentazione poetica di emozioni suscitate dalla bellezza della Natura, e per la sua peculiare attitudine a trattare problemi esistenziali di enorme portata. Seguiamo ora la musica.

  

(3”) Passeggiando in un parco,


(1’33”) in una notte di luna, chiara e fredda,

(2’36”)

 

(3’38”) la donna confessa all’uomo una tragedia, in un drammatico sfogo:


(4’37”) Lei aveva sposato un uomo che non amava. Un matrimonio che la lasciava infelice e sola…


(6’13”) …ma che la costringeva alla fedeltà,


(7’34”) ed ora, obbedendo al richiamo della maternità, lei si trova ad avere un figlio da un uomo che non ama. Eppure si considerava persino meritevole di aver compiuto il suo dovere verso gli obblighi impostile dalla Natura:

 

(9’23”) Un’ascensione cromatica, che elabora il motivo…

…esprime la sua auto-accusa per quel grave peccato.

 

(13’09”) Disperata, ora cammina dietro all’uomo…

…del quale è ora innamorata, temendo che la sua reazione sarà distruttiva.

 

(14’45”) Ma le risponde la voce di un essere umano, un uomo la cui generosità è sublime quanto il suo amore. Questa prima metà della composizione termina in MIb minore (a), del quale rimane, come in una transizione, solo il SIb (b) per collegarla con grande contrasto a RE maggiore (c):

 

(16’43”) Armonici (a) impreziositi da volate con la sordina (b) evocano la bellezza della notte di luna…

 

(17’01”) …e vi aggiungono uno scintillante accompagnamento:

 

(17’18”) Un tema secondario si fa largo,

 

(17’37”) subito trasformandosi in un duetto fra Violino e Cello:

 

La sezione riflette l’umore di un uomo il cui amore, in armonia con lo splendore e la luminosità della Natura, è capace di fargli ignorare la tragica situazione: "Il bimbo che tu porti non deve essere un peso per la tua anima."

 

(19’16”) Dopo aver raggiunto il punto culminante, il duetto si collega, tramite una transizione, ad un nuovo tema:

 

la cui melodia, esprimendo il "calore che scorre da uno di noi nell’altro", il calore dell’amore, è seguita da ripetizioni ed elaborazioni dei temi precedenti, e porta ad un nuovo tema:

(21’34”)

…che evoca la dignitosa decisione dell’uomo: questo calore "trasfigurerà il tuo bimbo, tanto da farlo diventare il mio bimbo".

 

(22’27”) Una salita riporta all’apice e alla ripetizione del tema dell’uomo.

 

(24'48”) Una lunga sezione di coda conclude il lavoro. Il suo materiale musicale consiste in temi delle parti precedenti, tutti rimessi a nuovo, così da render gloria ai miracoli della Natura, che hanno mutato una notte di tragedia in questa notte trasfigurata.

 

Non va dimenticato che il lavoro, alla sua prima esecuzione a Vienna, fu fischiato e scatenò perfino delle scazzottate. Ma ben presto diventò un brano di grande successo.

 

[Copyright by Arnold Schoenberg, August 26, 1950
from: Arnold Schönberg : Self-Portrait. A collection of articles, programme notes and letters by the composer about his own works. Edited by Nuria Schoenberg Nono. Pacific Palisades 1988, p. 119-123] 

10 febbraio, 2023

laVerdi 22-23. 15

Profondo ‘800 (= grande musica!!!) al centro del cartellone del 15° concerto dell’Orchestra Sinfonica di Milano, diretto da Víctor Pablo Pérez [secondo Wikipedia, un esperto di… Zarzuelas !!??!!] Però qui non dirige due operette spagnole rimaste a metà, ma due grandi Sinfonie incompiute! E dico subito che il 69enne iberico ha retto benissimo l’urto di questo impegnativo programma.

Il primo titolo è l’Incompiuta per antonomasia, quella catalogata come Ottava di Franz Schubert. Davvero una Sinfonia sui-generis, constando di due soli movimenti e per di più pochissimo contrastanti. Però… Schubert si riscatta con la sua straordinaria vena melodica, e nell’Andante mostra anche capacità di drammatizzazione della narrativa musicale.

Pérez (che ha preso la bacchetta solo nello Scherzo bruckneriano) con il suo gesto sempre privo di ogni affettazione, asciutto e misurato, ha perfettamente interpretato la natura della Sinfonia in SI minore, che poi rispecchia quella del suo Autore: dando grande risalto alla leggerezza e alla cantabilità dei temi, tenendo sempre dinamiche discrete e tempi comodi: insomma, proprio lo Schubert… viennese che – nel bene e nel male – si differenziò sempre dal nordico e impegnato Beethoven.

Il pubblico - non proprio nutritissimo, devo dire - dell’Auditorium ha però apprezzato assai.
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Ecco infine la poderosa (e ponderosa) Nona di Anton Bruckner, che rimase priva del Finale per… sopravvenuta scomparsa dell’Autore. Datosi che era stata dedicata al buon Dio… si potrebbe sospettare che il Dedicatario non abbia poi tanto gradito la dedica, impedendo d’autorità il completamento dell’opera. [Ma questa è solo una battuta di bassa lega, degna di qualche anti-bruckneriano incallito.]

In questo scritto, derivato da precedenti commenti alla Sinfonia, ho cercato di riassumerne sommariamente le circostanze della composizione e le caratteristiche salienti, che la configurano come l’estremo lascito musicale, ma soprattutto spirituale, del complesso e complessato ex-organista di SanktFlorian.

È un’opera, come altre - non tutte - sinfonie di Bruckner, che richiede un ascolto preparato, e mal si presta a fruizioni superficiali o passive. Perché non è semplice entrare in sintonia con questo compositore, la cui musica di primo acchito potrebbe apparire come contorta, o frammentaria, o addirittura priva di qualsivoglia narrativa. Persino un Brahms – che pure quanto a cerebralità delle sue composizioni non scherzava di certo – la considerava priva di senso e di logica, addirittura arrivando ad offenderla come ciarpame. (Però al funerale del vecchio Anton anche lui gli rese il dovuto omaggio…)

Pérez dimostra qui di sapersi destreggiare sapientemente nei meandri della musica di Bruckner (del resto scopriamo dalla sua biografia che non è nuovo ad interpretare questa ed altre famose None, Mahler compreso): l’approccio al primo movimento è proprio solenne, e le proverbiali pause bruckneriane sono sempre rispettate come si deve per questi silenzi che sono abissali assenze di suono.

Lo Scherzo è precisamente demoniaco, nei passaggi di pervicace martellamento degli ottoni o come negli svolazzi spiritati dei violini nel Trio. L’Adagio conclusivo è proprio un Purgatorio, popolato di grandi slanci verso il cielo e di rassegnata e serena attesa della fine (le tubette wagneriane dell’addio alla vita…) La lunga coda, con le tubette che scalano per due ottave (SI-MI-SI-MI-SI) l’accordo di MI maggiore dell’orchestra, lascia proprio senza fiato, e i 10 secondi abbondanti di silenzio che Pérez impone mantenendo alzate le braccia mettono il sigillo a questo viaggio verso… l’Assoluto.   

Lunghi applausi, anche ritmati, per il Direttore e ovazioni per i suonatori – capitanati da Dellingshausen - tutti chiamati, sezione per sezione, a godersi il meritato trionfo. 

03 febbraio, 2023

laVerdi 22-23. 14

Tutto romantico il contenuto del 14° concerto della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano, diretto (graditissimo ritorno, questo) da Oleg Caetani.

Si comincia con Chopin e il suo Primo Concerto per pianoforte e orchestra (in realtà il secondo in ordine cronologico di composizione) suonato – al posto del titolare Alexander Godjiev - da un altro dei giovanissimi (22 anni) fenomeni del concertismo di oggi, Elia Cecino (ecco come il ragazzino lo interpretava un anno fa al Teatro Malibran di Venezia con l’Orchestra della Fenice diretta da Frizza).

Il Concerto è francamente piuttosto... pretenzioso, ecco: basti pensare che il solista deve starsene lì a girarsi i pollici per ben più di 4 minuti (tanto dura l’introduzione orchestrale, che in realtà presenta nella loro completezza i temi che verranno poi suonati dal pianoforte!) prima di… entrare in partita. E poi quell’iniziale Allegro maestoso è davvero un movimento prolisso e ipertrofico (circa 20 minuti!)   

Certo, poi Chopin sapeva proporre temi e melodie accattivanti… che percorrono il Concerto da cima a fondo... E il fantastico Elia ce le ha proposte in maniera davvero trascendentale: non parlo solo e tanto della tecnica sopraffina (che già non è poco…) ma della sensibilità interpretativa, che testimonia grande attenzione e scavo della partitura, nella scelta delle dinamiche e dei proverbiali rubati.

Per lui un gran trionfo, ricambiato non con uno, ma con due encore: lo Chopin della Mazurka Op.24 (la stessa del bis del citato concerto alla Fenice) e questo Shostakovich.
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Ecco poi la poco eseguita Eine Symphonie zu Dantes Divina Commedia für Frauenchor und Orchester di Franz Liszt.

Nel foyer dell’Auditorium è esposta parte della collezione privata di edizioni storiche della Commedia, di proprietà del Presidente Emerito Gianni Cervetti. Vi sono esposti 7 esemplari, che spaziano su più di 4 secoli, dal 1491 al 1921. Ad ammirarli c’era anche il venerabile Quirino Principe, presente al concerto.

Caetani, che fatica sempre di più a camminare ma sul podio è ancora un leone, ha introdotto l’opera ricordando una sua indiretta relazione con l’Autore: il suo trisnonno Michelangelo Caetani conobbe a Roma Liszt (che era là durante gli Anni di pellegrinaggio) ed ebbe, con il figlio Onorato, una lunga relazione di amicizia con il compositore!  

Liszt era praticamente allergico alla musica-pura, per lui i suoni dovevano essere necessariamente associati alle reazioni emotive dell’animo umano di fronte a qualsivoglia oggetto o fenomeno o concetto. Così gran parte della sua produzione (pianistica e orchestrale) è ispirata a oggetti, luoghi da lui visitati, opere letterarie, personaggi storici o mitologici e via discorrendo. Fanno forse eccezione i due Concerti per pianoforte, che non hanno né sottotitoli, né programmi esterni appiccicati.

Liszt era stato attratto da Dante fin dal 1848 e aveva composto, prima della Sinfonia, una Dante-sonata poi ripresa in altre opere con diversi titoli (es.: Anni di pellegrinaggio). Come la Sinfonia-Faust, anche la Dante altro non è se non un poema sinfonica con struttura che rimanda alla sinfonia. La Dante fu composta negli anni 1855-56 e l’Autore la dedicò a colui che pochi anni dopo diventerà suo genero, per tramite di Cosima. Con Wagner Liszt aveva già un sodalizio artistico, culminato nella coraggiosa decisione (1850) dell’allora Kapellmeister di Weimar di mettere in scena l’ultima opera dell’esule, colà rifugiatosi provvisoriamente – sulla strada per Zurigo - perchè inseguito da un mandato di cattura da Dresda come complice nella rivoluzione del 48-49: il Lohengrin.

Erano tempi in cui Wagner, lasciato Siegfried a riposarsi dalle fatiche della vittoria sul drago Fafner, si stava dedicando anima (e corpo !?) alla conquista della bella Mathilde, che gli dava ispirazione e carica adrenalinica per costruire quel po’-po’ di monumento chiamato Tristan. E proprio Wagner si permise di cercar di dissuadere Liszt dal musicare Dante (il Paradiso, soprattutto) impresa da lui giudicata tanto velleitaria quanto disperata.

Ma Liszt. che quanto ad autostima e velleitarismo non era secondo a nessuno, non si fermò di fronte a nulla e portò a termine l’ardua impresa, limitandosi modestamente e per rispetto divino a non musicare come Paradiso un ultimo movimento della sua Sinfonia a programma, ma appendendo al Purgatorio un Magnificat con coro femminile. Poi, non contento, preparò anche 22 battute di un secondo finale (Halleluja) da eseguirsi - ma non lo fa nessuno - ad-libitum 

Il movimento iniziale (Inferno) ha una struttura lontanamente parente della forma-sonata; ma presenta tratti che lo apparentano alla fantasia. La tonalità prevalente è RE minore, ma con innumerevoli divagazioni e modulazioni.

Si apre in tempo Lento con un tema introduttivo, reiterato tre volte, sulle cui ricorrenze Liszt ha scritto in calce i tre versi danteschi: Per me si va nella città dolente; per me si va nell’eterno dolore e per me si va tra la perduta gente! Poi compare uno stentoreo motivo che farà da motto ricorrente sulle cui note leggiamo invece: Lasciate ogni speranza voi ch’entrate!

[Lodevole al proposito l’idea di proiettare sui due schermi ai lati del palco quei versi, proprio in corrispondenza dell’esecuzione delle note sotto le quali Liszt li vergò sul suo manoscritto. Un modo intelligente per spiegare la relazione fra suoni e parole anche a chi non ha sottomano la partitura.]

Adesso stiamo scendendo giù nei gironi infernali, da dove arrivano sordi rumori e lamenti: sono i movimenti convulsi dei condannati, che prima arrivano da lontano e poi sono sempre più pesanti e vicini. Il vento infernale, con successive folate sempre più forti ci accompagna nella discesa finchè il motto, sempre più protervo, fra turbini di vento, ci ricorda che lì non c’è proprio scampo alcuno.

E scampo non ci fu e non ci sarà per qualcuno che ora incontriamo, in un’atmosfera fattasi improvvisamente più rarefatta (arpa e pianoforte). Il clarinetto prima e poi il corno inglese ci svelano l’identità dei personaggi che ci stanno di fronte: la partitura reca i versi Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria. Sì, sono precisamente Paolo e Francesca.

Ecco quindi che un accorato tema in Andante amoroso si dispiega nobilmente, con successive volute e passando alle diverse sezioni dell’orchestra, fino a spegnersi su una lunga coda chiusa, indovinate? dal motto che nega ogni speranza! E infatti, dopo una marziale, sommessa introduzione di timpani, fagotti e corno, in partitura leggiamo un’indicazione perentoria di Liszt: ciò che segue deve suonare come un blasfemo e irridente sghignazzo! Ed è infatti un crescendo tumultuoso quello che ora ascoltiamo, riportandoci… all’inferno di quel luogo.

Ci avviamo ora all’uscita, accolti sulla soglia - c’era da aspettarselo - dal protervo sigillo del motto!  

Usciti dagli inferi, eccoci ai piedi del monte Purgatorio. Liszt interpreta il secondo cantico dantesco come un lento ma sicuro viaggio verso la totale redenzione dai peccati dell’Uomo, un lungo e faticoso, ma nobile, preludio all’accesso al trascendente.

Si suddivide in tre parti: 1. l’uscita dall’Inferno e il ritrovarsi nella Natura; 2. Il percorso lungo le diverse cornici del Purgatorio; 3. La visione del Paradiso (Magnificat). Le due sezioni esterne presentano musica serena ed estatica, mentre quella centrale è caratterizzata dall’evocazione delle difficoltà e dei sacrifici che i confinati in Purgatorio devono affrontare per meritarsi il Paradiso.

La prima sezione del movimento evoca il respirare nuovamente a pieni polmoni, ammirando l’eterno spettacolo della Natura. È un motivo che si innalza sereno e sognante, esposto dagli strumentini due volte, dapprima in RE e poi in MIb maggiore.      

Ma ora ci si deve incamminare lungo l’ardua scalata del Purgatorio, se vogliamo arrivare al… Paradiso. Ecco quindi che tutta la lunga sezione centrale del movimento è caratterizzata da motivi che evocano: fatica, dolore, privazioni, al fine di espiare i peccati e guadagnare il premio più alto. Non a caso ritroviamo, camuffati ma riconoscibili, anche motivi che vengono dall’Inferno, poiché rappresentano peccati che – se pur non irrimediabili – devono essere dolorosamente riconosciuti per poter ambire al perdono divino. Sono atmosfere che ritroveremo più avanti anche nel Parsifal, che per certi aspetti è debitore di questa musica.

Un solenne passaggio dal chiaro sapore Berlioz-iano ci preannuncia l’arrivo sulla sommità del monte, nel Paradiso terrestre, dove il maestoso e beatificante Magnificat (in SI maggiore) ci fa intravedere… l’Indescrivibile.

E, per il Magnificat, Caetani ha deciso di impiegare (appropriatamente, direi) in aggiunta al Coro femminile (I Giovani di Milano), anche il Coro di voci bianche, diretti entrambi da Maria Teresa Tramontin. [Anziché starsene fuori scena, come prescritto da Liszt, il Coro ha cantato dalla balconata dell’Auditorium, ottenendo un mirabile effetto di suoni che arrivano dal… Paradiso.]

Un’esecuzione davvero con i fiocchi, accolta trionfalmente, che certo ha contribuito a far conoscere al pubblico quest’opera un po’ reietta, ma che merita – pur non potendosi definire un capolavoro – di trovare il suo posto nei repertori delle grandi orchestre.