affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

19 febbraio, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°7


A 10 anni dalla scomparsa, Romano Gandolfi, indimenticabile fondatore del Coro de laVERDI (dopo aver fatto grande quello della Scala) viene degnamente ricordato con un concerto di cui è protagonista la compagine oggi guidata da Erina Gambarini. Sul podio di largo Mahler un altro veterano dell’orchestra, Claus Peter Flor.

Il concerto è introdotto dalla Sinfonia funebre di Giovanni Paisiello. Composizione del 1797, commemorativa della figura del generale Louis-Lazaire Hoche. Paisiello pare avesse simpatie napoleoniche (in buona compagnia... leggi Beethoven) e in effetti era stato nominato Direttore della musica nazionale ai tempi dell’estemporanea Repubblica napoletana. Ciò forse spiega perchè la scelta dei francesi di quella musica d’occasione privilegiò lui e non altri.

Ma Paisiello doveva essere davvero un gran paraculo, se solo due anni dopo (1799) – scampato alle simpatiche ritorsioni del redivivo Ferdinando - non ebbe il minimo pudore ad impiegare quella stessa musica, composta per la morte di un mangia-papi, per onorare quella di un... Papa, Pio VI, morto per di più nella prigione napoleonica di Valence (della serie: sotto terra tutti i cadaveri sono uguali, perbacco !!!) E così il brano divenne la Sinfonia della Missa Defunctorum.

Flor l’affronta calcando la mano e trattenendo i tempi: parrebbe la funèbre di Berlioz... però tutto sommato, essendo stata composta per Parigi, va bene anche così!
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Ecco poi il pezzo forte della serata: il rossiniano Stabat Mater, dove si cimentano anche i solisti Veronica Cangemi (che ha rimpiazzato la titolare Maria Grazia Schiavo), Marta Beretta, Davide Giusti e Mirco Palazzi.

Intanto Flor ha disposto l’orchestra in modo (apparentemente) bizzarro: configurazione di base tedesca (violini secondi al proscenio, a destra, violoncelli al centro) ma con alcune varianti non da poco: contrabbassi in linea frontale dietro a tutti e fiati spezzati in due: i legni all’estrema sinistra (più dei corni) e trombe e tromboni all’estrema destra (i tromboni addirittura al proscenio). A ben vedere è una disposizione che talvolta si adotta nella buca dei teatri d’opera, e quindi – nella fattispecie – non è proprio totalmente cervellotica (anche se qui la buca non c’è...) Invece, trovo personalmente più discutibile l’idea di dislocare i quattro solisti tutti a sinistra del podio: un’asimmetria francamente eccessiva.

Un’altra scelta in contrasto con la lettera della partitura riguarda il N°9 (a cappella): invece che ai quattro solisti, viene fatto eseguire all’intero coro. Scelta non certo invenzione di Flor (é assai praticata) ma sempre discutibile, anche se non priva di effetto. In questa occasione si potrebbe giustificare come un omaggio-extra per il festeggiato coro, ma spesso sappiamo essere determinata da non completa fiducia nei confronti dei solisti (evabbè, l’ho detto...)  

E a proposito dei solisti devo dire che il solo Mirco Palazzi (mi) ha pienamente convinto: per voce  (in tutta l’estensione), per portamento e per sensibilità interpretativa, che sono da elogiare senza se e senza ma. Degli altri tre mi ha abbastanza soddisfatto il giovin tenore Davide Giusti, ancora acerbo, ma dotato di gran voce da tenore drammatico: mancano l’espressività (tutto cantato forte, à la Grigolo) e la fluidità di emissione (il REb sovracuto lo ha tirato fuori proprio come non piaceva a Rossini, da gatto squartato). Le due gentil donne (un filino meglio la Marta Beretta, rispetto alla Veronica Gangemi) hanno mostrato mezzi naturali notevoli ma altrettanto chiari limiti di controllo dell’emissione.

Il coro della sciura Erina si è meritato applausi frenetici, alla memoria del suo fondatore, e i ragazzi agli strumenti non hanno certo deluso le aspettative. Quindi successo pieno, in un Auditorium non propriamente preso d’assalto.      
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Chi fosse impossibilitato ad assistere venerdi o domenica al concerto, può consolarsi con lo Stabat seguendo passo-passo questa eccellente esecuzione dei ceciliani con Pappano a Salzburg (2011) solisti Netrebko, Pizzolato, Polenzani e D’Arcangelo.

1. Introduzione – Stabat Mater. La tonalità d'impianto è SOL minore (su cui pure si concluderà l'opera) cui si arriva dopo che (2’25”) violoncelli e fagotti hanno aperto con una cupa scala ascendente che chiude (2’43”) in RE maggiore, ribadita da un’altra che sfocia (3’00”) nella tonalità d’impianto. L'introduzione, tutta in staccato e sincopi ci porta nel clima mesto, ma sempre più agitato dello Stabat, intonato prima (4’35”) dal coro (a canone: bassi, poi tenori, soprani e contralti) e poi (5’21”) dai quattro solisti, che entrano contemporaneamente, poi ancora dialogando con il coro. Dopo una drammatica esternazione – (6’27”) dominante RE, recto-tono - del coro su Dum pendebat filius, ecco una breve ma luminosa sezione centrale nella relativa SIb maggiore. Qui è il tenore (6’58”) a presentarsi in primo piano, subito accompagnato dalle due soliste e poi dal basso, nel dum pendebat, poi ripreso dal coro, che su un poderoso accordo di sesta (8’20”) porta al Filius, dove il SOL minore riprende il sopravvento, per la nuova esposizione dello Stabat da parte dei solisti. Rientra il coro (9’16”) sul Juxta crucem, scandito sul SOL ff ribattuto dell'orchestra, poi reiterato fino al ritorno della scala di RE di violoncelli e fagotti, che porta (10’26”) al dolorosa, cantato sotto voce, e poi (10’46”) al lacrimosa, per chiudere con il motivo dell'introduzione, negli archi, e (11’58”) i due perentori accordi di SOL minore.  
2. Cujus animam. Principia in LAb minore, ma tosto il maggiore si fa largo (12’54”) con ritmo marziale, zum-pà-pparà-pà/zum. Ecco, qui il pericolo è che l'orchestra suoni come una banda del pignataro che marcia per una strada di paese (come dimenticare Totò...) Pericolo che il direttore deve scongiurare rispettando l'agogica dolce prescritta da Rossini. Adesso tocca ancora al tenore (13’26”) esibirsi in questa parte famosa e difficile, dove si passa continuamente da maggiore a minore. Poi (14’25”) la sezione nella relativa FA minore (O quam tristis et afflicta) con altre modulazioni e un agitarsi del ritmo; che si acqueta poi (15’48”) per la ripresa (Quae moerebat et dolebat) nella tonalità principale che conduce (17’29”) alla coda, con quel gruppetto che fa da trampolino per l'impervia salita alla sottodominante, il REb acuto (17’42”) sull'ultimo poenas (incliti). Segue poi (18’11”) una stupefacente cadenza finale (che non può non ricordarci un certa selva opaca...)
3. Quis est homo. Altra perla orchestrale, l'incipit largo e misterioso dei corni (19’03”) in MI maggiore e degli oboi e archi, e poi l'improvviso erompere della scala ascendente (19’50”) che introduce il Qui est homo il soprano, affiancato poi (20’51”) dal mezzosoprano o contralto sul Qui non posset (Rossini in effetti prescrive, come anche per il N°7, un secondo soprano, ma la parte è di fatto sempre sostenuta dal mezzo - o contralto - data l'estensione limitata al FA# e al fatto che un contralto è comunque previsto per i due quartetti N° 6 e N° 9). È un duetto per terze assai cantabile ma allo stesso tempo virtuosistico, chiuso (23’46”) da una classica cadenza, dopo la quale (24’12”) i corni re-introducono la bellissima melodia iniziale. Ancora un intervento degli oboi e quindi la chiusura (25’00”) sulla melodrammatica scala ascendente dell’orchestra.
4. Pro peccatis. È uno dei pilastri dell'opera, e tocca al basso di… impersonarlo. Si parte (25’44”) in LA minore, per poi ripetere i versi (26’13”) modulando a maggiore. Il procedimento si ripete una seconda volta (27’14” e 27’43”) su Vidit suum dulcem natum. Il solista è grandemente impegnato nella parte finale (dum emisit spiritum) dove (29’23”) deve passare sopra il fracasso orchestrale.
5. Eia Mater. Sul RE minore di base (con fugaci modulazioni alla relativa FA maggiore) il coro dialoga ancora (30’47”) a lungo col basso, che deve toccare poi (32’33” e 33’21”) due FA acuti sul Fa cut ardeat cor meum. La chiusura (Ut sibi complaceam) è in un tranquillo FA maggiore.
6. Sancta Mater, istud agas. È di fatto un quartetto, dove tenore (34’27”) soprano (35’40”) basso e mezzosoprano entrano in sequenza. La tonalità è LAb maggiore, con escursione sul DO minore, all'ingresso (36’34”) del basso (Fac me vere) e del mezzosoprano, e poi (37’21”, Iuxta crucem) sulla dominante MIb maggiore. I quattro solisti devono poi mostrare affiatamento e precisione negli attacchi, senza mai lasciarsi prendere la mano (anzi la voce) e ricorrere ad effetti troppo melodrammatici. Una dolce cadenza orchestrale (40’50”) chiude il quartetto.
7. Fac ut portem. È indicata come cavatina, in MI maggiore, introdotta (41’28”) da un attacco, dolce, dei corni e del clarinetto, corni che tornano più volte, con il loro nobile arpeggio. È assegnata (42’18”) al soprano secondo (o al mezzo, o contralto) ed è caratterizzata da grande cantabilità e portamento. Sulla seconda strofa (Fac me plagis vulnerari) abbiamo un repentino cambio di scenario (43’10”) con modulazione brusca a DO# minore e furiosi strappi dell’orchestra. Ma si torna presto (44’06”) al MI maggiore, con i corni che portano poi alla cadenza conclusiva (45’18”) della solista (ob amore Filii).
8. Inflammatus et accensus. Grande spazio qui viene dato agli ottoni, con trombe e tromboni a scandire i pesanti accordi di DO minore e i corni a proporre tracotanti incisi discendenti. Poi il soprano (46’55”) stacca il FA forte, sul primo Inflammatus, per passare subito al sotto voce, sul secondo. Arriva il coro (47’25” In die judicii) a ribattere ostinatamente il DO, fino all'inizio (48’00”) della sezione nella relativa MIb maggiore, dove il soprano canta Fac me cruce custodiri, contrappuntato dal coro. Si torna (48’39”) al pesantissimo DO minore e poi, sul successivo Fac me, ad un inizialmente calmo (49’46”) ma subito agitantesi DO maggiore, dove la solista deve toccare due consecutivi DO acuti (confoveri gratia, 50’26” e 50’35”) prima che tutta l'orchestra chiuda con una fracassona cadenza da puro melodramma (un po' come sarà la conclusione in FA del Sanctus verdiano). 
9. Quando corpus. L'orchestra tace, solo le voci restano protagoniste di questa grande polifonia, probabilmente l'unico numero dell'opera che davvero si rifà alla tradizione della musica religiosa. In partitura è affidato ai soli quattro solisti, ma spesso viene invece eseguito dal coro (scelta discutibile ma non priva di effetto). Principia (51’00”) in SIb, per poi passare (51’17”) alla relativa SOL minore. Torna significativamente il SIb maggiore (51’52”) sulle prime due proposizioni di Paradisi gloria. É un susseguirsi di piano e forte che mette a dura prova le voci. L’ultima reiterazione a canone (54’38”) di Paradisi gloria è sulla tonalità principale di SOL minore, che fa da ponte per il numero finale.
10. In sempiterna saecula, Amen. Dopo un triplice Amen, è questa (55’44”) una colossale fuga in Allegro, davvero una superba conclusione per quest'opera che, nata quasi per caso e per far un favore ad un ammiratore ecclesiastico, è invece un autentico capolavoro. Il motto iniziale, la scala ascendente di violoncelli e fagotti, torna ancora drammaticamente (59’10”) nell'Andantino moderato, per l'Amen. Prima che arrivi (1h00’30”) la strepitosa cadenza finale.
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03 febbraio, 2016

Haitink alla Scala: ich will euch wieder sehen...

 

Fra gli eventi concertistici del 15-16 alla Scala spicca la presenza di tre mostri sacri della direzione: dopo aver ammirato ed applaudito l’88enne Herbert Blomstedt in novembre, ed in attesa di ritrovare (22 febbraio) il quasi 92enne Georges Prêtre, in questi giorni ci si può godere il venerabile Bernard Haitink (87 primavere fra un mesetto, e ben portate se è vero che il vegliardo si è ben guardato dall’usare la sedia che gli era stata sistemata sul podio...) che ci dà la sua lettura di uno dei più preziosi monumenti della musica di tutti i tempi: Ein deutsches Requiem. Opera con la quale il Maestro fiammingo si è ovviamente cimentato in più occasioni, una delle quali è questa con i Wiener.


Ma con il Requiem si sono ovviamente cimentati tutti i Direttori, ed ognuno ne ha dato la sua personale interpretazione. A puro titolo di curiosità (e considerando solo 10 delle più di 20 edizioni integrali rintracciabili solo su youtube) ho messo a confronto i tempi di esecuzione di diversi interpreti, elencandoli in ordine di durata complessiva netta crescente (per semplicità ho indicato soltanto i minuti, arrotondando per eccesso o difetto): 


interprete
tot
I
II
III
IV
V
VI
VII
59
9
12
8
4
6
10
10
63
9
13
10
5
7
10
9
69
10
14
9
5
7
12
12
72
10
15
10
6
7
12
12
73
11
16
10
5
8
11
12
75
11
15
11
6
8
12
12
75
12
16
10
5
9
11
12
77
12
16
11
7
7
11
13
80
13
16
11
6
9
12
13
86
14
16
12
6
9
14
15

Come si può notare, la durata delle esecuzioni si dispone ai lati opposti della media ponderata (73 minuti, Gergiev). Ai due estremi si trovano il rapido Masur, che non arriva all’ora (19% sotto la media), e il sostenutissimo Celibidache, che la tira in lungo per quasi un’ora e mezza (+18% sopra la media!) Walter e Gatti sono fra i veloci, Sinopoli e Furtwängler fra i lenti.

Va da sè che queste considerazioni sulla durata lasciano sempre il tempo che trovano, dato che ciascun interprete ha il diritto-dovere di... interpretare per l’appunto la volontà espressa dal compositore con simboli e note sulla partitura (però interpretare non significa... inventare). Nel caso specifico manca anche ogni indicazione di metronomo (che Brahms ha sempre omesso nei lavori sinfonici, suggerendolo per lo più nei concerti solistici) e a maggior ragione perciò si possono dare differenze così profonde nell’approccio dei vari Direttori all’agogica dell’opera.

Per fare un esempio estremo, evidentemente l’indicazione Ziemlich langsam und mit Ausdruck (Piuttosto adagio e con espressione) che Brahms ha vergato in testa al numero di apertura (Selig sind, 158 battute in 4/4 senza alcun cambio di tempo) è stata interpretata in modo diametralmente opposto da Masur (8’55”, equivalenti ad un metronomo di 71 semiminime, quasi più spedito di un Andante) e da Celibidache (13’35”, equivalenti ad un metronomo di 47 semiminime, un Adagio molto, il che rende il brano – per me – addirittura insostenibile!) La conclusione che si può trarre è che ci troviamo di fronte a quelli che in politica si chiamerebbero opposti estremismi, due quasi antipodiche visioni del mondo: la prima che guarda alla vita e alla morte quasi con baldanza, con accenti eroici; l’altra che si adagia in una mistica contemplazione e anticipazione dell’eternità. Potremmo dire che la prima presenti un approccio occidentale, razionalista-illuministico (tipico di un individuo con la biografia di Masur); e che la seconda si richiami a filosofie orientali (e non a caso, date le personali attitudini di Celibidache).

Il nostro Haitink – come molti altri Direttori del resto - sta quasi al centro, ed anche ieri sera non si è smentito, registrando precisamente un totale netto di 75 minuti (12+15+10+6+7+13+12, tempi rilevati sommariamente). A parte però la durata, che è una componente importante, ma non certo l’unica di una interpretazione, il vegliardo tulipano ha saputo cavar fuori dai filarmonici scaligeri e dal coro di Casoni un Requiem memorabile, sotto tutti gli aspetti (positivi e non): dal misterioso attacco del Selig sind (il pedale introduttivo dei corni in pianissimo ha avuto un che di... tombale) al pesante strascicarsi di Denn alles Fleisch, per il quale non per nulla Brahms dà l’indicazione di Marschmässig (letteralmente: moderatamente marciando) fino alla colossale fuga che chiude il sesto numero (Herr, du bist würdig) che Haitink ha fatto declamare con una prosopopea, un’enfasi e una proterva retorica spinte al limite della sopportazione.      

Il coro si è superato (Haitink gli deve aver cavato anche l’ultimo fil di fiato!) mentre note poco esaltanti vengono dai due solisti (meno male che hanno parti quantitativamente circoscritte): appena passabile la Camilla Tilling, ma direi deludente la prova di Hanno Müller-Brachmann, che mi è parso proprio fuori ruolo, come dire, rispetto ai due interventi che lo riguardano (e anche l’intonazione mi ha lasciato perplesso).

Ad ogni buon conto il successo è stato pieno e costellato da parecchi bravo! (epiteti che il Maestro peraltro disdegna forse più dei buh!) Ma in fin dei conti è stata una specie di meneghino oscar alla carriera, che il successore di Mengelberg (hai detto nulla!) e VanBeinum sul podio del glorioso Concertgebouw si merita ampiamente. E non solo per le sue imprese musicali, ma per la sua straordinaria umanità e semplicità; che già mostrava quando - lo ricordo come fosse ieri, allora 50enne, in un concerto con la prima di Brahms nella londinese RFH – lo vidi ed ascoltai per la prima volta dal vivo. E per questo gli dico: grazie, Bernard!

31 gennaio, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°5


Programmazione insolita (niente giovedi e/o venerdi, ma sabato e domenica, e vedremo perchè...) per il quinto concerto stagionale de laVERDI, che ha proposto opere di Ciajkovski, Respighi e Schumann, brani tra loro lontani nel tempo e nei contenuti.

Di Ciajkovski è stata eseguita un’opera giovanile (in origine un esercizio di Conservatorio): trattasi dell’Ouverture in Fa maggiore nella seconda stesura del 1866. Della prima, di un anno più vecchia, eseguita in origine da studenti del Conservatorio di SanPietroburgo (quello di Rubinstein Anton, dove Ciajkovski studiava) erano andate perse - anzi, pare proprio date alle fiamme dall’Autore medesimo - le tracce, ma poi si è riusciti a ricostruirne la partitura e a renderne possibile l’esecuzione. Qui un esempio con una vecchia conoscenza de laVERDI alla guida dei radiofonici moscoviti. Come si noterà, sono poco più di sei minuti di musica, piuttosto acerba, ma che lascia intravedere stilemi che caratterizzeranno la produzione matura di Ciajkovski.

La seconda versione, predisposta su invito di colui (Rubinstein Nikolay) che stava per fondare il Conservatorio rivale (quello moscovita, dove Ciajkovski insegnò) e ascoltata qui, oltre ad irrobustirsi nella quantità (quasi raddoppiando la durata e impiegando un organico assai rinforzato, soprattutto negli ottoni) si distingue per un maggiore respiro sinfonico ed anche per una certa enfasi (vedi la coda) che ritroveremo in più di una delle sei sinfonie che Ciajkovski snocciolerà nel seguito della sua carriera. Eccone un’eccellente interpretazione di Mikhail Pletnev con i suoi nazionali russi.

Nulla da dire sull’esecuzione dei ragazzi, che è servita a... scaldare i motori.
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Ecco poi un Respighi poco eseguito, quello del Concerto gregoriano per violino e orchestra, qui interpretato dal Konzertmeister titolare de laVERDI, Luca Santaniello.

Opera del 1921, non è parente nemmeno lontano dei concerti classici o romantici: il titolo tradisce chiaramente l’approccio di Respighi, che intende rifarsi alle più profonde radici della musica occidentale. La citazione letterale – nel centrale Andante - della sequenza Victimae Paschali laudes ne è una testimonianza incontrovertibile:

  
In quest’opera il solista, più che un eroe che sfida torme di agguerriti nemici, è un salmodiante che unisce la sua voce a quella di un coro di salmodianti: il che comporta una quasi totale mancanza di contrasti e invece una continua simbiosi dell’individuo con la comunità. Eccone una preziosa esecuzione storica (1991) di Uto Ughi.

Bene, Santaniello non sfigura affatto al confronto con il gigante veneziano, meritandosi applausi ed ovazioni. E così ringrazia tutti con uno dei fantastici tangacci di Piazzolla.
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Ha chiuso il programma la Seconda di Schumann, di cui avevo scritto qualcosa più di 5 anni fa, quando era risuonata in Auditorium sotto la bacchetta di sir Neville Marriner. È la più complessa (e sofferta, forse) delle sinfonie schumanniane, come testimonia il movimento iniziale, dove l’esposizione dei due temi (55 battute, più il da-capo) fa la figura di una fugacissima apparizione fra l’introduzione e lo sviluppo, che occupano (con la coda) le restanti 336 battute!  

Trascinante davvero la prestazione dei ragazzi, che cavano fuori tutta la luminosità di quest’opera, che è in contrasto stridente con le depressioni psichiche di cui l’Autore soffriva (e che si sarebbero presto aggravate). Successo pieno e meritato.
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Adesso Caetani, Santaniello e l’Orchestra si preparano ad una trasferta sicuramente eccitante: poichè nei prossimi giorni riproporranno (con piccole varianti) questo stesso programma nientemeno che... a casa di Mozart!

Il sommo Händel trionfa alla Scala

 

Ieri sera la Scala ha ospitato la seconda recita de Il trionfo del tempo e del disinganno, l’oratorio di Händel rappresentato in forma scenica da Jürgen Flimm. Teatro abbastanza gremito e pochissimi (ad occhio) abbandoni nell’intervallo, segno che lo spettacolo ha tenuto alta l’attenzione fino all’ultimo.

Ovviamente il merito maggiore va alla musica dell’imparruccato sassone e a chi l’ha mirabilmente diretta, suonata e cantata. Ma devo dire che anche l’allestimento ha dato il suo bel contributo al successo dello spettacolo.

Diego Fasolis è uno dei maggiori interpreti (ma anche promotori) del barocco e lo conferma, guidando (e cooperandoci lui stesso ad uno dei tre clavicembali) una compagine di professori scaligeri che hanno accolto con favore l’idea di cimentarsi con questo repertorio, impiegando strumenti d’epoca (quasi...) e con accordatura a 415. Pur nell’immenso spazio del Piermarini, l’ensemble che è di soli 28 esecutori, di cui 20 dell’orchestra di casa (tutti archi meno una tastiera) rinforzati da 8 barocchisti della Radio Svizzera Italiana (fra cui Gianluca Capuano, ben noto ai seguaci de laVERDI BAROCCA, protagonista all’organo) ha saputo farci sentire ed apprezzare ogni minima sfumatura del suono che esce da quel gioiello che è la partitura di Händel. Un suono (corde di budello e poco vibrato) mai stridulo o vetroso, al contrario sempre leggero ed etereo, come si conviene a rendere al meglio simili capolavori.

Lodevoli tutte le quattro voci, a partire dal Disinganno di Sara Mingardo, davvero impeccabile nel sostenere la parte – come dire – più filosofica dell’Oratorio: portamento severo e autorevolezza assoluta. 
 
Martina Janková è una protagonista ideale, per sensibilità, accenti e capacità di rendere la lenta ma progressiva maturazione del personaggio: dall’edonismo fine a se stesso alla contemplazione di un piacere che non è di questa terra...  

Piacere che è impersonato da una solida Lucia Cirillo, sempre brava nelle ammiccanti adulazioni alla Bellezza come nelle fiere contestazioni ai due pipistrelli che la vogliono... convertire. Si può opinare la scelta di affidare la parte ad un mezzo invece che a un soprano, ma i risultati hanno giustificato in pieno tale scelta, che si è accompagnata anche ad un accredito di un’aria (Un pensiero nemico di pace) che spetterebbe alla sua sodale.

Oltre che dal Disinganno-Mingardo, le severe forze della ragione-religione sono rappresentate da Leonardo Cortellazzi che veste efficacemente i panni del Tempo.

In poche parole, un’esecuzione di prim’ordine che fa onore al Teatro e che il pubblico ha mostrato di apprezzare riservando calorosi applausi a tutti i protagonisti. L’avventura della creazione di un ensemble barocco alla Scala mi pare iniziata sotto i migliori auspici.
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Ispirandosi probabilmente al platonico Simposio, dove un gruppo di amiconi, dopo abbondanti mangiate e libagioni, si imbarca in alate discussioni filosofiche (sull’amore) ecco che Jürgen Flimm e lo scenografo Erich Wonder hanno pensato bene di ambientare l’incontro dei quattro personaggi-concetto dell’austero Oratorio del Cardinal Pamphilj in un moderno ristorante (che richiama programmaticamente, ma solo nell’idea, la famosa Cupole parigina anni ’30) con annessa passerella per esibizioni di un particolare tipo di... Bellezza, impegnata in attività di Disinganno del Tempo per il Piacere dei convenuti (!) Certo, il porporato avrebbe forse qualcosina da obiettare, ma se lo facesse si prenderebbe come minimo dell’ipocrita! Quindi: va bene così, ecco.

Mettere in scena un Oratorio che ha come unico sviluppo narrativo la conversione di un... approccio esistenziale dal terreno al contemplativo non dev’essere semplice nè facile, ma Flimm e compagnia hanno trovato un plausibile equilibrio limitando per quanto possibile eccessi che avrebbero avuto l’unico risultato di distrarre l’ascoltatore dalla meravigliosa musica che sgorgava da buca e palco.

Un simpatico riferimento a quanto narrano le cronache della prima (1707) è stata la comparsa sulla scena di... Händel in persona a strimpellare sull’organo (i cui suoni però eseguiva Capuano in buca) la Sonata che precede l’aria Un leggiadro giovinetto, accompagnato però da un violinista, abbigliato alla ‘700, staccatosi all’uopo dall’ensemble.

Alcune trovate (lo smembramento di una bambola come biglietto da visita del Tempo, l’esplosione di un avventore ubriaco, le ragazze che sfilano sulla passerella, alcuni andirivieni di bizzarri avventori, che sicuramente nasconderanno qualche simbologia nota solo al regista...) possono sembrare gratuite, ma per fortuna non guastano più di tanto. La metamorfosi finale della Bellezza, che sveste i panni mondani per indossare il classico abito da monaca e si toglie la vistosa parrucca bionda per restare con i capelli rasati da penitente è forse eccessivamente didascalica e troppo... curiale, ecco: ad evocare assai bene la presa di coscienza della caducità di ciò che è puro edonismo terreno bastava il progressivo impoverimento (e oscuramento) della scena, che ha caratterizzato la parte finale dell’Oratorio.

Ma insomma, uno spettacolo godibilissimo, dove le tre ore filano via quasi senza che uno se ne accorga.

28 gennaio, 2016

Un baldanzoso Attila invade Bologna

 

Ieri al Comunale di Bologna quarta rappresentazione di Attila. Si ratta di un nuovo allestimento di Daniele Abbado, che verrà successivamente riproposto a Palermo e Venezia (co-sponsor della produzione). Insieme al sottoscritto, i più (cioè il solito 1,2-1,6% dell’italica popolazione) avranno già sentito/visto (in diretta o differita, su Radio3 e RAI5) la prima del 24.

Ciò che penso dell’opera lo avevo già esternato quasi 5 anni orsono, in occasione d una recita alla Scala. Ieri era la seconda con il cosiddetto secondo cast. Devo dire subito che non mi ha fatto rimpiangere il primo: forse l’unico interprete di cui ho sentito la mancanza è stato Simone Piazzola, il cui vice, Gezim Myshketa (Ezio) mi è parso impiegare poco proficuamente il suo pur naturalmente dotato strumento: voce artatamente scurita soprattutto nelle note alte, dove invece andrebbe esibito uno squillo penetrante, e non cavernosi schiamazzi.

Tutti gli alti interpreti non hanno affatto demeritato. A partire dal protagonista, un solidissimo Riccardo Zanellato, che ha esibito grande sicurezza e profondità di accenti, oltre che autorità e portamento scenico.

Bene anche Stefanna Kybalova, cui potrei rimproverare qualche acuto troppo tirato-via (ma non il DO di ingresso, più che dignitoso). Giuseppe Gipali ha pure ben meritato come Foresto, mostrando acuti squillanti ma anche buona espressività nei passaggi più introspettivi.

Gianluca Floris e Antonio Di Matteo come da minimo sindacale. Il coro di Andrea Faidutti ha ben sopportato le asprezze imposte da Verdi, sia nelle scene più cupe e opprimenti che in quelle dove si sprecano i fortissimo.

Da ultimo lascio Michele Mariotti per tributargli un doveroso omaggio: non aver avuto tema nell’impiegare in modo persino protervo quella tanto famigerata vanga che molti schizzinosi da sempre rimproverano a questo Verdi. Dico, Attila, se suonato così, ti porta semplicemente all’entusiasmo, ecco. E comunque, come dimenticare l’alba su RioAlto, evocata con pochi tratti, ma con grandissima efficacia... Quanto alle troppe cabalette, chiunque (credo) ne vorrebbe ancora di più...

Poche note sull’allestimento della coppia Daniele Abbado – Gianni Carluccio. Eccessiva insistenza su ambienti cupi ed opprimenti, quando invece ci dovrebbero essere anche squarci di luminosità e di sereno. Suppellettili in scena piuttosto insignificanti, o forse dal significato troppo criptico, non saprei; personaggi simbolici (un cristo seminudo e un rabdomante o domatore di serpenti) che potevano esserci risparmiati.

Costumi più o meno appropriati al fine di farci ben distinguere tra gli straccioni e malnutriti invasori e le truppe scelte di Roma (rancio ottimo e abbondante, divise appena uscite dalla stireria e stivali lucidati a specchio).

La regìa dei personaggi: l’impressione che si sia lasciato a ciascun interprete di recitare a soggetto, secondo la propria personale ispirazione. Insomma, nulla di indimenticabile. 

Ma, ripeto, ciò che conta è, nella fattispecie, l’accoppiata Verdi-Mariotti: e questa ha risposto davvero alla grande!